Eutanasia: il dolore fisico si può annullare

Vivere fino alla fineSe la legalizzazione dell’aborto è giustificata con la falsa questione della salute materna e dell’aborto clandestino, se l’adozione per le coppie di omosessuali è sostenuta con la ridicola obiezione che sarebbe “meglio di un orfanotrofio”, la legalizzazione dell’eutanasia è sostenuta in quanto -dicono- sarebbe più dignitoso morire così piuttosto che tra gli spasmi del dolore.

Utile a tal proposito l’uscita del libro del dott. Ferdinando Cancelli, specialista in cure palliative, intitolato Vivere fino alla fine. Accompagnamento e cura della persona morente (Lindau 2012). Affrontando la morte da un punto di vista strettamente clinico -come si legge nella prefazione affidata a Lucetta Scaraffia– ha un effetto primario: quello di allontanare da chi lo legge la paura della morte. Cancelli conosce la morte, la incontra con grande frequenza nella sua pratica medica e ne ha tratto non solo considerazioni mediche, ma riflessioni profonde fondate su una vera esperienza.

Nel volume vengono affrontati uno per uno tutti i problemi più complicati e disputati dalla politica e dalla medicina divulgativa, con risposte semplici che servono a dissipare molte paure. Ma anche a farci sapere ciò che spesso ignoriamo, come il fatto che la morfina costa poco e serve a rendere sopportabile il dolore senza accelerare la morte del paziente. E quando neppure la morfina può far tacere il dolore, c’è la possibilità di far entrare il paziente – possibilmente con il suo consenso – in coma farmacologico per evitargli sofferenze inutili e difficilmente sopportabili. Come ha giustamente deciso anche il card. Carlo Maria Martini al termine della sua vita, questione che è invece stata ignobilmente strumentalizzata dal suo sedicente figlio spirituale, Vito Mancuso, per strizzare l’occhiolino all’eutanasia.

I rimedi al dolore dunque ci sono, e la necessità di chiedere la morte per sfuggire a un dolore insostenibile esiste solo nei quesiti delle inchieste che vogliono far passare tutti come sostenitori dell’eutanasia. Non a caso i Radicali non hanno mai parlato di medicina palliativa e invece continuano a fare i loro sondaggi sull’eutanasia domandando se si preferisce morire piuttosto che soffrire dolori insopportabili. E’ ovvio il risultato, chiunque preferirebbe morire. Ma se i dolori sono trattabili, quasi tutti preferiscono vivere sino alla fine naturale, come spiega il dott. Cancelli. Non è vero che la vita ha senso solo se si è sani e autonomi: le esperienze del medico rivelano che fino agli ultimi istanti l’uomo è un essere vivente, e in questo incontro con la morte «si manifestano dei fuochi d’artificio della vita».

D’altra parte lo ha testimoniato anche l’oncologo Umberto Veronesi: «Nessuno mi ha mai chiesto di agevolare la sua morte. Ho posto da sempre un’attenzione estrema al controllo del dolore e, per mia fortuna, nessuno dei miei pazienti si è mai trovato in una condizione di sofferenza tale da chiedere di accelerare la sua fine». Non è il dolore ad essere un problema, ma semmai –come dicono gli studi– la depressione e la disperazione ad essere i predittori di richieste di eutanasia, problemi reali ma facilmente affrontabili.

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Il disastroso fallimento del ’68 e della rivoluzione sessuale

SessantottoA posteriori possiamo tranquillamente dire che le rivoluzioni sessantottine sono chiaramente fallite: non in quanto non si sono realizzate, ma proprio perché hanno acquisito il loro posto centrale nella mentalità degli europei.

La colpa più grave delle sciocche ribellioni dei sessantottini è certamente quella di aver creato degli eterni bambini, incapaci di educare e di essere testimoni credibili per le generazioni future (compresa la nostra). Ribellione all’autorità, libertinismo, laicismo, antiproibizionismo ecc. non hanno liberato l’uomo, lo hanno reso solo più solo, più schiavo dei suoi vizi e più impaurito della realtà.

Antonio Polito, editorialista de Il Corriere della Sera, nel suo ultimo libro Contro i papà (Rizzoli 2012) ha proprio spiegato come la generazione che è passata dal ’68 abbia rovinato i giovani di oggi: «i nostri figli non hanno più trovato in noi qualcuno cui opporsi, uno stimolo a crescere, a rendersi indipendenti. Dal 6 politico all’università facile, fino al lavoro come diritto. Siamo la prima generazione che ha disobbedito ai nostri padri per obbedire ai nostri figli. Ci siamo liberati al padre, abbiamo fatto la rivoluzione contro la sua autorità, e ora coi nostri figli facciamo appello al negoziato. Abbiamo trasmesso loro il diritto al benessere, senza nessun dovere connesso». Così, spiega Polito, il problema dei figli bamboccioni (niente studio né lavoro) è «un problema culturale», per questo invita i genitori di oggi a comportarsi all’opposto dei loro padri rivoluzionari: «sfidate i figli, opponetevi se necessario, ma non fare il muro di gomma. Con i figli occorre starci, starci e ancora starci».

Antonio Scurati si concentra sulla rivoluzione sessuale anche se non vuole nemmeno definirla “rivoluzione”, ha spiegato su La Stampa: «Di tutte le rivoluzioni mancate – o fallite – dalla sinistra sedicente rivoluzionaria, la rivoluzione sessuale è stata la più fallimentare. Sul terreno ha lasciato quasi solo rovine: tra le più ingombranti, e irremovibili, spiccano la crisi della famiglia (non il suo superamento, si badi bene) e la mastodontica mole sociale della frustrazione sessuale». Il dilagare della pornografia, al maschile e al femminile lo dimostra (il 30% del traffico in rete è destinato al porno). Continua lo scrittore: «Siamo tutti, personaggi di finzione e persone reali, parimenti prigionieri dell’ideologia del sesso. In un pomeriggio di noia abbiamo spostato sul sesso l’intera posta metafisica che il secolo precedente, quello romantico, aveva giocato sull’amore, ultima religione dell’Occidente».

Antonio Socci ha ripreso questo articolo, affermando a sua volta: «Il sesso parlato, immaginato, guardato, venduto, comprato, praticato, modulato in mille varianti – diventato ossessione di massa e, con la rete, prodotto di vasto consumo – sembra sia l’unica rivoluzione vera scaturita dal ’68 “desiderante”». E ancora: «la marxistissima generazione del ’68 ha dato un decisivo contributo alla più capitalistica e borghese delle rivoluzioni, erigendo il desiderio a pretesa assoluta e così spianando la strada a un’industria della sessualità e del suo immaginario che rende merce i rapporti affettivi e pure i corpi. La famosa e celebrata liberazione sessuale del Novecento si è risolta in realtà in una nuova alienazione, in una servitù volontaria di massa e in una pratica di controllo dei corpi e delle menti fra le più pervasive».

