Il senso del matrimonio? E’ nel procreare ed educare i figli

Famiglia L’argomento più ripetuto in favore del matrimonio fra persone dello stesso sesso è da sempre quello basato sull’uguaglianza,  lo ha ripetuto anche  Barak Obama per il suo secondo e ultimo discorso inaugurale alla Casa Bianca.

Secondo i teorici di tale tesi, il matrimonio è un’istituzione pubblica dalla quale le coppie dello stesso sesso sono ingiustamente escluse, tanto che si sprecano imbarazzanti paragoni con il razzismo subito in passato dai neri o dagli ebrei (avversione ai matrimoni interrazziali, ecc.). Creare un diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso, si sostiene, non altera per nulla l’istituzione stessa ma fornisce semplicemente eguale accesso a una classe di persone precedentemente escluse. La tesi scorre liscia e trova facilmente plausi tra i più impreparati e tra gli amanti di slogan di facile ascolto.

In realtà è sufficientemente facile mettere in crisi tale modalità di pensiero ricordando –come abbiamo già fatto provocatoriamente- che anche riconoscendo il matrimonio omosessuale rimarrebbero dei limiti, lasciando ingiustificatamente al di fuori qualche tipo di relazione. Con quale criterio, ci siamo domandati più volte, equiparare al matrimonio naturale le relazioni omosessuali e non quelle incestuose o poligamiche (con quale criterio, si potrebbe ancora chiedere,  limitare il matrimonio a due persone?), o anche quelle basate su semplici sentimenti di amicizia e co-abitazione? Se la teoria dell’uguaglianza è efficace dovrebbe valere per tutti, è evidente che se si vuole seguirla con coerenza, qualsiasi relazione dovrebbe essere equiparata al matrimonio tra uomo e donna, pena un’insopportabile discriminazione. E’ evidente, dunque, che ci sia qualcosa che non va in tale tesi.

A chiarire ulteriormente le cose arriva un saggio scritto a sei mani da Girgis Sherif, docente di filosofia presso la Princeton University, Robert George, del dipartimento di Scienze Politiche della stessa università, e da Ryan T. Anderson, dell’University of Notre Dame, e intitolato: What Is Marriage?: Man and Woman: A Defense (Encounter Books 2012). Il merito del volume è quello di smontare la tesi dell’uguaglianza attraverso la riflessione su cosa sia davvero il matrimonio, la strada più convincente ed efficace da percorrere, secondo noi. Il libro nasce in seguito ad uno studio pubblicato sull’Harvard Journal of Law & Public Policy, in cui viene dimostrato come i revisionisti del matrimonio sbagliano perché fondono l’essere sposati (il matrimonio) all’essere partner, che è una categoria ovviamente più ampia. Un errore che non è stato compiuto dai grandi pensatori antichi, non influenzati dal giudaismo o dalla cristianità, come Aristotele, Platone, Socrate, Musonio Rufo, Senofane e Plutarco, i quali distinguevano anch’essi il legame coniugale da ogni altro.

Appellandosi alla legge naturale spiegano innanzitutto che la difesa del matrimonio non richiede l’appello all’autorità religiosa. In seguito a ragionamenti dettagliati viene dunque mostrato e confermato che il matrimonio è il tipo di unione che ha il suo senso nella procreazione e l’educazione dei figli. «Solo questo», concludono, «può spiegare le sue caratteristiche essenziali, che lo rendono differente dalle altre relazioni».

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La verità sull’Inquisizione romana: meno oscura di quanto si pensi

InquisizioneNel 2012 la storica Marina Montesano dell’Università di Genova ha pubblicato il libro “Caccia alle streghe (Salerno Editrice 2012) con la quale ha evidenziato come il fenomeno dell’Inquisizione sia innanzitutto Rinascimentale e non si sviluppò nel Medioevo (che invece la vulgata definisce i “secoli bui dell’inquisizione”). Nell’intero periodo tra metà Quattrocento e metà Settecento le condanne alla pena capitale oscillano tra le 40mila e le 60mila e l’area geografia maggiormente coinvolta in questa pratica fu quella germanica e protestante. Al contrario, l’Inquisizione spagnola -cattolica, per capirci meglio- «ebbe in realtà un uso giudiziario della tortura assai moderato e un numero di vittime molto basso, se paragonato all’Europa centro-settentrionale».

In questi giorni un altro storico ha pubblicato un libro sull’argomento. Si tratta del britannico Christopher Black con il suo Storia dell’Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci 2013), recensito da Paolo Mieli sul Corriere della Sera. Mieli spiega: «Già Adriano Prosperi — con Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori e missionari (Einaudi) — anni fa aveva sfatato la tesi, tramandataci dalla storiografia anticlericale, secondo cui l’Inquisizione romana fu nient’altro che un “tribunale sanguinario”». Ora lo storico Black «documenta meticolosamente come le sentenze di morte furono “relativamente poche” se confrontate a quelle di quasi tutti gli altri tribunali italiani, la tortura “più rara”, e si diedero ai “rei” concrete opportunità di “patteggiamento della pena”».

Quella che riguarda l’Inquisizione, prosegue Black, non fu «una storia così macabra come le leggende e i pregiudizi possono suggerire», né si può dire che assomigli «alle immagini dedicate da Francisco Goya alle ultime fasi dell’Inquisizione spagnola». Dopo il Medioevo, nell’area in cui operava l’Inquisizione, la tortura era in larga parte «più selettiva, fisicamente meno aggressiva e meno raccapricciante e fantasiosa» di quella che è oggi praticata in molti Stati moderni, o di fatto accettata, attraverso «misure legislative straordinarie di estradizione che violano in vario modo le convenzioni internazionali e i diritti dei prigionieri».

