India: il riscatto della donna è iniziato con i missionari cattolici

Proteste IndiaNel dicembre scorso è scoppiata in India una fortissima protesta contro l’odioso crimine della violenza sessuale sulle donne, fenomeno decisamente frequente e in costante aumento nelle città indiane. Numerose manifestazioni pubbliche hanno voluto criticare l’indifferenza delle autorità politiche. La Chiesa cattolica invece ha indetto una Giornata di solidarietà per la Giustizia, la sensibilizzazione e l’uguaglianza di genere, voluta dal cardinale Oswald Gracias, arcivescovo e presidente della Conferenza episcopale indiana.

Ma chi furono i primi a combattere e contrastare la schiavitù della donna in India? Furono i religiosi europei, come mostrano diverse lettere che i missionari e le missionarie del Pime presenti in India dalla metà dell’Ottocento scrivevano descrivendo la semi-schiavitù della donna indiana e rivelando i passi da loro compiuti per combattere tutto questo. La più nota paladina del movimento di liberazione della donna in India, ad esempio, non è un fedele indù ma una donna cristiana di nome Pandita Rababaj, e tutto il continente asiatico è riconoscente per il suo immenso contributo all’istruzione e all’emancipazione delle donne, largamente dovuto però alla sua fede in Gesù Cristo, il suo “principale liberatore”, per usare le parole di Pandita stessa.

Il riscatto della donna in India, come spiega Piero Gheddo, è dunque avvenuto dopo che le missioni cristiane (cattoliche e protestanti) hanno iniziato il loro lavoro sociale e le suore cattoliche hanno accolto nelle loro scuole le prime bambine che venivano scolarizzate. Lo stesso è accaduto in Asia e Africa, ma in India ben prima della colonizzazione inglese (1876), che ha poi fatto leggi in favore delle donne, c’erano già le suore che lavoravano per la promozione femminile e le prime comunità cristiane che davano esempi concreti di come la donna sia libera al pari degli uomini.

I missionari cattolici, anche italiani, lavoravano in India dal 1850, da alcune lettere -come quella del 1858 di padre Albino Parietti a mons. Marinoni direttore del nuovo istituto missionario a Milano- si legge la richiesta di suore perché «senza di loro, tenere aperte scuole regolari per le bambine sarebbe impossibile, le religioni locali (induismo e islam) non le vogliono. Bisogna incominciare insegnando lavori femminili. Le donne della religione braminica sono obbligate all’ignoranza ed è loro proibito leggere e scrivere». Ancora oggi, come informa Vatican Insider, la Conferenza episcopale dell’India ribadisce «la sacralità della vita e l’urgenza di uno sforzo nel campo dell’educazione, per combattere questa pratica che degrada la dignità della donna».

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Il neodarwinismo è morto, ma non lo si può dire

Arlin Stoltzfus 

di Enzo Pennetta*
*biologo

 

In un articolo apparso su BioMed viene proposta la CNE (Constructive Neutral Evolution), una teoria che prende le mosse dalla dichiarazione del fallimento della sintesi estesa. Ma la soluzione proposta non risolve i problemi, e della teoria neodarwiniana resta solo il fallimento. L’articolo in questione è intitolato “Constructive neutral evolution: exploring evolutionary theory’s curious disconnect” ed è stato pubblicato il 13 ottobre scorso su PubMed.

Si tratta di un lavoro di Arlin Stoltzfus, del Center for Advanced Research in Biotechnology presso l’Università dell’IowaL’autore  parla di una “disconnessione” all’interno della teoria dell’evoluzione, un’incoerenza tra quello che la teoria afferma e ciò che emerge dalla genetica, in pratica tornano in primo piano le difficoltà che la genetica mendeliana pose sin dai primi anni del ‘900 alla teoria di Darwin e sulle quali la stessa naufragò.

Stoltzfus ricorda che nella formulazione originaria di Darwin, la selezione agiva su una serie di differenze infinitesimali che costituivano il “materiale grezzo”. Darwin aveva una visione non mendeliana nella quale l’ambiente induceva una serie continua di variazioni. Al riguardo Stoltzfus ricorda che quando a Darwin si prospettava la possibilità che la selezione non fosse creativa ma che agisse solamente per stabilire quali forme avrebbero avuto successo, lo scienziato inglese era solito rispondere che “potrebbe essere una teoria molto buona ma non è la mia“. Tale impostazione fu poi mantenuta dai suoi primi seguaci che non accettarono mai l’ipotesi delle mutazioni casuali.

E fu proprio per riconciliare la teoria di Darwin con le leggi della genetica scoperte da Mendel che nacque la Sintesi moderna (SM), una teoria che prevedeva che a infinitesimi cambiamenti a livello del genotipo sarebbero corrisposti dei piccoli cambiamenti a livello di fenotipo. Ma come Stoltzfus fa notare, si trattava di un assunto pericoloso, infatti portava al disaccoppiamento della macroevoluzione dalla microevoluzione: “Nella teoria originale di Darwin, e in seguito nella visione di Fisher, le differenze individuali sono propriamente una materia prima, come la sabbia utilizzata per fare un castello di sabbia: ogni granello di sabbia singolo può essere unico per dimensioni e forma, ma la sua natura individuale ha poca importanza, perché è infinitesimale rispetto al tutto che è costruito dalla selezione. Al contrario, se un episodio di evoluzione riflette la natura individuale di una notevole mutazione, una macromutazione di sviluppo, una duplicazione di un gene o del genoma, un evento di trasferimento laterale o endosymbiogenesi, ecc -, allora l’ipotesi infinitesimale non è più applicabile e la teoria verbale fallisce: quando la variazione fornisce la forma (non la sostanza), non è più propriamente una materia prima, e la selezione non è più il creatore che plasma le materie prime in prodotti.”

Le micromutazioni sono dunque come i granelli di sabbia di un castello, troppo piccoli per poter essere significativi, la selezione agisce su un livello più grande e quindi non può essere lei a plasmare le macromutazioni agendo sulle micromutazioni come afferma invece la SM. Ed ecco quindi che dopo la teoria darwiniana originaria e la SM, emerge la necessità di una “Terza rivoluzione“, quella che è stata definita la Sintesi Estesa (SE) o TDE 3.0. Mentre la definizione di Sintesi Estesa data dal suo ideatore Daniel R. Brooks indica un recupero di elementi del darwinismo originario, nella proposta di Stoltzfus la direzionalità dell’evoluzione viene fornita da un meccanismo definito “Constructive neutral evolution“, un percorso direzionale non finalistico. Il modello proposto dalla CNE è uno sviluppo della  Neutral theory of molecular evolution che Motoo Kimura propose alla fine degli anni ’60 la quale prevedeva che i cambiamenti fossero causati da una deriva casuale o da mutazioni neutrali che non avevano effetti sulla fitness.

Stoltzfus ricorda che nella Sintesi moderna l’evoluzione è definita come uno spostamento delle frequenze alleliche e che la comparsa di nuovi alleli non fa parte della teoria dell’evoluzione, se non come pre-condizione. Poi afferma che la SM come fu formulata da Fisher e Haldane contiene degli errori di ragionamento in quanto il tasso di mutazioni è piccolo e la forza delle mutazioni è debole in confronto alla selezione. Questa ipotesi, fa notare l’autore, sarebbe valida solo se si assumesse che l’evoluzione sia deterministica e che tutti gli alleli rilevanti ai fini dell’evoluzione fossero presenti sin dall’inizio. Come si vede, ancora una volta, si rileva come la microevoluzione non sia riconducibile alla macro evoluzione. La teoria della Constructive Neutral Evolution interviene quindi a risolvere questo ostacolo, se le micro mutazioni non possono fornire nuovi caratteri per via della selezione, le mutazioni neutrali non sarebbero invece selezionabili e potrebbero quindi accumularsi nel genoma come fenomeno di deriva genetica.