Gli ideatori della rivoluzione sessuale del ’68 avevano un chiaro intento di sopprimere la vecchia morale sessuale giudaico-cristiana, considerata repressiva, sessuofoba e arretrata. Tuttavia Socci, conclude la sua riflessione con una bella apertura: «Io che professo tutti gli insegnamenti morali della Chiesa cattolica, che li ritengo anzi liberanti e pieni di sapienza, e che sento come una violenza psicologica e spirituale, soprattutto per i più giovani, questa sessuomania dilagante, questa aggressione pornografica onnipresente, voglio dire che anche la cosiddetta rivoluzione sessuale ci parla dell’inestirpabile desiderio di Dio. E della sua mancanza. Del doloroso vuoto di Lui che ci risucchia nel suo gorgo, anche attraverso la carne».

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La vera guerra è tra scienza e scientismo (II° parte)


 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Nella prima parte abbiamo visto che la dicotomia non riguarda la scienza e la fede, ma la scienza e l’ideologia riduzionista. Lo scientismo è, anzitutto, un’ideologia, nel senso che pretende, a priori, di essere capace di comprendere tutta la realtà, anche ciò che è sempre stato considerato inattingibile, non certo perché in se stesso inintelleggibile, ma perché superiore alla capacità umana. Inintelleggibile, cioè, per la ragione, pur sempre limitata, con la r minuscola, dell’uomo.

Scientismo è, come sostiene John Duprè, filosofo della scienza e direttore del Centre for Genomics in Society, affermare che la verità sulla materia fisica sia la verità su tutto; credere, e il verbo non è utilizzato a sproposito, che ad esempio l’evoluzionismo sia in grado di spiegare qualsiasi cosa; affermare di poter “applicare un’idea scientifica di successo ben oltre il suo dominio originario, e in genere con sempre minor successo man mano che la sua applicazione viene estesa” (J. Duprè, Natura umana. Perché la scienza non basta, Laterza, 2007).

Come ogni ideologia lo scientismo parte da un dato vero, inconfutabile, ma parziale, della realtà: l’esistenza della materia, la corporeità dell’uomo. Da qui sono scaturite, a ben vedere, anche le ideologie totalitarie del Novecento: il nazismo, definibile come una “biologia applicata”, perché fondato sull’idea che l’uomo è esaurito da sangue e suolo”, cioè dalla sua materialità, corporeità, salute fisica, appartenenza etnica ecc, e il comunismo, che altro non è che la riduzione della vita dell’uomo all’interesse economico, alla materia, al lavoro. Non per nulla sia i gulag che i lager portavano all’entrata analoga scritta: “Tramite il lavoro, la libertà”, i primi; “Il lavoro rende liberi”, i secondi. Sarebbe bello indagare il perché il primo articolo della nostra costituzione italiana si apre con l’idea di una comunità di uomini, gli italiani, che sarebbe fondata sul “lavoro”. Ma non è questo che ci interessa.

Quello che è importante è sottolineare che lo scientismo parte dallo stesso presupposto: dovendo, per statuto, spiegare ogni cosa, riduce la complessità della realtà a ciò che è meno complesso. Cosa è più difficile: studiare gli ormoni maschili, o capire la psicologia del maschio? Studiare i circuiti neurologici, o capire il perché del pensiero, della libertà, dell’originalità dell’uomo? Di qui il fondamento dello scientismo: l’uomo, se è solo materia e genetica, è studiabile esattamente come un sasso, una mosca, una formica, uno scimpanzé. Così è più facile, così è esauribile, così è completamente comprensibile!

Sfugge, agli scientisti, il fatto che il solo tentativo di spiegare l’uomo, lo differenzia dalle altre forme di vita o di non vita, più facilmente comprensibili, dalla pietra alla pianta al gatto, che non cercano né di comprendere nel profondo ciò che le circonda, né tanto meno di spiegare se stessi, la propria origine e il proprio fine. Fatto sta che stabilito l’assioma di base, l’uomo è solo un animale, la comprensione dell’uomo stesso diventa, sembra, più semplice e agevole. Ecco che sociobiologi e psicologi evoluzionisti vivono perennemente alla caccia di geni che determinino la tendenza al suicidio, al furto, all’omosessualità, all’alcoolismo, a dipingere, a filosofare…cioè a tutto ciò che ci distingue dal resto del creato, e che non è ancora spiegabile in termini empirici. Caccia che però non ha dato per ora alcun risultato. Da questo approccio deriva un’idea di “natura umana” che è assolutamente infondata, ma che rende impossibile il dialogo, tra scientisti e non scientisti, sulla “legge naturale” e sulle peculiarità, “naturali”, dell’uomo.

Mi spiego meglio. Quando si discute della “natura umana”, su ciò che i cattolici e non solo, definiscono “morale naturale universale”, per indicare di contro che vi sono scelte non “naturali”, cioè non giuste per l’uomo, la reazione immediata di chi è ben nutrito di evoluzionismo materialista, è: ma anche l’educazione è innaturale; anche l’uso del cellulare, o curare il cancro sono operazioni innaturali! Mettere il pigiama e credere in Dio, ha scritto lo zoologo Magnus Inquist, sono due cose “innaturali”, ben più dell’omosessualità: infatti, secondo questo ragionamento, l’omosessualità esiste tra gli animali, quindi sarebbe “naturale” anche per l’uomo; d’altro canto nessun animale crede in Dio e si mette il pigiama, per cui queste ultime sarebbero le vere operazioni innaturali, artificiali, benché universali nel tempo e nello spazio. Una simile affermazione, considerata ormai da molti come “evidente”, nasconde un’assoluta incomprensione della “natura umana”, la quale, come dimostra la semplice osservazione, non coincide con quella animale tout court. Infatti la “natura umana”, come si diceva prima, è anfibia: solo questo appartenere e non appartenere, nel contempo, alla natura animale, le permette di essere così speciale, diversa, originale.

