L’Illuminismo e la soppressione dei Gesuiti

GesuitiPer parecchio tempo la storiografia ha fatto del ‘700 il “secolo della ragione” contrapponendolo ai periodi passati domanti dall’oscurantismo e dalla superstizione. Si sono spesso esaltati gli aspetti positivi dell’illuminismo sottacendo però quelli negativi.

Ultimamente, però gli accademici cominciano a guardare alla cosiddetta razionalità illuminista in modo alquanto critico. Pare infatti che questo periodo abbia posto i germogli per il razzismo scientifico (famose sono le opinioni di Voltaire contro i neri e gli ebrei) e sul controverso rapporto che ebbe con la religione. È certo che l’illuminismo ha attinto molte idee dal cristianesimo trasformandole però in forma secolarizzata, come la fede nell’uomo e la sua dignità, la figliolanza divina dell’intero genere umano e l’armonia della natura e della regolarità del mondo. La maggior parte degli illuministi credeva all’esistenza di un dio creatore concepito come un “Architetto dell’Universo”, ma rifiutava qualunque dualismo metafisico negando quindi l’esistenza del diavolo (F. Valjavec, Storia dell’illuminismo, Bologna 1973 pp. 104-108).

Dal punto di vista religioso l’illuminismo abbracciò quindi il deismo, considerata la sola religione razionale e naturale, assumendo verso le altre religioni un atteggiamento scettico e molto spesso irriverente. La maggior parte degli illuministi credeva che il compito della ragione fosse quello di rischiarare le tenebre delle religioni positive, analizzandone le origini storiche e gli usi sociali e mettendone in luce tutta la loro disumanità. Il motto di Voltaire “Ecraisez l’infame” era appunto diretto, come diceva lui, contro le superstizioni e le assurdità delle religioni positive. Verso la fine dell’illuminismo però nacque una corrente “atea” che vedeva nella stessa esistenza di Dio un ostacolo al progresso e uno strumento d’intolleranza e oppressione: nella sua Politica Naturale D’Holbach accuserà la religione del fatto che essa, educando l’uomo a temere tiranni invisibili, lo educa al servilismo e alla vigliaccheria; mentre Diderot nel Trattato sulla tolleranza affermerà che il deista, pur avendo la testa all’idra, vi ha lasciato quell’unica dalla quale rinasceranno tutte le altre e affermerà che la Natura dovrebbe soppiantare la divinità (G. Reale- D. Antiseri, Il pensiero occidentale. Dalle origini ai giorni nostri. Vol. 2, Brescia 1983 pp. 505-507).

Bisogna aggiungere che nonostante gli illuministi facessero spesso importanti battaglie a favore della libertà religiosa, la loro idea sul ruolo della Chiesa non era priva di ambiguità. Filosofi come Voltaire o Rousseau consideravano le dottrine teologiche della Chiesa delle vere imposture, ma pensavano anche che la religione fosse indispensabile al mantenimento della pubblica moralità. La Chiesa che avevano quindi in mente era strettamente legata alle finalità dello stato e vedevano perciò i preti come dei funzionari civili piuttosto che ministri del culto. Durante l’illuminismo nacquero o si rafforzarono molte “leggende nere”. Così Edward Gibbon (1737-1784) minimizzava la portata delle persecuzione romane contro i cristiani e ne aumentava a dismisura quelle subite dai pagani (“[Il regno di Teodosio] è forse il solo esempio di completa eradicazione delle superstizioni popolari”). David Hume (1717-1776) definì invece le crociate come “il più notevole e il più durevole monumento alla follia umana che sia mai apparso in ogni epoca e nazione”, mentre Voltaire (1684-1778) parlò del medioevo come di un tempo in cui “la barbarie, la superstizione e l’ignoranza coprirono la faccia della terra”.