L’autore dello studio ritorna insistentemente sul fatto che gli architetti della SM escludevano il mutazionismo riducendo l’evoluzione ad uno “spostamento delle frequenze geniche”, e mette in guardia dal rischio di cadere nell’errore opposto, quello di immaginare che l’evoluzione possa essere ridotta ad un processo di fissazione dall’origine o ad un mutazionista processo di selezione: “Anche se nuove mutazioni sono sempre accettate o respinte, in fin dei conti esse non sono sempre accettate o respinte in modo tale che l’evoluzione segua dinamiche di fissazione dall’origine“. E seguendo un leitmotiv, Stoltzfus ritorna quindi ad affermare con decisione l’insufficienza della SM nello spiegare l’evoluzione, insufficienza che permane anche con l’aggiunta di quelle componenti, tanto care anche al neodarwinismo che in Italia è sostenuto dal pensiero di Telmo Pievani, responsabile di Pikaia, il portale dell’evoluzione (vedi La vita inaspettata: il nuovo libro di T. Pievani), che fa leva sul nuovo concetto di “contingenza” che va ad aggiungersi a quello di “caso“: “…questa insufficienza non è colmata con l’aggiunta di possibilità, della contingenza e  vincoli, che sono dei vaghi principi esplicativi, non cause. La “possibilità” ovviamente non è né una forza né una causa. I “limiti” non sono una forza, non sono neanche una causa positiva, ma una condizione che indica che un ideale immaginario non è stato soddisfatto. La “contingenza” allo stesso modo, non è una causa, ma un segnaposto concettuale che indica l’inapplicabilità di una idealizzazione astorica nella quale i sistemi raggiungono un equilibrio globale indipendentemente dalle loro condizioni iniziali. Rattoppando la Sintesi Moderna con i limiti, la possibilità e la contingenza, espandiamo la copertura di un largo raggio di casi fuori del paradigma centrale, tuttavia questa espansione comporta un’enorme perdita di rigore e chiarezza che il risultato non merita il nome di “teoria”. C’è qualcosa (evoluzione, la politica, i movimenti planetari, costruzione di ponti), che non può essere spiegato con la teoria delle forze della genetica e popolazione, quando è combinata con i tre principi “acchiappa tutto” per cui i risultati sono contingenti nelle condizioni iniziali, limitati da vari fattori, e soggetti alla possibilità?”

La conclusione dell’articolo di Stoltzfus è impietosa, la Sintesi Moderna e le sue varianti con l’aggiunta della contingenza escono a pezzi dalla sua analisi. E si tratta del lavoro di un ricercatore passato attraverso la dinamica della Peer Rewiew. La ricerca, che è fortemente critica verso il neo-darwinismo, è quindi stata approvata da altri ricercatori, il motivo di questa accettazioneva probabilmente individuato nel fatto che l’autore, Stoltzfus, non giunge alle logiche conseguenze del suo discorso e non si spinge a dichiarare che darwinismo tout-court è confutato. Egli fa la sua professione di fede (per dirla con le parole di J. Fodor e M.P. Palmarini) “salvando” il meccanismo casuale con la proposta della CNE, proponendo cioè un’evoluzione che produce nuovi caratteri attraverso l’accumulo di mutazioni neutrali. È quindi una proposta che, nonostante le critiche mosse al darwinismo, si vuole collocare all’interno dello stesso, fatto che ha permesso allo studio di essere accettato e divulgato, ma che ha l’incredibile caratteristica di proporre una soluzione che ha gli stessi difetti del problema che vorrebbe risolvere.

La teoria della CNE infatti, proponendo di individuare l’origine di nuovi caratteri nell’accumularsi di mutazioni neutre, che ad un certo punto divengono funzionali, si imbatte nell’insormontabile ostacolo della improbabilità statistica (vedi UCCRL’insostenibile leggerezza del neodarwinismo di Michele Forastiere e Giorgio Masiero). Anche questa soluzione proposta con la teoria della CNE non è quindi accettabile. Cosa resta allora della teoria darwiniana dopo la pubblicazione del lavoro di Stoltzfus? Sembra proprio che quel che resta sia la constatazione che il neo-darwinismo contemporaneo, così come quello originale dell’800, è morto. Ma non lo si può dire.

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La psicologa Vegetti Finzi: «solo coppia etero offre equilibrio»

Adozioni omosessuali e psicologia. L’importante intervento della psicologa Silvia Vegetti Finzi nel dibattito sulla genitorialità omosessuale dopo l’invito di Galli Della Loggia ai professionisti di non temere dal prendere posizione pubblica. Ecco cosa ha detto nell’intervista al Corriere.




Solo pochi giorni fa abbiamo segnalato una inaspettata presa di posizione contraria al matrimonio e alle adozioni per le coppie dello stesso sesso da parte di un importante intellettuale italiano, Ernesto Galli della Loggia.

Da laico e non credente ha esposto la sua argomentazione rifacendosi alla ragione naturale e non utilizzando argomenti teologici, si è inoltre augurato che «personalità autorevoli (per esempio gli psicanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti». 


Vegetti Finzi ed il triangolo freudiano madre-padre-figlio.

Il Corriere della Sera ha per l’occasione intervistato una importante psicologa italiana, Silvia Vegetti Finzi, docente di Psicologia Dinamica presso l’Università di Pavia, membro del Comitato Nazionale di Bioetica e dell’Osservatorio Permanente sull’infanzia e l’adolescenza.

Vegetti Finzi ha giudicato «quanto mai opportuno l’invito che Ernesto Galli della Loggia rivolge agli psicoanalisti perché non temano di far sentire la loro opinione» e ha voluto esplicitamente fare riferimento a Sigmund Freud (di cui abbiamo già visto il giudizio verso il comportamento omosessuale). Il padre della psicanalisi, ha indicato Vegetti Finzi, definisce l’Edipo “l’architrave dell’inconscio”, cioè «il triangolo che connette padre, madre e figlio. Entro le sue coordinate si svolgono i rapporti inconsci erotici e aggressivi, animati dall’onnipotenza Principio di piacere, “voglio tutto subito”, che coinvolgono i suoi vertici. Per ogni nuovo nato il primo oggetto d’amore è la madre ma si tratta di un possesso sbarrato dal divieto dell’incesto, la Legge non scritta di ogni società».

Secondo Freud, la rivalità con il padre è automatica e termina per due motivi: «Per il timore della castrazione, la minaccia di perdere il simbolo dell’Io, e per l’obiettivo riconoscimento della insuperabile superiorità paterna. Non potendo competere col padre, il bambino s’identifica con lui e sceglie come oggetto d’amore, non già la madre, ma la donna che le succederà».


«Il figlio di coppie omosessuali non sperimenta diversità sessuale».

Nel gioco delle parti interno alla famiglia, ha proseguito ancora la psicologa Silvia Vegetti Finzi, il figlio riesce a prendere «il posto che gli compete nella geometria della famiglia, assume una identità maschile e si orienta ad amare, a suo tempo, una partner femminile». Tralasciando il percorso delle bambine («troppo complesso per ridurlo a mera specularità»), l’eminente psicologa italiana ha osservato: «Già quello maschile è sufficiente a mostrare come l’identità sessuale si affermi, non in astratto, ma attraverso una “messa in situazione” dei ruoli e delle funzioni che impegna tanto la psiche quanto il corpo dei suoi attori».

