La vera guerra è tra scienza e scientismo (I° parte)


 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Il grande dibattito che oppone oggi due antropologie differenti non è quello tra scienza e fede, tra cui non esiste alcun contrasto, semmai divergenza di interessi, di mezzi e di fini, quanto quello tra scientismo e scienza.

Scienza sì, scientismo no: questa è la posizione filosofica di chi crede, ma anche di chi è semplicemente aperto al dubbio e alla complessità della realtà. Di chi non vuole per forza sostituire le certezze religiose, rivelate, cui non aderisce, con presunte certezze di rimpiazzo, con surrogati improbabili e infondati, ma da presentare come rocciose sicurezze.

La scienza, come sappiamo, nasce dal matrimonio tra il pensiero greco, tra la sua concezione di ragione, e l’idea biblica di Dio come Logos. Che il mondo si presenti a noi ordinato, come cosmos, e che sia indagabile e intellegibile è la profonda intuizione della grecità. Che la sua intelleggibilità sia causata dalla sua Origine, né casuale, né caotica, ma Intelligente, è in termini simili, e più esaustivi, il cuore di quanto rivelato dal Genesi. L’influenza di questo libro della Bibbia, dal punto di vista filosofico e scientifico, non sarà mai abbastanza ribadita. Che infatti la scienza moderna nasca “in casa nostra”, come direbbe il fisico italiano Antonino Zichichi, deriva molto semplicemente dal fatto che il modo di vedere l’universo, proprio del cristianesimo, apre le porte alla possibilità stessa dell’indagine naturalistica.

Il mondo divinizzato, abitato da elfi, folletti, gnomi, e divinità della terra, dell’aria e del fuoco, tipico delle religioni animistiche e politeistiche, non poteva infatti partorire una ricerca scientifica basata sull’idea che a determinati effetti naturali corrispondano altrettante cause ugualmente naturali. Il panteismo infatti produce alchimia, astrologia, magia, terrore degli dei e superstizioni; l’idea di un universo creato invece sottintende che tale universo non è Dio, ma ne deriva: per questo può essere studiato, indagato e compreso. “Il cristianesimo, ha scritto Nicolaj Berdjaev, estrasse quasi a forza l’uomo dalla prigionia della natura e lo mise spiritualmente in piedi, lo collocò in alto, come essere spirituale autonomo, lo sciolse da questa sottomissione al tutto universale naturale…Solo il Cristianesimo restituì all’uomo la libertà spirituale della quale era stato privato quando era in potere dei demoni, degli spiriti della natura, delle forze elementari, come avveniva nel mondo precristiano”. Aggiunge: “Il cristianesimo meccanizzò la natura per restituire all’uomo la libertà, per disciplinarlo, per distinguerlo dalla natura ed elevarlo al di sopra di essa”. Così solo “il cristianesimo ha reso possibile una scienza positiva della natura”.

Ciò significa che gli antefatti filosofici all’indagine naturalistica sono nell’ordine: l’idea di un mondo ordinato, il cui mistero, come direbbe Albert Einstein, sta nella sua comprensibilità, ma che nello stesso tempo non è esauribile dalla ragione umana; l’idea di un mondo che non coincide con Dio, e il cui ordine quindi è derivato, come quello di una macchina, o di un orologio, per utilizzare gli esempi dei padri della scienza moderna, da una Intelligenza superiore, un Orologiaio divino, un Pantocrator universale (Isaac Newton); l’idea che all’interno della natura l’uomo non sia, come sostenevano e sostengono i panteisti, uguale alle altre parti del Tutto, equivalente, come scriveva il pagano Celso, e come affermano oggi i sociobiologi, gli psicologi evoluzionisti, i darwinisti materialisti, gli Eugenio Scalfari e gli Umberto Veronesi, ad una formica o ad un’ape o ad un verme.

In un universo così concepito, che l’uomo, che alla natura appartiene, ma cui è, nel contempo superiore, essendo a “immagine e somiglianza di Dio”, cerchi di comprenderla, di leggerne la struttura, e di servirsene per i propri fini, è la cosa più “naturale” che possa esistere. Proprio in quanto re del creato, infatti, l’uomo fa parte della creazione, e nello stesso tempo la trascende, la supera, la “possiede”, o meglio, per utilizzare il linguaggio biblico, se ne serve col compito di custodirla. Se invece ne fosse solo una parte, come l’ape o la mosca, certo non sentirebbe nella sua natura l’esigenza di conoscere ciò che non è strettamente necessario alla sua sopravvivenza, e non avrebbe mai dato vita alla chimica, alla fisica, alla biologia, all’astronomia, alla geologia…-cioè all’indagine su tutto ciò che della natura non umana fa parte-, né tanto meno alla filosofia, all’arte, alla poesia e alla teologia, cioè a tutto ciò che riguarda l’uomo e solo lui, in una prospettiva più ampia.

Ha dichiarato lo storico agnostico Leo Moulin: “Allora mi sono chiesto perché l’unica civiltà tecnologica e scientifica sia la nostra. Ho cercato di trovare le ragioni, posso garantire che ci rifletto da parecchio tempo, e l’unica spiegazione che ho trovato è la presenza del terriccio, dell’humus della cristianità. Perché? Perché Dio ha creato il mondo, un mondo diverso da Lui. Non si integra nel mondo, lo crea. L’uomo ha un destino particolare perché viene creato fuori del regno animale. Gli uomini, gli occidentali in particolare, hanno vissuto con questa idea che erano creature di Dio, fatte ad immagine e somiglianza di Dio. Inoltre Dio dice ai figli di Noè: “Vai, conquista e domina il mondo”. In buona coscienza, a volte siamo stati un po’ energici nel domare il mondo, ma l’unica civiltà che ha a conquistato il mondo e che lo conquista ancora oggi, che è latrice di valori accettati in tutto il mondo è la nostra. Faccio un esempio; ad un dato momento i minatori tedeschi, tra il XV e il XVI secolo, vivono nel terrore degli gnomi, dei folletti, di tutti questi esseri che dovevano vivere nelle miniere e che minacciavano i minatori, e li chiamano con due nomi: Coboldo, oppure col nome tedesco Nikolaus. E quella credenza dei minatori tedeschi darà origine a due parole che noi tutti conosciamo: Nikolaus darà la parola “nichel”, e Coboldo diventerà “cobalto”. Ma questo è un retaggio del passato. A questo punto i teologi dicono una frase che dominerà l’intero destino dell’occidente: Dio ha visto che ciò che ha fatto era buono e lo ripete, lo ripete sei volte, quindi per voi non è una trappola, il mondo è fatto per essere conquistato da voi, e i minatori riprendono il loro lavoro. Nello stesso tempo in Tibet i Lama proibiscono ai minatori di scavare la terra perché così facendo si va a scavare nella madre e la si ferisce. Quindi nessuna possibile metallurgia se non con i minerali di superficie allo stato nativo”. L’uomo, dunque, “ha un destino particolare perché viene creato fuori del regno animale”, e il mondo, che gli è dato in affido, da scoprire ed utilizzare, è “cosa buona”: nasce qui la scienza moderna, da una precisa idea di uomo e da una altrettanto definita idea di universo.

Questa introduzione mi serve per arrivare ad analizzare, come dicevo, lo scientismo, cioè un’ideologia che è essa sì in contrasto con la fede in un Dio creatore, ma, nel contempo, anti-scientifica. Su questo andremo avanti nella seconda parte.

Da: Scritti di un pro life (Fede & Cultura 2009)

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Spirituali ma non religiosi: peggiore salute psicofisica

Missioanria in AfricaA volte può capitare di ascoltare persone che si definiscono credenti (“qualcosa ci deve essere”), ma “la Chiesa, la messa, i preti, i comandamenti… non credo servano a niente!”. Questo modo di pensare molto diffuso, in particolare tra gli adolescenti, rimanda alla distinzione tra spiritualità e religione in senso proprio.

