Il primo incontro italiano sulla Naprotecnologia

Incontro naprotecnologiaIl 20 febbraio 2013 a Milano ha avuto luogo il primo incontro italiano sulla Naprotecnologia, un nuovo metodo naturale per la cura dell’infertilità e la salute della donna, organizzato dalla casa editrice Mimep-Docete delle suore loretane in collaborazione con il Comitato Cattolici Civiltà dell’Amore.

Sono intervenuti ginecologi e specialisti italiani e stranieri, che da tempo studiano e utilizzano la Naprotecnologia per aiutare le coppie a concepire un figlio. L’incontro ha presentato le caratteristiche, le metodologie e i vantaggi di questo metodo che è naturale ma non per questo semplice o semplicistico perché basato su ricerche approfondite e cure farmacologiche, endocrinologiche e chirurgiche.

Ha dato inizio agli interventi la dr.ssa Raffaella Pingitore (Medico naprotecnologo, specialista in ostetricia, ginecologia e chirurgia e formatrice Teen Star, Lugano, Svizzera) che ha spiegato su cosa si basa la novità della Naprotecnologia, indicando le differenze di questo metodo rispetto agli altri metodi naturali e alla fecondazione in vitro. Questo metodo analizza i marcatori del ciclo: le perdite ematiche e il muco cervicale . La Naprotecnologia è un metodo sistematico a approfondito del muco dalla cui osservazione si scoprono le cause di infertilità e altre anomalie. La Naprotecnologia, infatti, non è solo un aiuto per il concepimento ma per far fronte a problemi ormonali, organici e a molte sindromi legate al ciclo. La donna impara a conoscere la propria fertilità, poiché essere fertile non significa avere le mestruazioni regolari, ma avere l’ovulazione.

Il dr. Maciej Barczentewicz (Medico naprotecnologo, specialista in ginecologia e ostetricia, consulente di Bioetica per l’Episcopato polacco, e presidente dell’Istituto Giovanni Paolo II per la Cura dell’Infertilità della Coppia, Lublino, Polonia) ha affrontato il tema dell’infertilità come malattia cronica multi-fattoriale riportando casi concreti di coppie con differenti impedimenti ad avere bambini. La Naprotecnologia si basa su un approccio multifattoriale al problema cronico dell’infertilità poiché essa è una conseguenza di più cause e non dipende da un’unica condizione acuta. Solo con questo approccio si ha la possibilità di un miglioramento, a differenza della fecondazione in vitro che agisce solo in prospettiva di una risoluzione immediata (e la sua efficacia non è assolutamente certa) e non definitiva. Con la naprotecnologia vengono presi in considerazione tutti i possibili fattori come il basso livello di ormoni, la dieta e l’alimentazione, il muco limitato, fattori genetici etc… E in un secondo momento verranno adottate le cure specifiche al caso.

La relazione della dr.ssa Małgorzata Mąsiorska (Istruttrice del Modello Creighton, pedagoga, coordinatrice di Voci Cattoliche Polacche, portavoce dell’iniziativa civica europea “Uno di Noi”, Varsavia, Polonia) ha chiarito il ruolo fondamentale, nell’ambito della Naprotecnologia, dell’istruttore che segue la coppia e spiega alla donna come osservare i marcatori del ciclo mestruale.

La dr.ssa Serena Del Zoppo, (specializzanda ginecologa presso l’ospedale Fatebenefratelli di Milano) ha presentato il Progetto Serenità, che intende aiutare le coppie che da un anno o più ricercano una gravidanza senza successo, utilizzando la capacità delle donne di osservare i propri sintomi. A chiusura dell’incontro, il dr. Michele Barbato (Primario di Ostetricia e Ginecologia presso l’ospedale di Melegnano, provincia Milano), da quarant’anni impegnato nello studio dei metodi naturali, ha parlato del progetto FEDRA che ha lo scopo di creare un lavoro comune e un unico linguaggio europeo sui metodi naturali per ottenere maggiori e migliori risultati.

Straordinaria è stata l’affluenza, più di 80 partecipanti tra ginecologi, medici, associazioni e persone provenienti da tutta Italia: dalla Lombardia, dalle Marche, dal Lazio, dalla Campania dalla Liguria, dal Piemonte e persino dalla Sardegna. Una partecipazione attenta e interessata alla diffusione e all’utilizzo anche in Italia della Naprotecnologia, nata con il prof. Hilgers negli Stati Uniti e al momento diffusa con successo in Irlanda e Polonia. La nostra grande soddisfazione è stata la decisione di una ginecologa di fare il corso per diventare medico naprotecnologo e la richiesta da parte di due giovani ostetriche, di poter seguire il corso per diventare istruttrici del Modello Creighton. Questo desiderio di persone giovani, significa la speranza e la concreta possibilità di accogliere e sviluppare anche in Italia un metodo naturale, efficace ed etico per vincere l’infertilità.

Erica De Ponti
Ufficio stampa Mimep-Docete, info@mimep.it

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Chiara Lalli e l’aborto, un approccio poco scientifico

Sindrome post abortoLa ricercatrice Chiara Lalli, volto nuovo del relativismo laicista italiano, ama spaziare senza soluzione di continuità dal sostegno per l’eutanasia fino alla negazione dell’esistenza dell’anima (ricevendo risposte precise e puntuali su questo sito web).

La filosofa collabora con Il Corriere della Sera, dove è recentemente stata recensita la sua ultima fatica dedicata all’aborto: “La verità, vi prego, sull’aborto” (Fandango 2013). La missione che si è data è molto suggestiva: dopo l’eutanasia come “dolce morte”, ora è il momento di far passare anche l’idea dell’“aborto dolce”, tentando di normalizzare l’interruzione di gravidanza ad un banale intervento medico, una sorta di estrazione delle tonsille. Scrive: «Voglio esplorare una possibilità teorica che si possa scegliere di abortire, che lo si possa fare perché non si vuole un figlio o non se ne vuole un altro, che si possa decidere senza covare conflitti o sensi di colpa». La frase è agghiacciante, anche perché non si parla del feto umano come un agglomerato di cellule, ma proprio di “figlio”. Una lucida e consapevole ammissione di cosa è la soppressione di individuo umano, accettata con tranquillità.

In un intervento del 2005 anche lei è caduta nella fallacia utilitarista del considerare “persona” soltanto il soggetto che presenta «stati mentali coscienti e una pur rudimentale capacità di autocoscienza», quindi, ha concluso, «è abbastanza inverosimile attribuire all’embrione – sebbene umano e geneticamente irripetibile, e sebbene potenzialmente personale – queste caratteristiche». Se la Lalli avesse ragione, allora sarebbe lecito teorizzare l’infaticidio, come hanno fatto i ricercatori Minerva e Giubilini, responsabili della Consulta di Bioetica Laica, dato che nemmeno il neonato è dotato di coscienza e autocoscienza, così come centinaia di disabili e malati gravi. Embrioni, neonati e disabili apparterrebbero tutti alla non ben definita categoria degli esseri-umani-non-persone, ovvero individui che è lecito eliminare in quanto esseri umani privi diritti giuridici.