Noi non abbiamo un corpo, ma siamo il nostro corpo dice il filosofo francese Merleau Ponty, e, ha proseguito Vegetti Finzi, «non è irrilevante che esso sia maschile o femminile e che il figlio di una coppia omosessuale non possa confrontarsi, nella definizione di sé, con il problema della differenza sessuale. La psicoanalisi non è una morale e non formula né comandamenti né anatemi ma, in quanto assume una logica non individuale ma relazionale, mi sembra particolarmente idonea a dar voce a chi, non essendo ancora nato, potrà fruire soltanto dei diritti che noi vorremo concedergli».


L’obiezione di Fulvio Scaparro è confusa e non convince.

Contrariamente alla psicologa Vegetti Finzi si è posto lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, ma con argomenti tutt’altro che validi.

Scaparro, sempre sul Corriere, ha infatti sostenuto che i buoni genitori non sarebbero tali sulla base del loro orientamento sessuale, ma sul clima e l’attenzione che, di fatto, distinguono una buona famiglia da una che non lo è. In realtà Vegetti Finzi non ha affatto affermato che il problema sia o non sia la “bontà” dei genitori, ma ha basato il suo ragionamento sul complesso di Edipo e dell’impossibilità per due genitori dello stesso sesso di interrompere tale processo permettendo al figlio di acquisire una propria identità all’interno della famiglia. Anche con tutta la bontà possibile, i “genitori gay” restano impossibilitati ad essere i genitori biologici del bambino e impossibilitati a far confrontare il bambino con la differenza sessuale.

Lo psicoterapeuta ha anche sostenuto un’altra classica argomentazione: «Oggi l’identità non si costruisce solo nel rapporto con i genitori. La famiglia in cui si diventa grandi non è solo la coppia genitoriale ma un’intensa rete di persone di ogni sesso che vanno dagli zii all’allenatore, agli amici dei genitori che diventano affettuosi modelli al di là del grado di parentela». Notiamo subito che Scaparro si riferisce al presente, come se in passato non ci fosse stata questa importante rete di relazioni. Anzi, a ben vedere proprio oggi la struttura familiare e parentale è in fortissima crisi, rispetto al passato: divorzi, madri single e matrigne, padri single e patrigni, fratelli e fratellastri, madri distanti, padri assenti ecc..

Tale situazione è inoltre notoriamente più drammatica proprio per i soggetti omosessuali, frequentemente in rotta con i propri genitori, anche a causa del loro comportamento sessuale. Risulta contro-fattuale sostenere che l’assenza della diversità sessuale in una coppia gay sarebbe compensabile con una buona rete familiare (non cerchiamo il bene maggiore per i bambini?) e non è realistico pensare che una figura esterna dalla famiglia in senso stretto sia in grado di interrompere il complesso di Edipo nel bambino, aiutandolo così ad assumere il proprio ruolo all’intero della famiglia.


L’intervento del filosofo Pessina: «Il contesto ideale non è la coppia gay».

Molto importante, in risposta a quanto detto da Fulvio Scaparro, il pensiero del filosofo Adriano Pessina, docente di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano e direttore del Centro di Bioetica.

 

«Nel dibattito sull’omosessualità», ha spiegato, «si tende a negare che esista una differenza fra maschile e femminile, sostenendo che sia indifferente essere maschio o femmina e che sia dunque indifferente che una coppia sia formata da un uomo e una donna oppure da due donne o da due uomini. Tanto l’importante sarebbe amarsi…». Ma il maschile e il femminile sono necessari per la definizione stessa della condizione umana, «e non si può certo sostenere che la differenza fra uomo e donna sia una teoria cattolica: è invece fondamentale persino per l’evoluzionismo». La complementarietà tra i due sessi «è decisiva per tutti: una società matura deve valorizzare la differenza, non mortificarla».

Dunque a livello politico «è giusto che lo Stato tuteli con maggior vigore la famiglia eterosessuale come luogo della nascita. Un conto è parlare del riconoscimento di alcuni diritti giuridici degli omosessuali (che ritengo giusti), un conto è sostenere il diritto ad avere figli (come se esistesse, poi, questo diritto: nessuno ha diritto a un figlio, perché i diritti si hanno sulle cose, non sulle persone)».

Ha quindi proseguito il filosofo: «La vera domanda è: qual è il “valore aggiunto” proprio dell’omosessualità che lo Stato può tutelare? Io non credo che nell’omosessualità ci sia un “di più”, ma sono disposto ad ascoltare dialogare. Vedo però qual è il “di più” dato dall’eterosessualità: il difficile equilibrio di una relazione che comprende le differenze fra maschile e femminile, che va anche al di là della questione dell’avere figli». Rispetto ai dati scientifici, «come tutti i dati della scienza vanno verificati, ma il problema va posto all’origine e non guardando i risultati. Di fatto ci sono bambini equilibrati che sono stati allevati da famiglie poligamiche, o che sono cresciuti in orfanatrofio».

Il problema resta un altro: «Qual è il contesto ideale nel quale pensare lo sviluppo della persona? Le differenze fra maschile e femminile sono un aspetto decisivo dell’umano. Che non può essere negato».

In conclusione Pessina ha replicato anche all’argomento ricattatorio basato sul fatto che l’Italia dovrebbe adeguarsi ad alcuni Paesi europei: «Questa è una valutazione di cui discutere. Le differenze non possono essere viste sempre e solo come un problema, ma anche come una possibilità. Perché invece di copiare dagli altri paesi non maturiamo insieme una scelta argomentata, non ideologica, in cui contino i valori umani e non solo la lotta per difendere i propri interessi più ancora dei diritti condivisi?».

La redazione

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Costantino e la sua conversione al cristianesimo

Costantino 
 
di Luigi Baldi*
*dottore di ricerca in Filosofia

 

Il nome di Costantino  il Grande (274-337) è indissolubilmente legato alla rivoluzione avvenuta all’inizio del IV secolo, quando il Cristianesimo, a lungo perseguitato o in certi momenti ignorato dall’impero romano, acquista definitivamente il riconoscimento della piena libertà (religio licita), fino a divenire con Teodosio I (Flavio Teodosio 347-395) religione ufficiale e unica dell’impero.

Le cause di questa trasformazione e le motivazioni che indussero Costantino a tale riconoscimento sono oggetto di un intenso dibattito storiografico. Il problema è alimentato dai dubbi degli storici sul valore e l’autenticità delle fonti documentarie, ovvero sia Lattanzio (De mortibus persecutorum) ed Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica e Vita di Costantino). Il punto più controverso è quello dell’Editto di Milano del 313 sulla libertà religiosa dei Cristiani. Nell’ambito del suo programma di rafforzamento dell’impero Diocleziano (244-305) aveva promulgato quattro editti (leggi generali, applicabili a tutti i sudditi sotto la sua sovranità) contro i cristiani (303-304),che ne prevedevano la rimozione dagli uffici pubblici, la tortura se ostinati,il divieto delle loro riunioni, la distruzione delle chiese e dei libri di culto, l’arresto del clero, l’obbligo del sacrificio agli dei pagani. Per assicurare una organizzazione efficiente dell’impero, aveva, poi, introdotto un meccanismo di successione per cooptazione, in modo da porre fine all’uso degli eserciti di acclamare di propria iniziativa gli imperatori con le ricorrenti situazioni di anarchia militare. A tal fine l’impero era stato diviso in quattro aree territoriali (la tetrarchia), affidate a due Augusti (lui stesso e Valerio Massimiano,sull’Occidente) e a due Cesari (Galerio per l’Oriente e Costanzo Cloro per l’Occidente), di ausilio dei primi due. Si trattava di una divisione di compiti nel quadro di un impero che doveva rimanere unitario, ma che poneva  le basi per sanguinose lotte di potere successive.