La prima sarebbe un insieme di idee o concetti, tendenzialmente astratti e fumosi e con generiche coloriture emotive, mentre la religione sarebbe un apparato esteriore fatto di ruoli, relazioni, azioni, istituzioni  che sono – tendenzialmente – giudicati superflui e inutili. Una vera vita religiosa ha ovviamente un nucleo spirituale-personale. Ma un tale modo di pensare, se dicotomizzato, è ovviamente dannoso per un duplice motivo: innanzitutto rischia di creare una religiosità fai-da-te, comoda, non particolarmente impegnativa, che risulta in definitiva sterile nel rendere migliore il mondo e la vita delle persone; in secondo luogo, perde di vista la vera natura della persona umana, che non è una monade intellettuale o sentimentale, ma l’unione inscindibile – secondo la dottrina cristiana – di spirito (la relazione con Dio), anima (la relazione con i propri stati mentali) e corpo (la relazione con gli altri nel mondo).

Tramite seri e rigorosi studi scientifici si può indagare quali sono gli effetti concreti di una religiosità fine a se stessa. E’ di aiuto la recente (novembre 2012) ricerca dello psichiatra britannico Michael King (qui il riassunto dello studio), che come evidenza la recensione della Duke University, è il più ampio studio fino ad ora compiuto circa la salute mentale di coloro che si definiscono spirituali ma non religiosi. L’intervista ha coinvolto un campione di 7.403 inglesi, suddivisi poi tra non credenti, religiosi, spirituali ma non religiosi. Rispetto agli altri, i religiosi mostrano in particolare meno problemi di droga (-27%) e alcol (-19%), e questo risultato non dice nulla di nuovo, ben conoscendo gli effetti positivi della religione sulla salute (vedi Handbook of Religion and Health).

Il risultato interessante riguarda gli spirituali non religiosi, che stanno peggio non solo dei religiosi, ma anche dei non credenti: rispetto a questi, gli spiritualisti” sono più propensi a usare droghe (+24%) e a esserne dipendenti (+77%), ad avere disturbi alimentari (+46%), disturbi d’ansia (+50%), fobie specifiche (+72%), nevrosi (+37%) e a ricorrere a psicofarmaci (+40%).

Va precisato che lo studio non fornisce indicazioni causali: gli spiritualisti stanno peggio, o chi sta peggio tende a diventare spiritualista? In ogni caso, considerazioni simili permettono di far capire che “c’è qualcosa che non va” a coloro che vogliono credere a modo loro. E solo il passo compiuto verso una comunità, con tutto ciò che comporta, permette di compiere un vero avanzamento esistenziale.

Roberto Reggi

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“Intervista ai maestri”, si cresce solo seguendo

Intervista ai maestriVerso la fine dell’Etica a Nicomaco, dopo aver ricordato che l’uomo, per l’anima razionale che lo informa, è reso simile agli dèi, Aristotele, maestro di coloro che sanno, scriveva: «Ma non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare a cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi.» L’intelletto, parte divina dell’uomo, ci fa conoscere la verità, e l’uomo sapiente sarà anche il più virtuoso perché in ogni azione della sua vita sarà in grado di riconoscere ciò che è giusto.

Aristotele ha grandi meriti, ma la sua lezione sarebbe rimasta incompleta se San Paolo, Apostolo di Cristo, non ci avesse lasciato un toccante monito: «se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.» Carità nella Verità e Verità nella Carità, solo in questa sintesi sta il vero bene per l’uomo, il principio primo ed il fine ultimo della sua vita.

Noi siamo chiamati a vivere nel mondo, nella società, nella famiglia, scoprendo che a fondamento di tutto, ed al di là dei conflitti che continuamente ci si presentano, c’è in realtà una Volontà buona la quale a tutto conferisce senso, e che da Essa e per Essa tutti noi siamo nati al fine di essere amati in eterno. Come scriveva Joseph Ratzinger commentando la Genesi: «Quando appresero che il mondo è dalla parola, non solo fu tolta agli uomini la paura degli dèi e dei demoni, ma il mondo fu reso libero per la ragione, che si eleva verso Dio, e all’uomo fu concesso di incontrare senza paura quel Dio.» Esser felici non implica allora ritirarsi dal mondo, in una vita contemplativa e distaccata, nell’atarassia e nel disincanto; non il distacco, ma la relazione con l’altro rende felici, donarsi, amare l’altro incondizionatamente perché in ognuno c’è del buono e, come scriveva ancora San Paolo, compiacersi della verità; così si completa la lezione di Aristotele, perché senza la carità non potremmo mai renderci simili al Dio che ci ha creato.

È possibile oggi, in una società in cui dominano relativismo e scetticismo, proporre una tale concezione? Quanti potrebbero comprenderla? Chiunque senta un forte desiderio di autenticità, ed intraprenda, animato dalla carità, il cammino verso la verità, ha bisogno di una guida con l’esperienza necessaria ad indirizzarlo nell’inesauribile varietà e complessità del mondo. C’è bisogno di maestri. Per tutti coloro che siano alla ricerca, sarà sicuramente di grande aiuto il libro di Irene Bertoglio Intervista ai maestri.

L’autrice spiega chiaramente le ragioni che l’hanno portata a scrivere: in anni ormai passati aveva accettato, come Leopardi, una visione malinconica della vita, una concezione del mondo secondo cui, come per Sartre, nulla sembrava aver senso; l’incontro con alcune persone particolari (la Provvidenza sa ben fare il proprio mestiere) l‘ha cambiata; si tratta di persone che hanno riconosciuto la verità e la legge di Dio incisa nei propri cuori e che cercano costantemente di testimoniarla nelle loro vite. Non sono essi stessi a definirsi maestri, sono solo persone che provano, nei limiti propri di ognuno, a vivere nella carità; essi appaiono però come maestri agli occhi dell’autrice, perché tali sono stati per lei, e ciò l’ha spinta a pubblicare queste interviste, al fine di condividere con molti altri quanto lei ha potuto imparare da queste persone e delle ragioni su cui esse fondano le proprie vite.

I personaggi intervistati sono tutti cattolici, e benché siano attivi in settori diversi, in un modo o nell’altro hanno tutti fatto della trasmissione di idee e valori il proprio mestiere: sono infatti insegnanti, giornalisti, scrittori e docenti universitari; l’unico non laico è il Cardinal Josè Saraiva Martins. Ma attenzione a non scambiarli per superuomini con le soluzioni pronte per tutte le difficoltà della vita! Non lo sono ovviamente, sono persone semplici, che però hanno convinzioni profonde ed autentiche, e con la loro esperienza e testimonianza possono insegnare a tutti come combattere la buona battaglia. Francesco Agnoli ad esempio, che oltre ad essere giornalista è anche insegnante, spiega quanto sia difficile orientare i ragazzi al vero e al bene, in una società che sistematicamente propone l’individualismo, il relativismo morale, insegna a dubitare di qualsiasi cosa e ad evitare impegni e responsabilità stabili. Affrontare queste difficoltà è dura, richiede di lottare anche contro se stessi, le proprie debolezze e turbamenti; soltanto grazie ad un cuore saldamente ancorato nella Carità e nella Verità è possibile resistere, sia che si abbia successo sia che si fallisca, ed è questo che rende queste persone dei veri maestri.

Il vero maestro è inoltre colui che ha fiducia nel suo allievo, fiducia nell’umanità che riconosce essere essenzialmente buona, e per questo si spende per essa. Come lo scrittore Carlo Climati, che studia i giovani ed il loro mondo e, pur vedendone tutti i lati oscuri, invita a non trascurarli, a prendersi cura di loro, perché ne vede le potenzialità e sa che con il giusto impegno è possibile tirar fuori ciò che in essi c’è di buono. Come Costanza Miriano, che di fronte all’attuale crisi della famiglia, con il conseguente disastro educativo, invita a riscoprire l’importanza del matrimonio fondato sull’amore nel suo significato più autentico, ossia dono di sé e responsabilità, rifiutando la deplorevole mentalità per cui si considera l’altro solo in funzione della propria soddisfazione e realizzazione, e che conduce ad unioni precarie che presto finiscono lasciando solo amarezza e sofferenza.