Paolo Mieli spiega che anche John Tedeschi, in Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana (Vita e Pensiero), ha efficacemente raccontato come l’Inquisizione romana sia stata tutt’altro che «una caricatura di tribunale», un «tunnel degli orrori», un «labirinto giudiziario dal quale era impossibile uscire». E la storica Anne Schutte ha spiegato, con molti validi argomenti, che quel sistema inquisitoriale ha «offerto la migliore giustizia criminale possibile nell’Europa dell’età Moderna». La Schutte ha anche invitato a riflettere sul fatto che ci furono Papi, come Paolo III e Pio IV, i quali ebbero un approccio«morbido» a questi temi; che un discreto numero di vescovi tra il 1520 e il 1570 abbracciarono idee di «riforma», e altri si batterono per «porre un freno alla severità degli inquisitori e limitarne l’intrusione nelle credenze personali». Tra episcopato e inquisitori si ebbe, in altre parole, un rapporto più che dialettico.

Black afferma di condividere le argomentazioni di Adriano Prosperi e Simon Ditchfield secondo cui «l’Inquisizione romana, nonostante il suo lato oscuro, è stata anche una forza creativa ed educativa, che ha contribuito a definire e influenzare la cultura italiana almeno fino al XIX secolo».

Concordiamo comunque con il suo avvertimento:  «Correggendo le esagerazioni della “leggenda nera”, spero però di non alimentarne una “rosa” o “grigia”», rimane il fatto che il fenomeno in sé-come conclude Paolo Mieli, «non è certo idilliaco. Tuttavia ciò che più colpisce è che quello delle diverse inquisizioni appare come un mondo sfaccettato, incoerente, a tratti persino contraddittorio. Del quale restano impressi gli intrecci tra giustizia e politica, che si presentano assai simili a quelli tornati alla luce cinque secoli dopo».

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Il Time riconosce le vittorie del mondo pro-life

TimeA concentrare l’attenzione sull’aborto è stata la recente copertina del Time americano dedicata ai 40 anni della sentenza che ha legalizzato l’aborto negli Stati Uniti, la Roe Vs Wade. Si legge: «40 anni fa gli attivisti per il diritto all’aborto vinsero una battaglia epica con la Roe contro Wade. Perdono da allora». Nell’articolo su spiega perché abortire in America oggi è molto più complicato rispetto al 1973, anche grazie ai pro-life che stanno mettendo un limite dietro l’altro per tentare di difendere il diritto alla vita dei neo-concepiti, esseri umani non desiderati.

Ci si mette anche la scienza, si lamenta il Time, permettendo di ascoltare il battito del cuore di un bimbo e vedere quasi subito il suo corpo nella pancia, inoltre i nati molto prematuri oggi sopravvivono ponendo in seria questione la correttezza delle leggi. Il Nord Dakota e l’Arizona, ade esempio, oggi hanno soltanto una clinica che permette di abortire, il Texas ha appena avuto il via libera per tagliare i finanziamenti alle cliniche abortiste di Planned Parenthood e lo stesso ha fatto la contea nord del Michigan. Tra il 2011 e 2012 ben 135 leggi sono state emanate per limitare l’accesso all’aborto.

Secondo una recente indagine condotta su 4.000 studenti di scuole superiori e universitari, il 50% crede che l’aborto dovrebbe essere legale sempre o nella maggioranza dei casi, e il 50% crede che dovrebbe essere illegale in tutte le circostanze o eccetto nei casi di stupro, incesto, o per salvare la vita della madre.

Planned Parenthood, che ha ucciso un’altra donna in una sua clinica abortiva, ha annunciato di voler prendere le distanze dall’etichetta “pro-choice”, nel tentativo di attrarre il sostegno di persone che non si riconoscono nei gruppi “per la scelta” e “per la vita”. Tuttavia il problema più grande oggi per per il mondo pro choice (o pro death) è la fatica a rigenerare la leadership. Il trend dell’aborto in America è ormai in costante diminuzione, la strategia del mondo pro life non è trascinare di nuovo in tribunale la Roe Vs Wade, ma “renderla irrilevante”, come dice Charmaine Yoest, presidente di Americans United for Life. Come? Attraverso l’informazione corretta su cosa sia l’embrione, la difesa dell’obiezione di coscienza, l’appoggio della scienza e gli avvertimenti sulle pericolose conseguenze dell’aborto per la salute della donna.

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Lo stato vegetativo non è l’ultima parola, il caso di Daniela

Scrivere pcIl quotidiano Avvenire riporta la storia triste e lieta di Daniela, una quarantaseienne che sette anni fa ha subito un’emorragia cerebrale che l’ha paralizzata in tutto il corpo ad eccezione delle palpebre e di un pollice. La prima diagnosi fu di stato vegetativo irreversibile e Daniela veniva considerata da medici ed infermieri totalmente priva di conoscenza e senza speranza.

In realtà ella comprendeva tutto, ma non sapeva comunicarlo in quanto paralizzata. Il marito Luigi, con molta pazienza e amore, ha intuito che la donna era in realtà vigile ed ha escogitato un metodo per farla “parlare”: pronuncia l’alfabeto ed ella batte le palpebre quando arriva alla lettera desiderata; sembra una procedura lentissima, invece sono diventati talmente abili da essere quasi veloci e Daniela in questo modo ha potuto addirittura scrivere due fiabe per la sua bambina Camilla. Ora è diventata indipendente nello scrivere, perché dotata di un computer comandato da un raggio luminoso che manovra con il pollice.

Questo computer speciale è stato fornito da una dottoressa tedesca, Andrea Kübler, che studia questa “sindrome del chiavistello” e sostiene che il 40% dei pazienti definiti “in stato vegetativo irreversibile” potrebbero essere in realtà coscienti. La famiglia di Daniela ha trovato ben poco aiuto dagli ospedali e dallo Stato ma (e questa è la parte consolante della storia) trenta volontari si avvicendano nella casa per aiutare Daniela e la sua coraggiosa famiglia.

Sceglie la vita, Daniela, ma purtroppo ben diverso atteggiamento ha l’irlandese Marie Fleming, dal 1986 sulla sedia a rotelle per la sclerosi multipla, con grave disabilità e forti dolori.  Come se non bastasse, la signora ha per compagno tale Tom Curran, leader irlandese di “Exit”, società multinazionale per la diffusione del suicidio assistito. Curran ha ripetutamente dichiarato di essere disposto ad affrontare il carcere, se la loro battaglia legale sarà perdente, pur di aiutare Marie a morire e i due hanno  già presentato relativo ricorso alla Corte Suprema.