Natura anfibia significa che siamo composti di anima e di corpo, ma non secondo una visione dualistica, cartesiana, completamente anti-filosofica e anti-scientifica, bensì secondo l’idea che proposero già Aristotele e Tommaso. Secondo costoro anima e corpo non sono due entità separate, unite quasi per uno scherzo del demiurgo malvagio, come ad esempio nell’idea di reincarnazione, ma un sinolo, una profonda unità inscindibile. “Sebbene l’anima abbia una operazione tutta sua, in cui non entra il corpo, cioè il pensare, tuttavia ci sono altre operazioni comuni ad essa e al corpo, come il temere, l’adirarsi, il sentire e simili; queste avvengono con una certa trasmutazione di una determinata parte del corpo, da cui risulta che sono insieme operazioni dell’anima e del corpo. Occorre pertanto ammettere che l’anima e il corpo fanno una cosa sola e che non sono diversi quanto all’essere” (Somma contro i gentili, II, c.57) . L’essere umano, come chiosa Paola Premoli De Marchi, è il suo corpo ed ha il suo corpo, nel senso che ha un “certo dominio su di esso e se ne serve per entrare in relazione col mondo”.  Una simile idea di anima e di corpo, è sufficiente da sola a far crollare il castello delle invenzioni fantasiose proposte da quegli evoluzionisti che cercano solo basi biologiche per giustificare la eccezione, la specificità umana, e che quindi ritengono ad esempio che l’amore sia riducibile a reazioni ormonali. Dicono costoro: dal momento che ogni innamoramento comporta movimenti fisici scientificamente rilevabili, ciò significa che l’amore coincide e si esaurisce in emissioni di ormoni! Non capiscono, essendo a priori negatori dell’anima, e quindi della libertà e della specificità umana, che non essendoci alcuna frattura cartesiana o induista tra anima è corpo, è la cosa più naturale del mondo che ciò che avviene a livello spirituale, avvenga anche a livello fisico e viceversa, data la profonda connessione, ripeto, tra anima e corpo! Aggiungono: poiché ogni pensiero si traduce anche in impulsi cerebrali elettrici, ne deriva che il pensiero e gli impulsi elettrici coincidono, sono la medesima cosa! Naturalmente, però, sono poi costretti ad ammettere che questa è una loro ipotesi oggi per nulla dimostrata.

Tutto ciò che avviene nell’uomo, dunque, per chi non ne ha compreso la natura anfibia, è per forza di cose scientificamente comprensibile, e per forza di cose determinato. Siamo, come si diceva all’inizio, di fronte ad una ideologia, il “materialismo monastico”: la complessità dell’uomo viene ridotta alla sola materia e ne vengono tratte leggi universali per l’uomo che dovrebbero essere ineludibili. Un uomo si sacrifica per un ideale? Non è vero, lo ha fatto per un interesse materiale, per essere visto, per essere elogiato, e solo per quello! Un soldato va volontario in guerra per difendere la patria? In verità non può trattarsi di un ideale “spirituale”, sono i suoi geni ad averlo spinto ad andare, per salvare persone con lui biologicamente imparentate. Gesù predicava l’amore anche per coloro che non sono né parenti, né connazionali, né amici, cioè l’amore gratuito e totalmente disinteressato? Non è vero si tratta di una lettura ingenua. Predicava l’amore verso i suoi connazionali ebrei e null’altro…Ci sono uomini che stuprano? Ciò è dovuto ad un particolare “modulo cerebrale innato”: “ il motivo per cui gli uomini sono capaci di stuprare è che esercitando questa capacità i nostri antenati aumentavano la loro fitness riproduttiva” (Duprè p. 29). Ci sono uomini che stanno tutta la vita con la stessa moglie? Avranno determinati geni della fedeltà. Altri uomini vanno con numerose donne: è l’ impulso dell’uomo, che è “per natura” poligamico come la scimmia bonobo e lo scimpanzé, perché la natura vuole che producano più discendenza. Un uomo è omicida? Vi è lo studio dello psicologo evoluzionista di turno che afferma che “la maggior parte degli omicidi sono il risultato di impulsi geneticamente installati” (Tom Wolfe, La bestia umana, Mondadori). Amore, libertà, volontà, senso morale, idea di Dio, sono quindi in tal maniera estromessi, e l’eccezionalità umana negata, senza, ovviamene, alcuna prova.

Eppure proprio il pigiama di cui sopra, o l’idea di Dio o anche la pillola contraccettiva, cioè la nostra capacità di dominare la natura corporale, sono la dimostrazione che tutto questo riduzionismo è ridicolo. L’uomo veste da sempre, altrimenti sarebbe morto subito: è nella sua propria natura. Ha sempre creduto in Dio o negli dei: ciò significa che è nella sua natura. Può andare contro gli impulsi naturali animali che lo caratterizzano, unendosi senza procreare, o addirittura suicidandosi, tutte cose che nessuna natura solo animale farà mai: è nella sua natura umana, trascendere ed anche contrastare la propria natura animale. L’uomo è dunque l’unica creatura culturale, “artificiale”, per natura: “per natura” costruisce utensili vari, progredendo e arrivando a costruire anche, col tempo, cellulari! Per natura vive in società ed educa i suoi figli. Per natura, essendo capace di dominare la natura, cercherà di curare le malattie e di sconfiggerle, come di coltivare e di domare gli animali! Inoltre la sua è una natura aperta, incompiuta: diviene, si fa, progetta, sceglie tra bene e male, a differenza di qualsiasi altra creatura. E’ artefice del proprio destino. E’ nella sua natura, quindi, ricercare, non solo ciò che è inferiore a lui, ma anche la Verità, in ogni senso e la verità morale in particolare. Non fa come il sasso che farà sempre il sasso e ubbidirà sempre alle stesse leggi, senza mai violarle: l’uomo cerca il bene e il male, ciò che è bene e male per lui, per natura.

Da: Scritti di un pro life (Fede & Cultura 2009)

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«Che importa se l’aborto termina una vita umana?»

Feto a 20 settimaneIl movimento abortista è in una fase di profonda difficoltà, lo ha chiarito recentemente anche il settimanale inglese Time. Il 2012 è stato l’anno con il maggior numero di leggi restrittive in tema di aborto, motivo fondamentale è proprio il progresso scientifico –come dimostra una recente sentenza della Corte Suprema dell’Alabama-, grazie al quale più nessuno può ingannare le donne dicendo loro che quel che portano nel grembo è soltanto un grumo di cellule. Ed ecco quindi che la strategia si modifica e dalle colonne progressiste di Salon la scrittrice Mary Elizabeth Williams se ne esce con questa provocazione: “Che importa se l’aborto termina una vita umana?”

Ha spiegato infatti: «Mentre gli oppositori dell’aborto si definiscono con entusiasmo “pro-vita”, il resto di noi ha dovuto arrampicarsi in giro con parole come “scelta” e “libertà riproduttiva”. Eppure per tutta la mia gravidanza non ho mai avuto un dubbio che stavo portando una vita umana dentro di me. Io credo che è quello che un feto è: una vita umana. E questo non mi fa essere, nemmeno di una virgola, una meno solida pro-choice». Ha quindi continuato: «Un feto può essere una vita umana senza avere gli stessi diritti della donna nel cui corpo si trova. Lei è il capo. La sua salute dovrebbe automaticamente prevalere sui diritti dell’entità non-autonoma dentro di lei. Sempre».