Tornando al nuovo libro della Lalli, la ricercatrice ha impostato il suo lavoro attraverso interviste a donne contente di aver abortito (selezionate in che modo? estranee? sue amiche?) e sopratutto ha tentato di confutare l’esistenza della cosiddetta Sindrome Post Aborto (PAS), il disturbo prevalentemente psichiatrico che insorge frequentemente dopo l’aborto e che rimane costante fino a quando viene elaborato, o si aggrava all’aumentare di altre esperienze traumatiche. Secondo la recensione de Il Corriere, la Lalli ha cercato di demolire l’esistenza di tale disturbo tramite alcuni studi. Il primo è quello del 2012 realizzato dall’American Pubblic Healt Association Meeting, che però ha valutato le donne soltanto entro la prima settimana mentre sappiamo che il “disturbo post-traumatico da stress” insorge solitamente tra i tre e i sei mesi successivi all’aborto, come ha spiegato la psicologa e psicoterapeuta Cinzia Baccaglini, tra le massime esperte italiane.

E’ stato poi citato il lavoro di Nada Logan Stotland, che però è in realtà un semplice libro intitolato “The Myth of the Abortion Trauma Syndrome” (la Stotland è inoltre una abortista convinta, come si evince dai suoi articoli sull’Huffington Post), e di quello realizzato negli anni ’90 da Brenda Major (e altri), dove però -al contrario della Lalli- si riconosce l’esistenza di disturbi post aborto, seppure in bassa percentuale (inoltre, il 72% del campione analizzato nello studio riferisce comunque dei danni dall’aborto, seppur considerati, dalle stesse donne intervistate, minori rispetto ai presunti benefici addotti a giustificazione dell’aborto). Probabilmente verranno citati altri studi, ma quasi certamente (pronti ad essere smentiti) nel libro non si parla della revisione sistematica realizzata nel 2008 e pubblicata su Contraception (rivista americana considerata schierata in versione pro-choice), la quale, valutando tutti gli studi tra il 1989 e il 2008, ha rilevato che quelli di scarsa qualità e con metodologia più difettosa erano proprio quelli che negavano l’esistenza di un legame tra l’aborto e una peggior salute mentale.

Probabilmente (pronti ad essere smentiti) la Lalli non ha nemmeno citato l’infinità di studi scientifici che dicono proprio l’opposto della sua tesi, i quali dimostrano quanto l’aborto possa danneggiare la salute mentale delle donne. Sul nostro sito web abbiamo raccolto in un dossier molti di questi studi: citiamo, come esempio, lo studio del 2008 pubblicato dal British Journal of Psychiatry, dove si evidenzia un “moderato” aumento di disturbi mentali per le donne che hanno avuto aborti indotti. Nel 2011, sempre il British Journal of Psychiatry ha cambiato idea dopo aver analizzato la più grande stima quantitativa dei rischi per la salute mentale associati all’aborto disponibili nella letteratura mondiale. Verificando 22 studi e 877.181 partecipanti si è arrivati a questa conclusione: le donne che hanno subito un aborto presentano un rischio maggiore dell’81% di avere problemi di salute mentale e queste informazioni devono essere comunicate a chi fornisce servizi per l’aborto. Presupponiamo che Chiara Lalli non sarà d’accordo con il British Journal of Psychiatry, ma questo probabilmente non interesserà ai ricercatori inglesi. Nel 2008, perfino il Royal College of Psychiatrists ha abbattuto la missione dell'”aborto dolce” mettendo chiaramente in guardia, come riporta il Time, sul fatto che «le donne possono essere a rischio di problemi di salute mentale se hanno aborti», e addirittura che «non dovrebbe essere consentito di avere un aborto fino a quando non vengono valutati i possibili rischi per la loro salute mentale».

La questione dunque è ampiamente aperta e il lavoro della Lalli -almeno così come viene presentato da Il Corriere della Sera– appare viziato da un bias ideologico e ben poco scientifico.

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Miguel Gordon, medico spagnolo: «ho lasciato l’omosessualità»

Miguel CordonDalla Spagna un altro coming out, un ex omosessuale ha trovato il coraggio di sfidare il mainstream culturale e parlare pubblicamente del suo passaggio (o ritorno) all’eterosessualità. Dichiararsi omosessuale in modo pubblico, oggi, è non soltanto una moda borghese ma può portare anche ad un beneficio economico, come ha spiegato la cantante Gerardina Trovato, oltre che beneficiare di vari privilegi negati alle coppie eterosessuali, come descritto in questo articolo.

Il coraggio serve a persone come Miguel Angel Sanchez Gordon, medico spagnolo di 55 anni, che a causa di vicende familiari «per 40 anni ho subito una attrazione sessuale verso gli uomini. Questo mi ha causato grande e profondo dolore, che ho vissuto in assoluta solitudine e incomprensione. Nonostante sia un medico», ha continuato, «ho cercato aiuto da colleghi psichiatri, ma non ho mai trovato una soluzione alla mia dipendenza dal sesso». Schiavo della pornografia, la sua vita confermava l’opinione sull’omosessualità di Sigmund Freud: «avevo tutte le qualità di un bambino e non di un adulto».  

Gordon non ha mai voluto etichettarsi come “gay”, e dopo lunghi anni di attrazioni omosessuali indesiderate ha deciso di contattare Alberto Perez, un noto ex omosessuale, di cui abbiamo già parlato.  Egli «mi ha aiutato a prendere la mia eterosessualità», ha spiegato il medico spagnolo, «nascosta dalla menzogna del mio orientamento sessuale». Alberto gli ha proposto la cosiddetta “terapia riparativa”, ovvero un supporto psicologico offerto da alcuni terapisti agli omosessuali che ne fanno richiesta, con l’obiettivo di guarire le ferite emotive che -secondo loro- hanno portato queste persone ad assumere comportamenti omosessuali. Sull’efficacia di tali terapie non c’è unanimità di consensi in ambito scientifico, molti psichiatri e importanti associazioni mediche sono fermamente contrari, altri la pensano diversamente, supportati anche da qualche studio scientifico (più recenti e anche più datati).  Tuttavia la realtà mostra che numerose persone sono riuscite a uscire dall’omosessualità e intraprendere un altro percorso di vita, sposandosi e avendo dei figli.