La battaglia contro le “superstizioni” non avvenne però solo sul piano teorico, ma assunse in alcuni casi un aspetto pratico. Infatti molti sovrani si fecero promotori di importanti riforme dettate da criteri razionalisti (il fenomeno detto “Assolutismo illuminato”). Nei loro progetti infatti, il potere assoluto non era posto in discussione, ma al contrario l’obiettivo ultimo era quello di un rafforzamento dello stato. Molti governi europei iniziarono perciò una politica giurisdizionalista tendente a sottomettere sempre di più la Chiesa al controllo dello stato. Il caso più eloquente è probabilmente quello dell’imperatore austriaco Giuseppe II che impronterà il suo regno a principi illuministi (“Ho fatto della filosofia, la legislatrice del mio impero” dichiarò) e cominciò così una campagna anticlericale per eliminare i privilegi della Chiesa, ma anche per sottometterla alla sua autorità: venne perciò denunciato il concordato del 1757, tassato il clero come i laici, sciolti gli ordini religiosi contemplativi, trasferiti i monasteri dalla giurisdizione del papa a quella del vescovo diocesano, promosso un nuovo tipo di catechismo, ridotti i contatti delle chiese con Roma, regolamentate le processioni, il suono delle campane, l’orario delle messe e persino il numero delle candele sugli altari. Queste tendenze furono causa della distruzione di un enorme patrimonio artistico, storico e spirituale e finirono per burocratizzare le espressioni del culto nella prospettiva di una statalizzazione della Chiesa e vi furono resistenze da parte della popolazione (L. Mezzadri – P. Vismara, La Chiesa tra Rinascimento e Illuminismo, Roma 2006 pp. 304-309).

Giuseppe II riteneva infatti non solo che la Chiesa non dovesse immischiarsi negli affari riguardanti lo stato, ma anche che lo stato avesse tutto il diritto di legiferare sugli affari ecclesiastici (principio che verrà adottato, in maniera ancora più estrema, dai rivoluzionari francesi). Il segno più visibile della difficoltà del papa in quel periodo fu lo scioglimento dei gesuiti. Questi erano visti come l’incarnazione del cattolicesimo chiesastico e godevano di un certo prestigio negli stati europei anche se i loro avversari tendevano ad esagerarne la portata e l’influsso. I gesuiti sono infatti temuti all’obbedienza della Santa Sede e a servirla efficacemente: per merito loro verranno evangelizzate regioni in India, Cina e nel Nuovo Mondo predicando la fede e contribuendo anche al progresso dei popoli insegnandoli le scienze e le tecniche occidentali. Cominciò così una feroce campagna denigratoria contro di essi: si accusarono i gesuiti di ipocrisia, dei peggiori delitti e dei più spregiudicati intrighi, da più stati provenne la richiesta di scioglimento. Ciò avvenne assieme all’espulsione e i motivi che vennero addotti furono diversi nei differenti stati: in Francia, ad esempio, oltre alla sistematica lotta effettuata contro di loro dai liberi pensatori e dai giansenisti, l’ordine fu coinvolto nell’affare di padre Lavalette, economo della compagnia in Martinica: egli fu espulso dall’ordine che si rifiutò di pagare i debiti contratti dal confratello in alcune disgraziate imprese commerciali. Il parlamento di Parigi obbligò però i gesuiti a pagare per lui un debito di un milione e mezzo di livres (1761) e negli anni successivi decretò lo scioglimento dell’ordine, provvedimento che verrà avvallato dal re nel 1764.

In Portogallo invece l’occasione per procedere contro l’ordine fu dato dai fatti accaduti nello “stato gesuita” del Sud America: a seguito di un accordo tra Spagna e Portogallo relativo al territorio uruguaiano, i portoghesi si impossessarono delle terre su cui erano insediate le riduzioni gesuite (territori nei quali gli indigeni si organizzavano e lavoravano liberamente, dividendo poi tra loro i proventi del loro lavoro), ma dovettero faticare a lungo per impossessarsene e scacciare i nativi poiché si trovarono di fronte alla resistenza dei gesuiti che organizzarono militarmente gli indigeni riuscendo a resistere per molto agli assalti degli schiavisti, tanto che fu necessaria una spedizione militare portoghese in piena regola effettuata dal primo ministro Pombal per vincerne la resistenza. Questi giungerà persino ad accusare i gesuiti di complicità nell’attentato nel quale fu ferito il sovrano Giuseppe I e utilizzò questo pretesto per la loro espulsione dal Portogallo e dalle colonie. Furono persino interrotti i rapporti diplomatici con Roma e Pombal giunse ad incarcerare Gabriele Malagrida, un gesuita di origine italiana, condannandolo a morte come eretico.