Infatti la Corte ordinaria irlandese ha espresso loro un diniego assoluto, non volendo creare precedenti o eccezioni: ogni diluizione del bando totale del suicidio assistito, ha affermato il giudice presidente della Corte, Nicholas Kearns, sarebbe come dare il via ad una corsa al suicidio da parte delle categorie deboli che potrebbero essere indotte a sentirsi un peso per la società.

Linda Gridelli

 

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Nuovi psicologi prendono posizione contro l’adozione gay

Famiglia Proseguono fortunatamente le prese di posizione degli esperti circa l’argomento caldo del momento, ovvero l’adozione per persone dello stesso sesso. Il pregio di questi professionisti è quello di concentrarsi sul benessere del bambino, al posto dell’inesistente diritto alla genitorialità della coppie omosessuali, escluse dalla natura stessa alla procreazione.

 

Così la psicologa Maria Rita Parsi, fondatrice dell’associazione “Movimento Bambino”, ha spiegato: «Per i bambini quel che vale è l’amore. Però è importante che le bambine trovino un punto di riferimento maschile e i maschietti uno femminile per sviluppare e indirizzare la loro ricerca di un partner quando saranno adulti. Crescere con genitori omosessuali senza avere punti di riferimento dell’altro sesso costituisce un limite». Chi è a favore dell’adozione per le coppie omosessuali intende volontariamente mettere il bambino in una condizione di svantaggio. Ha poi proseguito la psicologa: «cure e amore non sono patrimonio esclusivo delle coppie etero. Vero è, però, che quando si arriva alla fase del complesso edipico è importante avere una doppia realtà di riferimento, maschio e femmina. È fondamentale per sviluppare il cervello e la personalità. Perché i bambini abbiano uno sviluppo pieno e completo, i modelli di riferimento devono essere maschili e femminili. E non devono essere necessariamente il papà o la mamma, possono venir individuate figure esterne alla coppia. Ci tengo però a precisare una cosa. Il rapporto fondamentale e primario resta quello con la madre. Un rapporto prioritario che comincia nella vita prenatale, che è determinante al momento del parto, fondamentale nei primi attimi e nelle prime settimane di vita. Talmente importante ed essenziale che non può essere sostituito da nessun altro». La madre è fondamentale, ma numerosi studi mostrano anche l’insostuibilità della figura paterna per un corretto sviluppo del bambino.

 

Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile ed esperta di famiglia, ha a sua volta confermato«Fra i bisogni primari del bambino c’è l’amore, la cura, l’accudimento e questo può essere effettivamente dato sia dalla figura maschile sia da quella femminile, ma poi ha bisogno di essere accompagnato nella costruzione della propria identità. La negazione del valore della differenza sessuale – il corpo è un dato – provoca una gravissima interferenza nella costruzione dell’identità». Che magari non si vede nell’infanzia, ma esplode con la pubertà e la preadolescenza».  

 

Anna Oliverio Ferraris, docente di psicologia dell’età evolutiva alla Sapienza di Roma, è più pragmatica: «se a quattro anni un bambino scopre di avere due mamme o due papà» questo è un problema. Bisogna avere la sensibilità di seguire figli nei vari passaggi; è un po’ come per i bambini adottati, a un certo punto vogliono sapere la verità. Non si può negare che è una complicazione in più, che però si può fronteggiare se la società esterna mette da parte pregiudizi e razzismi, e se all’interno i genitori omosessuali evitano a loro volta di chiudersi nella difesa ideologica». Non si capisce però perché correre questo rischio, correndo questo azzardo non si cerca certamente l’interesse del bambino.

 

Rosa Rosnati, docente di Psicologia dell’adozione e dell’affido presso l’Università Cattolica di Milano ha spiegato che «crescere godendo della presenza di un padre e di una madre consente al bambino di conoscere dal vivo cosa vuol dire essere uomo e donna e, quindi, definire nel tempo una solida identità maschile o femminile. Allo stesso tempo il bambino potrà fare esperienza della relazione tra uomo e donna, capace di accogliere e valorizzare le differenze. Due genitori dello stesso sesso non possono fornire questa esperienza di base, quindi il bambino sarà gravato da un compito psichico aggiuntivo. Ai bambini adottati la società deve fornire condizioni ideali di crescita, non esporli ad altri fattori di rischio».

 

Domenico Simeone, psicologo, psicoterapeuta e professore associato di Pedagogia generale presso l’Università degli Studi di Macerata, ha affermato«Crescere con una madre e con un padre, quando è possibile, significa conoscere il valore educativo della differenza, significa inscrivere la parentalità in una rapporto che chiama in causa la corporeità, significa sperimentare una rete relazionale costruita sul riconoscimento dell’alterità. Il fenomeno delle coppie omoparentali è relativamente recente. Molti studi mettono in guardia sulle difficoltà che i bambini che crescono con persone dello stesso sesso possono incontrare. Dal punto di vista scientifico credo sia necessario approfondire le conoscenze del fenomeno in modo rigoroso, guardando la questione dal punto di vista del bambino e dei sui bisogni. Troppo spesso nel dibattito prevalgono i presunti “diritti” degli adulti e ci si dimentica di tutelare la crescita dei bambini.  La differenza di genere tra padre e madre e tra genitore e figlio costituisce l’elemento fondamentale per imparare ad amare, costruendo relazioni e accettando il limite che è in esse inscritto. Nel crogiuolo di tali relazioni i bambini vivono processi di identificazione e riconoscono le differenze, stabilendo relazioni significative. È la differenza che permette la triangolazione della relazione e il riconoscimento dell’alterità. Non è qui in discussione la capacità di cura che possono avere le coppie omogenitoriali quanto piuttosto l’articolazione delle relazioni che i figli possono stabilire».

 

Ricordiamo che in questa pagina abbiamo raccolto i giudizi più recenti espressi su queste tematiche da psicologi, giuristi e   filosofi. In questa pagina, infine, un elenco di studi scientifici contrari all’adozione per le persone dello stesso sesso.