Questa terapia, ha proseguito Gordon, «mi ha aiutato a superare la dipendenza sessuale che mi assediava e non mi permetteva di essere libero. Ho imparato a fare “atti di libertà”,  il cambiamento è possibile. La mia vita è cambiata radicalmente! E sono molto felice! Ho realizzato un sogno che sembrava irraggiungibile: vivere la mia sessualità con mia moglie come un maschio adulto. Posso testimoniare che il cambiamento è possibile»

L’attivista omosessuale Camille Paglia, nel suo libro Vamps and tramps (New York: Vintage Books 1994, p. 70-72) si è chiesta: «l’identità gay è tanto fragile che non può sopportare l’idea che alcune persone non possano desiderare di essere gay? La sessualità è molto fluida, e le inversioni sono teoricamente possibili e aiutare i gay ad imparare ad essere eterosessuali, se lo desiderano, è un obiettivo perfettamente degno». La ricerca mostra chiaramente come l’identità sessuale sia modificabile e, come affermato dallo psicologo Joan Sophie «ci sbagliamo se vogliamo interpretare il concetto di stabilità dell’orientamento sessuale nel senso che gli individui che sono omosessuali non possono successivamente cambiare» (J. Sophie, A critical examination of stage theories of lesbian identity development, Journal of Homosexuality 1986, p. 49). Tuttavia ancora oggi per molti è sicuramente possibile, e lecito, diventare omosessuali, ma sarebbe impossibile, e illecito, approdare (o tornare) all’eterosessualità.

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La follia dello scientismo e il ruolo della filosofia

Scientismo“La follia dello scientismo” è il titolo di un articolo del professore di scienze biologiche dell’università del Sud Carolina, Austin L. Huges, pubblicato sulla rivista “The New Atlantis”, in cui l’autore descrive appunto la degenerazione del pensiero scientista, per il quale taluni scienziati vorrebbero attribuire alla scienza campi di competenza della filosofia, così da dichiararla ormai obsoleta, analizzando il fenomeno nei suoi caratteri fondamentali e riportando numerosi esempi di inconsistenza filosofica delle teorie pseudoscientifiche che si presume dovrebbero scardinare il ruolo della filosofia.

L’autore si chiede, dunque: “Lo scientismo è difendibile? È vero che le scienze naturali forniscono una spiegazione soddisfacente e ragionevole (…) di ogni fenomeno dell’universo? Ed è vero che la scienza è più in grado, o persino l’unica ad esserlo, di rispondere alle domande che un tempo si ponevano i filosofi?”.

Innanzitutto, fa intendere Hughes, la filosofia ha un ruolo fondamentale nel definire le “regole” della scienza, che è necessariamente soggetta, ad esempio, alla logica elementare che, se non padroneggiata e conosciuta a sufficienza, può rappresentare un grave ostacolo per lo scienziato. Ancora di più, la filosofia è necessaria a definire e comprendere la scienza stessa: è ciò che succede nelle teorie essenzialiste, che sostengono una chiara distinzione tra scienze e filosofia e un ruolo necessario per ognuna, tra le quali c’è il criterio di falsificabilità di Karl Popper, per il quale una teoria è scientifica solo se risulta possibile pensare un’evidenza empirica che la dimostri errata: tutto il resto, ovviamente, cade al di fuori del campo della scienza.

Esistono tuttavia teorie che identificano la scienza con le “istituzioni sociali” che la rappresentano e con coloro che la praticano: i sostenitori di queste teorie “istituzionali” arrivano talvolta ad utilizzare i “fattori istituzionali” come criteri di qualità della scienza, che non necessita più, in questo modo, dell’epistemologia. La debolezza di questa definizione di scienza risiede nella sua natura essenzialmente circolare: “Scienza è semplicemente quello che gli scienziati fanno”. L’inaffidabilità delle istituzioni scientifiche, inoltre, è palese (nel peer-reviewed si possono testimoniare condizionamenti dettati da pregiudizi, vendette personali, eccetera) e gli scienziati non sono certo esenti dalle corruzioni presenti in tutti gli ambienti abitati da esseri umani.

 

Hughes, comunque, individua tre campi tradizionalmente filosofici che si pretende spesso di studiare con gli strumenti della scienza, arrivando a conclusioni migliori di quelle dei filosofi: metafisica, epistemologia, etica.

Metafisica. “La filosofia è morta”, sostengono Hawking e Mlodinov in “The Grand Design”, e tocca alla scienza rispondere a domande quali: “qual è la natura del reale?” “Da dove viene l’universo?” “L’universo ha bisogno di un creatore?” Tuttavia, in contrasto con simili posizioni, si pongono chiaramente le corrispondenze tra la moderna cosmologia scientifica ed alcune concezioni tradizionali riguardanti la creazione dell’universo (la teoria del Big Bang di Lemaitre è un esempio, o le varie forme del principio antropico). “È forse, in parte, in risposta a queste apparenti coincidenze”, scrive Hughens, “che nasce una grande letteratura professionale e popolare dedicata, negli ultimi decenni, alle teorie sul multiverso.”. Ma se queste teorie possono, in qualche modo, allontanare la conclusione che l’universo sia “fine-tuned”, fatto apposta per l’umanità, non possono evitare le domande fondamentali della metafisica suscitate dal fatto che esiste qualcosa piuttosto che niente. Questi argomenti falliscono, infatti, nel distinguere tra essere necessario e contingente: che l’universo possa essere contingente non è affatto un’idea nuova, e di fatto la terza prova di San Tommaso d’Aquino (che definisce Dio come l’essere necessario in sé stesso) prevede che esistano esseri contingenti e mantiene la stessa validità teorica, multiverso o meno. E se, per le leggi della probabilità (su cui si basano Hawking e compagnia), è “certo” che in una moltitudine di universi ci sia quello giusto per permettere la nascita dell’uomo, tale certezza non ha nulla a che fare con la necessità: il fatto che, lanciando migliaia di volte una moneta, diventi praticamente certo che esca, almeno una volta, testa piuttosto che croce non ha nulla a che fare con l’evento necessario perché questo sia possibile: l’esistenza della moneta! Allo stesso modo, le teorie del multiverso continuano a non spiegare come mai il multiverso stesso (o la matrice del multiverso) esista.

 

Epistemologia. “Come mai siamo in grado di riconoscere le leggi della fisica? Come possiamo essere sicuri che tale conoscenza sarà sempre migliore, sino a diventare totale?” La risposta comune nell’ambiente scientista è: evoluzione, applicata anche all’epistemologia a partire da W.V.O. Quine. Egli sostiene, infatti, che la selezione naturale avrebbe favorito lo sviluppo del discernimento tra vero e falso poiché credere il falso sarebbe dannoso; più recentemente, anche le teorie scientifiche sono state considerate oggetto della selezione naturale. Ora, sebbene la predisposizione ad accumulare informazioni garantisca un certo vantaggio evolutivo, non è affatto ovvio che ci siano sempre dei vantaggi evolutivi nel conoscere meglio la realtà: la teoria dei quanti o l’analisi del DNA non sembrano avere conseguenze sulla sopravvivenza della specie in senso darwiniano. Anche in biologia, oggi, si tende sempre meno ad aspettarsi che ogni tratto di ogni organismo sia spiegabile con la selezione positiva: molte caratteristiche di organismi sorsero da mutazioni che non furono selettivamente favorite né sfavorite. Parlare di un processo darwiniano di selezione tra idee culturalmente trasmesse è al massimo una blanda analogia, con implicazioni fortemente fuorvianti: permette speculazioni che sembrerebbero poter spiegare ogni singola caratteristica umana. Inoltre, in ogni caso, questi argomenti possono al massimo aiutare un minimo a spiegare perché l’uomo sia in grado di comprendere il mondo, ma non perché il mondo sia in sé comprensibile.