Ci sono poi coloro che hanno fatto dell’apologetica popolare una loro personale missione, come Rino Cammilleri e Giampaolo Barra, impegnati nella demolizione delle tante leggende nere anticristiane relative ad esempio ai cosiddetti Secoli Bui, l’Inquisizione, le Crociate o il tanto discusso conflitto tra fede e ragione. Chi scrive queste righe, per introdurre una nota personale, viene da una formazione scientifica, fino a qualche anno fa era agnostico ed infarcito dei ben noti luoghi comuni secondo cui il Cristianesimo avrebbe ostacolato il progresso scientifico; ebbene, proprio iniziando a studiare seriamente la storia della scienza, i pregiudizi si sono pian piano dissolti ed è iniziato un cammino di riavvicinamento alla Chiesa Cattolica (la Provvidenza lavora bene, come già detto). Anche gli autori qui nominati sono stati assai d’aiuto in questo percorso, ed è stato molto interessante pertanto leggere nelle interviste le loro esperienze.

Infine, tra gli altri, è opportuno ricordare l’attività di Massimo Introvigne, sociologo di fama internazionale e reggente vicario nazionale di Alleanza Cattolica, un’associazione il cui scopo principale è la promozione della dottrina sociale della Chiesa. Gli altri personaggi intervistati sono: Rodolfo Casadei, Riccardo Cascioli, Marco Cimmino, Marina Corradi, Renato Farina, Alessandro Gnocchi, Paolo Gulisano, Camillo Langone, Roberto Marchesini, Luca Marcolivio, Giacomo Samek Lodovici e Cristina Siccardi.

Ogni capitolo inizia con una nota introduttiva sull’intervistato, in cui la Bertoglio dà anche prova di notevole cultura con l’inserimento nel testo di molte citazioni, sempre azzeccate e ben integrate, di tanti autori diversi. Da segnalare in conclusione che parte del ricavato dalla vendita verrà devoluto all’associazione La Quercia Millenaria ONLUS, che si occupa dell’assistenza alla gravidanza nei casi di malformazione fetale. Il libro è acquistabile on line tramite il sito www.leolibri.it

Francesco Santoni

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La psicologia evolutiva e le storielle sulla mente umana

 
 
di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica
 

Probabilmente tutti conoscono i divertenti racconti in cui Rudyard Kipling descrive la nascita delle caratteristiche di vari animali, come la gobba del cammello, le macchie del leopardo, le pieghe della pelle del rinoceronte. Sono le famose “Just So Stories” (“Storie Proprio Così”): termine che è giunto a indicare una spiegazione narrativa non verificabile e non falsificabile di qualsiasi fatto biologico o culturale.

Sappiamo bene che le narrazioni selezioniste del neodarwinismo spesso non sono altro che delle “just-so stories”, basate sull’unico indimostrabile assunto che ogni data caratteristica biologica sia un adattamento evolutivo, vale a dire un tratto che si diffonde nella popolazione perché fornisce un vantaggio riproduttivo. Si è abusato molte volte di tale concetto –  soprattutto nella letteratura divulgativa di stampo darwinista – poiché esso offre spiegazioni facili su ogni tipo di problema biologico, anche in mancanza di convincenti prove scientifiche a favore.

C’è da dire che, in linea di massima, i biologi evolutivi sono oggi abbastanza cauti nella costruzione di spiegazioni adattive… con un’unica ragguardevole eccezione: quando si tratta di dar conto delle caratteristiche specifiche dell’Uomo. Stephen Jay Gould osservava, nel 1978, che la tentazione di spiegare la mente umana in termini di questa o quella “just-so story” evolutiva era così grande da far spesso sorvolare allegramente sulla mancanza di prove a sostegno. Gould criticava in particolare l’ambizione della sociobiologia di voler rintracciare le radici di ogni comportamento umano in un lontano passato evolutivo – uno scopo non semplice da realizzare, data l’intrinseca difficoltà di separare i fenomeni culturali da quelli biologici. Va detto che le mire della sociobiologia sono davvero elevate (uno dei padri fondatori della disciplina, Robert Trivers, ebbe a dichiarare che “prima o poi le scienze politiche, la legge, l’economia, la psicologia, la psichiatria e l’antropologia saranno tutte branche della sociobiologia”), e non appare molto probabile che possano essere deflesse dalla constatazione che le procedure sono scientificamente poco corrette.

Uno dei paradigmi su cui si fondano le speculazioni darwiniste sulla natura umana è il concetto che la mente sia una collezione di moduli software “programmati” dalla selezione naturale quando i nostri antenati vagavano per le savane pleistoceniche. “Scopri quali siano e come siano stati plasmati dall’evoluzione i moduli che la compongono, e avrai cominciato a capire davvero come funziona la mente”: tale è l’ambizione della psicologia evolutiva. Come i sociobiologi, però, anche gli psicologi evolutivi tendono a fare eccessivo affidamento su inverificabili storie di adattamento evolutivo, senza con ciò portare alcun significativo contributo alla effettiva comprensione dei meccanismi mentali (occorre ricordare che le lucide analisi sul linguaggio di Noam Chomsky e sulla percezione visiva di David Marr furono condotte a prescindere da considerazioni selettive-adattive).

La panoramica delle correnti speculazioni evolutive su comportamento sessuale, capacità mentali, religione e arte, che lo psicologo e biologo David Barash propone nel suo ultimo libro (“Homo Mysterious: Evolutionary Puzzles of Human Nature”), non fa altro che confermare la persistente mancanza di cautela scientifica in questi campi di studio. Secondo Anthony Gottlieb, che ha recensito il libro di Barash su “The New Yorker”, l’autore –  lungi dal portare convincenti prove a favore delle tesi selezioniste della sociobiologia e della psicologia evolutiva – riesce soltanto a mostrare in maniera del tutto involontaria quanto facilmente si vendano ancora oggi le “just-so stories” sull’Uomo. Insomma, questo libro ottiene unicamente l’effetto di dimostrare quanto siamo ancora lontani dal poter dire qualcosa di conclusivo sull’evoluzione della mente.

Gottlieb prende per esempio in esame ciò che l’autore dice a proposito della religione. Secondo Barash, il sentimento religioso deve essere stato vantaggioso per gli uomini primitivi, oppure deve essere derivato da qualche altro tratto vantaggioso. Per esempio, potrebbe essere stato un effetto collaterale della curiosità umana sulle cause dei fenomeni naturali, o del nostro desiderio di socializzazione; o forse le credenze e le pratiche religiose aiutavano le persone a stare bene con gli altri, a essere meno egoisti, o a sentirsi meno soli e più appagati. Ebbene, Barash non aderisce esplicitamente a nessuna di queste ipotesi, e tuttavia riesce a trarne la conclusione che è “altamente probabile” che la religione abbia avuto origine da un qualche meccanismo selettivo-adattivo. È convinto, inoltre, che la selezione naturale sia responsabile della “persistenza” del fenomeno religioso nelle società umane… dimostrando così di essere poco aggiornato sul tema, non solo dal punto di vista scientifico ma anche da quello sociologico: oggi, come non mai, esistono decine di milioni di non credenti, e in diverse nazioni la religione è diventata un aspetto del tutto marginale della vita. In realtà, non appare molto probabile che una narrazione selezionista sia in grado di spiegare il fenomeno della secolarizzazione della società.

Il problema dei tentativi di ricostruzione della comparsa della mente a partire da “materiali” pleistocenici – osserva Gottlieb – è che bisognerebbe prima sapere di quale “attrezzatura” mentale gli uomini primitivi già disponevano. Insomma, sebbene si possa sempre raccontare una storia plausibile su come un qualche comportamento abbia aiutato i primitivi cacciatori-raccoglitori a sopravvivere e riprodursi, non è dato sapere se quello stesso comportamento sia invece comparso precedentemente e per ragioni del tutto diverse. Chiaramente, dunque, la storia raccontata non avrebbe niente di scientifico – sarebbe solo un’interessante speculazione dal sapore scientifico. Lo stesso Darwin era consapevole di questo rischio: scrivendo a proposito delle suture ossee incomplete nel teschio dei neonati (le “fontanelle”), il naturalista inglese notava che se ne potrebbe dedurre che si tratti di una caratteristica evolutasi in modo adattivo, vale a dire di un adattamento evolutivo atto a facilitare il passaggio attraverso lo stretto canale del parto. Invece no, anche uccelli e rettili, che nascono da uova, hanno le loro suture del cranio incomplete: è un fenomeno legato allo sviluppo dello scheletro, non alle modalità della nascita. Per quanto concerne i tratti mentali umani, poi, si aggiunge un’ulteriore difficoltà, chiaramente insormontabile: la vita interiore dei nostri antenati ha lasciato veramente pochi fossili!

