Superare la legge di Hume in una prospettiva teleologica

David Hume 
 
di Luigi Baldi*
*dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova

 

Il problema del rapporto tra giudizi di fatto e giudizi di valore è uno dei più spinosi del pensiero contemporaneo. Si tratta di capire se è possibile o meno ricavare dalla conoscenza della natura, quindi anche della natura umana, delle prescrizioni, ovverosia norme, doveri, quindi anche diritti.

Il primo a impostare il problema in questi termini è il filosofo empirista scozzese David Hume, che nel suo Trattato sulla natura umana sottolinea che è scorretto il procedimento mentale con cui si pretende di passare dall’ambito dell’essere e quello del dover essere, da ciò che è o non è a ciò che, rispettivamente, deve o non deve. Ricavare da un asserto puramente descrittivo, cioè una affermazione che descrive un dato di fatto, un asserto prescrittivo, una conclusione che prescrive un comportamento come moralmente o giuridicamente obbligatorio, è un salto logico che gli appare del tutto arbitrario[1].

La “legge di Hume” è ribadita dal filosofo analitico inglese George Edward Moore (1873 –1958), che, nei suoi Principia ethica, parla, in proposito, di “fallacia naturalistica”, criticando la pretesa di dedurre precetti etici o giuridici dalla constatazione dei caratteri della natura: i termini etici non possono, infatti, essere validamente definiti in modo descrittivo. Il bene non può essere considerato un oggetto esterno, “come un qualsiasi oggetto naturale, descrivibile dalla fisica o dalla metafisica”[2]. Si tratta di un concetto semplice, che non può essere descritto attraverso un elenco di qualità (piacere, felicità, dovere) che le cose buone devono possedere: spiegarlo in questo modo significa risolverlo in altri termini, ridurne la nozione ad altre che indicano delle entità naturali. “Se mi si chiede: che cosa é bene? La mia risposta è che bene è bene e null’altro. O se mi si domanda: come si deve definire il bene? La mia risposta è che esso non si può definire, e questo è tutto quel che ho da dire sull’argomento. Ma per quanto tali risposte appaiano deludenti, sono della più fondamentale importanza”[3].

Il bene è indefinibile perché ognuno è costantemente consapevole della nozione di bene nel momento in cui fa esperienza di cose buone. Esso si comporta come il «giallo», la cui essenza è indefinibile; non è possibile spiegare cosa sia il «giallo» a chi non lo abbia mai visto, ma chi lo ha visto lo coglie in virtù della sua esperienza diretta senza bisogno di nessuna ulteriore spiegazione. Ne consegue l’impossibilità di fondare l’etica su una qualsiasi forma di conoscenza: il bene non è conoscibile razionalmente. Lo stesso filosofo del diritto Hans  Kelsen (1881 – 1973) rileva alla base del giusnaturalismo, cioè della dottrina del diritto naturale, un errore logico, consistente nella pretesa di ricavare norme dalla realtà dei fatti; nessun ragionamento logico, infatti, consente di passare dalla realtà naturale al valore morale e giuridico. “Chi crede di trovare, di scoprire o di prendere conoscenza di norme nei fatti o di valori nella realtà, inganna se stesso. Infatti, anche se inconsciamente, egli deve proiettare le norme (da lui in qualche modo presupposte come fondamento dei valori) nella realtà dei fatti, per potere poi dedurre da questi. Realtà e valore appartengono a due sfere distinte”[4]. Sulla stessa linea si trovano R.M. Hare nel suo Linguaggio della morale e, in Italia, Bobbio, Lecaldano, Carcaterra, Scarpelli, il quale ultimo, proprio muovendo dalla dichiarata cesura tra l’ambito del conoscere e l’ambito dell’agire, è giunto a farsi portavoce di un’Etica senza verità.

Il problema della legge di Hume e della fallacia naturalistica va considerato alla luce delle nozioni di natura e realtà che si assumono e, più in generale della concezione fisica e metafisica in cui esse si inquadrano. Il filosofo scozzese parte dal presupposto tipicamente moderno e, nel suo caso, empiristico, che l’intelletto debba programmaticamente precludersi la conoscenza di qualunque verità che superi i dati strettamente risultanti dall’esperienza sensibile, avendo solo la possibilità di rielaborare questi ultimi per formulare dei concetti che si riducono a essere soltanto nomi, segni convenzionali, privi di consistenza ontologica in quanto tali (la penna è solo un nome con cui indichiamo gli innumerevoli individui che scrivono, perché per ovvi motivi di comodità e utilità non li possiamo citare tutti ogni volta che ne dobbiamo parlare). Ciò significa che non è possibile conoscere come certa alcuna legge sia fisica che metafisica, in quanto universale e necessaria, potendo giungere al massimo a valutazioni basate sulla probabilità. Questo ovviamente vale ancora di più per l’etica: non posso ricavare con lo strumento razionale una legge morale, un concetto di bene, che sia da considerarsi certo, cioè appunto universale e necessario.

La legge di Hume, come osserva in proposito Berti nel suo Le vie della ragione, non è un qualcosa dotato di valore assoluto ed incondizionato, ma è legata a una visione ben precisa della realtà, sia sul piano fisico sia su quello metafisico, che influenza il suo pensiero e dello stesso Moore, ma che non può essere data per scontata, quasi (e sarebbe proprio un paradosso) un postulato, un …“dogma”. La sua validità sul piano ontologico pare, allora, strettamente legata a una identificazione, data per acquisita, della realtà con il dato naturale e a una nozione empirica della natura, intesa come un puro e semplice fatto, “un puro stato di cose già dato, un insieme di fatti collegati tra loro solo da leggi meccaniche descrivibili e ricostruibili solo mediante calcoli matematici”, e comunque mai, almeno per Hume, determinabili in modo assolutamente certo[5]. Tale visione si accentua particolarmente se il dato naturale è considerato sotto il profilo della biologia, almeno nell’accezione evoluzionistico-casuale, tipica del pensiero di Monod (Il caso e la necessità) e di una lettura filosofica, anch’essa tutt’altro che scontata, di Darwin. Se si pensa che, siccome per Darwin le specie viventi discendono dai rispettivi primati per variazioni casuali e selezione naturale, tutta la realtà (che coincide con la natura, of course) venga fuori e si fondi sulla casualità, con un’evidente arbitrario salto logico dalla biologia alla filosofia o alla … ateologia, è chiaro che la legge di Hume è perfettamente sovrapponibile.