 

Etica. L’etica è probabilmente la branca della filosofia più tenacemente attaccata dallo scientismo, che tende solitamente a sostenere il relativismo morale: mentre la scienza riguarda l’oggettivo ed il fattuale, l’etica rappresenta soltanto il sentire soggettivo delle persone: non c’è posto per il giusto e lo sbagliato universali. Storicamente, in tutto questo, è stata coinvolta la biologia evolutiva: il darwinismo sociale, che dalle suggestioni di questa nacque, servì a giustificare il capitalismo senza regole, si tentò poi di “correggerlo” con l’eugenetica perché, ironicamente, l’evoluzione biologica dimostrò di andare in verso opposto rispetto a quella economica (dopotutto ha come elemento centrale la riproduzione, non il capitale), quindi occorreva “fermare gli inadatti che si riproducono come conigli”, nonostante ciò non avesse senso da un punto di vista darwiniano (che avrebbe giudicato inadatte proprio le classi agiate e poco (ri)produttive). Passando alla sociobiologia e alla psicologia evolutiva, si lascia il piano politico per concentrasi sul personale o, meglio, sull’intimo: ecco che spuntano fuori “storie proprio così” che spiegano la natura “adattativa” di ogni sorta di comportamento sessuale. Dato che comportamenti come l’infedeltà e lo stupro esistono, la selezione naturale dovrebbe aver favorito tali comportamenti, quindi certamente lo ha fatto: ecco come raccontare storie le fa diventare dei fatti (mentre non sono altro che speculazioni, per lo meno nella stragrande maggioranza dei casi). La mossa successiva, scrive Hughens, è solitamente deplorare tali comportamenti: fanno parte della nostra eredità, ma oggigiorno non li approviamo. Ma se “noi ora sappiamo” che i comportamenti egoistici dei nostri avi sono immorali, come siamo arrivati a saperlo? Su quali basi diciamo che qualcosa è sbagliato se il nostro comportamento non è altro che una conseguenza della selezione? E se desideriamo di essere moralmente migliori dei nostri antenati, siamo liberi di esserlo? O siamo programmati per comportarci in un modo che ora, per qualche motivo, deploriamo?

Parte di questo approccio evoluzionistico mira, naturalmente, a smontare la morale: se essa deriva dalla selezione naturale, dicono, non può riferirsi ad alcuna verità etica oggettiva. Una possibile replica potrebbe consistere nel sostenere che, semplicemente, quella che s’è evoluta è la capacità di comprendere la natura umana, e che le proposizioni etiche derivino dalla comprensione di tale natura: ma questo è ciò che sosteneva Aristotele nell’Etica Nicomachea! Eppure non tutti gli scientisti riducono l’etica all’evoluzione. Alcuni, come Sam Harris, si basano sull’utilitarismo: il criterio per giudicare la moralità di un comportamento consiste nel contributo che tale comportamento offre al “benessere delle creature coscienti”, così si cerca di aggirare la distinzione fatti-valori concentrandosi solo sui fatti, ma si finisce poi per affermare certi valori su altri, e senza discuterli. Harris, ad esempio, “dimentica” di definire quel “coscienti”: non è forse vero che la coscienza è strettamente legata alla dimensione temporale? Il benessere di esseri che saranno coscienti (gli embrioni), o che potrebbero esserlo di nuovo (i pazienti in stato vegetativo) non conta nulla? E perché? E se ad Harris interessano solo le creature coscienti nel momento presente, perché mai non consumiamo all’istante tutte le risorse del pianeta per trarne il più possibile, fregandocene delle generazioni future? Ma ancora, con quali fattori si calcola il benessere? Harris si appella alle neuroscienze, bene, ma il fatto che sappiamo quali sono le differenze tra l’organismo di una persona ben nutrita e quello di una che sta morendo di fame non contribuisce certo gran che alla soluzione del problema della fame nel mondo: il fattore che fa la differenza non è interno, ma esterno, ed è il cibo! E sapere che il sistema nervoso reagisce in un certo modo in uno stato di malnutrizione non aggiunge un bel nulla alla discussione riguardante il problema, che consiste nel comprendere come evitare che proprio quelle condizioni attivino certi comportamenti del sistema nervoso, se vogliamo vederla da quel punto di vista. Il fulcro del problema, poi, si fa palese quando ci si mette a parlare dei comportamenti propriamente etici: Harris ricava, dai suoi dati, che le azioni dei criminali vengano determinate da qualche combinazione di “geni sbagliati, famiglia sbagliata, idee sbagliate e sfortuna”. Ora, tralasciando la storia dei geni che ci riporta all’eugenetica, la domanda etica non è “quali sono le condizioni che formano una buona persona?”, ma “Come possiamo fare in modo che tutti vivano in circostanze che non li costringano a diventare criminali?” Semplice: con complesse discussioni di filosofia, diritto, politica che portino a capire quale sia la vita buona e come si possa garantirla. Ciò che fa lo scientismo è, semplicemente, presentare come soluzioni originali quelli che non sono altro che i termini da cui prendono parte discussioni iniziate millenni fa.

 

La conclusione di Hughens è questa: l’ultima a ridere sarà la filosofia, perché lo scientismo rivela continue confusioni concettuali che risultano ovvie alla riflessione filosofica; piuttosto che renderla obsoleta, si sta preparando il terreno per un revival sempre più necessario. Arriva poi a dire che, se chiamiamo superstizione l’insistere testardamente nell’affermare che qualcosa abbia poteri che non sono supportati da alcuna evidenza, ecco che questa è la natura dello scientismo. Una natura pericolosa, perché potrebbe minare gravemente la credibilità della scienza stessa, spingendo la gente a dubitarne anche quando discute dei suoi veri campi di competenza. L’augurio dell’autore è che giunga un nuovo illuminismo, capace di rimettere al loro posto certe superstizioni spacciate per scienze empiriche.

Considerato com’è andata la storia, compresa la constatazione che è proprio in un clima post-illuminista che presero vita le suggestioni scientiste, noi ci limitiamo a sperare che le prossime generazioni di scienziati dispongano di una formazione filosofica tale da comprendere che il campo di esperienze delle scienze empiriche ha dei confini, che non possono essere valicati senza iniziare a parlare di filosofia, anche quando non ce se ne rende conto.