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Dal multiverso all’abiogenesi, congetture confuse con teorie scientifiche

Universo e punto interrogativo 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Prima il “modello” matematico dei meteoriti panspermici, presentato a un convegno di astrofisici a Madrid; poi, la presenza (“forse”) di composti del carbonio su Marte, comunicata dalla Nasa; poi l’annuncio in un meeting di astronomi a Long Beach di tracce (“ancora incerte”) di un composto dell’azoto a un migliaio di anni luce da qui. Ieri le alghe spaziali, “forse”… Tutti i giorni escono da organi scientifici notizie insignificanti (e “forse” false), per essere rimbalzate nelle sezioni cosiddette scientifiche dei media, dove il titolo si ripete a caratteri cubitali: scoperti i precursori della vita!

L’interesse dei giornali si capisce: è quello di vendere copie. Quello della Nasa è chiaro: convincere il Congresso USA sull’orlo del fiscal cliff a mantenere gli stanziamenti. Ma quello degli scienziati? Formulo due congetture, non necessariamente alternative: la prima è che anch’essi devono promuovere le loro dispendiose strutture di ricerca ed i loro confortevoli simposi, tanto più quando per scarsità di scoperte vere non hanno applicazioni in vista con cui attirare il venture capital; l’altra è che non sanno più dire: “Non sappiamo”. Esito: disinformazione e indottrinamento di massa. Un martellante Minculpop.

In-dottrina-mento = “sistema per caricare nozioni dentro”. Un bel esempio sono le madrasse afghane, dove i talebani (in arabo, scolari) imparano a memoria, senza capire né tantomeno discutere, le nozioni di Corano che l’iman (il dotto) detta loro, con un meccanico travaso di ortodossia congelata da una memoria vecchia ad una nuova. Ma anche l’Occidente smaliziato è cosparso di madrasse, più efficienti di quelle islamiche perché usano nomi diversivi e metodi accattivanti: sono distribuite tra gli organi d’informazione (“in-formazione” = formare dentro) stampa, radio-tv e internet. Se una fonte “dotta” – un divulgatore free lance alla ricerca di scoop, un’associazione scientifica, un ente tecnologico o una gilda d’insegnanti – spaccia per evidenza scientifica ciò che è solo una fantasia, allora noi siamo oggetto d’indottrinamento.

Sull’home page dell’ANISN (Associazione Nazionale Insegnanti di Scienze Naturali) svetta il motto “Nulla ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione”: anche se è una banalità empirica ammiccante ad una teoria scientifica che non c’è ancora, il mantra è lì a proclamare che la spiegazione della vita già c’è e non vale la pena di cercarla. Stop. Ancor più perentoria è la pagina dell’ANISN dedicata all’abiogenesi: qui si legge che la formazione della vita nel nostro pianeta è un problema “ancora non completamente chiarito”. Ebbene, questa sarà anche la perifrasi politicamente corretta di denotare le questioni su cui la scienza non sa nulla, però intanto inculca l’idea che il problema è risolto, se non per qualche dettaglio. Il che è falso. Lo spettro delle congetture imbastite negli ultimi 70 anni (una dozzina, le principali) comprende le assunzioni più contraddittorie: da chi considera l’abiogenesi un evento improbabile ed irripetibile, a chi all’opposto la ritiene ineluttabile ed iscritta nella natura delle cose; da chi specula che tutte le forme di vita abbiano avuto origine “verticale” da un comune antenato, a chi invece postula un’era di forme prebiotiche con scambi genici “orizzontali”, da cui si sarebbero dipartiti i vari rami filogenetici. Insomma, la nostra conoscenza su come sia sorta la vita nella Terra è identica a quella di cui disponeva Hammurabi di Babilonia 4.000 anni fa, che la fondava su Marduk: zero.

Intendetemi, non voglio dire che sia illegittimo in scienza speculare: anzi, quest’attività che interessa direttamente la ricerca, è un motore dell’avanzamento scientifico. Però le congetture (i mezzi) non vanno confuse con i fatti o con le teorie scientifiche (i fini). La caratteristica di una teoria scientifica corroborata è di descrivere una fenomenologia (delimitata e semplificata) della Natura in maniera veridica, in quanto le sue assunzioni si sono dimostrate capaci di fornire predizioni validate dall’osservazione sperimentale, prima o poi anche confortate da applicazioni tecniche. Non esiste una procedura algoritmica (tipica delle macchine) per ideare teorie scientifiche, ma solo quell’attività unica ed irriducibile della mente che si chiama intuizione. L’attività di ricerca guidata dall’intuizione procede per tentativi ed errori, per durature sbandate interrotte da qualche raro, serendipico colpo di genio. “Nell’onesta ricerca della conoscenza tu devi molto spesso riconoscere la tua ignoranza per un periodo indefinito. […] La volontà di resistere in piedi davanti a questa necessità, anzi di apprezzarla come stimolo e ripartenza per una ricerca ulteriore, è una disposizione naturale ed indispensabile nella mente d’uno scienziato” (Erwin Schrödinger).

Il 30 dicembre si è spento Carl Woese, un microbiologo che ha cercato di liberare la sua disciplina dalle manette del meccanicismo e del riduzionismo. In riferimento alle storielle ad hoc che in biologia si amano raccontare per spiegare col senno di poi le proprietà degli organismi viventi, diceva: “Pensa alle spiegazioni della biologia evolutiva classica [il darwinismo] alla luce della ragione e della moderna evidenza empirica, prima di stendere un tappeto davanti ad esse. La maggior parte si mostreranno soltanto delle congetture che i biologi dell’800 usavano per stimolare i propri pensieri; ma le congetture, dopo essere state ripetute nel tempo, sono state nella nostra epoca scolpite nel marmo: i concetti moderni dell’evoluzione cellulare sono di fatto versioni pietrificate delle speculazioni del 19mo secolo. […] Puntare ad indovinare di per sé non è una bestemmia; bestemmia è mascherare ipotesi, congetture e altre cose simili come soluzioni finali o fatti, così violando le norme scientifiche”. Che impongono finalmente il setaccio di predizioni controllabili. Una scienza che non riconosce la propria ignoranza degenera nel suo opposto: il dogmatismo.