Reale, però, non è necessariamente detto che vada inteso come “ciò che c’è”, quasi una specie di dittatura indiscutibile (questa sì, veramente … dogmatica) del presente, anzi dell’istante come è coglibile dai sensi. Reale è l’infinita ricchezza dell’essere, nella sua profondità inesauribile, che soltanto l’anima umana può potenzialmente cogliere, in quanto apertura sull’infinito. Da questo punto di vista la natura rappresenta una dimensione della realtà, la prima tappa di un percorso che conduce l’intelletto umano a intus-legere, a leggere dentro, scoprire le strutture più intime e nascoste ai sensi, che danno il fondamento, il senso delle cose: “l’essenziale è invisibile agli occhi”, ricorda la volpe al piccolo principe di Saint Exupéri e Montale a sua volta suggerisce che “sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai, perché  tutte le immagini portano scritto: “Più in là”!”. Ogni cosa e, innanzitutto, persona incontrate schiudono orizzonti, ogni aspetto e momento della realtà, la vita intera, suggeriscono, invitano, attendono un compimento, una realizzazione e non accettano di essere rinchiusi nella camicia di forza del dato di fatto, della presenza, come qualcosa di definito, già tutto attuato e definitivo. L’essere è essenza, cioè definizione e anche presenza, ma siccome esso è creato e dipende da Dio, che ne è la pienezza, allora è anche potenzialità, energia, dinamismo, tensione a una realizzazione piena, a una piena attuazione. L’essere di “ciò che c’è” non si accontenta di “ciò che è” ma desidera altro, appetisce (appetitus, ad-petere, tendere a), proprio perché non è già del tutto attuato: ciò che contraddistingue l’uomo è il fatto che egli lo sa, ne è consapevole.

Se reale non significa automaticamente naturale, naturale non equivale necessariamente a meccanismo ed empiria. Tommaso d’ Aquino, sulla scia di Aristotele, non utilizza una nozione omogenea ed univoca di natura e, comunque, non esclusivamente empirico-biologica; l’applicabilità della legge di Hume al suo pensiero risulta, quindi, da questo punto di vista, quanto meno problematica. La natura ha un carattere analogico e indica tanto il processo del divenire di ciò che si genera, si trasforma e si corrompe, quanto il principio di tale processo, ovverosia la forma sostanziale, ciò che fa sì che una cosa sia quella che è e non un’altra. Tale principio formale, coincide in ogni cosa (anche non naturale) con il suo fine, cioè con l’operazione, l’azione a cui è predisposta e a partire dalla quale è possibile definirla: così la natura della penna è data dal fine di scrivere e se la penna non scrive non realizza la sua natura, ovvero il suo fine e questo vale anche per l’uomo, la cui forma sostanziale è la ragione, per cui realizza la sua natura, quindi consegue il suo fine proprio attraverso la ragione e la conoscenza.

Se si intende la natura secondo una accezione finalistica (telos), come processo rivolto ad un fine e che nel fine trova il suo compimento, la legge di Hume diviene inapplicabile, perché non si tratta più di dedurre la norma da un fatto, con ovvie conseguenze anche sulla legge naturale. La natura come fine implica, infatti, l’idea di sviluppo e compimento di qualcosa che è già in potenza, con la conseguenza che il dover essere è, a livello implicito, strutturalmente inerente all’essere e la teleologia altrettanto inerente all’ontologia; da una siffatta concezione della natura umana risulta, allora, “possibile ricavare delle norme, delle prescrizioni, dei doveri, e quindi dei diritti”[6]. La visione classica colloca direttamente la natura nell’ambito di una prospettiva teleologica, non come qualcosa di estrinseco ma di intrinsecamente connesso alla sua struttura costitutiva e l’idea di fine rappresenta, da questo punto di vista, il punto di mediazione e di collegamento tra essere e dover essere[7]. Il concetto di fine, come ricorda anche recentemente il filosofo tedesco Robert Spaemann, appare come punto centrale di un nuovo paradigma di razionalità morale, che affronti la questione ecologica nel quadro di una critica all’idea baconiana di dominio dell’uomo sulla natura, di cui è ancora succube il pensiero retrostante la legge di Hume. Tutte le cose, dice ancora San Tommaso, tendono al fine ultimo, che è Dio; la differenza tra gli esseri dotati di ragione e quelli che non lo sono (animali, vegetali, minerali) consiste nel fatto che questi ultimi non ne sono consapevoli, mentre i primi lo sanno e proprio per questo possono con la loro libera volontà scegliere di assecondare o non assecondare questo processo, dire sì o no; in quanto tali sono responsabili di se stessi e anche dei primi, che sono a loro affidati.

L’impostazione di fondo del pensiero scientifico moderno consiste, del resto, nell’escludere la considerazione della finalità dall’indagine sui processi naturali, in nome di una visione meccanicistica e deterministica della realtà, che dal piano fisico (la fisica newtoniana), dove è legittima, si estende a quello metafisico (la filosofia di Descartes e si Spinoza), dove invece è del tutto discutibile. E’ diverso dire, per es., che ho gli occhi predisposti per vedere e dire che vedo perché ho gli occhi. La scienza sperimentale non possiede, però, come riconosce correttamente Galilei, gli strumenti cognitivi per rispondere alla domanda circa l’esistenza o meno di una finalità e non può, perciò, escludere l’esistenza di qualcosa che comunque non sarebbe in grado di cogliere. La predisposizione dell’occhio alla vista è al di fuori dell’ambito del dicibile sul piano rigorosamente scientifico-sperimentale ma appartiene alla dimensione intelligibile della ragione. Essa suppone un ordine ontologico dell’occhio, tale da implicare un’intelligenza ad esso intrinseca, un logos, che lo struttura in modo tale da raggiungere un fine, che è il suo bene, ciò che lo realizza, e la cui mancanza (la cecità) è invece un male, cioè una mancanza, una privazione di bene. Tutto ciò è di competenza del filosofo ed eventualmente del teologo (è sempre la tesi di Galilei) ma non si può, rimanendo sul piano sperimentale, dire che non esiste, appunto perché non riconducibile a tale piano (è lo scientismo moderno). Spetta certamente allo scienziato descrivere uno stato di fatto, che così risulta per una combinazione di fattori, magari casuali, in presenza dei quali è possibile vedere. Se si ritiene, però, che la ragione, quindi la conoscenza, si risolva nel descrivere stati di fatto, il quadro è evidentemente completo e l’impossibilità di ricavare un dover essere risulta una conseguenza logica: il dover essere appare un’imposizione dall’esterno del tutto arbitraria e irrazionale, non, invece, il semplice completamento e l’attuazione di un processo già intrinseco.

L’essere e, al suo interno, la natura, quindi la vita tutta, appaiono come processi orientati, ovverosia una continua e inesauribile tensione verso un qualcosa d’altro, che è il suo bene e ne realizza per questo i il compimento.  L’idea che il bene sia il fine a cui ogni cosa tende elimina in radice il problema del passaggio dai giudizi di fatto a quelli di valore perché riconduce il valore, cioè, appunto, il bene, al fatto, che non è più semplicemente tale, ma inserito in un ordine più ampio.