Michele Silvi

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Da Sergio Parisse a Francesco Totti, sportivi cattolici

Sergio ParisseDiciamocelo francamente: i campioni dello sport quasi sempre suscitano la nostra attenzione più per i loro gesti anticonvenzionali che non per le loro imprese agonistiche. Se Maradona o Gascoigne possono essere definiti come dei precursori ante litteram di Balotelli – ma il mai dimenticato campione argentino fa impallidire pure il più giovane Mario, e su questi paralleli tra presente e passato i giornalisti ormai si sono specializzati-, nell’immaginario di tutti noi restano impresse vicende familiari più o meno edificanti, relazioni tumultuose con show-girl che vanno e vengono, frequentazioni ed amicizie problematiche, scommesse illegali e partite vendute, corpi ridotti ad ospitare tatuaggi sempre più elaborati ampiamente esibiti sulle riviste patinate …e l’elenco potrebbe ancora continuare.

Con questo non intendiamo demonizzare lo sport, sia chiaro, ma resta un dato di fatto oggettivo impossibile da negare come ormai molti campioni si impegnino a veicolare, in modo più o meno voluto, messaggi e comportamenti che trovano poi nel grande pubblico, come ad esempio i più giovani, imitatori interessati solo agli aspetti più deteriori. Peraltro ci sono anche quelli che mandano messaggi più rassicuranti in quanto testimoni, tanto nella pratica agonistica quanto nel privato, di uno stile di vita che affonda le sue radici in valori maggiormente degni di essere messi in evidenza. Questi valori, poi, non necessariamente devono trarre origine da convinzioni religiose: però è innegabile che quando ciò avviene ci troviamo di fronte a belle testimonianze che meritano a nostro avviso maggiore risalto.

Radamel Falcao, ad esempio, dopo la finale di Europa League nel maggio 2012, ebbe modo di dichiarare: “Sono molto grato ai miei compagni di squadra e allo staff tecnico. Dedico la vittoria a Dio, a mia moglie, alla mia famiglia e a tutti gli appassionati dell’Atletico”. Lo stesso calciatore, oltre che nelle interviste che rilascia, anche su Twitter non manca mai di ringraziare Dio per il coraggio che gli infonde e i compagni di squadra perché lo aiutano ad andare in rete con frequenza.

Altro calciatore spiazzante è Javier “Chicharito” Hernandez, il messicano del Manchester United che ha letteralmente stupito giornalisti e commentatori sportivi affermando chiaramente: “Sono un cattolico, lo dico chiaramente. A casa ho ricevuto una educazione cattolica, soprattutto mia nonna è molto cattolica ed è il fondamento della nostra famiglia”. La sintesi perfetta della sua vita, sempre secondo il giovane calciatore che sta ben figurando nel campionato inglese, si riassume in tre semplici parole: “Dio, la famiglia e la perseveranza”.

Concludiamo questa breve carrellata di personaggi dello sport con Sergio Parisse e Francesco Totti. In una bella intervista Parisse non nasconde nulla riguardo a certe asperità del suo carattere e a taluni eccessi che gli hanno nuociuto non poco da giovane, problematiche che il noto campione del rugby italiano prova a lasciarsi alle spalle grazie alla rinnovata serenità donatagli dalla paternità e da un contesto familiare cattolico che lo ha educato al valore del lavoro come impegno quotidiano. Del romanissimo Totti, invece, si è sempre saputo della sua fede cattolica e di quanto abbiano inciso nella sua vita personalità come quelle di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Dichiarazioni di affetto per la recente rinunzia di Benedetto XVI in un calciatore affermato come Totti sono quasi una rarità. Stupefacente poi l’ammissione riguardo alla fede praticata all’interno della parrocchia di appartenenza a cui si aggiunge pure il nome del sacerdote che lo assiste spiritualmente.

Che altro aggiungere? I campioni dello sport, volenti o no, costituiscono un modello di riferimento per le loro vicende agonistiche e non solo. Bisognerebbe evitare di dare troppa importanza alle loro azioni che fanno tendenza secondo un certo modo di pensare dettato dal gossip. Del resto, quando questi atleti si ritirano a vita privata la luce dei riflettori mediatici si sposta su nuove leve che ricevono in consegna, oltre ad una improvvisa notorietà, a loro volta un ideale testimone che può anche essere improntato alla discontinuità. Però, ammettiamolo senza reticenza alcuna, gli sportivi che nella loro vita si sono fatti “solo” testimoni di virtù praticate sono quelli che preferiamo ricordare meglio.

Salvatore Di Majo

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Ma una Chiesa povera non aiuta nessuno…

Caritas«Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!». Questa è la bellissima espressione di papa Francesco durante l’incontro con i media il 16 marzo. La frase può essere letta in modo superficiale, come hanno fatto i media e anche alcuni uomini di politica (ad esempio Beppe Grillo), oppure può essere intesa dal punto di vista cristiano, assumendo dunque una validità logica e un senso compiuto.

Se venisse presa letteralmente e in modo superficiale, come dicevamo, la frase non avrebbe senso. Cosa se ne fanno i poveri di una Chiesa povera? Cosa se ne fanno i poveri di una Caritas che non ha i soldi per offrire pasti gratuiti tutti i giorni? Cosa se ne fanno i poveri di un ricovero di religiosi che non hanno i soldi per il riscaldamento? Assolutamente nulla, una Chiesa povera non può aiutare nessuno (ovviamente sempre dal punto di vista dell’aiuto materiale!), così come un imprenditore senza soldi non può aiutare chi è in cerca di lavoro…non ha senso dire: “un imprenditore povero per i disoccupati!”. Una Chiesa povera per i poveri è una frase che non ha alcun senso, i quotidiani hanno riportato una frase palesemente contraddittoria, che ovviamente non hanno capito.

La bellissima espressione di papa Francesco va evidentemente letta contestualizzandola all’interno di un approccio cristiano, dove la povertà non coincide obbligatoriamente con il banale “non avere nulla”. La povertà è innanzitutto un atteggiamento della persona, Gesù nel Vangelo ripete spesso: “beati i poveri di spirito”. La povertà cristiana è il non porre la speranza in quel che si ha, essere libero da quel che si possiede (dal denaro, dai vestiti, dagli affetti), sapendo che non sta in essi quel di cui l’uomo ha bisogno per essere lieto. San Paolo lo dice benissimo: «quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero […]; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (1 Cor 7, 29.31).

Dunque la povertà cristiana non è non avere soldi, ma è l’essere liberi da essi, usarli (e usare tutto quel che si ha) come se non li si possedesse, con un distacco intelligente. La povertà cristiana è l’uso corretto e cristiano dei soldi, così come, ad esempio, fanno i missionari nel mondo: non danno il loro piccolo stipendio ai poveri che incontrano, ma usano questo denaro per investire, ad esempio, in centri di formazione per insegnare loro un mestiere (detto più banalmente: non si regala il pesce, ma si insegna a pescare).