Il 30 aprile 311 Galerio, che era stato uno degli augusti più attivi nell’applicare, sia pure con intermittenza, i provvedimenti di Diocleziano , aveva emanato a Nicomedia (capitale delle provincie danubiane e balcaniche) un editto, che,prendendo atto del fallimento delle persecuzioni, riconosceva la nuova religione. Con l’abdicazione anticipata del 1 maggio 305 di Diocleziano e Massimiano divennero Augusti i loro due Cesari, Galerio in Oriente e Costanzo Cloro in Occidente, che nominarono a loro volta due Cesari, rispettivamente Massimino Daia e Flavio Severo. Il sistema cominciò a sfaldarsi con la morte di Costanzo Cloro, il cui, figlio illegittimo Costantino fu proclamato Augusto nel 306 dalle truppe al posto del legittimo ma debole erede Severo, mentre nello stesso anno fu acclamato Augusto dai suoi pretoriani  Massenzio, figlio di Massimiano. Il culmine della confusione si ebbe quando risultarono quattro augusti: per l’Oriente Licinio, subentrato al defunto Galerio sulle regioni danubiane (311) e Massimino Daia, per l’Occidente Costantino in Gallia e Spagna e Massenzio come usurpatore a Roma, in Italia e nel Nord-Africa. Co-firmatari dell’editto furono proprio Costantino, che aveva adottato un analogo provvedimento nella Gallia,e Licinio. Il 28 ottobre 312 Costantino sconfisse Massenzio, suo rivale sull’Occidente a Ponte Milvio e nel febbraio 313 stipulò con Licinio un accordo di alleanza a Milano per la spartizione concordata dell’impero tra Occidente e Oriente; Licinio, a sua volta, nell’aprile 313 vinse Massimino Daia e diventò il padrone unico dell’Oriente romano.

Proprio a proposito di tale accordo si è tradizionalmente parlato di “Editto di Milano” (per es. Anastos, Bowder, Christensen).  Altri storici (per es. Seeck, Grégoire, Bleicken, Jossa, Bringmann) hanno sostenuto che nel febbraio 313 non fu emanato a Milano alcun provvedimento formale di quel tipo. L’accordo sarebbe la base di una serie di disposizioni ai governatori delle provincie, con cui i due imperatori da Roma e da Nicomedia cercarono di imporre la tolleranza verso il Cristianesimo nelle aree sotto il loro controllo. Costantino tra il gennaio (quindi prima dell’accordo, a ulteriore sostegno del fatto che si trattò di una serie di atti più che di un atto singolo) e il febbraio 313 ordinò la restituzione alle Chiese dei beni confiscati durante le persecuzioni e concesse  al clero esenzioni, privilegi, favori. Licinio, dopo aver sconfitto Massimino Daia, al suo arrivo a Nicomedia il 13 giugno 313 emanò un rescritto (risposta dell’imperatore a un quesito), con cui, confermando il provvedimento di Galerio,  mostrava l’intento di attuare la medesima politica in Oriente.

Licinio ricorda che Costantino e lui stesso avevano precedentemente riconosciuto ai Cristiani la libertà di culto sulla base del diritto di ogni uomo alla ricerca della verità su Dio, ma prende  atto che in alcuni casi tale diritto non era stato rispettato. Valutato come prioritario per “la tranquillità comune e pubblica”  l’interesse alla pace religiosa, entrambi a Milano avevano confermato l’obbligo che “fosse assicurato il rispetto e la venerazione della Divinità” qualunque essa sia, per tutti e in particolare per i cristiani, “in modo che qualunque potenza divina e celeste esistente possa essere propizia a noi e a tutti coloro che vivono sotto la nostra autorità”. Alla base è l’idea per cui la libertà religiosa, come divieto di alcun impedimento in materia di coscienza, è funzionale al mantenimento della pace religiosa; quest’ultima, a sua volta, è condizione  necessaria della pace politica e della conservazione dell’unità dello stato, che è il fine ultimo e supremo. Il Cristianesimo aveva, ormai, assunto un tale rilievo nella società, nell’esercito, nella stessa corte, soprattutto in Oriente, che non era più concepibile realisticamente un ritorno integrale al paganesimo, se non a costo di un conflitto che avrebbe minato inevitabilmente l’unità dell’impero, già scossa da rivalità e lotte  di potere. Il riferimento al Cristianesimo appare insistentemente inserito nel contesto più generale della libertà religiosa per tutti . Con specifico riferimento ai cristiani, invece,  il provvedimento impone la restituzione  “senza denaro né esigere prezzo, senza cercare pretesti o sollevare discussioni” degli edifici di culto anche legittimamente acquistati o, eventualmente, ricevuti in donazione, riservando all’imperatore la decisione circa la corresponsione di un indennizzo con denaro pubblico su domanda degli interessati, da rivolgere al vescovo diocesano. Le chiese ottenevano un riconoscimento esplicito e formale e si vedevano restituire edifici loro sottratti anni prima, in modo tale, però, da danneggiare coloro che in buona fede ne fossero venuti in possesso successivamente, profilandosi, così, accanto alla raggiunta parità con il paganesimo, una posizione di privilegio della nuova religione. Più che di un editto di Milano si deve parlare propriamente di svolta o pace costantiniana, in quanto Costantino aveva avviato la nuova politica religiosa prima di Licinio e in maniera più ampia, completa e convinta.

Secondo una tesi diffusa nella tradizione ecclesiastica Costantino si sarebbe improvvisamente convertito al Cristianesimo in seguito ad avvenimenti meravigliosi e sovrannaturali e avrebbe attribuito la vittoria di Ponte Milvio al Dio dei cristiani. Eusebio afferma che Costantino si sarebbe mosso contro Massenzio dopo aver pregato il Dio di Gesù Cristo e dopo la vittoria, in ringraziamento, avrebbe fatto erigere nel centro di Roma una statua a lui dedicata con la croce in mano. Egli parla, poi, della visione di una scritta in hoc signo vinces (in questo segno vincerai) che l’imperatore avrebbe avuto in Gallia, mentre tornava a Roma nelle settimane precedenti la battaglia. In una successiva versione, dice che Costantino avrebbe visto, questa volta insieme a tutto il suo esercito, le medesime parole accanto a una croce luminosa sovrimpressa sul sole e in base a un sogno successivo, avrebbe fatto redigere uno stendardo (labarum) con la riproduzione del segno, Anche Lattanzio parla di un sogno, in seguito al quale Costantino avrebbe ordinato di incidere sugli scudi dei suoi soldati un “segno celeste di Dio” prima della battaglia. Il simbolo è composto da due lettere sovrapposte, ‘X’ e ‘P’, che corrispondono, rispettivamente, alla lettera greca ‘χ’ (‘chi’) e ‘ρ’ (‘rho’) e sono le iniziali della parola Χριστός, in greco “unto” (in ebraico “messia”). Le difficoltà testuali riscontrate in queste testimonianze e l’inverosimiglianza, per mancanza di tempo e di artisti competenti, del confezionamento di uno stendardo di tal genere hanno indotto numerosi studiosi (per es. Burckhardt, Brieger, Harnack, Gregoire) a negare la storicità e, in ogni caso, la sincerità, della conversione di Costantino, parlando di quest’ultimo come fondamentalmente disinteressato alla religione ma interessato a utilizzarla per la conservazione e il consolidamento del potere, in coerenza con la tradizione romana. Alcuni osservano come la sincerità della conversione sarebbe confermata dal fatto che comunque un decimo soltanto della popolazione in Occidente sarebbe stata cristiana, per cui Costantino non avrebbe avuto alcun interesse ad aderire alla nuova fede (per es. Boissier, Seek, Veyne, Marcone). Altri storici (per es. Piganiol, Riffel, Keim, Salvatorelli) vedono in Costantino l’interprete di una posizione religiosa sincretistica, volta cioè, a fondere Cristianesimo e paganesimo. Anche dopo il 312 monete, iscrizioni, formule dei Panegirici mantengono un carattere pagano, egli stesso rimane Pontifex Maximus e riceve il battesimo solo alla vigilia della morte. Il differimento del battesimo può essere  un indizio del carattere strumentale della sua conversione ma non contraddice la sincerità di un cammino di fede, che è sempre progressivo approfondimento di un insondabile dialogo con Dio.