 

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Note

[1]. D. Hume, Trattato sulla natura umana, III, I, 1, Laterza, Bari 1971, pp. 496-497.
[2]. E. Berti, A proposito della “Legge di Hume”, in, Fondazione e interpretazione della norma, a cura di A. Rigobello, XXXIX Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate(26, 27 e 28 aprile 1984), Editrice Morcelliana, Brescia 1986, pp. 237-238.
[3]. G.E. Moore, Principia, Bompiani, Milano 1964, I, 6, p. 50.
[4]. H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, 1998, pp. 72-73.
[5]. E. Berti, Le vie della ragione, , il Mulino, Bologna 1987, p. 294.
[6]. E. Berti, Le vie della ragione, cit., p. 293.
[7]. Cfr. R. Spaemann, R. Löw, Die Frage Wozu?, cit. R. Spaemann, “Natur”, in Philosophische Essays,, Reclam, Stuttgart 1983, pp. 19-40; da ultimo R. Spaemann, R. Löw, Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico, Ares, 2013.

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Se l’aborto fallisce, cominciano le gioie di una nuova vita

Nascita“Il dottor Imre Téglásy è un patriota, ama l’Ungheria e pensa che l’Ungheria abbia bisogno di un futuro: per questo combatte l’aborto, che sta scippando il futuro radioso che il paese si merita”. In questo modo la Human Life International (la più grande organizzazione pro-life al mondo) introduce la storia di Imre Teglasy, presidente di Alpha Alliance for Life, in un video in cui lo stesso racconta la sua storia e gli eventi che lo hanno portato a dedicare la sua vita nella battaglia per la vita.

Il dottor Teglasy è infatti rimasto profondamente segnato dall’aver scoperto, all’età di undici anni, di essere sopravvissuto ad un aborto, scoperta che lo aiutò a comprendere come mai la sua relazione con la madre era stata difficoltosa, complicata. La madre era stata costretta dal regime comunista, assieme al marito, a vivere in condizioni misere: in quel contesto aveva provato ad abortire, fallendo: l’aborto fu fondamentalmente impedito dal padre di Imre (cattolico convinto) e dall’assenza dei mezzi per abortire (quindi, ironicamente, dallo stesso regime comunista che aveva costretto la famiglia alla miseria).

È dalla sua storia personale, quindi, che il dottor Teglasy ha tratto la motivazione per dedicarsi completamente alla sua missione mentre avrebbe potuto lavorare in un’università (essendo dottore in letteratura): “Sono stato mandato da Dio per questo lavoro”, dice, un lavoro che consiste nel diffondere il “Vangelo della Vita” e che si è già attuato nella linea telefonica da lui creata per accogliere le telefonate delle donne che ne avessero bisogno per salvare la vita dei loro bambini. L’aborto, per Teglasy, è un problema, e un problema che non si può tenere nascosto, un problema che si può risolvere sulla via suggerita da Dio stesso; un problema che non tocca solo la sua persona, ma la nazione, l’Europa e il mondo intero.

Tornando alla relazione tra madre e figlio, ben diverso è stato il caso di Katyia Rowe e suo figlio Lucian: i dottori le avevano detto che il cervello del bambino non si era formato adeguatamente, e che questi non sarebbe mai riuscito a parlare o camminare, che avrebbe avuto bisogno di sostegno 24 ore al giorno e che, in ogni modo, non sarebbe sopravvissuto al quinto anno di vita.

La donna, però, ha visto suo figlio sorridere, faceva scoppiare delle bolle, calciava e sbracciava nel suo ventre attraverso un’ecografia in 3D ed ha deciso che l’avrebbe lasciato nascere in ogni caso. “Guardando sapevo come mentre lo portavo dentro di me la sua vita fosse dignitosa, e che il mio dovere di madre era di proteggerlo a prescindere dal tempo che gli rimaneva”. Katyia, che non si era mai considerata particolarmente materna, si è accorta di non voler nient’altro che prendersi cura di suo figlio e dargli tutto il possibile, senza preoccuparsi dell’impegno che avrebbe richiesto: anche quando dovette affrontare il doloroso drenaggio del fluido amniotico che, per ragioni legate alla malattia, non poteva essere eliminato nel modo naturale continuò a pensare che ne valesse la pena, perché “come madre fai qualsiasi cosa per il tuo bambino, ed io sono diventata madre nello stesso momento in cui sono rimasta incinta, quel mestiere era già iniziato.”

Lucian ha vissuto solo nove ore fuori dal ventre di sua madre, momenti che la donna ricorda così: “Quello fu senza dubbio il momento più felice della mia vita. Lucian poteva morire in qualsiasi momento nel mio ventre, ma ha resistito abbastanza a lungo perché ci incontrassimo davvero. Mio figlio sembrava assolutamente perfetto. L’amore e la gioia che sentii nel momento in cui posero Lucian tra le mie braccia mi hanno fatto capire che ne è davvero valsa la pena.” e aggiunge: “Pensavo di non voler essere una mamma, ma Lucian mi ha fatto capire che è il mestiere più bello del mondo e sarò sempre grata per questo.”

Quest’ultima vicenda conferma quanto scritto dall’arcivescovo di New York Timothy Dolan sul Catholic New York pochi giorni fa, in occasione dell’anniversario della Roe vs Wade: «La cultura popolare vi chiama “la generazione del millennio”, perché siete cresciuti all’alba del nuovo millennio. Ma io vi penso come “la generazione ultrasonica”; voi siete diversi da ogni altra generazione mai apparsa prima, perché le foto della vostra infanzia non sono state scattate quando eravate tra le braccia di vostra madre, ma quando vivevate nel suo utero (…) Così avete conosciuto i vostri fratellini e le vostre sorelline già prima che nascessero, in quei video sgranati, quelle foto attaccate al frigo. La vostra mamma o il vostro papà vi hanno mostrato quelle prime immagini di voi stessi. Alcuni di voi hanno persino visto i propri stessi figli per la prima volta con la nuova e più chiara tecnologia ultrasonica a 3 e 4 dimensioni. Avete sussultato con meraviglia alla vista di quelle piccole braccia ondeggianti, le gambe che scalciavano, la testa che andava su e giù, il cuore che batteva, mentre il bambino si succhiava il polliceVoi avete visto, perciò credete»

Michele Silvi

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Comparsa dell’uomo: caso e necessità sono insufficienti

Ramanujan 
di Enzo Pennetta*
*biologo

 

È stato pubblicato nei giorni scorsi nel Giornale degli Atti della Fondazione Giorgio Ronchi un intervento epistemologico di Michele Forastiere e Giorgio Masiero, un cui sunto era già apparso su UCCR.

Che un articolo critico nei confronti del darwinismo appaia in una prestigiosa rivista peer-rewieved italiana, costituisce per se stesso un avvenimento, se consideriamo quanto sia sensibile l’argomento trattato dai due Autori: mentre infatti è fisiologico al metodo scientifico mettere in discussione liberamente anche le teorie più consolidate – su ciò si poggia l’avanzamento tipico delle scienze naturali rispetto alle altre – risulta invece, come si sa, un delitto di lesa maestà vietato dal politically correct sollevare il ditino contro un pensiero del grande biologo inglese.