Nonostante le richieste provenienti da più parti, papa Clemente XIV, al contrario del predecessore Clemente XIII, acconsentì alla sospensione dei gesuiti, decretata nel 1773, di fronte alla pressione armata e alla minaccia di sciogliere tutti gli ordini religiosi. Il risultato fu una grande perdita di influenza da parte della Chiesa, salutata con grande soddisfazione dai suoi avversari, come Voltaire (che nel “Candido” dipinse i gesuiti come fautori dello schiavismo e gli illuministi come liberatori) e anche gravi danni al lavoro missionario e all’istruzione (non è un caso che due sovrani non cattolici come Federico II di Prussia e Caterina II di Russia ne permisero la sopravvivenza). La Compagnia sarà infine ristabilita da Pio VII nel 1814 (La Chiesa tra rinascimento e illuminismo, pp. 262-263).

Non si può negare che l’illuminismo abbia contribuito ad importanti conquiste civili, ma dipingere un periodo “aureo” fatto solamente di conquiste e riforme contrapponendolo ai “secoli bui” fatti di barbarie e superstizione non è nient’altro che un grave torto alla verità storica.

Mattia Ferrari

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E’ redditizio opporsi pubblicamente alle nozze gay

Ristorante Chick-fil-aCon il denaro si compra qualsiasi cosa, anche i principi morali delle persone. Lo si vede nella politica italiana e lo si vede nella scalata al potere della lobby LGBT.

Negli USA, lo abbiamo già fatto notare, alcuni senatori repubblicani di New York si sono lasciati comprare per schierarsi dalla parte del matrimonio omosessuale, facendo passare in questo modo la legge che dal 2012 li ha resi legali. I sostenitori omosessualisti hanno invece speso circa 32,7 milioni dollari per far vincere i loro desideri in Maine, Maryland, Minnesota e Washington. Il sindaco miliardario di New York, Michael Bloomberg, ha invece offerto milioni di dollari ai candidati politici che si impegnano a sostenere la legalizzazione delle nozze omosessuali. Le associazioni gay hanno anche finanziato la campagna elettorale di Obama, ricattando in questo modo i discorsi del presidente americano.

Ha ragione il Fatto Quotidiano quando ricorda l’elevata capacità di spesa della comunità omosessuale: i gay americani, attorno al 2% della popolazione, spendono oltre 835 miliardi di dollari l’anno. Ma fa notare anche che la Goldman Sachs Group, una delle più grandi banche d’affari del mondo, finanzia gli interventi chirurgici per cambiare sesso e partecipa assieme a Bank of America Merrill Lynch, Barclays, Citi, Crédit Suisse, Deutsche Bank e HSBC alle convention londinesi per promuovere l’omo-matrimonio. Anche i maggiori istituti finanziari del mondo fanno a gara per lanciare iniziative: JP Morgan ha per esempio sponsorizzato l’organizzazione di gay pride a Londra e New York, ecc. Il Fatto spiega anche che «in Europa, invece, manager e imprenditori gay si riuniscono in associazioni, per fare lobby».

Ma tra la popolazione normale, disinteressata dal lobbysmo e dal potere, le cose vanno diversamente. Lo sa Jack Phillips, il proprietario di Masterpiece Cakeshop, una pasticceria a Lakewood, in Colorado, il quale ha riferito che, in seguito al rifiuto a fornire una torta di nozze ad una coppia omosessuale, la sua attività è più che raddoppiata. Phillipps ha comunque dovuto chiamare più volte la polizia a causa delle minacce di morte ricevute a causa di questo rifiuto.