Ecco dunque la chiara teorizzazione dell’esistenza di esseri umani privi di diritti umani (controsenso?) in quanto non autonomi. Ma il neonato sarebbe invece una vita umana autonoma? No, senza la madre morirebbe in poco tempo ed è superfluo il fatto che stia dentro o fuori di lei. Un disabile sarebbe autonomo? Purtroppo no, dunque avrebbe meno diritti delle altre persone? L’argomento è pericoloso e gioca di sponda alle recenti dichiarazioni dei responsabili della Consulta di Bioetica Laica, di Maurizio Mori, che hanno chiaramente teorizzato l’infanticidio (definito aborto post-partum) proprio in quanto non ci sarebbe differenza -e in questo hanno ragione- tra il neonato (e il disabile grave) e il feto umano.

La Williams ha comunque proseguito sottolineando -correttamente- le varie contraddizioni dei suoi amici abortisti:  «Ho amici che hanno fatto riferimento ai loro aborti in termini di “grattar via un mucchio di cellule” e poi qualche anno più tardi erano esultanti per la gravidanza che senza esitazione hanno descritto in termini di “il bambino” e “questo ragazzo”. I feti non si qualificano come vita umana soltanto se sono destinati a nascere». La sua conclusione è comunque perentoria: «riconosco che il feto è una vita. Una vita che vale la pena sacrificare».

Anche sul Washington Post un articolo di un altro militante pro-choice, Frances Kissling, segue la stessa direzione: «Gli oppositori usano argomenti sempre più sofisticati – concentrandosi su progressi della medicina fetale», noi invece, continua l’abortista, «ci aggrappiamo agli argomenti che hanno portato alla legalizzazione dell’aborto negli USa: l’aborto è una decisione privata, diciamo, e lo Stato non ha alcun potere su di un corpo di donna. Tali argomenti possono essere stati utili  nel 1970, ma oggi, stanno fallendo, e concentrandosi su di loro rischiamo solo tutte le conquiste che abbiamo fatto».

Qual’è la nuova strategia, allora? «Non possiamo più fingere che il feto sia invisibile. Dobbiamo porre fine alla finzione che un aborto a 26 settimane non sarebbe diverso da uno a sei settimane. Questi non sono compromessi o semplici concessioni strategiche, sono una necessaria evoluzione. Le posizioni che abbiamo preso fino ad ora non sono sufficienti per le domande del 21° secolo. Sappiamo più di quello che sapevamo nel 1973, e le nostre posizioni dovrebbero riflettere». E ancora: «Il feto è più visibile che mai, e il movimento per i diritti dell’aborto deve accettare la sua esistenza e il suo valore. Esso non può avere un diritto alla vita, e il suo valore non può essere uguale a quello della donna incinta, ma terminare la vita di un feto non è un evento moralmente insignificante».

Siamo certamente contenti di questo passo in avanti, anche se rimangono milioni e milioni le donne appositamente ingannate, quando i sedicenti “difensori della donna” dicevano loro che «l’aborto non è niente di più di un intervento medico ambulatoriale, come l’incisione di un foruncolo o la medicazione di una scottatura» (R. Sgarbi e G. Vivi, Ma l’amor mio non muore, Arcana 1971, p. 250).  Oggi con il progresso scientifico e l’ecografia 4D presente in ogni ospedale (americano) è impossibile continuare a mentire alla donna, ecco dunque che i “pro-choice” hanno dovuto cambiare strategia: “il feto è un essere umano, ma è privo di diritti umani”.

Nuova strategia e nuove contraddizioni, ovviamente. In quasi tutti gli stati in cui è legalizzato l’aborto esiste un limite per interrompere la gravidanza (in Italia è la 22° settimana), e dunque da quel momento in poi si è obbligati a non uccidere l’essere umano che la donna porta nel grembo (a parte delle rare eccezioni), come chiede la legge 194. Tale limite è stato ritenuto necessario perché dopo quell’istante era impossibile continuare a sostenere che non ci fossero in gioco due esseri umani, e il diritto alla vita del neo-concepito prevaleva sul diritto ad interrompere la gravidanza (a parte alcune eccezioni).

Ora la domanda da fare agli abortisti è questa: come giustificare filosoficamente l’esistenza di esseri umani privi di diritti umani? Forse con la fallimentare e pericolosa filosofia utilitarista (ovvero, in poche parole: “sei una persona se me lo sai dimostrare”), già usata dagli eugenisti in passato? Altra questione: in Italia il neo-concepito comincia ad acquisire dei diritti alla 22°settimana. Ma cosa giustifica tale limite? Ovvero, che differenza c’è tra questo momento e la 21° settimana e sei giorni? Forse che un essere umano può acquisire i diritti umani ad una certa ora, di un certo giorno, di una certa settimana? Oppure, per evitare di cadere nel ridicolo, si dovrebbe razionalmente anticipare tale momento all’istante in cui appare il nuovo essere umano, unico e irripetibile dal punto di vista scientifico, ovvero al momento del concepimento?

Se prima il grande nemico del movimento abortista era la realtà stessa, rifiutandosi capricciosamente di riconoscere l’evidenza di un essere umano, oggi si parla di incoerenza razionale. Attendiamo fiduciosi il prossimo momento di illuminazione dei cosiddetti “pro-choice”, ovvero di coloro che sostengono che un essere umano è libero di scegliere della vita o della morte di un altro essere umano, con il beneplacito di tutti i militanti per i diritti umani.

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Il Vaticano contro il commercio dell’avorio

Commercio avorioSi è espresso perentoriamente, in questi giorni, il Vaticano sul tema del commercio illegale dell’avorio.

Tutto il magistero della Chiesa ha espresso a chiare lettere una “condanna morale generale” per chi danneggia l’ambiente, la flora e la fauna. Così, in una lettera, padre Federico Lombardi ha risposto alla rivista National Geographic”, che ha dedicato l’inchiesta intitolata Ivory Worship”, firmata da Bryan Christy, alla vendita illegale di oggetti devozionali realizzati in avorio, chiamando in causa il Vaticano.

“La creazionesi afferma nella nota del portavoce della Santa Sede – è affidata alle persone umane per essere coltivata e custodita come un dono prezioso ricevuto dal Creatore, e quindi non distrutta, né trattata con violenza e sfruttamento, ma trattata con grande responsabilità verso le creature stesse e verso le future generazioni umane che devono poter continuare a godere di beni essenziali e meravigliosi”. Si sottolinea inoltre come non vi sia alcun negozio all’interno del Vaticano che venda oggetti in avorio ai fedeli o ai pellegrini.

“In anni di attività vaticana seguita da vicino personalmente, non ho mai visto un dono in avorio fatto dal Papa ai suoi visitatori. Talvolta capita il contrario, e cioè che qualcuno faccia dei doni in avorio al Papa”– aggiunge, rispondendo ad altre illazioni avanzate. La Santa Sede, in ogni caso, “condanna la violenza ingiustificata nei confronti degli animali, sostiene la tutela della biodiversità e vede sempre favorevolmente chi si impegna per norme efficaci per contrastare attività criminali e pratiche dannose e illecite, come bracconaggio, contrabbando, commercio illegale”. Con questo, conclude, “non fermeremo la strage degli elefanti, ma almeno avremo collaborato a cercare concretamente delle soluzioni per fermarla con le nostre possibilità informative e formative”.