Riprendo sinteticamente per i lettori di UCCR le tesi presentate, rinviando alla lettura diretta dell’articolo i lettori più interessati. Secondo il paradigma darwiniano, il gioco esclusivo di caso e necessità pone le condizioni sufficienti all’insorgenza di organismi sempre più complessi, dalle forme prebiotiche fino all’uomo. In altre parole, il motore dell’evoluzione di tutta la biosfera viene identificato, da ogni teoria evolutiva di ispirazione darwiniana, nella successione graduale di mutazioni genetiche casuali, i cui effetti fenotipici sono selezionati col criterio della sopravvivenza del più adatto (necessità).

Ora, l’evoluzione – intesa come speciazione asincrona di organismi a contenuto informativo (in termini di complessità) crescente – si può considerare un fatto scientificamente accertato dalla paleontologia. Ciò che appare insufficiente, alla luce delle evidenze scientifiche (empiriche e teoriche), è che sia esclusivamente il caso la causa prima dell’origine di tutte le forme biologiche esistenti, compreso l’uomo.

L’insufficienza esplicativa dell’approccio darwiniano appare particolarmente evidente nel problema della speciazione umana, e in particolare in quello che gli Autori definiscono “effetto Ramanujan”: vale a dire, nella constatazione che l’abilità matematica umana – intesa come prestazione biologica del cervello di H. Sapiens Sapiens – si è costituita fin dalle origini in una capacità sovradimensionata rispetto a ogni concepibile esigenza di adattamento selettivo (sebbene, naturalmente, è plausibile che un’algebra, una geometria e una meccanica primitive possano essere selezionate in modo adattativo in un ambiente di lotta per la sopravvivenza condiviso con altre specie viventi).

Tipicamente, la soluzione proposta dal darwinismo è quella di considerare la capacità astrattiva e matematica umana come un carattere gregario correlato ad un altro genuinamente adattativo (quale per esempio il bipedismo). Varie “just-so-story” darwiniane sono state proposte a tale proposito: se è evidente, però, che nessuna di esse può essere considerata una spiegazione storicamente valida (perché mancano dati oggettivi in grado di sostenere in modo definitivo una specifica versione), tanto meno trattasi di una spiegazione scientificamente valida (perché non è possibile indicare il meccanismo fisico responsabile della correlazione tra i due caratteri).

Nell’articolo pubblicato sugli “Atti della Fondazione Giorgio Ronchi” gli Autori dimostrano le seguenti proposizioni:

1) è estremamente improbabile che l’effetto Ramanujan (equivalente all’affermazione che la tecno-scienza umana ha dimostrato di saper descrivere con un grado di precisione crescente il funzionamento della realtà fisica) possa essere spiegato solo in termini di caso e necessità, cioè secondo lo schema darwiniano;
2) se, ciò nonostante, si vuole continuare a sostenere tale tesi, non sarà logicamente possibile affermare che l’uomo riuscirà prima o poi a comprendere tutta la realtà naturale senza fare ricorso alla metafisica;
3) poiché, tuttavia, in virtù dell’effetto Ramanujan esiste un’elevata probabilità che la realtà naturale sia governata nella sua interezza da una logica intrinseca e che tale logica comprenda le forme di astrazione proprie del pensiero umano, in tal caso la spiegazione darwiniana risulterebbe confutata;
4) né la congettura del multiverso – che non rientra nel canone scientifico – offre una via filosofica d’uscita al darwinismo, perché le due teorie si contraddicono reciprocamente.

In conclusione, Forastiere e Masiero dimostrano con l’effetto Ramanujan che è estremamente improbabile che il darwinismo possa spiegare l’origine di H. Sapiens Sapiens; e, se si crede che possa farlo, o risulta irrazionale credere che l’uomo potrà un giorno corroborare scientificamente il naturalismo, o si cade in un’insanabile contraddizione logica.

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Dimissioni del Papa per evitare l’arresto? Nuova bufala

Benedetto XVI 
di Paolo Attivissimo
da Disinformatico.info

 
 

Papa Benedetto XVI si sarebbe dimesso per evitare l’arresto e il sequestro dei beni della Chiesa. Così afferma un passaparola che sta circolando su Facebook e su vari blog. Pensavo che questa storia fosse così manifestamente stupida da non meritare un’indagine antibufala, ma pare che gli stupidi che abboccano a qualunque panzana, specialmente se si conforma ai loro preconcetti, siano più diffusi (e soprattutto più bertucciosamente rumorosi) di quanto avevo ottimisticamente stimato.

Per cui ecco qua, in sintesi, l’antibufala: il “Tribunale Internazionale sui Crimini di Stato e Chiesa” (itccs.org), quello che secondo il tamtam della Rete ha annunciato di aver emesso un sensazionale “mandato d’arresto” contro Joseph Ratzinger “per crimini contro l’umanità e per aver ordinato un complotto criminale”, non ha la benché minima validità legale: è semplicemente un gruppo di persone comuni che si è autoproclamato “Tribunale” sulla base di una personalissima interpretazione della cosiddetta Common Law (che in realtà non c’entra nulla). Un po’ come se io, da domani, mi autoproclamassi Imperatore dell’Universo e Giudice Supremo della Galassia perché mi gira così.

L’ITCCS non c’entra nulla con la Corte Internazionale di Giustizia o con la Corte Penale Internazionale. È una barzelletta. E non fa neanche ridere, perché annacqua e trascina nel ridicolo un problema serissimo come quello degli abusi sessuali su minori da parte di sacerdoti della Chiesa Cattolica.

Se vi siete fermati a leggere il comunicato dell’ITCCS invece di inoltrarlo istericamente a tutti e cliccare su “Mi piace”, avrete notato che parla di “un’azione imminente da parte di un governo europeo e che addirittura si vanta che “il Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha costretto alle dimissioni Joseph Ratzinger immediatamente, e in risposta diretta alla nota diplomatica relativa al mandato d’arresto che è stato rilasciato a lui da parte del governo del suddetto paese il 4 febbraio 2013”.

Sapete perché non viene indicato quale sarebbe questo “governo europeo”? Perché stando a questo comunicato dell’ITCCS del 2011, si tratta (per esclusione) della “nazione sovrana di Eurostaete”.

Non avete mai sentito parlare della nazione di Eurostaete? Neanche io. Non va confusa con Eurostat, che è l’ufficio di statistica dell’Unione Europea. Eurostaete è una micronazione, o meglio, una terra di nessuno lunga circa 500 metri e larga sei, situata al confine fra i Paesi Bassi e la Germania e nata da uno stupido pasticcio burocratico sulle linee di confine. Non è riconosciuta come nazione da nessuno, se non da un gruppo di persone del posto, come spiega Wikipedia in olandese.

In altre parole, il “mandato di arresto” per il Papa sarebbe stato deciso da un tribunale autoproclamato ed emesso da una nazione di fantasia larga sei metri. Non ho altro da aggiungere.