Anche Dan Cathy lo ha capito, proprietario di Chick-fil-A, una catena di fast food specializzati nel sandwich di pollo, il quale nell’estate 2012 ha rilasciato dichiarazioni a sostengo della famiglia naturale, opponendosi alle nozze gay. Le associazioni LGBT hanno deciso di boicottare i suoi locali, tuttavia la percentuale di clienti è aumentata del 2,2% rispetto al 2011, la quota di mercato è aumentata del 0,6%. «Si è parlato molto di quanto questa vicenda avrebbe fatto male a Chick-fil-A, ma in realtà ha aiutato il marchio», ha affermato Jeff Davis, presidente della catena di fast food. Nel corso del terzo trimestre, Chick-fil-A ha anche ampliato la sua base di clienti regolari in 28 dei 35 ristoranti. Dopo le dichiarazioni di Cathy, oltre alle minacce di morte, gli attivisti omosessuali hanno vandalizzato anche alcuni fast food Chick-fil-A.

A Puerto Rico è nel frattempo arrivata, per imporsi, l’ideologia di genere, filosofia che avrebbe il compito di aprire le porte al matrimonio omosessuale, come è avvenuto in Europa. Così 100 mila persone sono scese nelle piazze per mostrare la propria opposizione, creando il più numeroso atto di protesta della sua storia.

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North Dakota: limite di aborto abbassato alla sesta settimana

Feto è una personaDopo che lo stato dell’Arkansas ha bandito l’aborto dopo le 12 settimane di gravidanza, ovvero quando diventa possibile ascoltare i battiti cardiaci del feto con apparecchiature ad ultrasuoni, ora in Nord Dakota, dove governano i Repubblicani, si propone che il battito del cuore del feto debba essere ricercato per via transvaginale, abbassando il limite alla quinta-sesta settimana di gestazione.

Faranno eccezione i casi di grave pericolo per la vita o la salute della madre, ma non i casi di stupro o incesto. Inoltre, se il governato firmerà il disegno di legge (come dovrebbe avvenire a breve) non sarà possibile abortire a causa di anomalie genetiche del nascituro né (udite, udite!) perché non è del sesso preferito. Si prevede che l’introduzione di queste leggi, le più restrittive attualmente negli Stati Uniti, possa abbassare del 75% il numero delle interruzioni di gravidanza provocate, ma naturalmente gli abortisti insorgono e vogliono che siano bocciate per incostituzionalità.

“Il Governo deve fermare queste proposte di legge, perché le decisioni che riguardano la maternità sono un fatto privato della donna e della famiglia e non devono essere prese dai politici” asserisce l’attivista pro-choise Jennifer Dalven. Sul fronte pro-life la senatrice repubblicana Bette Grande, promotrice di questi disegni di legge, li definisce “molto semplici, perché chiunque capisce che il battito del cuore significa vita”.

Lo stato del Nord Dakota non ha un grosso peso demografico, ha all’incirca 670.000 abitanti, tuttavia l’introduzione di queste leggi sarà una piccola vittoria per il movimento per la vita.

Linda Gridelli

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L’odifreddura della settimana: Dario Fo

Dario FoL’odifreddura della settimana la vince Dario Fo, imbarazzante premio Nobel italiano (il Nobel è «un’onorificienza caduta molto in basso, evidentemente» commentò ironica Oriana Fallaci dopo l’assegnazione).

Fo è passato dall’apprezzato Mistero Buffo al sostegno del terribile dittatore comunista cinese Mao Zedong («in Cina c’è l’uomo nuovo perché c’è una filosofia nuova» disse estasiato dopo aver visitato la Cina, infilando le massime del dittatore nei suoi spettacoli teatrali), fino a ridursi a promuovere e divulgare il complottismo anti-americano sugli attentati dell’11 settembre 2001.

L’idolo comunista e anticlericale Dario Fo è stato anche definito dalla Fallaci «un vecchio giullare della repubblica di Salò», questo perché –ha spiegato la giornalista toscana e hanno mostrato documenti e testimonianze varie, sopratutto di estrema sinistra– nel 1943 Fo entrò a fare parte del battaglione “A. Mazzarini” della Guardia Nazionale Repubblicana partecipando a diverse ‘retate’ dei repubblichini contro i partigiani comunisti nella Val d’Ossola. Difensore pubblico della laicità, Fo si è sempre voluto impicciare di questioni strettamente cattoliche e lo ha fatto anche recentemente invitando la Chiesa a far sposare i preti per debellare tutti i casi di pedofilia. L’intervista è poi continuata con le sue solite sciocchezze sui Vangeli e la storicità del cristianesimo, prive di qualsiasi attendibilità.