Livia Carandente

 

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Le adozioni gay annullano le rivendicazioni femministe

FemministeDiversi articoli online criticano la puntata di Domenica 27 gennaio della trasmissione “Così è la vita”, condotta da Lorella Cuccarini. Il tema era l’adozione di bambini da parte delle coppie omosessuali e secondo i critici si sarebbe svolta con tesi precostituite e in maniera squilibrata a favore delle tesi gay.

Tra gli ospiti e i filmati c’è stata l’intervista a Francesca Vecchioni (figlia del famoso cantante) e della sua compagna Alessandra. Entrambe si sono recate in Olanda, perché Francesca potesse ricorrere alla fecondazione eterologa, e l’operazione ha avuto successo dando al mondo due gemelline. La conclusione dell’intervista sarebbe stata (circa) questa: “Non esistono il padre e la madre perché ognuno/a di noi ha dentro di sé i ruoli materno e paterno”.

Su internet ho poi trovato un’altra intervista della Vecchioni, realizzata nella trasmissione condotta strafaziosamente da Maria Teresa Ruta. Una puntata da studiare come esempio di giornalismo partigiano, per l’abilità del montaggio della regia, per gli ammiccamenti, le imbeccate e i sorrisi della conduttrice, e per le inquadrature con le espressioni giudicatrici degli ospiti. Ho trascritto la parte del testo in cui la Vecchioni esprime la sua idea del ruolo paterno e materno: “L’aspetto genitoriale prescinde assolutamente dal sesso. La capacità genitoriale, questo noi lo abbiamo appurato, apposta prima di fare il percorso noi volevamo essere sicure che non ci fossero problemi per le nostre bambine, i nostri figli. Sappiamo oggi che l’aspetto che noi spesso confondiamo con paternità e maternità, in realtà è più legato alla capacità normativa e alla capacità affettiva che comunque sono presenti in entrambi i sessi. Ossia esistono figli di genitori single, o di madri o di padri da soli, che coniugano sia l’aspetto normativo che quello affettivo che sono per noi spesso confusi con l’essere maschio o femmina, ma non è a realtà dei fatti. La realtà dei fatti è che si è genitori indipendentemente dal proprio sesso”.

Che dire? Che con queste idee vanno a farsi friggere decenni di contestazioni femministe per rivendicare un ruolo proprio per le donne. I due sessi non hanno niente di specifico che possano rivendicare e condividere. Fine della complementarietà. Il compito materno e paterno secondo la Vecchioni si riduce a quello “normativo e affettivo”: come se i padri non possano baciare, coccolare, abbracciare e le madri non possano indicare, sgridare, guidare i loro figli. Il fatto è che ognuno di questi sessi, oltre ad essere e fare ben altro, vive quegli atteggiamenti ma lo fa da uomo o da donna. Un bacio del padre è diverso da quello della madre, proprio perché il padre è un “sistema olistico” diverso dalla madre.

Accettare quei presupposti ideologici significa sentirsi ininfluenti e non necessari, sia come padri che madri. Chi ha fatto esperienza prima di tutto di figliolanza e poi di genitorialità capisce subito quanto sia banale e superficiale quella tesi appiattente. Mio padre mi ha dato cose che mia madre non mi ha dato. Io sono e dò, come padre, cose diverse da mia moglie. Se penso a mio padre non lo vedo solo come superego e a mia madre come zucchero filato. Ben altro. E comunque se anche i due ruoli fossero riducibili a “normativo” e “affettivo”, il fatto che siano distribuiti in due persone diverse vorrà dire qualcosa? Come si distribuirebbero all’interno della coppia omosessuale? Se ognuno dei due li impersona entrambi allora si creerebbe un cortocircuito (la stessa persona sia normativa che affettiva) che in natura invece sarebbe disgiunta (uomo-donna). È un vantaggio? L’identificazione dei due ruoli nella stessa persona per il bambino può creare un conflitto schizofrenico che fa sembrare favolette, tanto sono semplici, le teorie dell’identificazione mediante fase edipica. Quali contorsioni si devono supporre. Se invece i due ruoli sono impersonati separatamente da ciascuno dei due omogenitori, e ammesso che questo processo sia stabile nel tempo, a parte la conferma che l’omosessualità surroga anche nella dimensione affettiva l’assenza dell’altro sesso, ci si può legittimamente chiedere se questo escamotage funziona, se è la stessa cosa.

Essere padri e madri va ben oltre dall’essere depositari di due ruoli relazionali, essendo questi compresenti nei due sessi ma vissuti in maniera specifica e unica in ciascun genere. Sono sì imitabili e surrogabili, ma un esperto sa riconoscere per es. se una borsa Vuitton è falsa. E un bambino è esperto di figliolanza: sa benissimo chi è e cos’è il padre e la madre e ha bisogno di entrambi, fino a soffrine se questi mancano.

Quanto alla Ruta iperpartigiana forse ha dimenticato la canzone L’altra metà dell’uomo che ha cantato con Nilla Pizzi (mia compaesana) come si legge nel curricolo del suo languido sito ufficiale: www.mariateresaruta.tv. E’ interessante una strofa della canzone “donnista”: “Noi, sempre noi, solo noi, siamo l’altra metà della mela che l’uomo non ha”. Appunto, Ruta, nella prossima intervista ricorda alla Vecchioni e a chi la pensa come lei che voi donne siete la “metà della mela” che “noi non abbiamo”. Entrambi unici, necessari e reciprocamente complementari: sia in amore, che nel concepimento, che nell’educazione. Più che l’arcobaleno, che valorizza le reali e specifiche differenze, a questo mondo piace la tinta unita, l’omotinta.

Massimo Zambelli
www.orarel.com

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Nuovo studio: i dollari di Pio XII per sconfiggere Hitler

Pio XII scrive Più passa il tempo e più la leggenda nera contro Papa Pacelli si sgretola perché sempre più nuovi elementi riaffiorano a smentire i suoi accusatori. L’ultimo di questi  riguarda una ricerca effettuata dalla storica Patricia McGoldrick che, studiando sulle carte contenute nei National Archives britannici, ha scoperto come il Vaticano abbia combattuto il nazismo anche attraverso investimenti finanziari.

Infatti, fin dall’inizio della seconda guerra mondiale, la Santa Sede decise di spostare i suoi titoli e le sue riserve auree dalle zone dominate dai nazisti verso le banche degli Stati Uniti e della Gran Bretagna facendo degli USA il centro finanziario nella quale sostenere e amministrare la Chiesa Universale, investendo anche altri 10 milioni di dollari nell’economia americana. Protagonista di questa manovra finanziaria è stato Bernardino Nogara, membro della direzione della Banca Commerciale italiana che verrà chiamato nel 1929 alla guida delle finanze della Santa Sede.