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Inesistenti le accuse a Benedetto XVI, solite gaffe per Marco Politi

Benedetto XVI  L’abdicazione del Papa è stata un’occasione in più per Marco Politi, vaticanista de Il Fatto Quotidiano, per raccontare ancora una volta menzogne e luoghi comuni contro Benedetto XVI. Mentre il mondo ha mostrato rispetto per questa scelta -arrivato perfino da Vito Mancuso-, da parte di Politi nulla è cambiato, è rimasto il solito disumano disprezzo verso Ratzinger e la volontà di mistificare la realtà per accontentare i suoi quattro esaltati lettori famelicamente anticlericali.

Il vaticanista de Il Fatto non ha trovato nulla di meglio che imbastire un articolo pieno di inesattezze per fare un bilancio sui presunti errori e occasioni sprecate da parte di Benedetto XVI.  Addirittura ha ipotizzato che siano stati «otto anni persi». Ma persi per chi? Per Politi ovviamente, laicista dalle molte primavere, che da anni pretende dal Papa –ricattandolo con articoli pieni di insulti- le donne prete, eutanasia e suicidio assistito, matrimonio omosessuale, protestantizzazione della fede cattolica e sincretismo religioso. Se per Marco Politi il papato di Ratzinger è stato un fallimento, allora certamente possiamo dire che è stato un successo agli occhi di Dio.

Come in ogni suo articolo Politi si è fatto arbitrariamente portavoce di una “massa cattolica”, di sua totale invenzione, che sarebbe contenta delle dimissioni del Papa, giudicato incapace. Ha poi pescato nel prontuario laicista delle accuse a Benedetto XVI creando un elenco di menzogne che avrebbe imbarazzato perfino Piergiorgio Odifreddi. Oltretutto un articolo graficamente sbagliato in cui i piccoli titoli non corrispondono al contenuto, e questo la dice lunga sulla confusione di Politi.

 

Obbligo di denuncia per i Vescovi.  Lo statalista Politi vorrebbe che Benedetto XVI avesse imposto l’obbligo giuridico di denunciare un reato sessuale per i vescovi, creando così una nuova figura di pubblico ufficiale al di fuori del codice penale e dunque facendo ingerenza nell’ordinamento dello Stato. L’obbligo, lo sa chiunque, vige infatti soltanto per i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, qui una approfondita spiegazione. Politi vorrebbe dunque che la Chiesa faccia ingerenza nello Stato, così potrà poi urlare al complotto teocratico. In realtà, la decisione su questa tematica non è in carico al Pontefice come vorrebbe far credere Politi, ma spetta alla Conferenza Episcopale: quella australiana ha previsto l’obbligo di denuncia, quella italiana no, ricevendo comunque una bocciatura generale dal Sant’Uffizio anche per norme troppo «leggere», poco «incisive». In ogni caso, il lavoro di Benedetto XVI è stato enorme e positivo, come è stato osservato da tutti, perfino dal laicissimo Gian Enrico Rusconi, il quale ha proprio riconosciuto il merito di Ratzinger di aver «ridato il primato alla legge, alla società, allo Stato» su questa tematica, evitando che il «peccato/crimine possa essere assolto ed espiato tra confessionale, sagrestia e arcivescovado».

 

Il report Moneyval e finanze vaticane. Da mesi Marco Politi continua a sostenere in solitudine la menzogna che le finanze vaticane non siano migliorate in trasparenza, usando a suo supporto l’esito del rapporto Moneyval sull’anticorruzione, che secondo lui avrebbe “bocciato il Vaticano”. In realtà, come sanno tutti, il responso è stato positivo e l’esame è stato superato. Il Sole24ore ha infatti commentato: «in meno di 20 mesi il Vaticano ha messo in piedi una struttura normativa che prima d’ora era inesistente, e quindi quello di oggi può comunque essere considerato un passo molto importante, anche se non definitivo». Dunque anche in questo caso non c’è nessun occasione sprecata, ma anche su questo grande merito va dato a Benedetto XVI.

 

Citazione contro i musulmani a Regensburg. Politi è costretto a tornare al 2006 per riprendere alcune polemiche in seguito ad una citazione di Benedetto XVI su Maometto, sostenendo che il Papa avrebbe offeso milioni di musulmani. In realtà è ovvio che la profondità della lezione del Papa non può essere alla portata di Politi e dei vari mistificatori del web, tant’è che -a parte qualche fazione violenta- quelle parole, come ha spiegato l’islamologo Samir Khalil Samir, hanno rappresentato una base per instaurare un dialogo più vero con l’islam. Parole corrette e contestualizzate, come è stato fatto notare da molti. Lo dimostra il fatto che dopo tale evento, 138 personalità musulmane hanno scritto a Benedetto XVI valorizzando la comunione con il cattolicesimo.  Il prolifico dialogo con l’Islam, rinato con Benedetto XVI, è stato dimostrato nella viaggio pastorale del Pontefice in Turchia, specialmente nei momenti di visita alla Moschea Azzurra assieme ai leader religiosi islamici.

 

Africa e affermazioni sul preservativo. Più volte Politi è tornato, eccitato, su questa vicenda sessuale. Ha sostenuto che il Papa avrebbe detto in Africa che «il preservativo peggiora la diffusione dell’Aids».  La verità è sempre un’altra: il Papa ha infatti saggiamente sostenuto un’altra cosa, ovvero che «non si può superare questo problema dell’Aids solo con soldi, pur necessari, ma se non c’è l’anima, se gli africani non aiutano (impegnando la responsabilità personale), non si può superarlo con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema». Affermazioni scientificamente verificate, come ha spiegato Edward C. Green, direttore dell’AIDS Prevention Research Project al centro Harvard per gli Studi su Popolazione Sviluppo: «il Papa ha ragione, o per metterlo in un modo migliore, la migliore evidenza che abbiamo è di supporto alle dichiarazioni del Papa. C’è un’associazione costante, dimostrata dai nostri migliori studi, inclusi i “Demographic Health Surveys”, finanziati dagli Stati Uniti, fra una maggior disponibilità e uso dei condoms e tassi di infezioni HIV più alti, non più bassi». Questo è dovuto al fenomeno della “compensazione del rischio”, annullabile se invece si offre maggior spazio all’educazione verso la fedeltà coniugale e all’astinenza, come è stato fatto da suor Miriam Duggan, premiata dall’Università di Harvard per aver sconfitto l’AIDS in Uganda (senza distribuzioni del preservativo).