Ma perché allora, si chiede Gottlieb, gli psicologi evolutivi insistono a ricercare le radici evolutive del comportamento umano, se – come abbiamo visto – si tratta di un tentativo tanto scientificamente inaffidabile? La domanda è destinata a rimanere senza risposta. In teoria, infatti, tale compito potrebbe rivelarsi di qualche utilità se le storie adattive elaborate potessero fornire indicazioni mai notate prima riguardo a determinati schemi comportamentali. Il guaio è che ciò si verifica raramente, se non mai. Per esempio, uno studio condotto circa trent’anni fa da due psicologi canadesi, Martin Daly e Margo Wilson, suggeriva che è più probabile che un genitore abusi di un figliastro che di un figlio naturale, a causa del fatto che i nostri lontani antenati avrebbero avuto una discendenza maggiore prendendosi più cura dei figli biologici. Ancora oggi qualcuno esalta questa ricerca come un trionfo della psicologia evolutiva. Eppure, non di trionfo si tratta, ma di vero e proprio fiasco: uno studio della Columbia University del 1998, che ha preso in esame una grande quantità di fattori di rischio relativi alla violenza sui minori, ha dimostrato che la presenza di un patrigno o di una matrigna non costituisce un campanello d’allarme significativo (eccettuato il caso di violenza sessuale sulle figliastre da parte del patrigno; ma questa circostanza particolare non venne considerata da Daly e Wilson). Con buone pace di tutte le grandi e piccole storie che si possono narrare al riguardo, da “Amleto” a “Cenerentola”, da “David Copperfield” ai racconti sui nostri ignoti antenati delle caverne.

Gli psicologi evolutivi, per la verità, indicano altri studi che ritengono di utilità pratica. Qualcuno pensa che le strategie di accoppiamento potrebbero aiutare a spiegare perché i maschi giovani siano molto più violenti delle donne anziane. Questa considerazione ha in effetti spinto alcuni ricercatori a classificare l’età degli assassini che si verificano in tutto il mondo. Certamente una mappatura del genere potrebbe tornare utile in futuro, chissà. L’idea selezionista alla base è, naturalmente, che i giovani maschi dell’Età della Pietra avrebbero avuto i migliori risultati riproduttivi accettando rischi legati alla competizione per guadagnarsi una compagna e per salire di livello nel gruppo. Fatto sta che non ci vuole una laurea in psicologia evolutiva per capire che la polizia commetterebbe un grave errore se decidesse di fare una retata in una casa di riposo per anziani, andando alla ricerca dell’accoltellatore in una rissa da discoteca.

Due ricercatori della Kansas University hanno poi affermato (in un lavoro pubblicato su una rivista scientifica on-line che i manuali scritti da affermati playboy dimostrano come le intuizioni della psicologia evolutiva possano essere efficaci nella vita reale (o quanto meno, in un nightclub). Non c’è dubbio che la ricerca sul campo in questo settore vada avanti alacremente. E’ interessante osservare che Barash, alla fine del libro, pone l’accento sul fatto che la nostra mente mostra un’ostinata predilezione per le spiegazioni semplici che potrebbero essere false. Vero; ma allora bisognerebbe aggiungere che questa inclinazione è complementare ad un altro aspetto della psicologia umana, vale a dire una passione smodata per la certezza di aver trovato la chiave esplicativa di tutto. Forse, nota ironicamente Gottlieb in conclusione alla sua recensione, esiste una spiegazione evolutiva anche per tali propensioni.

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Nuovo libro: i mistici di Darwin in difficoltà

Darwin Portrait of a GeniusIl naturalista Charles Darwin è stato certamente uno dei più importanti rivoluzionari del mondo scientifico, e merita gli onori della scienza.

Il suo pensiero è, ed è stato, tuttavia frequentemente strumentalizzato da derive scientiste e ateiste, con chiari obiettivi ideologici, ed è contro essi che vuole essere indirizzata la nostra critica. Rimanendo sul piano filosofico-teologico, occorre addirittura dire che oggi il principio direttivo intrinseco (o teleonomia) che guida l’evoluzione biologica può essere accreditato come uno dei tanti indizi a posteriori del Creatore, come diversi studiosi hanno fatto nel bellissimo volume Complessità, evoluzione, uomo (Jaca Book 2011).

Al di là di tutto questo, diverte osservare alcuni studiosi religiosamente estasiati dalla figura Darwin, i quali non riescono a concedergli alcun errore perché altrimenti sarebbero costretti a concedere qualcosa alla maggioranza dei biologi moderni, che hanno ormai abbandonato il vecchio paradigma evolutivo basato esclusivamente sulla selezione naturale, sull’onnipresente gradualismo e sulla macroevoluzione come deduzione dalla microevoluzone per estrapolazione lineare, sostenuti oggi soltanto dai numerosi neodarwinisti. Questi ultimi -non tutti!- sono promotori di una visione filosofica sull’evoluzione determinista e scientista e vorrebbero imporre alla biologia un approccio esclusivamente meccanicistico. Essi non accettano soltanto critiche “tecniche” al pensiero di Darwin, come quelle di Gould, Laurentin, Piattelli Palmarini, Eugene Koonin ecc., ma si scagliano contro chiunque osi sostenere che Darwin abbia ispirato -volontariamente o no- il pensiero eugenetico e razzista. Sentite, ad esempio, con quale sguaiatezza Telmo Pievani replica davanti a tali osservazioni: «Altri si spacciano per esperti e insistono nell’ignorare spudoratamente la storia della scienza sostenendo che Darwin fu il padre del razzismo e di chissà quali altre nefandezze. Chi conosce le tecniche di comunicazione sa che è difficile rispondere a un interlocutore in malafede che sostiene idiozie simili».

Ma perché tanto furore? Forse hanno paura che riconoscendo questo il pensiero di Darwin perda credibilità e dunque si butti via il bambino con l’acqua sporca? Paura assolutamente ingiustificata. Chissà come la prenderebbero sapendo che nel libro appena pubblicato Darwin: Portrait of a Genius (Viking Adult 2012), lo storico Paul Johnson, scrittore e a lungo giornalista per New Statesman ha, a sua volta, mostrato il collegamento diretto tra Darwin e il darwinismo sociale,  l’eugenetica, le sterilizzazioni forzate e l’igiene razziale della Germania nazista. Recentemente lo stesso ha fatto Richard Weikart, docente di storia presso la California State University, con il suo volume: “Da Darwin a Hitler: etica dell’evoluzione, eugenetica e razzismo in Germania“.

Lo storico, oltre a far notare la grande influenza del darwinismo sociale (direttamente o indirettamente) anche sul pensiero di Mao Tse-tung, Stalin e Pol Pot, si è lamentato verso «l’entusiasmo dei fondamentalisti darwiniani, che negli ultimi decenni hanno cercato di creare uno status divino a Darwin e abusare chi sottopone il suo lavoro al controllo critico, che è l’essenza della vera scienza». Ha quindi affermato che Darwin ha inaugurato un nuovo modo di pensare il “miglioramento dell’umanità”, e che Engels, Marx, Lenin, Trotsky, Stalin e Mao Tse-Tung hanno tutti abbracciato in qualche misura e in vario modo «la teoria di Darwin della selezione naturale come giustificazione per la lotta di classe». Ha anche sottolineato che Pol Pot, il dittatore cambogiano, è stato introdotto alla teoria evoluzionistica di Darwin da Jean-Paul Sartre: «I crimini orribili commessi in Cambogia a partire dall’aprile 1975 in poi, che hanno provocato la morte di un quinto della popolazione, sono stati organizzati dal gruppo dei borghesi intellettuali di Pol Pot, noto come Leu Angka. Otto di questi erano dirigenti, cinque erano insegnanti, uno professore universitario, un funzionario civile, e uno un economista. Tutti avevano studiato in Francia nel 1950, e non solo erano appartenuti al partito comunista, ma aveva assorbito le dottrine filosofiche di Sartre sull’attivismo e la “violenza necessaria”. Questi assassini di massa erano i suoi figli ideologici». Ciò è confermato nella biografia di Philip ShortPol Pot: Anatomy of a Nightmare (2004), in cui si sottolinea che «l’eredità intellettuale alla base della rivoluzione cambogiana era prima di tutto francese».