Nei conti americani del Vaticano erano presenti principalmente i finanziamenti delle diocesi e i contributi dei fedeli e in misura minore (circa il 20%) i guadagni derivati dai titoli e dagli investimenti. Una parte del denaro è stato quindi investito nell’industria bellica statunitense, che pose fine alla bestialità di Hitler, mentre la maggior parte di esso è stato destinato in beneficenza per aiutare la comunità cattoliche perseguitate dall’occupante tedesco e per finanziare le attività umanitarie in favore delle truppe alleate e della popolazione vittima della guerra (Luca M. Possati, I dollari del papa contro Hitler, “L’osservatore Romano”, 1 febbraio 2013).

Molto si sa sull’aiuto che Pio XII diede agli ebrei, ma pochi ricordano i soccorsi che diede a tutte le popolazioni vittime del conflitto. A tal proposito papa Pacelli creò durante la guerra un “Ufficio Informazioni” per aiutare la ricerca dei prigionieri e dei dispersi che rimarrà attiva fino al 1947. Durante gli anni di attività, l’Ufficio Informazioni elaborerà 2.100.000 schede sui prigionieri di guerra e vittime della persecuzione e inoltrerà poco meno di tre milioni di richieste di informazioni alle nunziature apostoliche, ai cappellani militari e alla Croce Rossa. Molta gente poté così avere notizie sui congiunti dispersi: ad esempio, fra il 1941 e il 1945 si esamineranno 102.026 domande ebraiche e si riuscirà a stabilire contatti con successo in 36.877 casi (cifra tutt’altro che trascurabile tenendo conto delle condizioni generali e, in particolare modo, dello stato delle comunicazioni dell’Europa Centrale e Orientale dove convergevano la maggior parte delle ricerche).

Un’altra risposta concreta del papa all’emergenza della guerra fu la “Commissione Soccorsi”: nata nel settembre del ’39 per dare assistenza e conforto materiale ai polacchi, aumentò sempre più il suo raggio d’azione con l’estendersi del conflitto, andando a ricoprire diverse attività (elargizione sussidi, intervento per l’incolumità delle popolazioni civili, interessamento di detenuti politici e condannati a morte, ecc. (si veda, Francesca di Giovanni, Le risposte alla guerra dalla Chiesa di Pio XII, “L’Osservatore Romano”, 17 aprile 2012). Per fare solo un esempio: nel 1944 a Roma Pio XII organizzò carichi di farina per la città dopo che aveva già provveduto a fornire oltre centomila pasti caldi al giorno.

Dai documenti si evince dunque che Pio XII fu un nemico di Hitler e un soccorritore dei perseguitati. Su questo la campo la ricerca storica ha acquisito prove inconfutabili, ma i “detrattori” molto spesso non si basano sulla storia.

Mattia Ferrari

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Il fisico Lucio Rossi: «la scienza mi aiuta a credere in Dio»

Lucio Rossi«L’attività scientifica mi conferma nell’ipotesi positiva che la fede mi dà: lo slancio verso il Mistero di cui siamo costituiti è valorizzato dalla scienza e dalla sete di rispondere ad alcune domande fondamentali». Queste le parole del fisico italiano Lucio Rossi, in una intervista ripresa da La Nuova Bussola Quotidiana. Rossi è tra i responsabili della recente scoperta del Bosone di Higgs, avendo presidiato fin dal 2001 la costruzione e la messa in produzione dell’HLC, il Large Hadron Collider, l’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra che poi ha permesso di dimostrare l’esistenza della cosiddetta “particella di Dio”.

Tuttavia ci tiene subito a precisare: «vorrei rilevare come la scienza in se stessa non dà una risposte: essa può indicare una strada per chi questa strada vuole vederla e non la indica a chi non vuol vederla. Alla fine la fede, e la non-fede, resta un atto di libertà e trovo meraviglioso che la scienza strutturalmente rispetta questa libertà. Altrimenti dove sarebbe la nostra libertà se credere o non credere fosse un atto dovuto costretto dalle equazioni della fisica?».

La fede è certamente un atto di libertà, ma «per me», spiega il fisico, «ci vuole più fede a non credere che a credere. Quando si vede come è organizzato il mondo, da che leggi precisissime è retto, non vedo certo contraddizioni con la fede in Dio. So che è una posizione minoritaria (ma non troppo) nel mondo scientifico, tuttavia la negazione della fede è certamente un atto arbitrario. Io vedo che nel mio lavoro di scienziato e dirigente di ricerca, la posizione integralmente umana, quale professata dal cristianesimo, non solo aiuta a far meglio ad avere una posizione più efficace nel contesto stesso del lavoro ma mi sembra che sia più adeguata agli indizi che la natura ci lascia. L’esistenza di Dio, cioè della fonte di razionalità è una esigenza dell’intelletto ed è non solo incompatibile, ma risulta l’ipotesi più congrua con la inesauribilità della conoscenza».

L’Incarnazione di Dio, oltre a non porre problemi alla scienza, sembra anzi «la via più certa per affermare che noi siamo fatti strutturalmente per comprendere – e fino in fondo – il mondo fisico e la sua razionalità. Se Dio si è incarnato, allora il mondo, anche il mondo fisico!, è importante da conoscere, ne val davvero la pena, e non solo per “utilizzare” le conoscenze». Questa è la precisa motivazione per cui il metodo scientifico è nato nell’alveo della teologia cattolica, come infatti ci tiene a sottolineare: «la scienza moderna ha la sua origine nel medioevo e nel rinascimento cristiano. E in più: nel mondo occidentale la cultura antica ha potuto essere valorizzata strutturalmente: la scienza moderna è certamente, per me, uno dei più bei fiori della valorizzazione che il cristianesimo ha fatto della razionalità greca, come Papa Ratzinger sta spiegando, da Ratisbona in poi».

Rispetto ai vari tentativi, anche di suoi colleghi, di combattere la religione, Rossi spiega: «Una ragione che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. Solo un uso distorto della ragione può confinare il tentativo di risposta alle domande fondamentali, cioè la religione, al rango di sottocultura. Sottocultura è, per esempio, la scienza quando si proclama come unica fonte valida di conoscenza, con gli esiti che abbiamo visto generare dai vari razionalismi e società laicizzate del ‘900!».

Ricordiamo che in questa pagina abbiamo raccolto decine e decine di citazioni di prestigiosi scienziati circa la loro visione sul rapporto tra scienze e fede.

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Il “caso Bevilacqua” e le strumentalizzazioni sulle coppie di fatto

Coppie di fattoLo scrittore Alberto Bevilacqua è attualmente ricoverato in prognosi riservata nella clinica romana Villa Mafalda. Secondo la partner Michela Macaluso, lo scrittore dovrebbe essere trasferito in un’altra struttura più specializzata ma tale trasferimento sarebbe impossibile senza la firma di un familiare: la sua infatti, non basta dal momento che i due non sono sposati. Contro la Macaluso si è posta la sorella, Anna Bevilacqua, e anche i medici della struttura che hanno rivelato che lo scrittore: «è cosciente e ha espressamente detto di non voler cambiare clinica», come spiega il professor Claudio Di Giovanni.