Il Papa ha richiamato la Chiesa ad un distacco morale da quel che ha (la povertà di spirito), certamente anche ad una vita basata sull’essenziale, ma non ha chiesto che la Chiesa diventi materialmente povera e dunque incapace di aiutare il prossimo in difficoltà. Anche il paragone con San Francesco d’Assisi che molti fanno è sbagliato: il suo carisma vale per i francescani (è un esempio, per tutti, di assoluta libertà dal mondo, perfino dalla morte, che chiamava “sorella”), ma non può valere per la Chiesa intera che mantiene e aiuta ogni giorno milioni di individui in difficoltà in tutto il mondo.

Non lasciamoci abbindolare, chi spinge per una Chiesa materialmente povera (cioè non in senso cristiano) vuole una Chiesa inesistente, costretta a chiudere le sue missioni, a lasciare decadere le sue chiese, le sue scuole e i suoi oratori, incapace economicamente di realizzare iniziative culturali e spirituali, ecc. E’ la Chiesa che desidererebbe il laicismo, ovvero completamente assente nella scena pubblica e sociale. Invece, anche il denaro –se usato bene, in modo onesto e morigerato-, può contribuire alla missione della Chiesa di annunciare il Vangelo e sostenere la speranza di più persone possibili.

Occorre infine fare attenzione ad un altro equivoco, che la nostra riflessione può portare: la Chiesa non è un’ente di beneficenza, la Chiesa -ricca o povera che sia- annuncia e testimonia che la Risposta al bisogno dell’uomo è entrata nella storia, si è fatta carne ed è possibile incontrarLa per tutti, qui e ora. Come ricorda ancora papa Francesco: «se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa».

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L’odifreddura della settimana: Roberto Saviano

Roberto SavianoL’odifreddura della settimana l’ha vinta ancora una volta Roberto Saviano. Lo scrittore aveva conquistato l’ambito premio anche la scorsa volta, dividendolo a metà con Gianni Vattimo, quando su Twitter aveva temuto che le dimissioni di Benedetto XVI «fossero strategiche per la campagna elettorale: mostrare la fragilità della Chiesa per chiedere compattezza al voto cattolico. Sarebbe terribile se fosse così».

Questa volta si è lanciato in una crociata a 360° contro i “tabù della sessualità” nella società italiana, come recita il titolo del suo intervento. E quali sono secondo lui questi tabù? Sono «le coppie di fatto, le unioni e le adozioni gay, il fine vita. Per non parlare delle condizioni nelle carceri e della legalizzazione delle droghe». La colpa? Ovviamente della Chiesa, cioè degli sporchi cattolici che Saviano ha già preso di mira in passato quando ha setenziato: «I cattolici possono dire la loro, ma non influenzare o boicottare nuove leggi. Questo è profondamente ingiusto». Secondo Saviano, invece, «in una società sana, incline al cambiamento, non ci sono limiti ai diritti che è possibile ottenere senza sottrarre attenzione alle scelte economiche». Secondo Saviano, dunque, i Paesi in cui le rivendicazioni omosessuali, l’eutanasia e la droga libera non sono legali, sarebbero società insane, dunque malate, da curare a suon di ideologia. Fa sorridere più del resto leggere che la droga libera, elencata tra i tabù che si dovrebbero abbattere, sarebbe per Saviano il sintomo di una società sana…Da notare ancora la fantastica contraddizione di Saviano, notata anche da Gennari su Avvenire. Prima dice che sulle tematiche sopra citate ci sarebbe un “consenso unanime”, poi però rinnega tutto, leggiamo: «su questioni che vedono spesso un consenso pressoché unanime nella società civile, la politica ancora si nasconde dietro il velo di presunti temi etici. Altro non sono che tabù che fa comodo mantenere per non perdere voti». Ma i voti di chi? Non c’era mica un “consenso unanime”??

Soffermiamoci in particolare sull’affermazione che non dovrebbero esserci limiti al conferimento di diritti, ovvero chiunque potrebbe rivendicare un suo desiderio come un diritto. Quella del desiderio-diritto, espressa perfettamente e inconsapevolmente da Roberto Saviano, è una deriva molto comune: «alla parola “diritti” è ormai associata una tale connotazione emotiva positiva da poter essere utilizzata per persuadere e ottenere la fiducia di chiunque: il diritto è quindi divenuto anche un efficace artificio retorico», spiegano i magistrati Guido Piffer e Tommaso Emilio Epidendio. Siamo all’interno di una fase storica in cui «si assiste alla rivendicazione come diritto di qualunque pretesa soggettiva, cioè di qualunque desiderio, espressione di una concezione dell’esistenza individualistica (ciò che esiste è solo il singolo con le proprie aspirazioni) e relativistica (non esiste nessun criterio oggettivo di giudizio esterno al soggetto)». E ancora: «si potrebbe dire che la categoria del “diritto-desiderio” è espressione di una mentalità in balia del sentimento». Inoltre, ha spiegato Claudia Mancini in questa riflessione, «un desiderio autoreferenziale, abbandonato a se stesso, e che si nutre di sè, è destinato, però, ad una pericolosa ipertrofia: il desiderio si trasforma in bisogno […]. Il desiderio della continua affermazione di sé moltiplica bisogni, che reclamano diritti, e che spostano i limiti. Ma il limite non viene mai eliminato, si sposta solo, generando altri desideri che determinano nuovi bisogni, che reclamano ancora diritti, in un processo infinito che vanifica il fine stesso del desiderio autarchico: affermare se stessi in maniera soddisfacente.».

Lo ha sottolineato anche il filosofo Umberto Scarpelli, spiegando: «La parola ‘diritto’” si è caricata nella storia della cultura di una forza emotiva favorevole e intensa, sino a costituire uno strumento retorico di notevole efficacia. È molto più inquietante e persuasivo … pretendere qualcosa come proprio diritto, che non farne l’oggetto di una invocazione o preghiera affidata alla buona volontà del destinatario» (U. Scarpelli, Diritti positivi, diritti umani: un’analisi semiotica, cit. p. 39).