Non solo la biologia ha i suoi talebani a profanarla 70 volte al giorno. Il 15 gennaio scorso Michele Forastiere ha scritto un divertente un divertente articolo sulle invenzioni dei psicologi per spiegare il comportamento umano. In fisica le storielle ad hoc si chiamano modelli. La differenza tra i due tipi letterari sta soltanto nel linguaggio usato, che nelle storielle è una lingua parlata (ufficialmente, l’inglese), avente difetti e pregi degli idiomi: imprecisione e vaghezza, ma anche spalancamento alla fertilità della poesia; nei modelli è la matematica, con le sue virtù d’esattezza e compattezza, ma anche con la sua sterilità tautologica.

Una fabbrica che da 50 anni sforna sempre nuovi modelli alle riviste, più di quanto l’industria tedesca non faccia al mercato dell’auto, è la cosmologia. Per ripugnanza della metafisica apparentemente implicata dalla relatività generale – che dalla predizione dell’espansione intergalattica estrapola un inizio assoluto dell’Universo –, fin dalla prima metà del secolo scorso alcuni fisici furono comprensibilmente ansiosi di trovare una via d’uscita, capace di restituire il conforto di un Universo eterno. Il primo fu Einstein stesso, che tentò una correzione ad hoc della sua teoria, di cui si sarebbe pentito come del “più grande errore”, dopo che nel 1929 l’espansione fu osservata da Edwin Hubble col red-shift. Anche Fred Hoyle, che per spregio inventò il nomignolo “Big Bang”, non poteva accettare una teoria allusiva ad un’Agenzia soprannaturale. “A molti ciò appare assai soddisfacente – diceva – perchéqualcosa’ fuori della fisica può essere introdotto al tempo t = 0. Poi subito, con una manovra semantica, la parolaqualcosaviene sostituita dadio’, con l’eccezione che la prima lettera diviene maiuscola, ‘Dio’, quasi ad avvertirci che non possiamo portare la ricerca oltre”. Ma lui, novello Prometeo, dismise l’auto-avvertimento e portò avanti la ricerca, formulando nel 1948 il modello dello “stato stazionario”. Secondo tale congettura, l’Universo è sì in uno stato di espansione isotropica; però, man mano che le galassie si allontanano, nuova materia è creata (come? da che cosa? il modello tace) nei vuoti di spazio creati dalla recessione. Così, riavvolgendo all’indietro il film, materia ed energia ora scompaiono, la densità dell’Universo non diverge più al tempo t = 0 e… zac!, la singolarità iniziale scompare. Purtroppo, l’ipotesi dello stato stazionario non fu mai confermata da uno straccetto di misura: il suo fascino era puramente metafisico. La falsificazione decisiva al modello venne con due scoperte che corroborarono la teoria Standard, in aggiunta al red-shift: la nucleosintesi degli elementi leggeri e la radiazione di fondo.

Dal primo modello “cosmogonico” di Hoyle la creatività umana ne ha ideato in 65 anni 65 altri, culminati nei “multiversi” multi-livello. Un multiverso dovrebbe prendere due piccioni con una fava: eliminare la singolarità iniziale e spiegare la coincidenza (fine tuning) di una ventina di costanti fisiche, che fin dal Big Bang sembrano calibrate esattamente per permettere lo sviluppo della vita nell’Universo, dopo una decina di miliardi d’anni dal suo inizio. (La Terra ha ubbidito immediatamente). L’idea del multiverso è stata presa in prestito dal filosofo presocratico Democrito, “che ‘l mondo a caso pone” (Dante). Come mostro in un altro articolo, il fallimento scientifico della congettura neo-democritea è totale:
1) non ha partorito in oltre mezzo secolo una predizione verificabile;
2) se mai lo farà, non rispetterà il rasoio di Ockam;
3) non risolve il problema di un inizio assoluto anche del multiverso… e manco quello del fine tuning per cui l’idea fu esumata.

I multiversi, ha confessato un loro ideatore, Alex Vilenkin, non appartengono alla fisica, ma sono “esercizi di cosmologia metafisica”, buoni a riempir le pagine delle riviste peer review (ed il cv degli autori). Anche Stephen Hawking ha riconosciuto che la sua cosmogonia non è realistica, ma con lo scatto dell’idealista ha invocato l’inconoscibilità del noumeno: “Io non so cosa sia la realtà. Io condivido il punto di vista positivista che una teoria fisica è solo un modello matematico e non ha senso chiedersi se essa corrisponde alla realtà. Mi accontento che faccia delle predizioni osservabili”. Qui, però, non si contestano le concezioni filosofiche dei fisici, ma la scientificità di alcune loro congetture: dove sono le “predizioni osservabili”, se è lecita la domanda dopo 65 anni di studi pagati dai contribuenti?

C’è un altro clamoroso caso in fisica di abuso della matematica, talché la volatilità della seconda fa perdere alla prima ogni contatto con la realtà: la congettura delle stringhe (evolute in super-stringhe evolute in membrane evolventisi in super-membrane…). In 40 anni nessuna predizione: né la massa d’una particella elementare, né una costante di coupling, né il numero delle interazioni di “gauge”. Zero. Brian Greene, uno dei massimi studiosi di questa matematica non ancora formalizzata, ha detto: “Non chiedetemi se ci credo. La mia risposta sarebbe quella di 10 anni fa: no. E questo perché io credo solo a teorie che possono fare predizioni controllabili”. Si stima che più di 10.000 anni-uomo siano stati buttati ad esplorare la congettura. Può essere utile il confronto con la dozzina bastata ad elaborare ognuna delle 3 principali teorie della fisica moderna: l’elettromagnetismo, la relatività e la meccanica quantistica.

Il fatto è che la matematica è come il cappello d’un illusionista: ne esce solo ciò che ci metti dentro. Un modello, da solo, non può spiegare nulla più di ciò che l’autore vi ha postulato. Come la prestidigitazione, la matematica usa procedure precisissime e ignote ai più, che richiamano la magia; ma solo i bambini ci cascano, perché credono alla magia. Tantomeno la matematica può portare all’esistenza fisica un pensiero, o un sistema logico-formale di pensieri. “Che cosa ha soffiato il fuoco sulle mie equazioni dando loro un Universo da descrivere?”, s’interrogava un tempo Hawking, con modestia. Poi, a forza di matematizzare e astrarre, ha violato una regola aurea del metodo scientifico – “La matematica è al termine della filosofia naturale, ma non la deve generare” (Francesco Bacone) – ed è cascato nella stregoneria delle “sue” equazioni che “fanno apparire l’Universo dal nulla”…, divenendo una star degli idola theatri.