Anche il collegamento tra Darwin e lo stalinismo è stato tracciato da diversi autori, oltre che da Johnson. Ad esempio da Francis B. Randall in Stalin’s Russia: An Historical Reconsideration (1965), dove si afferma: «Stalin rimase per tutta la vita un ammiratore di Darwin, le cui teorie avevano così eccitato la sua gioventù». Non a caso egli impose lo studio del darwinismo durante le ore obbligatorie di ateismo scientifico all’università di Mosca. Johnson ha spiegato: «Stalin aveva la lotta per la sopravvivenza del più adatto di Darwin in mente quando agì contro i kulaki». Dunque, checché ne dicano gli avvocati neodarwinisti, Darwin fornì un fondamentale supporto scientifico al razzismo e all’eugenetica, come ha spiegato anche Enzo Pennetta, anche se per lui fu un supporto “inconsapevole”.

Ma si può andare anche oltre. Diversi studiosi hanno sostenuto che Darwin non agì soltanto come ispiratore inconsapevole, ma mostrò di essere apertamente favorevole all’eugenetica. Lui stesso infatti scrisse: «Vi è motivo per credere che la vaccinazione abbia salvato un gran numero di quelli che per la loro debole costituzione un tempo non avrebbero retto il vaiolo. Così i membri deboli delle società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno di quelli che si sono dedicati all’allevamento degli animali domestici dubiterà che questo può essere altamente pericoloso per la razza umana […]. Dobbiamo quindi sopportare l’effetto indubbiamente cattivo, del fatto che i deboli sopravvivano e propaghino il loro genere, ma si dovrebbe almeno arrestarne l’azione costante, impedendo ai membri più deboli e inferiori di sposarsi liberamente come i sani» (C. Darwin, L’origine dell’uomo, Newton 1994, pag. 628).

Lo storico della scienza André Pichot ha mostrato l’affinità tra Darwin e suo cugino Francis Galton, padre dell’eugenetica, affermando che «Darwin sembra essere in buon accordo con suo cugino Galton, e se non ha parlato propriamente di eugenetica è stato verosimilmente perché l’eugenetica è stata teorizzata dopo la sua morte» (citato in C. Fuschetto, Fabbricare l’uomo, Armando 2004). Anche per il grande storico del razzismo, Léon Poliakov«la divisione del genere umano in razze inferiori e razze superiori era per Darwin un fatto incontestabile» (citato in F. Agnoli, Perché non possiamo essere atei”, Piemme 2009, pag. 206). Altri approfondimenti è possibile trovarli al nostro specifico dossier: “Darwinismo e razzismo”

Gli avvocati del neodarwinismo “filosofico” si mettano il cuore in pace: la visione mistica di Darwin è decisamente controversa e anacronistica. Occorre coraggiosamente saper scindere le luci dalle ombre, chiudersi in visioni ideologiche è un danno alla verità.

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Come la Chiesa ha alfabetizzato l’Europa

scriptorium 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Si discute, in questi tempi, della scuole paritarie. Sembra che la scure dell’Imu debba calare anche su di loro, con effetti devastanti. L’argomentazione dei contrari è semplice: le scuole paritarie, che offrono un servizio pubblico, fanno risparmiare allo Stato sei miliardi di euro l’anno. E’ giusto ricordarlo, a tutti coloro che, mentendo, affermano che le scuole paritarie toglierebbero soldi all’istruzione pubblica. Giusto, dicevo, ma troppo poco. Se ormai non apparisse polemico sostenere che la neve è bianca, si dovrebbe ricordare una verità storica evidente: è la Chiesa, da cui ancora oggi originano la gran parte delle paritarie, che ha educato e alfabetizzato l’Europa. Negarle oggi il diritto di continuare a lavorare nel campo dell’educazione significa compiere un delitto, quantomeno di irriconoscenza, contro la propria storia.
Vediamo, brevemente, i fatti.

Con il crollo dell’impero romano, l’istruzione viene a mancare. Solo i monaci, indefessi lavoratori vivificati dalla virtù teologale della speranza, dopo aver arato e coltivato i campi, leggono, studiano e copiano nei loro scriptoria le opere antiche e moderne. Il monaco Cassiodoro, cui dobbiamo la sopravvivenza di gran parte della cultura medica pagana, verrà giustamente definito “il salvatore della civiltà occidentale”. Analogo lavoro svolgono i monaci benedettini e quelli irlandesi, che Luigi Alfonsi ricorda essere stati “missionari, asceti, riformatori e poeti nello stesso tempo”.

“Conoscitori del latino”, con cui erano entrati in contatto tramite il latino ecclesiastico, gli irlandesi “educarono agli studi gli Angli”, consigliarono ed istruirono alcuni sovrani, insegnarono a leggere le sacre scritture e i poeti antichi ai loro contemporanei. I monaci non solo copiavano i testi, ma civilizzavano le popolazioni barbariche, scrivendo per loro poesie, preghiere, grammatiche e dotando quei popoli di un senso della storia. Il venerabile Beda è riconosciuto come il “padre della storia inglese”, mentre Gregorio vescovo di Tours scrisse l’Historia Francorum e il monaco Paolo Diacono la celebre Historia Langobardorum.

Chi educò i germani alla civiltà latina? San Bonifacio del Wessex, noto come “grammaticus germanicus” e Rabano Mauro, il praeceptor Germaniae. Il grande consigliere e ministro dell’istruzione di Carlo Magno? Il monaco Alcuino, organizzatore delle Schole palatine di Aquisgrana e Tours, e delle scuole dell’impero. Durante i secoli dell’alto medioevo l’istruzione è impartita dalle scuole monastiche e dalle scuole cattedrali, nelle quali si insegna il principio della fides quaerens intellectum, e che costituiscono l’antefatto delle Università.

In quelle stesse scuole si insegnano la teologia, la filosofia, la musica: dobbiamo al monaco Guido d’Arezzo l’invenzione del pentagramma e delle note, che rese lo studio della musica enormemente più rapido ed efficace. Quanto alle università, come racconta bene Leo Moulin, la Chiesa fornirà molti degli insegnanti più eccelsi, privilegi, sostegno economico e politico, collegi per i poveri e borse di studio. E la nascita del volgare italiano? La prima opera della nostra letteratura è una preghiera, il Cantico delle Creature di San Francesco; quanto a Dante, è la dimostrazione del fatto che la Chiesa e la fede sono all’origine della nostra tradizione letteraria. Dante si forma alla scuola del guelfo Brunetto Latini, ma ancor più presso gli studi teologici dei domenicani e dei francescani di Firenze; quanto ai libri, è la capitolare di Verona, una biblioteca ecclesiastica, a permettergli l’accesso ad una immensa quantità di testi altrimenti irreperibili. Anche Petrarca e Boccaccio, desiderosi di attingere alla classicità, potranno farlo solo recandosi nelle librerie dei monasteri (dalle quali, qualche volta, trafugheranno qualche testo raro e prezioso).