Anche Lucio Pegoraro, ordinario di Diritto pubblico comparato presso l’Università di Bologna ha criticato «la pretesa o l’interesse alla tutela di una posizione soggettiva» che vorrebbe equivalere «alla sua effettiva protezione in ciascun ordinamento […]. Se l’immigrato rivendica il diritto all’assistenza dicendo “ho diritto a curarmi senza il rischio di essere denunciato”, o l’omosessuale afferma che ha diritto a vivere la propria sessualità e a sposarsi come qualsiasi altra persona, in effetti stanno dichiarando esattamente l’opposto, ossia che non hanno alcun diritto. Manifestano pretese di vantaggio non riconosciute, in nome di una cultura che sembra ormai matura per ampliare la sfera dei riconoscimenti. Il fatto è che possono farlo solo se questo è il presupposto. In altri climi e in altri luoghi e in altri tempi, probabilmente neppure si sognerebbero di avanzare tali rivendicazioni. Gli studiosi di formazione giusnaturalista e idealista danno corpo con le loro teorie a tali rivendicazioni, che scollegano dalla storia, dalla geografia, dalla politica, dalla sociologia, dall’economia, dall’antropologia, offrendo la base per rivendicazioni di “diritti” che tali non sono in senso positivo, commisurate a un ordinamento ideale, che tuttavia, ahimè, sono pur esse figlie di particolari influssi culturali, generati dalla lunga e faticosa storia delle lotte e delle dottrine politiche occidentali che le hanno accompagnate». Quindi, ha concluso Pegoraro, «va denunciato l’abuso della parola “diritto” nel linguaggio giuridico, per designare qualsiasi “interesse” non ancora protetto in qualche misura all’ordinamento […]. Gridando sempre “al lupo”, quando il lupo non c’è, nessuno crederà più al pericolo del lupo, quando questo arriva davvero» (L. Pegoraro, Esiste un “diritto” a una buona amministrazione? (Osservazioni critiche preliminari sull’(ab)uso della parola “diritto”), Istituzioni del federalismo, 5/6.2010).

Ancora una volta Saviano appare confuso su quel di cui vuol sentenziare, arrivando anche ad affermazioni bizzarre, come abbiamo visto. Sorprende infine la sua confessione di usare gli scritti di Mircea Eliade come «bussola per orientarmi nella modernità». Peccato che il celebre scrittore e storico delle religioni rumeno la pensi esattamente al contrario di Saviano. Nella sua monumentale opera, Enea ha infatti mostrato il fallimento a lungo termine della secolarizzazione e del laicismo, poiché nell’uomo -ha spiegato- esiste un senso religioso innato, che è una componente ineliminabile della società umana. Sarebbe davvero positivo che Saviano si faccesse davvero orientare dagli scritti di Eliade, magari eviterebbe affermazioni come quelle appena da noi criticate.

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Il Dna e il processo orientato e organizzato della vita

DNA umanoDavvero molto interessante l’intervista che il quotidiano Avvenire ha fatto al prestigioso filosofo e divulgatore scientifico, nonché docente di Logica matematica, Evandro Agazzi, docente presso l’Università Autonoma Metropolitana di Città del Messico e con una carriera presso l’Università di Genova, la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

La tematica è la scoperta della doppia elica del Dna, avvenuta 60 anni fa (qui il bell’articolo per l’occasione del prof. Giorgio Masiero), che Agazzi ritiene essere «l’evento più importante della biologia del Novecento». Ma una delle conseguenze più interessanti è stata la nuova interpretazione del complesso fenomeno della vita biologica, che ha interrotto «l’egemonia meccanicista».

Si è in particolare introdotto «il fattore “informazione”. Si parla del Dna come di un sistema di istruzioni scritte in un codice chimico con un alfabeto che consta di soli quattro segni fondamentali. Le infinite combinazioni possibili fra di loro sono in grado di esprimere messaggi che valgono come precise istruzioni per costruire un intero organismo vivente. In questo modo ritrova il suo posto nella biologia quella visione della vita come processo organizzato e orientato, che la tradizione ha sempre condiviso e che è chiaro anche al senso comune, ma che la lunga egemonia di una visione meccanicista aveva screditato»«È fuor di dubbio», ha spiegato Agazzi, «che chiunque consideri questa molecola non può fare a meno di vedere la vita come lo sviluppo di un “disegno” (anche se questa parola è diventata un tabù in seguito all’abuso che ne hanno fatto i difensori americani della dottrina del “disegno intelligente”)».

Tuttavia una certa cultura allergica alla metafisica ha voluto sfruttare anche i progressi della genetica per portare avanti la sua campagna contro l’uomo. Il motivo è semplice: per negare Dio sono costretti a negare l’uomo, la sua libertà, la sua unicità e la complessa bellezza del creato, come ha spiegato benissimo il prof. Francesco Agnoli. Agazzi ha messo infatti in guardia: «è bene non sottovalutare un equivoco che possiamo chiamare “determinismo genico”, secondo il quale tutto ciò che accade ad un organismo è scritto sin dall’inizio nei suoi geni. Una visione riduttiva e oltre tutto errata, dal momento che, anche sotto il profilo biologico, le interazioni con l’ambiente influiscono sulla vita di un organismo almeno quanto il suo impianto genetico. Insomma è una strada pericolosa far dipendere dalle condizioni biologiche tutto quanto costituisce l’esperienza di un vivente, compreso l’uomo».

Un enorme passa avanti per l’uomo è stato realizzato dalla decifrazione del genoma umano da parte di ricercatori americani guidati dal genetista Francis Collins. Quest’ultimo ha più volte sottolineato come la sua fede cristiana sia stata rinvigorita grazie al suo lavoro scientifico, arrivando ad affermare: «Ho guardato per la prima volta nella storia umana le lettere del DNA umano – che io ritengo siano il linguaggio di Dio – e ho avuto solo un assaggio minuscolo della straordinaria potenza creativa della Sua mente, così lo è ogni scoperta che compie la scienza»

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Le false foto con Videla e Bergoglio

Bergoglio comunica videlaSiamo arrivati al terzo giorno per smentire le bufale anticlericali create nervosamente contro papa Francesco da parte di una cultura intollerante e menzognera come quella laicista. Dopo “il papa nazista Pio XII“, dopo le calunnie ateo-sovietiche contro Giovanni Paolo II e la diffamatoria accusa di militanza negli squadroni nazisti del giovane Joseph Ratzinger, si è ora confezionato il tutto per parlare di papa Francesco, il dittatore argentino.

Ci occupiamo oggi di alcune foto diffuse sul web pochi istanti dopo l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio, quasi contemporaneamente alle isteriche reazioni del mondo gay che ha vandalizzato la sua pagina Wikipedia. Entrambe le immagini vorrebbero mostrare il legame tra Bergoglio e il dittatore Videla, anche se lo stesso papa Francesco ha rivelato in passato di aver incontrato il dittatore nel 1976 proprio con lo scopo di intercedere a nome di molti detenuti o “desaparecidos”, come confermato anche da Alicia Oliveira, ex giudice della Corte suprema argentina e vittima lei stessa della dittatura, nonché molto amica di papa Francesco.