 

Incontro con Rebecca Kadaga e pena di morte per i gay.  La bufala è recente, e i gay sono da tempo al centro delle attenzioni segrete di Marco Politi, autore di libri monotematici come “La confessione. Un prete gay racconta la sua storia” (2000) e “Io, prete gay” (2006). Il Papa, secondo il suo detrattore, avrebbe incontrato Rebecca Kadaga, sostenitrice della pena di morte dei gay, avvalorando così la sua posizione. In realtà, come abbiamo già detto, la presidentessa dell’Uganda è stata ricevuta in Vaticano insieme a un’intera delegazione di parlamentari del Paese africano. Prima di arrivare a Roma ha partecipato, senza scandalizzare Politi, all’Assemblea Consultiva dei parlamentari per la Corte penale internazionale ed alla Conferenza parlamentare mondiale sui diritti umani. La Kadaga non è nemmeno la presentatrice della proposta “Kill the gays bill”  e tale legge non prevede in alcun caso la pena di morte. In ogni modo, sia la Chiesa Cattolica ugandese che la Santa Sede si sono espresse chiaramente contro di essa da molto tempo.

 

Annullamento della scomunica ai lefebvriani. Non poteva mancare anche questo episodio: al vescovo lefebvriano Williamson, negatore dell’Olocausto, assieme ad altri tre religiosi, è stata revocata la scomunica come gesto per favorire l’unità della Chiesa. In ogni caso Benedetto XVI non era al corrente delle tesi negazioniste dell’Olocausto del Vescovo tradizionalista Richard Williamson prima di rimettergli la scomunica e il Vaticano, oltre a prendere ovviamente le distanze, ha più volte intimato ai lefebvriani di ritrattare la loro posizione sulla Shoah, invitandoli ad aderire completamente al magistero della Chiesa. In ogni caso, e questo Marco Politi non lo dirà mai, lo scioglimento dalla scomunica non ha cambiato la situazione giuridica della Fraternità che non gode di alcun riconoscimento canonico nella Chiesa Cattolica. Sempre secondo Politi, inoltre, tale gesto di Benedetto XVI avrebbe incrinato il rapporto tra la Chiesa e la comunità ebraica, a smentirlo questa volta è stato l’intervento in questi giorni del rabbino David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele, secondo il quale «nella comunità ebraica sarà sempre ricordato come l’uomo che ha consolidato le innovazioni di Giovanni Paolo II […] e forse per alcuni aspetti addirittura andando oltre, certamente in fatto di quantità e forse anche di qualità del suo impegno personale […]. Guarderemo indietro al Pontificato di Papa Benedetto XVI come molto significativo per aver consolidato le conquiste straordinarie nell’ambito dei rapporti tra ebrei e cattolici».

 

Preghiera con citazione degli ebrei. Non sapendo cos’altro dire, Politi è andato a ripescare la preghiera del Venerdì Santo dove si parlerebbe -secondo lui- della cecità degli ebrei “rispetto alla venuta di Cristo”. Politi non sa nulla nemmeno di questo, ovviamente, infatti Benedetto XVI ha proprio modificato la preghiera eliminando il passaggio che urtava la sensibilità del popolo ebraico. E’ rimasta la frase “preghiamo per gli ebrei”, è un’invocazione generale all’interno di una lunga serie di preghiere in cui si raccomandano a Dio tutte le categorie dei credenti (e anche i non credenti) che compongono l’umanità. Se vi fosse in ogni caso stato qualcosa di offensivo verso gli ebrei, il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, non avrebbe parlato di «vicinanza e rispetto a papa Benedetto XVI per la sofferta e coraggiosa decisione presa in queste ore. Estremamente significativi, nel corso del suo magistero, i passi compiuti per l’avvicinamento tra ebrei e cristiani nel solco dei valori comuni». Il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, ha invece sottolineato che la vicinanza di Ratzinger agli ebrei, «testimonia non solo un impegno formale con la comunità ebraica più vicina al pontefice, quella romana, ma rappresenta anche un percorso sincero non solo nel dialogo ma anche la testimonianza di una voglia di accogliere e interloquire in un sistema di pari dignità e rispetto con il mondo ebraico nel suo complesso»

 

Comunione negata ai divorziati risposati.  Il vati-laicista de Il Fatto incolpa Benedetto XVI anche di non aver dato una risposta ai divorziati risposati sulla loro partecipazione al sacramento della Comunione. In realtà il Pontefice ha studiato il problema e ha risposto in modo chiaro, ovviamente non come avrebbe voluto Politi. Ha affermato: «il peccato, soprattutto quello grave, si oppone all’azione della grazia eucaristica in noi. D’altro canto, coloro che non possono comunicarsi per la loro situazione troveranno comunque in una comunione di desiderio e nella partecipazione all’Eucaristia una forza e un’efficacia salvatrice». L’argomento è stato dettagliato molto bene in questa circostanza. In un’altra occasione il Pontefice si è rivolto proprio ai divorziati, spiegando che «il Papa e la Chiesa vi sostengono nella vostra fatica. Vi incoraggio a rimanere uniti alle vostre comunità, mentre auspico che le diocesi realizzino adeguate iniziative di accoglienza e vicinanza». Benedetto XVI ha preso una decisione una decisione chiara e completamente condivisibile, ognuno dovrà tenerne conto quando deciderà di tradire appositamente il sacramento del matrimonio.

 

Alla fine del suo delirio il vaticanista del Fatto se la prende pure con gli scomodi, per lui, “principi non negoziabili” ed esulta perché «una folla non sia precipitata in piazza San Pietro al grido di “non farlo… rimani !”» quando il Papa ha annunciato la sua abdicazione, che per molti sarebbe «arrivata come un sollievo». Ancora una volta Politi gioca a farsi portavoce di fantomatici cattolici anonimi per esplicitare le sue opinioni. Al contrario di quanto la pensa Politi, è una bella cosa che nessun cattolico sia andato in San Pietro a pretendere presuntuosamente di volergli far cambiare idea, come se non si fidasse della sua autorità e capacità di scelta. Invece, come informano i vaticanisti seri, migliaia di fedeli si sono radunati spontaneamente in piazza San Pietro per manifestare al Papa la propria solidarietà. Come abbiamo già detto, in ogni caso, la dimostrazione che il pontificato di Benedetto XVI è stata una grazia da parte di Dio è proprio la rabbia dei laicisti come Politi, costretti a questi elenchi di piccole menzogne per tentare di tamponare la bellezza della verità e il grande merito di Benedetto XVI.   

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I figli di coppie omo tendono a diventare omo

Famiglia arcobalenoQualche giorno fa un noto politico italiano ha affermato che, per un bambino, crescere in una coppia omosessuale “è prima di tutto un’induzione ingiustificata a crescere come gay”. Come prevedibile, altri politici hanno protestato affermando tra l’altro: Su quale base scientifica […] poggia l’ignobile affermazione che genitori omosessuali inducono i bambini a divenire gay? […] C’è qualche studio che dà fondamento [a questi] vaneggiamenti?”.

Ora, se si ha la pazienza e la prudenza di cercare per vedere come stanno le cose, indipendentemente da tessere politiche e dubbi di boutade da campagna elettorale, è facile trovare la risposta: sì, secondo diversi studi recenti i figli di coppie omosessuali tendono più facilmente a sviluppare un orientamento omosessuale.