E’ impossibile rispondere definitivamente alla domanda se Costantino si sia convertito sinceramente o per calcolo politico. Innanzitutto è impossibile scandagliare la coscienza nella sua intimità, rimanendo comunque sempre un margine di oscurità e dubbio nel cuore umano. Egli, poi, visse, e ne fu inevitabilmente influenzato, in un’età (quella tardo antica) segnata da un diffuso senso religioso composto da superstizione e fanatismo, che riempiva il vuoto lasciato dalla tradizione politeistica romana. Dotato di personalità complessa, era superstizioso, quindi timoroso di perdere il favore delle diverse “possibili” divinità e alla ricerca inquieta di quella più potente al fine di salvaguardare l’unità e la potenza dell’impero. Animato da sfrenata ambizione e vanità, passionale, e impulsivo fino alla temerarietà, egli si sentiva rappresentante di forze divine superiori e aveva un altissimo senso della dignità imperiale e dei suoi doveri. Il suo sincretismo, del resto, per influenza del padre Costanzo Cloro, sostituì presto il culto a Giove ed Ercole con quello al Sol invictus, che gli appariva l’incarnazione e il simbolo dello spirito divino che governa il mondo. Dopo il 312 Costantino rinnegò progressivamente cerimonie e processioni tradizionali pagane anche se l’abbandono del politeismo appare avvicinamento al monoteismo solare prima ancora che a quello cristiano, che, comunque, risultano a lungo intrecciati; Cristo, è l’inviato di quel Dio superiore che egli adorava già sotto l’emblema del sole. Costantino, del resto, ascoltava tra i suoi consiglieri il vescovo Osio di Cordova e educò i figli nella nuova religione. Chiamò addirittura dall’Oriente lo scrittore cristiano Lattanzio come precettore del figlio primogenito Crispo; non esiterà, però, a fare uccidere quest’ultimo, falsamente accusato dalla sua seconda moglie Fausta, anch’essa poi fatta morire, di averla insidiata e il rimorso per tale gesto può anche aver influito sul suo avvicinamento alla fede.

Il favore per il Cristianesimo si tradusse in appoggio alla Chiesa e alla sua organizzazione ecclesiastica e in sfavore e persecuzione verso eretici e scismatici: per es. i donatisti, che subordinavano l’efficacia del battesimo e dell’ordine sacro alla dignità di chi li amministra o i seguaci di Ario, che negavano la divinità di Cristo, contro i quali convocò e presiedette il Concilio di Nicea (325). Anche la creazione di un’altra capitale dell’impero a Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli, ebbe una finalità religiosa, cioè l’erezione di una seconda Roma cristiana, in contrapposizione alla prima Roma pagana,anche se finì per accentuare una divisione culturale tra Occidente latino e Oriente greco, che si sarebbe tradotta in una divisione religiosa con lo scisma d’Oriente del 1054. Il movente era, però, anche politico, ovverosia un avvicinamento alle frontiere orientali del Danubio e dell’Eufrate, che apparivano le più impegnative per l’impero, tanto è vero che la morte lo colse, presso Nicomedia dopo la vittoria sui Goti del 332, durante i preparativi di una grande spedizione contro i Persiani (337).

Certamente la politica religiosa di Costantino appare ispirata all’idea della religione come instrumentum regni e della Chiesa come garante e fondamento dell’ordine sociale e politico, che caratterizzerà tutta la storia dell’Occidente. Sostituendo gli dei dell’Olimpo con il Dio di Gesù Cristo la svolta costantiniana ha in sé le premesse di una riduzione della fede cristiana a legge morale e, quindi, a religione civile, che inaugura una ambigua contaminazione tra croce e spada. Se, però, “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI), si può dire che Costantino abbia vissuto proprio nella sua esperienza un tale incontro, che ha cambiato il corso della sua vita, pur tra incertezze e contraddizioni. I dubbi sulla sincerità della sua conversione e le capziose polemiche recenti sul cd. Editto di Milano, al di là degli obiettivi problemi storiografici, appaiono viziati da un pregiudizio retrostante, che negando la dimensione reale e storica della fede, pretende di vedere necessariamente nella motivazione religiosa dell’agire umano una apparenza illusoria, che nasconde le vere motivazioni, ovviamente economiche, politiche, di interesse, di calcolo etc. Costantino è uomo del suo tempo e come tale vive la fede cristiana: la sua intuizione, inaccettabile per la cultura laicista, è che essa non possa viversi come un fatto privato ma debba tradursi in vita, cultura, storia, anche in strutture e organizzazioni politiche.

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La “culla del delitto” è il divorzio e l’assenza di matrimonio

Matrimonio Un nuovo studio di crimini violenti da parte del Dipartimento di Giustizia americano ha scoperto che gli adolescenti che vivono in famiglie non sposate erano quasi quattro volte più probabilità di essere vittima di un grave crimine violento di loro coetanei che hanno vissuto con genitori sposati.

Lo studio,  “Violent Crime Against Youth, 1994-2010” ha infatti mostrato che nel 2010, il 27,8% di 1000 giovani con un capofamiglia celibe, sono state vittime di un grave crimine violento. Allo stesso tempo, solo il 7,4% ogni 1000 giovani che vive con entrambi i genitori è stato una vittima. Tali risultati sono solo l’ultimo di una serie di studi che dimostrano un forte impatto negativo sui bambini allevati con genitori non sposati.   

Un altro studio, segnalato dal sociologo Giuliano Guzzo, ha il pregio di confutare la retorica anti-famiglia secondo cui la grandissima parte delle violenze sui bambini avviene in contesti familiari. La famiglia sarebbe “la culla del delitto”, ma questo è vero in una tipologia particolare di famiglie: quelle nelle quali si verifica un divorzio.

Secondo tale ricerca, basata sulla popolazione canadese ed effettuata confrontando dati raccolti nel 2005 con quelli rilevati dieci anni prima, nel 1995, il divorzio comporta, per i figli di genitori decisi a lasciarsi, una percentuale di abusi pari al 10,7%. Questo significa che il divorzio, a suo tempo introdotto e salutato quale istituto moderno e filantropico, oltre che determinare per i figli maggiori tentazioni suicidarie, triplica per questi la possibilità di rimanere vittime di violenze.

Violenze che, in caso di rottura coniugale, non riguardano i soli figli: una ricerca su un campione di 46.096 casi di divorzi, separazioni e cessazioni di convivenza hanno messo in luce come ben 39.919 (l’86,6%) abbiano avuto implicazioni penali come calunnia, minacce, sottrazione di minore, percosse, maltrattamenti, lesioni, sequestro di persona, violenza privata, violenza sessuale (Dati Associazione Ex cit. in. Lodovici G.S. «IL TIMONE» – N. 55 – ANNO VIII – Luglio/Agosto 2006, pp. 32 – 33).

La vera “culla del delitto”, lo dicono gli studi, si chiama divorzio e relazione non matrimoniale .

 

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L’intolleranza dei militanti LGBT

Femen 
 
 
di Andrea Acali
da Il Tempo 15/01/13
 
 

La dimostrazione delle attiviste di Femen in piazza San Pietro durante l’ Angelus di domenica scorsa può essere presa a paradigma del livello di tolleranza di cui sono capaci certi «movimenti».