La prima fotografia (in alto a sinistra) è stata diffusa dal regista statunitense Michael Moore (il quale si è in seguito scusato) di un anziano prete, di spalle, nell’atto di offrire la comunione al primo presidente della dittatura, Jorge Videla. E’ stato dimostrato, anche grazie al video dell’evento rappresentato nella foto, che il sacerdote è Carlos Berón de Astrada e non Papa Francesco. Il luogo è la cappella della Pequeña Obra de la Divina Providencia Don Orione il 30 dicembre 1990 (Bergoglio aveva 54 anni), quindi alla fine della dittatura quando Videla stava scontando una condanna all’ergastolo.Bergoglio con videla

La seconda fotografia (qui a destra) mostra un sacerdote che passeggia sorridendo fianco a fianco sempre con Jorge Videla, anche in questo caso l’accusa implicita è quella di identificare in quel sacerdote Jorge Mario Bergoglio. Peccato che, come è stato ottimamente spiegato, papa Francesco sia nato nel 1936 e quindi nell’epoca in cui fu scattata questa foto (cioè quando Videla era al governo) aveva tra i 35 e i 45 anni. Ma il prelato nella fotografia ne mostra evidentemente parecchi di più, inoltre Bergoglio non è calvo nemmeno ora che ha 76 anni, mentre il prelato nella fotografia è evidentemente calvo. Infine, Bergoglio negli anni della dittatura della Giunta militare argentina era un semplice sacerdote membro dell’ordine gesuita, mentre il prelato nella fotografia porta chiaramente una veste da monsignore o da vescovo.

Il nostro primo articolo (aggiornato in questi giorni) si è concentrato della presunta complicità di Bergoglio con la dittatura argentina tra il 1976 e il 1983. L’affondo, arrivato da un ex terrorista e guerrigliere marxista, Horacio Verbitsky, ritenuto responsabile della morte di decine di civili innocenti a causa della sua violenza ideologica, non ha mai mostrato alcuna prova, mentre esistono numerose testimonianze nelle quali, oltre a respingere le accuse, si descrive tutto l’impegno di Bergoglio nel salvare e aiutare i desaparecidos. Le principali sono quelle di: Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace argentino; Graciela Fernández Meijide, membro della Commissione Nazionale sui desaparecidos (CONADEP); Alicia Oliveira, difensore del popolo della città di Buenos Aires; l’Associazione 24 marzo, accusatrice dei militari argentini; citiamo infine due desaparecidos, esponenti della Teologia della Liberazione violentati dalla dittatura argentina: Josè Luis Caravais, il quale ha riferito: «Padre Bergoglio mi salvò la vita. Se non mi avesse protetto a Buenos Aires dai repressori della dittatura, non sarei qui»; e Alfredo Somoza, che dice: «Jorge Mario Bergoglio e i gesuiti sono riusciti a salvare tante persone negli anni bui della giunta militare in Argentina. Ne sono stato testimone oculare. Questa della sua compromissione con la dittatura militare è una storia che vorrebbe ridurre il valore della sua elezione a Papa».

Il nostro secondo articolo si è concentrato nel mostrare la falsità di alcune citazioni circa il suo pensiero sulle donne. E’ stato abbastanza semplice ricostruire l’origine delle menzogne, la loro mancanza di fonte e la loro inesistenza sui principali quotidiani internazionali, cosa che sarebbe impossibile se davvero l’arcivescovo di Buenos Aires (com’era allora Bergoglio quando avrebbe detto queste cose) avesse pronunciato frasi discriminanti contro il gentil sesso. Soltanto alcuni quotidiani privi di credibilità e di serietà, come il Fatto Quotidiano, hanno preso per buone queste frasi prive di fonte e hanno pubblicato risposte moralizzatrici.

Il punto, come è stato spiegato su Avvenire, è che quanti protestano per la compromissione – vera o immaginaria – della Chiesa nelle vicende della Storia, vagheggiano in segreto una Chiesa fuori dalla Storia: una realtà astratta e da ultimo irrilevante, invisibilmente deputata alla gestione dell’invisibile. Hannah Arendt scriveva: «Le masse ideologizzate non credono nella realtà del mondo visibile, della propria esperienza; non si fidano dei loro occhi e orecchi, ma soltanto della loro immaginazione, che può essere colpita da ciò che è apparentemente universale e in sé coerente».

Simone F.

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Lo psichiatra Renzi: «adozioni gay? Ostacolo al normale sviluppo»

Ryan e famigliaL’agenda LGBT penetra anche negli asili attraverso libri, come il “Piccolo Uovo”, e spettacoli teatrali, come quello del Teatro Litta nella Milano del sindaco Giuliano Pisapia. Corrompe le menti dei più piccoli ingannandoli sulla genitorialità attraverso fiabe colorate, con le quali si educa alla fobia verso la diversità e la complementarietà sessuale. Il vizio comunista di uniformare ogni cosa non è morto con la caduta delle vecchie ideologie ma rimane e si amplifica grazie all’odio omosessuale contro la famiglia naturale, quella indicata dalla nostra Costituzione come l’unica possibile.

Un’ideologia che genera «tanta confusione» e «a quell’età è molto dannosa, condizionerebbe lo sviluppo e limiterebbe le potenzialità di mio figlio», ha affermato Bruno Renzi, psichiatra e ex direttore all’ospedale Sacco di Milano e docente presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Bologna, La Sapienza di Roma e l’Università di Catania.

«L’infanzia», ha spiegato, «è un’età fondamentale per la formazione e l’indirizzo psicologico di una persona. È in quegli anni che diversi fattori concorrono alla strutturazione della personalità, e uno di questi è l’introiezione di modelli – emotivi, cognitivi e comportamentali – che provengono dalle figure genitoriali. In un contesto familiare normale, con una polarità maschile e una femminile, il bimbo ha la possibilità di acquisire i modelli congeniali alla sua struttura: se è un maschietto è opportuno che li acquisisca dal padre, altrimenti dalla mamma. Messo di fronte a libri e spettacoli come quello del Teatro Litta, il bimbo è indifeso, quantomeno gli si ingenera confusione, che diventa strutturata se il bombardamento è costante: una favoletta una volta sola pazienza, ma insistere con insegnamenti così fuorvianti può generare false introiezioni rispetto ai modelli che il bambino sta ricevendo da una famiglia normale»

Lo psichiatra non ama evidentemente il politicamente corretto è afferma: «Le persone gay hanno tutti i diritti tranne uno, quello di impedire lo sviluppo delle vaste potenzialità che ogni bambino ha insite in sé. Se gli si negano le due polarità maschile e femminile, cioè il diritto di avere entrambi i modelli parentali, viene privato della possibilità di acquisire le dinamiche utili per la crescita. È a quell’età che i bambini creano dentro di sé le convinzioni su se stessi, la vita, il mondo, che determineranno tutto il loro futuro, e queste derivano da un genitore maschio e uno femmina». La famiglia non è quella omosessuale, «madre natura ne sa più di noi».

Ricordiamo che in questa pagina è possibile visionare la documentazione scientifica sull’argomento (pro e contro), mentre in questa pagina è possibile visionare le prese di posizione di scienziati, filosofi e giuristi.

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