Se ci spostiamo più avanti nel tempo, è con il Concilio di Trento che nascono numerosi ordini religiosi dediti all’istruzione dei poveri, altrimenti destinati all’analfabetismo. Ricordo l’opera dei padri Somaschi e dei Barnabiti; quella degli Oratoriani e degli Scolopi di san Giuseppe Calasanzio, considerato il fondatore della scuola elementare popolare e gratuita (la prima nel 1597, a Trastevere); le scuole cristiane di Jean Baptiste de la Salle (XVII secolo), un altro pioniere dell’istruzione popolare e professionale in Europa. Per secoli sono quasi solo i religiosi a dedicare vita, energie, beni, per andare incontro alle esigenze intellettuali, religiose, lavorative del popolo. Sono loro a istruire i ciechi e i sordomuti, a prendersi in carico orfani e disadattati. Ma non solo: i barnabiti avranno, tra i loro alunni, Alessandro Manzoni; gli Scolopi Giosué Carducci e Giovanni Pascoli; i Gesuiti Cartesio, Torricelli, Volta, Galvani, Spallanzani
Anche Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi avranno come precettori dei sacerdoti, mentre, dopo di loro, non lo Stato, ma Teresa Verzeri, Maddalena di Canossa, don Ludovico Pavoni, don Giovanni Bosco… si occuperanno, delle ragazze e dei ragazzi orfani, abbandonati, dei vinti e degli sconfitti dell’età industriale

Da Il Foglio, 6 dicembre 2012

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Curare l’infertilità con la Naprotecnologia: testimonianze

Famiglia In un articolo, apparso su questo sito il 16 dicembre 2012 ho presentato la Naprotecnologia: un metodo naturale (nato negli Stati Uniti ad opera del prof. Thomas Hilgers e molto diffuso in Irlanda e Polonia) per combattere l’infertilità e permettere alle coppie di avere un bambino attraverso un trattamento che rispetta la dignità, e aiuta senza creare dolori e frustrazioni.

L’impossibilità di avere dei figli può infatti generare nella donna dei profondi turbamenti che a loro volta incidono sulla serenità matrimoniale. Per riprendere alcuni concetti, la Naprotecnologia è un metodo che osserva in modo attento e rigoroso i biomarcatori del ciclo mestruale (il muco cervicale e altre perdite); le osservazioni vengono riportate su una tabella (strutturata sulla base del modello Creighton) che servirà al medico naprotecnologo per diagnosticare le cause e indicare le cure specifiche per quel determinato caso. Quello su cui ora vorrei soffermarmi è l’importanza della Naprotecnologia non solo per risolvere i problemi di infertilità, ma per monitorare la salute della donna in generale. Il corretto andamento del ciclo è alla base del buon funzionamento di tutto l’organismo; l’individuazione di anomalie previene e individua disturbi di varia natura.

Grazie a questo metodo la donna apprende e comprende le dinamiche che avvengono dentro di lei: svolge un ruolo attivo. Cosa significa svolgere un ruolo attivo? Significa che la donna impara a leggere i biomarcatori del proprio ciclo. La paziente nella prima fase del trattamento è seguita da un istruttore che le spiega in pratica cosa deve osservare, come deve compilare la tabella e cosa significano le caratteristiche del muco cervicale delle altre perdite: ad esempio il colore, la densità, la quantità. Questo le permette di essere consapevole dei mutamenti del proprio ciclo, di identificare alcune anomalie e di aiutare il medico nella cura da seguire. Insisto su questo punto perché penso che forse sia sottovalutata la rilevanza anche psicologica di sapere cosa accade nel proprio corpo. Inoltre, a mio avviso, la donna in quanto parte “attiva”, non si sente abbandonata, affronta il percorso e le difficoltà con maggiore fiducia e serenità.

Infine, ma fondamentale, la Naprotecnologia, una volta individuata la causa della infertilità fornisce una cura definitiva al problema. La fecondazione in vitro, invece, non risolve gli impedimenti e  la donna  per ogni gravidanza dovrà ricorrere al trattamento con tutte le sue  incertezze e eventuali gravi conseguenze di questo tipo di fecondazione. La Naprotecnologia non è un semplice metodo naturale, ma si basa su studi approfonditi servendosi di ricerche, metodologie e tecniche avanzate per fornire soluzioni mirate e personalizzate per ogni singolo caso, per ogni problematica. Ho sempre parlato di donna perché è la prima diretta interessata, ma in realtà è un trattamento che aiuta la coppia, e chiede la partecipazione dell’uomo come della donna, rispettandone l’integrità sessuale. La coppia rispetto ad altre soluzioni, non si sente mai manipolata come un oggetto, e non avrà rimorsi per aver fatto scelte contrarie al proprio senso morale.

 

Le testimonianze che seguono sono le parole e i sentimenti di chi ha scelto questo metodo, ha imparato a conoscersi e a curarsi in modo mirato nel rispetto dei più alti valori etici: la dignità e il rispetto della vita.

L’importanza del conoscersi e capirsi.
Durante le cure non soffrivo di depressione, non piangevo, osservavo il ciclo e comprendevo i cambiamenti che avvenivano nel mio corpo. (…) La naprotecnologia è un approccio che rispetta la natura, ed è stimolante; si impara ad ascoltare il funzionamento del proprio corpo, si interpretano i cambiamenti, il marito conosce la moglie e la moglie il marito” Eugene e Anna McCabe (Irlanda) 

“Dopo aver incontrato un istruttore del modello Creighton, ci siamo informati sulla tecnica leggendo un manuale, quindi abbiamo imparato come compilare le tabelle e abbiamo visto anche un filmato sull’importanza dell’equilibrio ormonale durante il ciclo mestruale. Siamo rimasti scioccati! Non avrei mai pensato di poter conoscere così il mio corpo, e in più, grazie alla tabella, di dedurre da sola a che punto mi trovo con il mio ciclo, in qualsiasi momento.” Mary e Robert (USA)

“Usare questo metodo significa imparare a capire se stessi e, come  nel mio caso, a capire che è stata la mancanza di un ormone a causare gli aborti spontanei.” Mary e Michael Phillman (Irlanda)

Un metodo mirato, non un semplice metodo naturale
“Siamo in parte d’accordo con molti detrattori che sostengono che questo metodo in fondo si basa su procedure standard seguite anche dalle normali cliniche in cui si cerca di aumentare la fertilità coniugale, ma il fatto di seguire ‘tante’ procedure standard non vuol dire curare ‘soltanto’ con i metodi standardizzati. Sì, sono gli stessi esami, ma, grazie allo studio e alla identificazione delle fasi del ciclo, tutto è più mirato ed eseguito nel momento opportuno del ciclo di ogni paziente. Le stesse cure, ma adeguate alle necessità individuali della persona, quindi applicate un po’ prima un po’ dopo rispetto allo standard, cambiano il risultato.” Joanna e Zbigniew (Polonia)

“La naprotecnologia si basa su scoperte mediche innovative. E’ stata elaborata negli Stati Uniti da un gruppo di specialisti sotto la guida del dottor Thomas Hilgers. Questo metodo permette, nella grande maggioranza dei casi, di trovare le cause dell’infertilità e ,nel corso di una cura personalizzata, di eliminarle per rendere possibile il concepimento naturale.” Ewa A. Tomiak ( Germania)

“L’incontro con la naprotecnologia ci ha stupito molto per l’approccio personale riservato ad ogni coppia di pazienti, per la diagnosi mirata e per la piena corrispondenza con l’organismo della donna. (…) La naprotecnologia rispetta il ritmo naturale del ciclo di ogni donna, cerca di potenziare i meccanismi che funzionano e di correggere invece tutto ciò che ostacola le capacità riproduttive.” Anna e Marek (Polonia)

La salvaguardia dei valori umani
“Durante gli esperimenti in vitro ricordo di essermi trovata sul lettino del ginecologo, sballotta a destra e sinistra, assente dal mio corpo. Mi trovavo ripugnante. Durante l’ennesima seduta sentivo l’invidia verso il più minuscolo insetto esistente. Non vedevo l’ora che finisse tutto per correre via, tornare a casa come un manichino, affrontando sempre un lungo viaggio in treno…”. Katarzyna (Polonia)

“E’ difficile descrivere la questione a parole, ma la particolare cura dell’intimità coniugale e la continua attenzione a non far sentire mai i pazienti come degli oggetti, è parte integrante del modo di lavorare della naprotecnologia; per questo motivo si tratta di un metodo così diverso dagli altri.” Ilona e Jakub (Polonia)

 

Qui sotto un video con testimonianze di medici e pazienti

Erica De Ponti
Ufficio stampa Mimep-Docete

 

Per maggiori informazioni:
dr.ssa Raffaella Pingitore: info@raffaellapingitore.ch – tel.: +4191.923.38.18
dr. Michele Barbato: info@serenita.org – tel.: 039.60.81.590 – cell.: 342.138.23.79
Libro + DVD: Infertilità non è detta l’ultima parola (Mimep-Docete 2012)

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Tommaso d’Aquino: il suo vero pensiero sull’aborto e sulla donna

Tommaso d'AquinoEsiste un’opinione assai diffusa, purtroppo talvolta anche tra i cattolici, secondo cui oggi San Tommaso d’Aquino disapproverebbe l’attuale insegnamento del Magistero della Chiesa Cattolica sull’aborto.