Al di là della situazione particolare, il caso è servito per alzare il polverone sulle coppie di fatto con l’immancabile intervento del leader omosessuale Franco Grillini che ha prevedibilmente espresso solidarietà alla Macaluso definendolo «un ennesimo caso di discriminazione nei confronti delle coppie di fatto che esistono nel nostro Paese a causa della mancanza di una legge specifica che le riconosca». Anche sul Corriere della Sera Paolo Di Stefano ne ha approfittato per affermare:  «nel 2013 come nel Medioevo, a differenza del resto d’Europa non riconosce diritti (e doveri) per le coppie di fatto».

Tutta la colpa sarebbe dunque dovuta all’assenza di una legge che riconosca giuridicamente le coppie di fatto, peccato che -nonostante sia uno slogan di facile ascolto- le cose non stiano così. Oltre al fatto che la sorella e lo stesso Bevilacqua si sono opposti al trasferimento, non si capisce in linea generale perché due persone che hanno liberamente scelto di essere “coppia di fatto”, dunque libere da vincoli e doveri,  debbano pretendere dei diritti che spettano alle “coppie non di fatto”. Detto attraverso le parole del sociologo Giuliano Guzzo: «perché vi sia un riconoscimento di diritti fra conviventi, è necessario che i due scelgano di registrarsi come coppia e quindi lo chiedano pubblicamente, questo riconoscimento. Riconoscimento che in nessun caso – per ovvie ragioni – sarebbe automatico. E se due – posto che il laico matrimonio civile è già una possibilità per accedere a tutti i diritti – scelgono di non farlo e di vivere da coppia integralmente libera e quindi realmente di fatto? Sarebbe forse giusto, nel caso uno di due ipotetici partner si trovasse nelle condizioni di Bevilacqua, che fosse tenuto «imprigionato» in una clinica contro il suo volere della persona amata? No, giustamente.». 

In secondo luogo, contrariamente a quanto afferma un certo tipo di propaganda, le coppie di conviventi beneficiano già di diversi diritti nel nostro Paese, come ha mostrato la giurista Ilaria Pisa in un recente articolo. Il filosofo Tommaso Scandroglio, inoltre, ha spiegato che nel caso specifico, la Macaluso avrebbe comunque la possibilità di far dimettere il compagno se venisse nominata amministratore di sostegno (artt. 404-432 cc). E non c’è legge alcuna che possa vietarle di chiederlo. Dunque, quella delle “coppie di fatto senza diritti” è perciò una ennesima bufala.

In ogni caso il punto della questione è trattare le situazioni diverse in maniera differenziata. Una professionista del settore, come l’avvocato Annamaria Bernardini de Pace, specializzata nel diritto di famiglia, lo ha spiegato a sua volta proprio prendendo posizione sul “caso Bevilacqua”: «lo Stato obbliga soltanto a chi è sposato alla solidarietà morale e materiale reciproca, cioè anche a prendersi cura del partner. I conviventi non hanno invece questi obblighi, non sono tenuti neanche a coabitare, ma al contempo non godono né di diritti né di poteri. Quando uno dei partner di una coppia di fatto è inabile, lo Stato non impone all’altro dei doveri. Ma non gli attribuisce neanche dei diritti ».  Ovvero, le coppie che scelgono legami liberi non hanno né doveri, ma neanche diritti.

Qualche mese fa aveva posto nuovamente la questione, criticando i Pacs e i Dico, e riferendosi alla Costituzione si è domandata: «perché, se la famiglia è riconosciuta in quanto fondata sul matrimonio, si discute sempre delle famiglie non “matrimoniate”, pretendendosi che abbiano gli stessi diritti di quelle segnate dal vincolo coniugale? È un non senso e un controsenso: il matrimonio è imperniato sulla libera volontà delle parti di assumerne doveri e diritti […]. Le unioni civili sono la trappola della libertà, in cambio di qualche misero beneficio amministrativo. Hanno poco da raccontare, quelli che pensano di superare le discriminazioni istituendo il registro: così facendo discriminano tra coppie che si sposano, con la volontà e l’impegno di farlo, e coppie che non assumono le responsabilità del matrimonio, ma ne acquisiscono le tutele assistenzialiste».

In questi giorni, infine, la Corte Suprema del Canada si è proprio pronunciata in merito, confermando la legislazione che prevede diritti alle coppie sposate e non alle coppie conviventi, riconoscendo il ruolo unico e distintivo che il matrimonio  svolge nella società.

 

AGGIORNAMENTO 06/02/13
A proposito di strumentalizzazioni, in queste ore sono state (appositamente) male interpretate le parole di mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia sulle unioni di fatto. Il quotidiano Repubblica è stato come al solito il primo a mistificare la realtà e ingannare i suoi lettori, in realtà mons. Paglia ha semplicemente ribadito quello che da tempo la Chiesa già dice: «Ci sono poi le altre convivenze non familiari, che sono molteplici. In queste prospettive si aiutino ad individuare soluzioni di tipo di diritto privato e, a mio avviso, anche di prospettiva patrimoniale. Io credo che questo sia un terreno che la politica deve cominciare a percorrere tranquillamente». Si parla dunque di diritti individuali, come poi infatti lui stesso ha replicato in queste ore, spiegando di aver chiesto di «verificare se negli ordinamenti esistenti possano ricavarsi quelle norme che tutelano i diritti individuali. Questo è tutt’altro che l’approvazione di certe prospettive».

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La contraddizione di chi nega una morale naturale universale

Relativismo 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Cos’è il bene e il male, chiedono i relativisti? In ogni tempo, ci dicono, l’uomo ha ucciso rubato, ferito, schiavizzato, ucciso i suoi figli con l’infanticidio, praticato la poligamia… Come si può allora dire che esiste una morale naturale universale?.

Per i pagani la schiavitù era naturale, per i cristiani no; per tutto il mondo antico, come ben evidenzia Peter Singer, l’infanticidio era lecito: perché, continua sempre Singer, dovrebbero avere ragione coloro che condannano tale pratica e non coloro che la hanno sempre praticata? Per i nazisti, scriveva a suo tempo un avversario del diritto naturale come Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 4/4/2007), l’eliminazione dei deboli, tramite l’eugenetica e l’eutanasia, è la massima fedeltà alla natura, alla legge della “selezione naturale”, mentre per molti pensatori dell’ottocento la carità verso i deboli e i poveri è una manomissione della natura stessa. Per questo, concludeva Zagrebelsky, fondare la morale sul diritto naturale come fa la Chiesa, è assolutamente impossibile, e stabilire cosa sia per natura e cosa sia contro, risulta addirittura operazione da fanatici, da estremisti.