Per onestà intellettuale va precisato che il parere ufficiale del più autorevole ente accademico mondiale a riguardo, l’APA (American Psychological Association), sostiene anche per questo aspetto la posizione “no difference” tra i figli di omo ed etero. Un pronunciamento del 2004 circa l’omogenitorialità affermava tra l’altro: “La ricerca [scientifica] suggerisce che l’identità sessuale (inclusa l’identità di genere, il comportamento di genere, l’orientamento sessuale) si sviluppa nello stesso modo per i figli di madri lesbiche come per i figli di genitori eterosessuali”. Per ben 19 volte il breve pronunciamento cita le ricerche dell’omosessuale e attivista LGBT Charlotte Patterson, i cui risultati sono stati in passato esclusi dal tribunale della Florida per mancanza di imparzialità osservabile nei gravi difetti di campionamento.

Un successivo documento sull’omogenitorialità pubblicato dall’APA nel 2005, sempre a cura della stessa Patterson, ribadisce la stessa posizione: “Nell’insieme, i dati non suggeriscono un tasso elevato di omosessualità tra i figli di genitori gay o lesbiche”. La ricercatrice ha però l’onestà di riconoscere che uno studio (trascurato dal pronunciamento del 2004) ha rilevato una maggiore predisposizione, per i figli di lesbiche, a impegnarsi in relazioni omosessuali. Dato che il campione di questo studio è esiguo (21 casi), la Patterson conclude che il risultato “va interpretato con cautela”. Ma dimentica di notare come, per gli studi “no difference”, l’esiguità del campione sia la prassi comune. Dopo questi due documenti non sembra che l’APA sia tornata ex cathedra sulla questione: un recente (giugno 2012) comunicato stampa rimanda al pronunciamento del 2004.

Ma in questi 10 anni la ricerca è ovviamente andata avanti. Tra gli studi sulla questione si segnalano:

* Judith Stacey e Timothy J. Bibl (2001) su una revisione di 21 studi precedenti hanno trovato i figli di coppie omo più sessualmente avventurosi e inclini a impegnarsi in attività omosessuali;
* Cameron (2006) su 77 figli adulti di coppie omo ha trovato 23 (30%) omosessuali;
* Schumm (2010) su 262 figli adulti di coppie omo ha trovato 63 non eterosessuali (inclusi omosessuali, bisessuali, insicuri), pari al 24%;
* Gartrell, Bos, Goldberg (2010) intervistando 78 adolescenti 17enni, cresciuti all’interno di relazioni omo, ha trovato il 18,9% delle ragazze e l’8,1% dei ragazzi che si dichiarano bisessuali o prevalentemente omosessuali;
* Regnerus (2012) su 236 giovani adulti figli di coppie omo rileva che si dichiara interamente eterosessuale il 61% dei figli di lesbiche, il 71% dei figli di gay.

In definitiva, in tutti questi casi la quota di omosessuali è significativamente superiore alla media della popolazione in generale, che – pur tra varie oscillazioni nelle stime – si attesta a pochi punti percentuali del totale: non tutti i figli di omosessuali diventano necessariamente omosessuali, ma c’è una maggiore predisposizione a diventarlo.

Osservando la questione dal punto di vista puramente scientifico e razionale, può sembrare strano che l’APA non si premuri di aggiornare i propri pronunciamenti, anche solo per falsificare le conclusioni di studi come quelli qui riportati. E sembra ancora lontano il giorno in cui verranno esaminate (per accoglierle o rifiutarle) le ricerche che vanno contro alla vulgata del “no difference” su altri aspetti più salienti (vedi lo speciale apposito). Come p.es. il recente studio (nov. 2012) che ha trovato i figli di coppie omosessuali più predisposti (+35%) alla bocciatura scolastica rispetto ai figli di genitori biologici.

E chi rischia di rimetterci, alla fine dei giochi, sono proprio questi minori.

Roberto Reggi

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32mila firme per la cappella dell’Università Complutense di Madrid

Università MadridLo zapaterismo, nonostante l’assenza di Zapatero, continua a produrre frutti avvelenati in Spagna. Torna nuovamente alla ribalta la comunità laicista della nota Universidad Complutense de Madrid (UCM), di cui ci siamo occupati nel recente passato, molto attiva nel tentativo di osteggiare – o per meglio dire sopprimere – le cappelle cattoliche all’interno delle facoltà che fanno capo all’Ateneo guidato dal Rettore José Carrillo.

Non a caso il portale on line MásLibres, schierato in prima linea nella lotta contro gli abusi della libertà religiosa, ha mobilitato di recente ben 32.000 cittadini spagnoli che in appena 5 giorni hanno fatto giungere mail di protesta al succitato rettore per sollecitare la fine di qualunque discriminazione verso i cattolici continuando a garantire l’apertura delle cappelle già esistenti.

E’ opportuno precisare che da parte dei vertici del noto Ateneo non si parla affatto di chiusura delle cappelle, ma solamente di una richiesta rivolta all’Arcidiocesi di Madrid riguardante la revisione dell’accordo vertente l’apertura e il mantenimento dei luoghi di culto. Ma questa intesa – che garantisce i diritti di 100.000 persone fra universitari, professori e personale amministrativo – è avversata, tra i tanti, dal decano di Geografia Luis Enrique Otero, designato a partecipare alla riunione con l’arcivescovado in nome della Complutense.

Quando poi l’ostilità preconcetta cammina con le gambe di persone per nulla disposte al dialogo non ci sono limiti alle aberrazioni di chi reputa sia opportuno farsi giustizia con le sua mani. A riprova di ciò, basterà far memoria di quanto accaduto alla Complutense il 10 marzo 2011 quando una settantina di giovani fece irruzione in una delle cappelle dell’ateneo durante la celebrazione della messa imponendo la fine della funzione, con l’aggiunta di bestemmie e insulti verso il mondo cattolico, fino alla consumazione di rapporti omosessuali sull’altare.

Come ha detto Benedetto XVI all’Università di Regensburg in occasione dell’incontro con i rappresentanti della scienza, la ricerca per essere realmente tale deve “farsi cattolica” (cioè universale), nella sua capacità di dialogo con le altre branche del sapere. Chi non dialoga e non si apre al confronto, prima o poi, esige di detenere da solo la verità e di dover imporre questa pretesa verità a tutti gli altri. Guarda caso, la stessa accusa che molti laicisti muovono alle religioni rivelate. 

Salvatore Di Majo

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Nuovo studio: più svantaggioso crescere con un solo genitore

Happy Family Hugging Each OtherBasta soltanto l’amore. Crescere con una mamma single, con due papà, con mamma e papà, con tre nonni o con sette zii è la stessa cosa ci dicono i sostenitori dell’ideologia delle “nuove famiglie”. L’importante è che il bambino riceva il fantomatico “amore” e che non cresca in orfanotrofio.