L’uomo di scienza postula l’esistenza di una realtà indipendente (la “Natura”) che si prefigge di spiegare; assegna al linguaggio logico e matematico il suo ruolo descrittivo e predittivo; osserva, intuisce, congettura; confronta le predizioni delle sue congetture con nuove osservazioni; e solo se c’è accordo conserva le congetture. Quando nel suo racconto non ci sono predizioni osservabili o non c’è accordo tra predizioni ed empiria, abbandona il racconto e ne cerca un altro. Perché la Natura sta come roccia indipendente dalla fantasia e, a differenza della letteratura, la scienza ha il compito di descriverla oggettivamente. Questa è la scienza moderna secondo i maestri fondatori: “Non più cortigiana, strumento di voluttà, né serva, strumento di guadagno; ma sposa legittima, rispettata e rispettabile, feconda di nobile prole, di vantaggi reali e di oneste delizie” (F. Bacone).

Quanta parte della ricerca contemporanea rientra nei canoni della scienza moderna?

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La Francia scopre la pericolosità dei contraccettivi ormonali

Pillola del giorno dopoVacillano le certezze sulla pillola anticoncezionale in Francia, spesso indicata come esempio del progresso contro le donne arretrate italiane, restie a ricorrere alla contraccezione. Eppure il ministro della salute, Marisol Touraine, ha invitato l’Unione europea a prendere provvedimenti per limitare l’uso delle pillole contraccettive di terza e quarta generazione.

Come riferisce il British Medical Journal, ai medici francesi è intanto stato chiesto di limitare la prescrizione di questi medicinali e dal 31 marzo non saranno più rimborsati dal Servizio sanitario nazionale. I contraccettivi ormonali sono infatti da tempo accusati di provocare embolie polmonari, trombosi gravi e decessi  (ad esempio leggere qui  e qui).

La questione è esplosa in questi giorni in Francia, dopo la denuncia nei confronti dell’azienda produttrice Bayer da parte di una ragazza venticinquenne, Marion Larat, ora disabile per un ictus che lei attribuisce al contraccettivo. Anche il quotidiano Le Monde ha narrato storie di malattia e morte, accusando la Bayer di non avere parlato degli effetti collaterali degli anticoncezionali con sufficiente enfasi. E’ stata riportata, ad esempio, la testimonianza di un’infermiera sopravvissuta alla pillola anticoncezionale, la quale spiega: «Il problema è che i medici interpellati non vogliono “parlare pubblicamente”, perché se attaccano la pillola vengono accusati di essere contro gli anticoncezionali, ci viene detto poi che evoca un altro tema, dicono che così si alzano gli aborti».

Ilsussidiario.net ha pubblicato un’intervista a Monty Matterson, il padre della prima donna morta a causa della RU486, il quale ha spiegato che anche la pillola EllaOne -oltre a poter essere abortiva- ha le stesse proprietà, ovvero «la facoltà di creare disordini al sistema immunitario, provocando rischi elevati di salute alla donna». I farmaci anticoncezionali, come si spiega sul Corriere della Sera, esistono fin dagli anni Sessanta, dopo le pillole di seconda generazione, sono arrivate quelle di terza e di quarta, sempre propagandate come “ancora più sicure” delle precedenti. Ma le ricerche scientifiche dimostrano che non è proprio così: diversi studi hanno denunciato un aumento del rischio di gravi danni per le donne, allarmi però rimasti inascoltati.

Chi è davvero a favore della salute della donna non può che ricordare l’esistenza dei metodi naturali di regolazione della fertilità, completamente innocui, che permettono anche uno stile di vita positivo e responsabilizzante nell’esercizio della sessualità. Metodi che, come ha spiegato Giovanni Paolo II, rispettano «la verità totale dell’incontro coniugale nella sua dimensione unitiva e procreativa, quale è sapientamente regolata dalla natura stessa nei suoi ritmi biologici». Oggi, grazie alla tecnologia moderna, possono anche ritenersi fortemente sicuri ed efficaci.

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Camille Paglia, la blasfemia nell’arte e l’importanza della religione

Camille PagliaL’antropologa e sociologa Camille Paglia, docente presso l’Università delle arti di Philadelphia ha pubblicato recentemente un articolo molto interessante ripreso dal quotidiano Repubblica.

La femminista americana ha analizzato la storia dell’arte e della cultura e il rapporto con loro avuto dai due classici schieramenti politici-filosofici americani: progressisti e conservatori. Ha spiegato che purtroppo «il protestantesimo ha una storia di iconoclastia: durante la Riforma nel nord Europa, le statue delle chiese e le vetrate colorate furono  sistematicamente distrutte in quanto idolatriche. Rispetto al cattolicesimo romano, così ricco d’arte, il protestantesimo americano tradizionale è visivamente impoverito. Le sue immagini di Gesù come buon pastore sono spesso artisticamente così deboli da rasentare il kitsch».

Se da una parte, però «i conservatori cristiani non permetterebbero mai di esibire nelle scuole pubbliche gli eroici nudi dell’arte occidentale», dall’altra l’antropologa americana ha osservato che «una quantità enorme della migliore arte occidentale è stata intensamente religiosa e i progressisti, i quali hanno voluto che si togliessero i presepi dalle piazze, obietterebbero sull’istruzione dottrinale necessaria per presentare l’iconografia cristiana nella scuola pubblica. Per  questo l’educazione artistica viene ostacolata negli Stati Uniti, vittima del fuoco incrociato della politica».