In verità Zagrabelsky non concepisce neppure l’idea che il nazismo, l’eugenismo, così come il comunismo, tre ideologie sedicenti “scientifiche”, ma in verità scientiste e riduzioniste, hanno fallito non perché hanno proposto una legge naturale, ma perché in partenza hanno mal definito la natura umana. Il nazismo fu un sistema perfettamente coerente: data una definizione, riduttiva, di natura umana, corrispondete in verità a quella animale, ne derivò una legislazione conseguente. Ogni ortodossia, infatti, genera una ortoprassi, e ogni eterodossia applicazioni pratiche errate. Ad esempio un medico che definisca erroneamente una malattia, attuerà una terapia sbagliata, nociva: ma la colpa non sta affatto nella convinzione che possa esistere una terapia giusta, bensì nella precedente concezione errata della malattia!

Noi, prosegue Zagrebelsky, condanniamo il nazismo in nome “della cultura, della civiltà, dell’umanità o della religione; tutte cose che non hanno a che vedere con la natura…appartengono al campo della libertà, non a quello della necessità”! Ma come? Non fanno parte la cultura e la religione, della natura umana, della sua natura anche spirituale? E la libertà, non è forse un attributo che distingue l’uomo, la sua natura, dalle altre bestie e dai sassi, dalla loro natura? Come si è visto, la definizione di Zagrebelsky di natura umana, come se essa fosse in contrasto con la cultura e il senso religioso, non sta i piedi. Anche perché, se veramente condanniamo il nazismo per tali motivi, e non perché violano una legge oggettiva universale, allora come facciamo a dire che la nostra cultura che condanna è superiore alla cultura tedesca degli anni trenta? In nome di quale religione deploriamo il nazismo, essendo le religioni così diverse, ed esistendo ad esempio, religioni che permettono la schiavitù, ed altre, come l’induismo, che dividono l’umanità in caste analogamente al nazismo? In nome di quale umanità, se come diceva precedentemente Zagrebelsky per l’uomo Aristotele la schiavitù era un istituto naturale?

E’ allora giocoforza riconoscere che la legge morale universale non è tale perché sia “universalmente riconosciuta”, ma perché, non abitando noi nel Regno della Perfezione, è potenzialmente, universalmente riconoscibile, e perché è l’unico criterio oggettivo che ci permetta di dire che il bene e il male differiscono, oggettivamente, sempre, in ogni tempo ed in ogni luogo, indipendentemente dal potere di turno o dagli errori umani! Un atto è buono quando è confacente alla natura razionale dell’uomo. Quindi è bene ciò che è razionale. Questa qualificazione svincola la scelta della condotta da assumere dall’arbitrio personale e dal soggettivismo, perché aggancia l’atto ad un criterio oggettivo, appunto perché razionale. Del resto, storicamente, è dalla definizione non puramente biologica, e cioè deficitaria, di natura umana, che è nato il concetto di diritti umani, distinti e differenti da quelli animali, che ha portato all’abolizione della schiavitù, dell’infanticidio, dei sacrifici umani…! Se la nostra civiltà avesse ragionato come fanno oggi i sociobiologi e gli psicologi evoluzionisti, le conseguenze sarebbero molteplici: eguaglianza tra diritti umani e diritti animali, il che significa che il concetto di diritti umani non sarebbe mai nato; equivalenza tra i vari comportamenti umani, dal momento che se tutto è determinato e genetico, e se non esiste la libertà, non vi può essere azione morale o immorale, colpa o merito, premio o castigo, e, coerentemente, occorrerebbe eliminare ogni tribunale ed ogni galera.

Se invece si fosse ragionato come Zagrebelsky, il quale in fondo compie la stessa operazione, perché non riconosce all’uomo una sua natura originale, non esisterebbe alcun criterio oggettivo in base a cui giudicare dell’operato di un uomo: chi lo ha detto che la schiavitù non è cosa buona e giusta? Chi lo ha detto che uccidere, magari dietro un impulso ormonale assai perentorio è un delitto punibile dalla legge? Chi lo ha detto che, avendo clonato Dolly, non sia lecito clonare anche gli uomini? Spetta a Zagrebelsky, nel momento in cui nega il diritto naturale, fondare su qualcosa il bene e il male, la convivenza umana, e non può farlo invocando le convenzioni, a meno che non voglia ammettere che le convenzioni italiane e quelle cinesi di oggi, quelle naziste e quelle comuniste di ieri, sono egualmente valide solo perché riconosciute dal potere o da una maggioranza. Vale sempre il detto antico: veritas, non auctoritas facit legem. E la verità delle cose è la loro vera natura.

Per chi crede all’uomo per natura corporale e spirituale e incompiuto, la soluzione è inevitabile: la sacralità dell’uomo si basa sulla sua specifica dignità; la sua erranza, il fatto che sempre si sia ucciso e rubato, non dice dell’equivalenza tra opposte scelte morali, ma della sua libertà e limitatezza, oltre che della natura umana decaduta. Nessun animale infatti, sbaglia, perché nessun animale sceglie; nessun animale sbaglia, perché nessun animale è giudicabile in base ad una verità superiore! Ne deriva che se anche la morale naturale universale non è sempre facile da scoprire, ciononostante essa c’è, e la dimostrazione è che ogni uomo la ricerca e, nel profondo, la sente. A chi nega la morale naturale, cioè che corrisponde alla natura dell’uomo, non rimane che negare, coerentemente, ogni concetto di bene e di male, oppure fondarlo sulla scelta soggettiva. Ma la semplice esistenza del rimorso, dicevano Chesterton o Dostoevsky, dopo un omicidio significa che nessun uomo ritiene veramente che ciò che ha fatto sia giusto, corrisponda alla sua natura. Tanto è vero che persino Lenin, il creatore dei gulag, e Hitler, dovendo giustificare lo sterminio dei loro nemici dinanzi ai loro popoli, li definirono “insetti nocivi” da schiacciare, il primo, “sottouomini”, il secondo.

Un’ ultima considerazione: l’unità tra anima e corpo non toglie l’esistenza di un’ organizzazione gerarchica, di un ordine, che non significa affatto separazione o distinzione, tra anima e corpo. Quando questa gerarchia naturale viene rovesciata, quando l’uomo obbedisce prima agli istinti, al corpo, che alla ragione, va contro la sua natura umana, che è corporale e spirituale ad un tempo, ma con una superiorità naturale, nel senso di umana, dello spirito sul corpo. “Lotta dura contro natura”, scrivevano su muri, non per nulla, i sessantottini e gli hippies, mentre si davano all’amore orgiastico, all’autodistruzione morale e all’uso di droghe: avevano ben chiaro, allora, di essere consapevolmente nemici di un ordine naturale cui appartenevano e cui si erano ribellati.

Da: Scritti di un pro life (Fede & Cultura 2009)

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