Se entrassi in un qualsiasi circolo omosessuale brandendo un cartello con scritto, ad esempio, «State zitti» o «Io credo in
Dio», il minimo che potrebbe capitarmi sarebbe di essere tacciato per omofobo. Invece quattro «signorine» esibizioniste possono tranquillamente pensare di creare un’indegna gazzarra durante una riunione di preghiera a cui partecipano migliaia di fedeli e di imporre il silenzio ad una persona che, piaccia o no, è un’ autorità morale e una guida spirituale per milioni di persone. Chi è il vero intollerante?

La Chiesa su questo fronte è chiarissima. Basta rileggersi un passaggio della lettera ai vescovi scritta nel 1986 dall’ allora card. Ratzinger: «Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente. Simili comportamenti» vanno sempre condannati perché «rivelano una mancanza di rispetto per gli altri. La dignità propria di ogni persona dev’ essere sempre rispettata». La realtà è che si sta verificando una discriminazione al contrario. Esprimere idee, difendere principi che non piacciono al movimento omosessuale comporta automaticamente l’ accusa di essere retrogradi, oscurantisti e omofobi.

 

Qui sotto due modi differenti di manifestare le proprie idee

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Ecco perché è giusto opporsi al matrimonio gay

Contro nozze gayPubblichiamo un interessante articolo di Lucetta Scaraffia, docente di Storia Contemporanea all’Universita degli Studi di Roma La Sapienza, in occasione della presa di posizione favorevole al matrimonio omosessuale da parte della rivista cattolica francese “Témoignage chrétien“. Ricordiamo che la rivista francese, proprio verso la fine del 2012 ha sofferto particolarmente la crisi economica, trasformandosi in un mensile, è probabile che questo annuncio politicamente corretto sia il classico abbandono della coerenza etica a beneficio di interessi mondani ed economici

 

di Lucetta Scaraffia, docente di Storia Contemporanea
da Osservatore Romano, 17 dicembre 2012

 

In varie occasioni «Témoignage chrétien» si è misurata in modo intelligente con i problemi della modernità senza allontanarsi dalla morale cattolica. Proprio per questo dispiace molto leggere sulla rivista francese una difesa senza condizioni dei “matrimoni” gay. Dispiace soprattutto perché, nel sostenere questa posizione, sono utilizzati gli argomenti più banali del politically correct, proprio quando in Francia è in corso una discussione vivace sulla loro legalizzazione, nella quale anche molti laici intervengono contro questa proposta con buoni argomenti giuridici, psicanalitici, filosofici.

Rifiutare agli omosessuali la possibilità di stabilire un contratto matrimoniale sarebbe, secondo la rivista, «aggiungere una discriminazione a quelle di cui già troppo spesso sono stati oggetto», e il progetto di legge in questione sarebbe un passo avanti nel riconoscimento dell’uguaglianza per gli omosessuali. Rimane quindi inespressa, ma logicamente deducibile, la minaccia che grava su quanti si oppongono a questi “matrimoni”: essi sarebbero contrari all’uguaglianza dei gay, quindi omofobi. Come se non si potesse difendere il diritto delle persone omosessuali a non essere sottoposti ad alcuna discriminazione e, al tempo stesso, essere contrari a concedere loro il matrimonio. Come se l’uguaglianza fra i cittadini dovesse essere ratificata dalla cancellazione di ogni differenza, negando in questo caso quella sessuale.

La storia e il diritto insegnano che l’uguaglianza fra i cittadini deve essere sempre commisurata alle differenze che la realtà stabilisce fra loro. I diritti dei bambini non sono quelli degli anziani, i diritti delle donne sono diversi per alcuni aspetti da quelli degli uomini. E questo non significa che non godano di una uguaglianza di fronte alla legge: un’uguaglianza che tiene conto delle possibilità differenti, ma non per questo meno preziosa e positiva.

Il matrimonio non è solo, come scrive «Témoignage chrétien», un contratto come tanti altri che può funzionare o meno, ma è il legame istituzionale alla base di una famiglia, è l’istituzione nata per proteggere e garantire la filiazione, stabilita in modo da determinare i diritti e i doveri che passano fra le generazioni. Dal momento che una coppia omosessuale non prevede la filiazione, è una realtà diversa. L’utopia dell’uguaglianza, che ha già portato tanti danni nel Novecento, si presenta così sotto nuove vesti, chiedendo di dichiarare uguali legami che non lo sono, e ricominciando, in questo modo, a illudere l’umanità come ha fatto in passato il socialismo reale. Dire che il matrimonio fra una donna e un uomo è uguale a quello fra due omosessuali costituisce, infatti, una negazione della verità che intacca una delle strutture base della società umana, la famiglia. Non si può fondare una società su queste basi senza pagare poi prezzi altissimi, come è già avvenuto in passato quando si è cercato di realizzare una totale uguaglianza economica  e sociale. Perché ripetere lo stesso errore per inseguire ancora una volta un’utopia ormai consunta?

Sulla possibilità degli omosessuali di allevare dei figli «Témoignage chrétien» non si esprime chiaramente: mentre da una parte afferma che «il diritto di un bambino di conoscere le proprie origini è un diritto essenziale», dall’altra fa capire che sarebbe favorevole all’adozione anche per le coppie gay, e invita a considerare i legami elettivi superiori a quelli di sangue. Chi scrive sulla rivista poi sembra non pensare alla sorte dei bambini destinati all’adozione di coppie omosessuali, già deprivati una volta dei  genitori, e poi costretti a vivere in una condizione che non offre loro neppure la simulazione di una famiglia naturale. Una doppia diversità pesante da sostenere.

Del resto sappiamo bene che il desiderio di avere un figlio del proprio sangue — o almeno del sangue di uno dei due membri della coppia — prevale nella realtà delle coppie omosessuali su quello di adozione, dando luogo a nuove forme di sfruttamento, come la compravendita dei gameti e l’utero in affitto. Se è senza dubbio vero che, oltre al problema dei matrimoni omosessuali, ci sono tanti altri «disordini antropologici» su cui intervenire, fra questi dobbiamo senza dubbio annoverare quelle forme di sfruttamento che le nuove biotecnologie suscitano e favoriscono, anche nella procreazione assistita. E sicuramente il riconoscimento dei matrimoni gay non farebbe che stimolarne altre. Non è così facile, come scrive la rivista, distinguere fra coniugalità, parentela e filiazione. E poi, perché farlo forzando il significato originario, antropologico e giuridico, della famiglia?

Linguisti e psicologi stanno mettendo in guardia la società dallo svuotare del significato proprio i termini: il concetto di famiglia non si può allargare a dismisura, senza distruggere l’identità di una delle istituzioni più importanti di una società, e altrettanto avviene per la definizione di madre e di padre. Perché non ascoltare la parola di chi segnala questi errori? Essere cattolici è molto di più che abbracciare una posizione culturale alla moda, e i responsabili di «Témoignage chrétien» — nonostante questo endorsement verso il matrimonio omosessuale — lo sanno bene.

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Le reazioni alla Cassazione: la sentenza non apre alle adozioni gay

FamigliaCome abbiamo già parlato ieri, la Prima sezione civile della Cassazione si è espressa affrontando una causa di affidamento tra un padre e una madre, la quale successivamente ha intrapreso una convivenza omosessuale con una donna. La Cassazione ha negato l’affidamento al padre, mostratosi violento, affidando il bambino alla madre e alla convivente, con la motivazione che si tratterebbe di un «mero pregiudizio» sostenere che tale contesto rechi uno svantaggio al bambino.