«Benché io sia atea», ha concluso, «rispetto tutte le religioni e le prendo seriamente, come vasti sistemi di simboli che contengono una verità profonda sull’esistenza umana. Anche se nel suo nome si è fatto del male, la religione è stata una forza enorme di civilizzazione nella storia del mondo». Apprezziamo il riconoscimento, la verità di questa affermazione viene mostrata ancora una volta nella recente decisione della Segreteria Generale del “Sistema dell’Integrazione Centroamericana” (S.I.C.A.) di accogliere la Santa Sede come osservatore Extra-Regionale a motivo del contributo che la Chiesa Cattolica offre allo sviluppo dei settori sociali, culturali ed educativi, nonché dei diritti umani e della sicurezza democratica. Rispetto al male che si sarebbe fatto in nome della religione, per quanto riguarda il cristianesimo -come ha spiegato il card. Ratzinger- «tutti i peccati dei cristiani nella storia non derivano dalla loro fede nel Cielo, ma dal fatto che non credono abbastanza nel Cielo», ovvero l’utilizzo abusivo della fede cristiana è in evidente contrasto con la sua vera natura e con il messaggio di Gesù, il cristiano che commette violenza in nome della sua fede è anticristiano.

Condannando probabilmente l'”opera” del laicista Andres Serrano, il crocifisso immerso nel suo piscio, oppure la rana crocifissa di Martin Kippenberger o l’autoerotismo con il crocifisso nel film di Ulrich Seidl, l’antropologa ha affermato: «schernire la religione è una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione rachitica. Eppure, questa posizione cinica è diventata di rigore nel mondo artistico, un ulteriore motivo della banale superficialità di tanta arte contemporanea a cui non è rimasta nessuna grande idea».

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Fecondazione in vitro: patologie gravi per madre e figlio

Fecondazione assistita A causa della fecondazione in vitro, oltre all’incremento di uccisione di embrioni umani scartati che tale pratica comporta, la maternità è rimandata sempre più tardi, aumentando i rischi di patologie gravi e togliendo il diritto ai bambini di avere due genitori in grado di badare a lui con tutte le loro forze, senza doversi occupare precocemente della loro vecchiaia.

Lo ha spiegato un figlio cresciuto con genitori anziani: «c’è da considerare cosa significhi essere adolescenti con genitori ultrasessantenni, incapaci di capire i loro figlisentendosi continuamente definire “bastone della mia vecchiaia”. C’è soprattutto da considerare cosa significhi cercare di costruirsi un futuro con genitori ormai anziani e bisognosi di assistenza, barcamenandosi tra pannoloni, medicine e colloqui di lavoro; tra orari d’ufficio e improvvise chiamate da casa per imprevisti legati all’età».

Rispetto ai rischi alla salute che le donne corrono volendo partorire anche superati gli “anta”, ha preso posizione il professor Antonio Chiantera, segretario nazionale dell’Associazione dei ginecologi (AOGOI), affermando: «Quella di non fare figli quando si è veramente in età fertile è una scelta che giudico egoistica […]. Nella donna l’età di massima fertilità è tra i 18 e i 28 anni, poi lentamente decresce fino a quando superata la soglia dei 40 anni la capacità riproduttiva diventa decisamente scarsa. A meno che, appunto, non si congelino prima in una banca gli ovociti. Ma i figli sarebbe meglio farli prima. Anche per non incorrere in pericoli per la salute», come i «gravi rischi di contrarre l’endometriosi, che è una malattia seria perché provoca ripetuti sanguinamenti, cistiti e la necessità di intervenire più volte anche chirurgicamente». Secondo Chiantera può essere giustificato congelare gli ovuli «per le donne con neoplasie che richiedono cicli chemioterapici o di radioterapia, ma quando la motivazione è egoistica e non sanitaria è giusto che ci si faccia carico in proprio delle spese». E invece, «finisce quasi sempre per pagare il servizio pubblico e non è proprio giusto».

Anche Carlo Bellieni,  neonatologo dell’Università di Siena, ha spiegato che la prima prevenzione alla fertilità è «fare i figli nell’epoca della vita più propizia», e comunque il problema non si risolve con la fecondazione artificiale, dato che -come riportato sull’ultimo numero della rivista Family Physician, organo del Royal Australian College of General Practitioners- le possibilità di impianto dell’embrione sono comunque basse: il 35-40 per cento se la donna ha meno di 35 anni e il 15 per cento al di sopra di quella età. Concludendo: «E’ paradossale aprire alla fecondazione in vitro e non far nulla in quanto a prevenzione della sterilità. E’ uno sbilanciamento che non sconfigge la sterilità dilagante».

La stessa tecnica di Fecondazione in vitro, inoltre, oltre ad essere poco efficace è portatrice di un aumento di rischi per la salute della donna. Un recente studio, pubblicato su British Medical Journal, ha mostrato un aumentato rischio di embolia polmonare (blocco della principale arteria del polmone) e di tromboembolia venosa (coaguli di sangue) durante il primo trimestre di una gravidanza ottenuta per fecondazione artificiale. La rivista scientifica «HEC Forum», in seguito ad un altro studio, è arrivata recentemente a questa conclusione«La Fivet ha strette regole che lasciano le donne fisicamente ed emotivamente esauste. Il trattamento di Fiv può avere un tremendo impatto sulle donne».

Studi precedenti hanno inoltre dimostrato la pericolosità anche per i bambini: una probabilità di malformazioni congenite pari a 1.25 volte maggiore per chi nasce tramite fecondazione rispetto a chi nasce naturalmente. A risultati simili è arrivato anche uno studio su New England Journal of Medicine, uno pubblicato su Pediatrics e uno su Minerva Pediatrica

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La centralità dell’uomo e la discontinuità con l’animale

Evoluzione FacchiniPoco prima di Natale, il quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, ha pubblicato un estratto del nuovo libro dell’antropologo e paleontologo Fiorenzo Facchini, professore emerito di Antropologia dell’Università di Bologna, intitolato: Evoluzione. Cinque questioni nel dibattito attuale (Jaca Book 2012).