Quella dell’abolizione del celibato per combattere la pedofilia è una tesi fallace sostenuta spesso da anticlericali e incompetenti, come il teologo sessantottino Hans Küng, viziata dall’ossessione strettamente anticattolica del laicismo occidentale. Sappiamo bene, infatti, che tassi simili o superiori di abusi sessuali avvengono anche in congregazioni religiose in cui il celibato è assente (protestanti, ebrei ecc.). Il sociologo Massimo Introvigne ha spiegato: «se si usano statistiche omogenee, cioè prodotte dagli stessi ricercatori o istituti o con gli stessi criteri, si scopre che negli Stati Uniti alcune denominazioni ai cui ministri di culto non viene richiesto il celibato (episcopaliani, avventisti) o che non hanno neppure una figura di “ministro” (mormoni) hanno percentuali di condannati e incriminati per pedofilia tra i loro ministri o educatori simili a quelle della Chiesa cattolica, e lo stesso vale per i maestri laici delle scuole pubbliche. Se l’elemento decisivo fosse il celibato, i ministri e pastori a cui è permesso sposarsi – per tacere dei maestri di scuola laici – dovrebbero avere percentuali di rischio decisamente minori rispetto alla Chiesa cattolica».

Ma sopratutto, è in ambiti familiari, scolastici e sportivi che vengono compiuti la maggior parte degli abusi su minori, in particolare da parte di soggetti non celibi. Lo psichiatra tedesco Manfred Lütz, direttore dell’ospedale psichiatrico di Colonia, ha affermato: «Alcuni dicono che c’è un legame tra pedofilia e celibato e che se si eliminasse il celibato si risolverebbero tanti problemi. Scientificamente questa teoria non ha nessun fondamento». Una relazione sugli abusi sessuali richiesta dal Parlamento italiano nel 2000 ha mostrato in modo evidente che l’80% dei casi di pedofilia avviene ad opera di un parente: genitori, nonni o zii (nel 47,3% delle violenze responsabile è il padre, nel 10,5% la madre, nell’11% entrambi, nel 9,8% gli zii, nel 9,5% i nonni, nell’8,9% i conviventi dei genitori).

Anche don Fortunato di Noto, collaboratore con il Ministero dell’Interno e fondatore dell’Associazione Meter, noto per la sua lotta contro la pedofilia e la tutela dell’infanzia in Italia e nel mondo, ha spiegato che «la pedofilia esiste tra i preti come tra i papà, le mamme, i nonni, gli avvocati, gli ingegneri, i professori, i maestri, gli educatori e forse anche tra i preti sposati». In particolare, ha continuato, dai dati emerge che «gli abusi sessuali a danno dei bambini si consumano per il 75% tra le mura domestiche, da uomini sposati e donne sposate». Sul sito web di Psicologi-Italia.it si legge che «è stato accertato che la maggioranza delle esperienze di abuso e violenza si verificano in famiglia, nello specifico gli autori possono essere un genitore, uno zio, un nonno o un amico stretto di famiglia».

Il più grande studio statistico americano realizzato nel contesto degli abusi sessuali sui minori da parte dei preti cattolici dal 1950 al 2010, realizzato dal John Jay College of Criminal Justice di New York ha mostrato chiaramente l’insostenibilità del celibato come causa della pedofilia, puntando invece l’attenzione sul contesto sociale della “rivoluzione” del 1968, che ha portato «un aumento della devianza nella società di quel tempo, come l’uso della droga e il crimine», e sulla formazione dei preti. Il celibato, dicono, «sempre presente nella Chiesa cattolica dall’undicesimo secolo non può essere considerata una causa per l’aumento e il successivo declino degli abusi dagli anni sessanta a tutti gli anni ottanta». Anche il dossier realizzato dal Telefono Azzurro parla chiaro: «Passa così l’idea, nell’opinione pubblica, che si tratti di un fenomeno circoscritto a determinati ambiti che di volta in volta finiscono alla ribalta della cronaca (come la scuola o la Chiesa), o specifiche realtà di degrado sociale; mentre i dati ci dicono chiaramente che si tratta di un fenomeno pervasivo, che purtroppo è presente in tutti i contesti nei quali siano presenti bambini». Rispetto ai dati in possesso dalla Onlus, il 30% degli abusi sessuali su minori è compiuto dal padre; il 9% dall’insegnante; il 7% dalla madre; il 6% dal convivente; il 5% dal nonno/a; mentre solo lo 0,9% è dal sacerdote. Il celibato, come è evidentemente, non c’entra assolutamente nulla, anzi a guardare questi dati sembra che agisca da deterrente.