Si argomenta, infatti, che secondo Tommaso l’anima spirituale non venga infusa al momento del concepimento, e pertanto egli avrebbe approvato l’aborto non essendo questo, secondo la sua dottrina, la soppressione di un essere umano. In realtà questa opinione si basa su una lettura superficiale dei testi dell’Aquinate, non informata da una chiara comprensione delle fondamentali questioni metafisiche e teologiche che sottendono le tesi qui discusse.

Per comprendere la posizione tomista è necessario introdurre preliminarmente alcuni concetti fondamentali che l’Aquinate mutua direttamente da Aristotele, relativi in particolare alla dottrina sull’anima e alle teorie sulla riproduzione dei mammiferi. Non essendo possibile una disamina dettagliata delle ricerche dello Stagirita, ci si è limitati ad un sunto schematico che sia di utilità al profano.

Quanto abbiamo spiegato nel nostro nuovo dossier ci permetterà infine di chiarire anche un altro comune equivoco, relativo all’opinione di Tommaso sulla donna. Secondo alcuni sarebbe a lui attribuibile la seguente affermazione: «Le femmine nascono a causa di un seme guasto o di venti umidi»,  la quale in realtà è un’opinione aristotelica che l’Aquinate discute nell’ambito di un problema essenzialmente teologico (spiegato nel dossier) a conclusione del quale scrive: «Rispetto invece alla natura nella sua universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione. Ora, l’ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale è l’autore universale della natura. Perciò nel creare la natura egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina».

 

Il falso pensiero attribuito a Tommaso d’Aquino

 

Francesco Santoni

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Le chimere dell’Intelligenza Artificiale e le promesse dell’Internet Industriale

Intelligenza artificiale 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Raymond Kurzweil è forse il più noto “futurologo” dei nostri giorni, un visionario che (nelle parole) confonde l’assurdo col possibile, ma anche un genio capace di far avanzare (nei fatti) l’innovazione tecnologica in applicazioni cantierabili. Così, da un lato la sua utopia si stiracchia fino a deformarsi nella “Singolarità” di macchine che sorpassano l’uomo, con speculazioni pseudo-scientifiche sul rapporto cervello-mente e sulle origini della moralità e della coscienza; dall’altro lato, nelle aziende proprie o di cui è consulente, la stessa utopia, ora controllata dalla ragione e non più in conflitto con la scienza, si rivela utile a produrre macchine e servizi ante litteram.

Tra le più importanti invenzioni di Kurzweil si annoverano un software di riconoscimento dei caratteri stampati ed un sintetizzatore che traduce i pentagrammi in suoni. Ovviamente, una cosa è uno strumento che suona “da solo” musica ideata da una mente umana: organetti e carillon c’erano anche nel ‘700 e l’automazione elettronica aggiunge solo più alte performance (con più armoniche di Fourier) ad un’automazione meccanica che non ha mai avuto nulla di soprannaturale; altro è l’idea di una macchina “creativa ed emotiva” che componga musica alla stregua di Beethoven e si commuova come un melomane. Anche su questo tipo di macchina l’utopia di Kurzweil si è naturalmente cimentata, ideando un software “compositore” (per intanto, in attesa di uno “ascoltatore”…), ma di tale applicazione nulla è rimasto nella storia della musica. Analogamente, una cosa è il riconoscimento digitale di caratteri stampati, che essendo standard sono classificabili in uno spazio finito di configurazioni; altro sarebbe quello di caratteri scritti a mano libera, o magari con deformazioni studiate di fantasia, che – guarda caso – sono proprio le figure impiegate nei codici di controllo CAPTCHA per distinguere gli umani dai dispositivi di lettura più potenti…

Lo scorso 17 dicembre Google ha assunto Kurzweil tra i suoi ingegneri. Per fare cosa? “Lavorerò su alcuni dei più complessi problemi d’informatica, per trasformare le visioni irrealistiche in realtà nel prossimo decennio”, ha risposto cripticamente Kurzweil ai giornalisti. Subito questi hanno pensato alla Singolarità: che il reparto ingegneria di Google intenda avviare la progettazione di un robot con emozioni, scrupoli morali ed intelligenza superiori alla media umana e magari alle doti di Kurzweil stesso? A deluderli ci ha pensato il capo-ricerca di Big G, Peter Norvig, che ha indicato più prosaicamente nelle tecnologie di riconoscimento vocale (a configurazioni finite e già implementato nei primi modelli dei cellulari Android) e nei sistemi esperti le frontiere che nel prossimo decennio saranno esplorate a Mountain View anche col contributo di Kurzweil.

Il fatto è che, se Kurzweil può nei suoi libri liberare le briglie alla fantasia con grande gioia dei divulgatori fantascientifici e dei profeti del transumanesimo (quel nightmare dove gli uomini sono subalterni a macchine più intelligenti e più buone di loro), il CFO di Google deve invece fare i conti ogni giorno col valore in Borsa dell’azione, per tener buoni gli asset manager che hanno investito nei progetti presentati ai road show di fund raising. Qui, sulla fascia dell’innovazione futuribile (oltre l’immaginabile, ai limiti del possibile, ma sempre al di qua dell’allegro dominio dell’irrazionale, che non è ahimè algoritmetizzabile), Google si giocherà le sue carte come tutti i grandi player della nuova economia globale. Un altro attore, General Electric – un colosso presente nelle infrastrutture e nell’energia, nei trasporti e nella finanza, nell’ecologia e nella salute – ha coniato un termine per la nuova rivoluzione tecnologica del XXI secolo, quella vera, scevra degli errori e degli orrori dell’Intelligenza Artificiale e in cui le macchine in ferro e silicio (ovviamente prive di passioni, coscienza e volontà) sono sempre al servizio degli scopi degli ingegneri in carne e ossa che le hanno progettate: l’Internet Industriale.

La rivoluzione industriale, come si sa, è partita due secoli e mezzo fa in Inghilterra: macchine e fabbriche hanno potenziato la millenaria economia agricola, artigiana e mercantile di molti fattori di scala e con nuovi prodotti. Accanto agli enormi progressi economici e (più tardi) anche sociali, la rivoluzione industriale ha mostrato il suo lato negativo nella creazione di un sistema sempre più in conflitto con l’ambiente, sia in termini di consumo di risorse non rinnovabili che d’inquinamento. Per non dire delle condizioni di lavoro, che solo dopo 150 anni di lotte sociali sono divenute (in Occidente) umanamente accettabili. Si può dire che l’innovazione incrementale che ha caratterizzato l’era della rivoluzione industriale ha riguardato proprio questi 3 aspetti: l’aumento di efficienza nella produzione, la riduzione d’impatto ambientale ed il miglioramento delle condizioni dei lavoratori.