La celebre psicanalista Claude Halmos ha già spiegato da tempo che «un discorso basato sull”amore”, concepito come l’alfa e l’omega di ciò che un bambino avrebbe bisogno», colpisce per la «mancanza di rigore perché un bambino è in fase di costruzione e, come per qualsiasi architettura, ci sono delle regole da seguire se si tratta di “stare in piedi”. Quindi, la differenza tra i sessi è un elemento essenziale della sua costruzione». La psicologa Maria Rita Parsi ha poi precisato: «cure e amore non sono patrimonio esclusivo delle coppie etero. Vero è, però, che quando si arriva alla fase del complesso edipico è importante avere una doppia realtà di riferimento, maschio e femmina».

In ogni caso sono gli studi scientifici a sostenere questi psicologi e smentire la moda delle “nuove famiglie”. Ultimo in ordine cronologico la recente pubblicazione del World Family Map Project (qui lo studio integrale) la quale ha mostrato che vivere con due diversi genitori permette ai bambini di avere punteggi migliori di alfabetizzazione, a prescindere dalla ricchezza e dall’istruzione. Questo è vero in Canada come lo è negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Australia: «I bambini che vivono con due genitori hanno punteggi più elevati nella capacità di lettura e meno probabilità di ripetere l’anno rispetto a quelli che vivono con uno solo dei due genitori o nessuno dei genitori», hanno detto i ricercatori. Inoltre, «le famiglie con un genitore acquisito forniscono risultati più deboli rispetto alle famiglie con i due genitori biologici».

Tutto quest è in linea con le conclusioni della ricerca in scienze sociali, che mostrano senz’ombra di dubbia una serie di benefici per i bambini cresciuti dai due genitori biologici sposati.

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Benedetto XVI lascia il pontificato: commozione e gratitudine

benedetto xvi dimissioniUna notizia inaspettata, attorno alle 11:30, ha sconvolto  il mondo intero: Benedetto XVI ha scelto di dimettersi e lasciare il pontificato il prossimo 28 febbraio.

Non ci sono molte parole per descrivere questo atto, incredibile e imprevisto. Il Pontefice lo ha annunciato nel corso del concistoro per le nuove canonizzazioni di questa mattina, ecco le sue brevi e umili parole:

«Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Ha poi continuato: «Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti».

Un gesto a cui va tutto il nostro rispetto, nonostante l’immenso dispiacere. In molti cominciano a parlare di depressione o malattie varie, ma padre Federico Lombardi -portavoce della Santa Sede- ha subito allontanato tale motivazioni, descrivendo il Papa come persona assolutamente serena. Lui stesso, rispondendo alle domande di Peter Seewald nel libro “Luce del mondo” (Libreria Editrice Vaticana 2010), aveva detto: «Quando il pericolo è grande non si può scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi. E’ proprio in momenti come questo che bisogna resistere e superare la situazione difficile. Questo è il mio pensiero. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più […]. Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più un grado fisicamente, psicologicamente  e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto ed in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi».

 

Qui sotto il video con il breve messaggio del Pontefice (in latino) di questa mattina

 

Ringraziamo Benedetto XVI, fin da adesso, per questi bellissimi ed intensi sette anni e dieci mesi, durante i quali ha condotto sapientemente la barca di Pietro nonostante una tempesta di scandali interni e un’attrezzatissima schiera di feroci e sleali nemici. Lo ringraziamo per la sua splendida persona, per l’incredibile umiltà che lo ha contraddistinto in ogni occasione e per aver ottimamente scelto di affrontare la secolarizzazione concentrando il suo ministero sul rapporto tra Fede e Ragione. Ringraziamo Dio per averci donato questo Papa.

 

Qui sotto il video dell’elezione di Benedetto XVI, il 19/04/05

 
La redazione

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La vera laicità e il ruolo pubblico del cristianesimo

Joseph WeilerÈ laico o non è laico lo Stato che espone il crocifisso negli spazi pubblici? Il dilemma provocato nel 2006 dal ricorso Lautsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro lo Stato italiano sembra destinato a durare. Almeno fino a quando laico viene contrapposto a religioso, e religioso inspiegabilmente associato a privato. E se invece la religione rivestisse un ruolo nella vita pubblica di una democrazia?

A rispondere, in una recente intervista a un quotidiano nazionale, è Joseph H.H. Weiler, Professore di Diritto presso la New York University e Professore onorario presso la London University. A lui, ebreo osservante e figlio di un rabbino, si deve nel 2010 la difesa del crocifisso nelle aule scolastiche italiane, davanti alla Grande Chambre della Corte europea.

Non è affatto vero – afferma Weiler – e non è ovunque vero che la religione debba essere esclusa dalla vita pubblica. Ad esempio, in Gran Bretagna i leader religiosi sono membri d’ufficio del Legislativo, e non solo in senso simbolico. Nell’arché di tutte le democrazie moderne, il punto di vista religioso rappresenta una delle più autorevoli interpretazioni della realtà sociale, economica e politica, anche in coloro che nella House of Lords non sono religiosi, o cristiani. Sembra, infatti, che per il popolo britannico la presenza della religione – e in particolare della tradizione cristiana – sia fondamentale per raggiungere decisioni legislative necessariamente eque. Se la stessa la cosa capitasse in Italia, se il presidente della CEI, card. Bagnasco, sedesse in Senato a legiferare, quanto sdegno solleverebbe nell’opinione di massa (e soprattutto tra gli indignados di professione, ndr)?

Citando il discorso di Papa Benedetto XVI al Parlamento tedesco nel 2011, Weiler sottolinea che quando il cristiano entra nell’arena pubblica ha l’onore e l’onere di farlo in forza della ragione, e non della fede. In Europa la problematica più allarmante dell’euro è l’attuale crisi demografica; è evidente – spiega l’eminente studioso – che la politica non può affrontare una probabilissima estinzione di civiltà con le sole armi dell’economia e della sociologia. Né tanto meno comprendere la crisi esistenziale di interi popoli nei tempi di uno o più mandati politici, spesso tra loro diversissimi e contrastanti. Considerato poi il dovere di un’Europa tradizionalmente pluralistica, è altrettanto evidente quanto la prospettiva millenaria cristiana rappresenta invece un contributo antropologico fondamentale al dibattito legislativo.

In Usa, conclude Weiler, il crollo della famiglia naturale ha provocato a detta di molti studiosi crisi sociali profonde; equiparare ad omofobia il desiderio di alcuni, compresa la Chiesa, di proteggere la famiglia naturale è una valutazione oltre che offensiva, profondamente pericolosa. È in definitiva sui temi etici – come l’inizio e il fine vita, la questione delle unioni gay o la morale sessuale in generale – che si giocherà sempre di più la sorte della nostra civiltà, mentre la tanto osannata laicità di stato dovrà rispondere delle conseguenze, anche economiche, che determinate scelte legislative comporteranno sulla vita e sul futuro di milioni di persone, e di generazioni.

Valentina Fanton

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