Il voto di castità è fastidioso, è incomprensibile e non riesce ad essere incasellato dagli attori del mondo edonista-secolarizzato, perciò viene aggredito e denigrato come una repressione dalle conseguenze letali. Ma l’unica perversione è quella anticattolica di Dario Fo e degli anticlericali in generale, e dietro ad essa c’è quanto ha perfettamente delineato Vittorio Messori su Il Corriere della Sera: «Chi si sdegna per le malefatte di un prete, più che per quelle di chiunque altro, è perché lo lega a un ideale eccelso che è stato tradito. Chi considera più gravi le colpe “romane”, rispetto a ogni altra, è perché vengono da una Chiesa da cui ben altro si aspettava. Molte invettive anticlericali sono in realtà proteste deluse. È scomodo, per i cattolici, che il bersaglio privilegiato sia sempre e solo “il Vaticano”. Ma chi denuncia indignato le bassezze, è perché misura l’altezza del messaggio che da lì viene annunciato al mondo e che, credenti o no che si sia, non si vorrebbe infangato».

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La Chiesa è un mistero per il mondo e per la storia

Piazza San Pietro

di Giampaolo Rossi
da Il Tempo, 19/03/13

 

«Quante divisioni ha il papa?». Fu la domanda che Stalin rivolse sprezzante al primo ministro francese Laval che, in visita ufficiale a Mosca nel 1935, si appellava al leader sovietico affinché addolcisse la persecuzione dei cristiani in Russia. L’episodio, raccontato da Winston Churchill, ha in sé un tono misto d’ironia e tragedia che rende chiaro cosa è stato il ’900 per la Chiesa di Roma.

In fondo, per il capo del comunismo mondiale, nel pieno trionfo della modernità relativista, la leadership spirituale di un papa era un rigurgito della storia, un’ombra oscurantista che il Sol dell’avvenire avrebbe spazzato via, un virus letale da debellare con una massiccia dose di ateismo di Stato e di materialismo sociale. Ma ancora più in profondità, la domanda del dittatore sovietico racchiudeva l’idea, diffusa ancora oggi, che la dimensione temporale della Chiesa (lo stato Vaticano) prevalesse sulla sua auctoritas spirituale. Le ragioni sono ovvie: difficile quantificare un potere spirituale, soprattutto se si è convinti che le forze che muovono la storia siano solo materiali.

Su Stratfor, la più importante rivista di studi geopolitici del mondo, Gracjan Cimek ha spiegato come sia sbagliato parlare di una “geopolitica della religione”, definizione che considera erroneamente la religione come parte della politica. La religione è esterna alla politica, ma condiziona lo spazio della polis, l’ambito all’interno del quale la politica si muove. Lo condiziona attraverso dinamiche difficili da inquadrare dentro i flussi demografici, gli sviluppi socio-economici, l’evoluzione tecnologica o l’equilibrio delle forze in campo; in effetti è così. La sua sfera d’influenza interessa una dimensione immateriale e simbolica, i cui effetti sono meno palpabili ma più dirompenti. Stalin non avrebbe mai potuto immaginare che 50 anni dopo la sua infelice battuta, sarebbe stato proprio un papa senza armate (Giovanni Paolo II) a contribuire alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

È ovvio che la salita al soglio pontificio di Francesco si leghi a nuovi orizzonti storici della Chiesa di Roma. Le mappe demografiche del National Geographic spiegano come, nel 1900, i cattolici nel mondo fossero circa 270 milioni ed il 70% vivesse in Europa. Oggi, i cattolici nel mondo sono quasi 1,2 miliardi, ma l’Europa rappresenta solo il 24% di loro; la maggioranza (il 41%) è in Sud America, in quella «fine del mondo» da cui è stato preso papa Francesco. E non è un caso che al suo fianco, al momento di mostrarsi al mondo, ci fosse il cardinale brasiliano Hummes, suo infaticabile sponsor e personale amico, a dimostrazione della centralità strategica del continente latino-americano. E può avere una spiegazione storica anche l’appartenenza del nuovo papa ai Gesuiti, l’ordine religioso che più d’ogni altro si è contraddistinto nei secoli per la sua attività politica, tanto da scontrarsi apertamente con monarchie, governi e regimi.