La rivoluzione internet, che ha scandito gli ultimi 50 anni, si è caratterizzata invece per la potenza di elaborazione dell’informazione e la nascita di reti di comunicazione diffusa. Questa rivoluzione è nata nel Dopoguerra con i grandi mainframe ed il software, cui si sono presto aggiunti i primi pacchetti informativi che permettevano la comunicazione chiusa tra piccole reti governative o bancarie. Negli anni ‘70 è apparso il www, una rete aperta e flessibile in linguaggi e protocolli di comunicazione, che ha consentito lo scambio d’informazioni tra macchine eterogenee di tutto il mondo. Dai 300.000 terminali connessi nel 1981 si è passati ai miliardi di computer di oggi; dalla potenza di calcolo di 60 kips del primo microchip monolitico in silicio, l’Intel 4004, progettato da Federico Faggin nel 1971, siamo oggi a ordini trilioni di volte superiori; e, insieme ai volumi dell’informazione processata, è esplosa la velocità della sua trasmissione, dai 10 kbps dei modem del 1985 ai 100 Mbps di oggi. La combinazione di potenza di processo, velocità di trasmissione e volumi ha portato alla nascita di grandi piattaforme per lo scambio di transazioni commerciali (o interazioni sociali), come eBay (o Facebook), con decine (o centinaia) di milioni di utenti e decine di miliardi di dollari di transazioni (o centinaia di miliardi di relazioni).

Le due rivoluzioni economico-sociali sono nate con architetture opposte in termini di gestione della conoscenza e di processo della decisione, perché in internet il calcolo e lo scambio dei dati sono basati su strutture e reti orizzontali d’intelligenza distribuita, che postulano integrazione e flessibilità. Rispetto al modello (fordiano) lineare e chiuso di ricerca e sviluppo della rivoluzione industriale, ristretto dalla geografia e a centralità decisionale, si sono sviluppati con internet modelli decentrati e non lineari, per giunta con prodotti e servizi più eco-sostenibili.

La nuova era d’innovazione che si apre con l’Internet Industriale consiste nella Convergenza crescente del sistema industriale globale con la potenza del calcolo resa disponibile dalla connettività di internet: analitica avanzata e sistemi automatici di rilevamento in tempo reale dello stato delle macchine nel loro ambiente (anche in movimento: al mondo si contano attualmente 3 milioni di “grandi rotori”: aerei, navi, ferrovie, ecc.) saranno fruibili da tutto e da tutti. La Convergenza promette di apportare maggiore efficienza ai settori industriali più diversi, dai trasporti alla generazione di energia alla chimica, a cascata fino alla piccola impresa o all’ospedale, o alla persona direttamente. L’Internet Industriale fonde così insieme gli asset dei due salti produttivi: la miriade di macchine, facility, flotte e reti interne dell’industrializzazione, con i più recenti (e potenti) sistemi di calcolo e di comunicazione nella “nuvola” del web. L’essenza dell’Internet Industriale si esprimerà

–          in macchine “intelligenti” perché reciprocamente connesse tramite sensori, controlli ed applicazioni in reti mondiali;

–          nell’analitica avanzata, che combina l’analitica basata sulla fisica (e non più solo sulla geometria) con algoritmi predittivi e l’automazione;

–          nella connessione costante delle persone, che siano al lavoro o in ufficio, negli ospedali o in movimento, così da supportare la progettazione, le operation, la manutenzione o la cura con maggiore efficienza, qualità e sicurezza.

Poiché ormai tocca solo ai cristiani tenere dritta la barra della ragione, in molti articoli Uccr ha mostrato come la scienza neghi la replicabilità artificiale delle facoltà dell’anima degli uomini (razionalità, intenzionalità, auto-coscienza, ecc.). C’è un motivo in più, di tipo pratico, per non credere a chi promette che “è vicina la Singolarità” e che presto saremo surclassati da “macchine spirituali”: gli orientamenti d’investimento dei grandi gruppi industriali e dei fondi sovrani, che già hanno tracciato le traiettorie dell’high tech del secolo.

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I Paesi “più felici” del mondo? Quelli cattolici

Chiesa cattolicaChe la pratica religiosa sia un elemento fondamentale per la vita non solo spirituale ma anche fisica di ogni persona è cosa nota ed anche largamente riscontrata: dalla letteratura scientifica sappiamo infatti che esiste una correlazione fra religione e maggior salute mentale e fisica (Cfr. Koenig H. (2012) Handbook of Religion and Health, 2nd edition. Oxford University), meno depressione e addirittura minori tassi di criminalità.

Con buona pace di quanti ancora credono, con Karl Marx, che la religione sia l’«oppio dei popoli», dobbiamo quindi constatare come questa – da intendersi quale «vincolo che riannoda l’uomo ad una realtà superiore, dalla quale l’uomo crede di dipendere esistenzialmentee il rapporto culturale che, in conseguenza di ciò, l’uomo stabilisce con la realtà» (Ragozzino G. (1990) Il fatto religioso. Introduzione allo studio della religione, Edizioni Messaggero, Padova, p. 185) – rappresenti a tutti gli effetti una importante risorsa.

Chiarito quindi come, oltre ad avere risvolti sociali e conseguentemente anche «politici non secondari» (Carrubba S. Il mercato della religione. «Domenica» n. 262, 25/9/2011, p. 39), la pratica religiosa sia all’origine di tutta una serie di implicazioni positive nella vita delle persone, ora la domanda sorge spontanea: quale religione rende più felici? Ve n’è una in particolare oppure no? Premesso che una risposta che, su questo possa mettere d’accordo tutti, tanto più fra gli studiosi, è pressoché impossibile, ci è comunque possibile tentare una risposta approfondendo una notizia recente e – strano ma vero – accuratamente censurata; o meglio, raccontata a metà. La notizia riguarda gli esiti di un vastissimo sondaggio internazionale effettuato dalla Gallup sull’ottimismo internazionale, e dalla quale è emerso come il Paese al mondo più ottimista sia il Panama.

«E’ il Panama, la piccola repubblica dell’istmo riferisce Sette, il Magazine del Corriere della Sera  il Paese al mondo dove l’ottimismo e i sentimenti positivi sono più diffusi». Bene, ma c’è dell’altro. E questo altro si può appurare riportando l’elenco completo dei 10 Paesi in vetta a questa interessante classifica planetaria dell’ottimismo; si tratta di Panama, Paraguay, El Salvador, Venezuela, Trinidad e Tobago, Thailandia, Guatemala, Filippine, Equador e Costa Rica. Ebbene, non notate qualcosa di piuttosto singolare? Qual è la caratteristica che, fra tutte, più accomuna questi dieci Paesi? Se curiosate in rete potete trovare, nei siti dove si parla della ricerca in questione, svariate ipotesi.

Principalmente troverete la constatazione secondo cui – posto che nessuna delle nazioni è particolarmente ricca – ben 7 dei 10 popoli più felici risultano latino-americani, con la conseguenza che sarebbe detta cultura ad essere più propensa a sentimenti positivi. D’accordo, ma c’è un’altra la caratteristica che più accomuna questi Paesi: ben 9 su 10, cioè praticamente tutti ad eccezione della Thailandia, sono Paesi a larghissima maggioranza cattolica: Panama ha l’80% dei suoi cittadini cattolici, il Paraguay l’ 89,6%, l’Equador il 92,5% e il Venezuela addirittura il 92,7 %. Il solo Paese fra questi 9 dove la maggioranza cattolica non è soverchiante è Trinidad e Tobago, dove si conta una forte componente induista (23%); eppure anche lì – seguiti da protestanti (18,8%) e anglicani (10,9%) – i cattolici, col loro 29,4%, sono la maggioranza (Tutte le percentuali di presenza religiosa qui riportate sono state attinte dal portale web Sapere.it).

La prova del nove, per così dire, della validità di questa costatazione ci deriva considerando gli ultimi tre posti della classifica dell’ottimismo stilata da Gallup occupati da Singapore, Armenia e Iraq , vale a dire tre Paesi dove la percentuale della popolazione cattolica è assai più contenuta; nel primo non arrivano al 5%, mentre nel secondo e nel terzo non arrivano al 10%. Un caso? Difficile. E quindi, anche se fra il dichiararsi cattolici e l’esserlo vi è verosimilmente qualche discrepanza, ed anche se le percentuali di presenza religiosa che abbiamo sopra riportato possono risultare in parte differenti da altre, non c’è dubbio che la principale caratteristica dei paesi oggi più ottimisti al mondo – unitamente ad altri interessanti dati, per esempio l’alto tasso di natalità (il più basso, con 13 nascite ogni 1000 persone è quello del solo Paese non cattolico, la Thailandia) – sia la larga diffusione del cattolicesimo. Peccato che nessuno lo dica.

Giuliano Guzzo

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