Abbiamo già mostrato che questa posizione, al di là del caso specifico, non è assolutamente un pregiudizio, ma un giudizio basato sull’esperienza e sulla letteratura scientifica in nostro possesso. In ogni caso la sentenza non è ideologica e non ha per nulla aperto all’adozione omosessuale, è sbagliata la strumentalizzazione della comunità LGBT. Interessante, in ogni caso, è stato osservare le reazioni a tale originario pronunciamento, che aiutano anche ad inquadrare meglio tutto il contesto.

 

Maria Gabriella Luccioli, presidente della Prima sezione civile della Cassazione che ha presieduto il collegio giudicante, ha invitato ad una «lettura pacata di questa sentenza. Il bambino era già stato affidato alla madre. Già la Corte d’appello aveva bollato come ‘generica’ la difesa sostenuta dal padre che non trovava riscontro alcuno. Qui poi non e’ in ballo l’adozione per le coppie gay ma la legittimità dell’affidamento ad una mamma che vive con un’altra donna. Una sentenza assolutamente rigorosa. Mi pare che sia stato fatto tanto rumore per nulla».

Pietro Zocconali, presidente dell’Associazione Nazionale Sociologi (ANS), ha affermato: «I bambini sono dotati di grande capacità di adattamento, tuttavia, sulla base della letteratura scientifica disponibile, che evidentemente la Corte di Cassazione disconosce, vivono meglio quando trascorrono l’intera infanzia con i loro padri e madri biologici. Il bambino riconosce se stesso e il proprio futuro rispecchiandosi e relazionandosi al maschile e al femminile di una madre e di un padre, biologici o adottivi. In assenza di questa diversità sessuale il benessere del bambino è a rischio, come dimostra la stragrande maggioranza dei dati raccolti dalla più validata letteratura psico-sociale a livello mondiale, debitamente richiamati dal sociologo Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori, e non da quattro sofismi artatamente richiamati dalla comunità gay e privi di riconoscimento scientifico».

Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio per i Diritti dei minori e e consulente della Commissione parlamentare per l’Infanzia, ha affermato: «Non si capisce di cosa parli la Cassazione quando afferma che non esistono certificazioni scientifiche attestanti l’inidoneità dei gay ad adottare. D’altro canto non è la prima volta che la Suprema Corte stupisce con sentenze scioccanti, come alcune relative alla violenza sulle donne. Un’equipe, guidata dal prof. Loren Marks della Louisiana State University ha messo a punto un’ennesima analisi, pubblicata sul Social Science Research, che attesta le notevoli differenze sussistenti tra figli adottati da coppie gay conviventi e figli naturali di coppie eterosessuali». Una analisi, quella citata da Marziale, che secondo lui stesso, valida «quanto rilevato da Mark Regnerus, professore di Sociologia presso l’Università di Austin, a capo di un’equipe che ha osservato che quanti sono cresciuti in famiglie omosessuali sono dalle 25 alle 40 volte più svantaggiati dei loro coetanei cresciuti in famiglie normali. Sono costretto a ripetere che non sono omofobo e che sono aperto ad ogni altro sacrosanto diritto civile per la comunità omosessuale, ma sulle adozioni non è dato transigere. Si tratta del diritto di ogni bambino ad avere una famiglia pedagogicamente completa delle figure di riferimento, maschile e femminile, e non già di appagare le voglie degli adulti che per avere figli devono ricorrere a metodi alternativi rispetto al naturale rapporto eterosessuale».

Carlo Cardia, docente presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma Tre, ha sottolineato che la «primordiale relazione tra genitori e figli è tutelata dalla Convenzione sui diritti umani e dalla nostra Carta Costituzionale. Per l’articolo 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 il “fanciullo ha diritto a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi”, mentre la Costituzione italiana oltre alla celebre formula dell’articolo 29 per la quale “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» aggiunge che «è dovere e diritto dei genitori mantenere ed educare i figli”». Questi principi sono stati definiti “pregiudizio” dalla Cassazione ed è «gravissimo che la sentenza della Cassazione mette da parte formulazioni legislative del più alto livello, internazionale e costituzionale, che parlano del diritto del bambino ad essere curato e allevato dai genitori». Ma la cosa più sconvolgente della pronuncia è «quando considera il bambino come soggetto manipolabile, attraverso sperimentazioni che sono fuori della realtà naturale, biologica e psichica, umana, e che non si sa bene quanto dovrebbero durare». Così il bambino viene «privato artificiosamente della doppia genitorialità, vede venir meno la dimensione umana e affettiva necessaria per la crescita e il suo armonico sviluppo, ed è lasciato in balia di esperienze, rapporti, relazioni umane, sostitutive e del tutto slegate rispetto alla naturalità del rapporto con il padre e la madre. Siamo di fronte ad una concezione che attinge il suo humus culturale alle forme illuministiche più primitive, nega ogni preziosità dell’esperienza umana, e ritiene che anche per la dimensione della paternità e maternità il genere umano possa ricominciare daccapo, perché l’educazione e la formazione del bambino può avvenire contro i parametri naturali e le garanzie che la famiglia presenta in ogni epoca e in tutti i Paesi del mondo. Si intravede in questo modo un profilo disumanizzante della tendenza a spezzare il legame del bambino rispetto ai genitori naturali, che comporta il declassamento dei suoi diritti proprio in quella fase più delicata dell’esistenza che condiziona per sempre la crescita successiva».

Su Avvenire si è osservato che la «scelta, si potrebbe sintetizzare, a favore del male minore e non una sentenza ideologica che “apre” alla possibilità di adozione da parte delle coppie gay. Anche perché i giudici, forse per evitare che le loro parole si trasformassero, come si dice, in “giurisprudenza”, si sono limitati a un accenno fuggevole in riferimento al caso specifico e non teorizzano in alcun modo la necessità di legiferare a favore dell’adozione da parte delle coppie omosessuali. Del tutto fuori strada quindi i commenti di chi ha subito colto l’occasione per gridare alla “modernità” e alla “lungimiranza” dei supremi giudici». Una posizione simile è stata presa in un secondo illuminante articolo.

Lucetta Scaraffia, docente di Storia Contemporanea all’Universita degli Studi di Roma La Sapienza, ha a sua volta puntualizzato che «pare evidente infatti che il bambino non sia stato affidato dal tribunale a una coppia gay, ma a sua madre, dopo che il padre, si può arguire dalle condizioni del primo affidamento, si era comportato in modo per lo meno discutibile nei confronti del figlio. In una situazione così drammatica e lacerata, in cui anche la madre evidentemente presenta vere difficoltà, è stato però scelto di affidarlo alla madre, come persona capace di educarlo. Insisto: alla madre, e non a una coppia gay che si spaccia come genitori del bambino. Certo, la convivenza sentimentale della madre con un’altra donna può provocare problemi al bambino, non è una condizione ottimale, ma qui mi sembra che le disgrazie si sommino alle disgrazie e questa di vivere con la madre possa essere considerata per questo bambino la soluzione meno negativa, il minore dei mali. Non si tratta quindi di riconoscimento di possibilità dei gay di allevare figli, né di adottarli: trovo assolutamente fuori posto tutte le polemiche sulla bontà di questa ipotetica situazione, in Italia non permessa né adombrata da nessuna legge, neppure da questa sentenza. L’alternativa mi sembra di capire che fosse affidare a qualche nucleo familiare non legato da legami di sangue il bambino, e questo sarebbe stato per lui, che presumibilmente ama sua madre con la quale è cresciuto finora, motivo di grave danno e dolore».