Facchini inquadra inizialmente la questione-chiave riconoscendo che «quando si affronta il tema della evoluzione ciò che riguarda l’uomo assume sempre un particolare interesse. Ammettere che anche noi abbiamo una storia che ci ha preceduti non come uomini, ma come membri di un raggruppamento animale suscita non di rado qualche difficoltà. Nello stesso tempo riconoscere le origini animali dell’uomo per taluni ha come conseguenza ovvia che siamo animali come gli altri», tanto che c’è «una fitta schiera di antropologi, zoologi ed etologi che accentuano la condizione biologica che accomuna l’uomo con gli animali e vogliono mettere in ombra o non riconoscere la specificità umana».

L’uomo è una scimmia più intelligente, si legge o si sente dire frequentemente dalla vulgata riduzionista. »Si ha l’impressione», commenta Facchini, «che alcuni abbiano quasi pudore a riconoscersi uomini, differenti dagli animali, il timore di cadere in un sorta di etnocentrismo». Sembra quasi che l’uomo debba scusarsi di essere uomo, notava G.G. Simpson, ma «questo atteggiamento appare più ideologico che scientifico, si ispira a una filosofia decisamente riduzionista». Anche Darwin stesso ha parlato di continuità e gradualità evolutiva come ipotesi dell’esistenza di differenza soltanto di grado fra l’uomo e l’animale, ma «questa affermazione appare più propriamente di carattere filosofico, nella linea del naturalismo riduzionistico e non tiene adeguatamente conto di ciò che è specifico del comportamento umano, che appare qualitativamente diverso, perché caratterizzato dalla cultura, pur nella continuità biologica tra ominide non umano e uomo».

L’estratto del libro prosegue indicando l’attuale datazione dell’apparizione dell’uomo moderno o Homo sapiens (in Africa circa 150.000 anni fa), sottolineando che «è soprattutto sulle discontinuità che può essere sviluppato il discorso per cogliere l’identità dell’uomo come specie. Esse riguardano essenzialmente il comportamento che manifesta aspetti e interessi che non sono più di ordine biologico. La maggiore discontinuità nel comportamento dell’uomo rispetto all’animale viene ritenuta da molti il linguaggio simbolico», e «le manifestazioni dell’arte e le pratiche funerarie», nelle quali «si dimostra chiaramente una discontinuità rispetto al mondo animale. Esse non appartengono propriamente alla sfera biologica. La cultura si caratterizza come capacità di progetto e di simbolo, entrambi rivelatori di intelligenza astrattiva, di coscienza e autodeterminazione». Altri esempi possono essere le manifestazioni che rivelano senso estetico o religioso, i prodotti della tecnologia strumentale e della organizzazione del territorio, direttamente legati a strategie di sussistenza, i quali «rivelano intelligenza astrattiva nel prefigurare lo strumento che si vuole ottenere proiettandolo nel futuro e, quindi, capacità di progetto.»

La discontinuità culturale, inoltre, si documenta grazie al «simbolismo di ordine spirituale, svincolati da necessità di ordine biologico, espressioni di una vita sociale più intensa e di interessi extrabiologici, come quelli riferibili alla sfera dell’arte e della religione». L’adattamento culturale, oltre a quello biologico è proprio soltanto dell’uomo e indica «la capacità progettuale e innovativa che caratterizza il comportamento umano. Nel caso dell’uomo la differenza è rappresentata dal fatto che non è un comportamento stereotipo, dettato dal Dna o dall’imprinting o da altri fattori non intenzionali, ma è un comportamento pensato e trasmesso anche per via non parentale, che può anche andare contro l’interesse dell’individuo o della specie. L’uomo ha la capacità di intervenire nei processi di adattamento modificando sia l’ambiente per adattarlo a sé, sia il proprio comportamento per adattarsi all’ambiente. Di conseguenza l’uomo ha la possibilità di modificare e anche contrastare intenzionalmente la selezione naturale operata dall’ambiente. Ciò rappresenta un caso unico nella natura».

In questo senso, si conclude, «la centralità che la teoria darwiniana toglie all’uomo, considerandolo come un evento fortuito, gli viene restituita dalla sua unicità nella responsabilità che ha nella gestione dell’ambiente. La discontinuità culturale e la discontinuità ecologica suggeriscono una discontinuità di altro ordine, di carattere ontologico, sul piano dell’essere, che invece non viene ammessa in una concezione riduzionista, secondo la quale lo psichismo riflesso e la coscienza sono ricondotte all’attività neuronale e ai geni. A nostro modo di vedere le differenze espresse dal comportamento culturale non sono della stessa natura di quelle fisiche, cioè quantitative, ma qualitative, perché si collocano a un livello diverso da quello biologico e implicano proprietà che non sono riconducibili a quelle di ordine fisico, chimico o biologico. L’autocoscienza, come capacità di riconoscere sé e gli altri, come consapevolezza di esistere è propria dell’uomo. Nell’autocoscienza c’è la capacità di abbracciare il passato e il futuro, oltre al presente, non in termini deterministici. L’uomo sa e sa di conoscere, pensa e sa di pensare». Il pensiero, la coscienza, la libertà, il senso morale e religioso esprimono un’attività intrinsecamente non determinata da proprietà biologiche e sono esclusivi dell’uomo.

«Certamente c’è un rapporto o interfaccia tra sfera biologica e sfera mentale, tra sentimenti e reazioni sul piano biologico neuronale, tra comportamenti e stimolazioni esterne», afferma Facchini, ma «il divario ontologico non comporta separazione, ma distinzione sul piano dell’essere, con interazione o interfaccia tra sfera biologica e sfera mentale». Il pensiero di Facchini risulta così essere in linea con quello del genetista Theodosius Dobzhansky, coautore della sintesi moderna, il quale ha affermato: «La diversità degli organismi diviene ragionevole e comprensibile se il Creatore ha creato il mondo vivente non per capriccio, ma attraverso l’evoluzione spinta dalla selezione naturale. E’ sbagliato ritenere creazione ed evoluzione come alternative che si escludono a vicenda. Io sono un creazionista e un evoluzionista. Evoluzione è il modo con cui Dio e Natura creano» (T. Dobzhansky, Nothin in Biology Makes Sense except in the Light of Evolution, The American Biology Teacher, 1973, p.129).

 

Qui sotto la presentazione del libro al Meeting di Comunione e Liberazione nell’agosto 2012

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