Cesare Mirabelli, giurista e presidente emerito della Corte Costituzionale, ha affermato: «La sentenza della Cassazione si riferisce a un caso specifico, non mi pare che dia enunciazioni assolutizzanti da estendere, per esempio, all’adozione. I titoli che stano uscendo sugli organi d’informazione vanno al di là del caso concreto». La Cassazione con questa sentenza chiede di verificare «non in astratto, ma in concreto la situazione del minore nel contesto di quel rapporto tra i genitori e della situazione di convivenza». Non è quindi il caso di parlare di «deriva ideologica», conclude il giurista, dal momento che è «legata al caso specifico e non intende dettare una disciplina, né apre all’adozione per le coppie omosessuali».

Giuseppe Di Mauro, presidente della Società italiana di pediatria preventiva e sociale (Sipps), ha affermato: «Non si tratta di pregiudizi. Da pediatra voglio affrontare la questione da un punto di vista medico e scientifico. Esistono studi internazionali, seri, in particolare negli Stati Uniti, che dimostrano statisticamente come una percentuale significativa di bambini adotatti da coppie gay siano più svantaggiati dal punto di vista psicosomatico e depressivo, con una maggior tendenza al suicidio. Il fatto che non ci siano in Italia, dove le adozioni da parte di coppie omosessuali sono vietate, non significa che si debbano ignorare studi autorevoli condotti in altri Paesi. Non parliamo di semplici sondaggi ma di lavori condotti con tutti i crismi. Da pediatra ritengo che il bambino deve incontrare stili educativi diversi, uomo-donna; dal suo punto di vista l’habitat migliore è quello di una famiglia composta da padre e madre uniti il più a lungo possibile. Perché quello che deve interessare è il bambino. Non c’entra niente il “diritto” dei genitori, non sono in discussione quelli legali o civili degli omosessuali, c’è di mezzo un’altra persona. Bisogna chiedersi: in queste situazioni il bambino è contento? Come medico mi interessa non solo la sua salute fisica ma anche quella psichica, etica e morale, il suo equilibrio affettivo».

Lorenza Violini, docente di diritto costituzionale all’Università statale di Milano, ha spiegato: ​«Il caso è certamente da ridimensionare. Non c’è possibilità di far derivare da questa sentenza una promozione delle adozioni da parte di coppie omosessuali. La giurisprudenza in materia è piuttosto consolidata, non è certo il primo caso di minore affidato alla madre o al padre, anche quando il genitore dopo la separazione abbia avviato una convivenza e una relazione omosessuale. Tecnicamente, siamo nel campo della giurisdizione minorile e le decisioni sono più simili ad atti meramente amministrativi che non giurisdizionali. E se è vero che qualsiasi sentenza è indissolubilmente legata al caso specifico che viene giudicato, ciò è ancora più vero nella vicenda di cui stiamo discutendo. Non possiamo prescindere dalla storia di questo bambino, quantomeno per come emerge dalle carte. Qui mi sembra di poter dire che sia stato valutato il benessere del minore da parte dei giudici d’appello e poi la Cassazione si è limitata a respingere il ricorso del padre trovando scarsamente argomentate le sue motivazioni». Certo, parlando di “pregiudizi”, «ci si lascia influenzare dal “politicamente corretto”, mettendo in secondo piano i principi generali del nostro ordinamento».

Come al solito appaiono dunque assolutamente fuori luogo le reazioni scomposte e la strumentalizzazione, anche questa volta, dei leader omosessuali, i quali parlano di “sentenza storica” e di “abbattimento dei pregiudizi”.

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Il “fanatismo estremista” di Dawkins e “le asinate” di Odifreddi…

Odifreddi e DawkinsA 83 anni è entrato nell’olimpo della scienza grazie alla scoperta del bosone che porta il suo nome, si chiama Peter Higgs

Il fisico inglese è certamente consapevole del fatto che una parte della sua fama è dovuta al soprannome popolare per cui il bosone di Higgs è noto, ovvero la “particella di Dio”. Nel recente dialogo con El Mundo  ha però ribadito il suo agnosticismo: «questo soprannome non mi piace, in primo luogo perché non sono credente, ma anche se lo fossi, non l’avrei così chiamato, perché incoraggia le persone a confondere la fisica con la teologia».

Higgs ha anche denigrato l’ateismo militante di alcuni suoi colleghi, come quello dell’ex zoologo Richard Dawkins e promotore di campagne contro la fede religiosa e contro i credenti. Al contrario, il ‘padre’ del bosone, ha rivelato di conoscere «molti scienziati e colleghi che sono credenti», e ritiene che scienza e la religione «possano essere compatibili, almeno fino a quando uno non si dogmatici»

In effetti, la posizione di Dawkins è una forma di fondamentalismo religioso: «Io non sono contro le persone religiose, a meno che non si comportino come gli estremisti fanatici come Dawkins Il problema è che concentra i suoi attacchi contro i fondamentalisti, ma chiaramente non tutti i credenti sono tali. In questo senso, credo che l’atteggiamento di Dawkins sia fondamentalista, dalla parte opposta».

Parlando del Richard Dawkins de noantri, Piergiorgio Odifreddi, segnaliamo  l’apertura delle candidature dell’Asino d’Oro 2012. Il prestigioso premio, vinto per ben due volte da Odifreddi come peggior divulgatore scientifico italiano, ha avuto una pausa di un paio di anni ma il prof. Paolo Diodati, fisico dell’Università di Perugia, ha annunciato: «Per i premi, siamo stati fermi due anni. La sosta era forse inevitabile e facilmente prevedibile. Le asinate di Odifreddi , spaziando dall’ottica  alla musica, dalle dimensioni e unità fisiche alla genetica, avevano fatto di Odifreddi l’irraggiungibile Mozart  della stecca».

Al momento sono stati candidati Dario Fo (per aver usato la “Biston betularia” come esempio di evoluzione) e Margherita Hack. Beh vinca il peggiore, a questo punto!

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Pregiudizio? E’ la scienza a dire di “no” all’adozione omosessuale

Famiglie In questi giorni la Prima sezione civile della Cassazione si è espressa affrontando una causa di affidamento tra un uomo di religione islamica E.T. S. che aveva avuto un figlio con una donna italiana I.B., residente a Brescia, che successivamente era andata a convivere con un’amica optando per una relazione omosessuale.

Il ricorso dell’islamico è stato respinto dalla Cassazione, la quale ha evidenziato che sostenere sia «dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale» è un «mero pregiudizio», dato che «non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza».

Molti hanno parlato di “sentenza storica”, anche se in realtà si tratta di un pronunciamento su un caso specifico assai controverso, difficilmente utilizzabile come precedente: i giudici hanno evitato di affidare il bambino ad un padre violento, preferendo non strapparlo dalla madre biologica (come avviene quasi sempre in questi casi), anche se essa convive con un’altra donna. In molti hanno ritenuto che la Cassazione abbia optato per il “male minore”, tuttavia stupisce come i giudici abbiano velocemente liquidato come “pregiudizio” una consistente mole di dati scientifici prodotti fino a oggi, oggettivamente contrari all’adozione verso le coppie omosessuali.

Prima di affrontare tutte le questioni in gioco, cosa che faremo nei prossimi giorni (i nostri lettori ci scuseranno se insisteremo su questo tema così “caldo”), abbiamo voluto partire da un dossier specifico, ancora abbozzato e in continuo aggiornamento, dove abbiamo iniziato ad elencare in ordine cronologico la letteratura scientifica e autorevoli pronunciamenti su questa tematica, i quali dovrebbero convincere che la difesa della famiglia naturale non si basa affatto su un “pregiudizio”, ma su un “giudizio” fondato su basi razionali medico-scientifiche.

 

Adozione agli omosessuali, gli studi scientifici dicono di “no”

 

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