Ma, sotto questi aspetti apparentemente leggibili, la Chiesa rimane un mistero per il mondo, come lo fu per Stalin; sfida le forze del divenire storico, come Gesù sfidava le forze della natura. Cammina sull’acqua della storia e risorge dopo ogni tempesta ciclica, laddove le altre costruzioni storiche (nazioni, regni, imperi, uomini, ideologie) affogano e muoiono inesorabilmente. La Chiesa non è un mistero teologico, ma storico. Rimane un enigma il modo e la velocità con cui il cristianesimo si affermò e come la Chiesa riesca ancora a sopravvivere alle convulsioni di questo tempo.

Nel conclave non si svolge una semplice elezione politica, ma si genera una metamorfosi della storia. Nella formula arcana e inspiegabile, per la coscienza moderna, con cui i cardinali decretano il loro voto, s’infila l’insondabile, ciò che il cristiano chiama Spirito. Il giuramento che ogni singolo cardinale è obbligato a fare al momento di infilare la scheda nell’urna, sfida l’incomprensibile: «Il mio voto è dato a colui che, secondo Dio, ritengo debba essere eletto». L’abbraccio tra libero arbitrio e disegno divino è forse il vero orizzonte storico dentro cui capire la Chiesa.

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Che cos’è la vita? La scienza non riesce ancora a definirla

Origine della vita
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Gli scienziati non sanno come sia comparsa la vita. Se qualche lettore non è d’accordo con me (e pensa di avere almeno uno schema di soluzione) può candidarsi per il premio di un milione di dollari messo in palio dalla Origin-of-Life Foundation (USA). Dalle evidenze fossili sappiamo che forme elementari di vita simili a batteri erano già presenti nel nostro pianeta 3,5 miliardi di anni fa, ma come si siano originate ci è del tutto oscuro.

A priori, sul piano logico, ci sono 5 possibilità:
1)      Quelle cellule sono comparse per leggi naturali, attraverso una successione di aggregazioni e trasformazioni chimiche, a partire da semplici composti organici (“abiogenesi”);

2)      il problema è indecidibile;

3)      la vita terrestre proviene dallo spazio (“panspermia”);

4)      è stata creata da Dio;

5)      è comparsa per caso.

Solo le prime due assunzioni sono ipotesi di lavoro scientifiche, la terza rinvia alle altre, la quarta e la quinta appartengono alla filosofia e al credo personale di ciascuno. Un ottimista sulla potenza esplicativa della scienza sperimentale può trovare strana l’opzione n. 2: come? esistono anche questioni scientificamente indecidibili? Ebbene sì, e ciò è dimostrato scientificamente! Dei limiti della ragione umana messi in luce dai teoremi d’incompletezza di Gödel (1931) ho parlato in un altro articolo. Molti scienziati propendono per l’indecidibilità del problema dell’origine della vita. Niels Bohr per esempio, giudicava “la vita consistente con la fisica e la chimica, ma da esse indecidibile” e che “l’esistenza della vita deve essere considerata come un fatto elementare (un assioma) che non può essere spiegato, ma che può solo essere preso come un punto di partenza in biologia” (“Light and Life”, Nature, 1933). Dello stesso parere Jacques Monod (in “Caso e necessità”, 1970) ed Ernst Mayr (in “Is Biology an Autonomous Science?”, 1988).

Io però, nonostante mi renda conto dell’arduità del problema, non ho trovato nei ragionamenti di questi negazionisti ragioni sufficienti per giudicare in via definitiva indecifrabile un eventuale meccanismo abiogenetico. Una cosa è affermare che esistono problemi indecidibili: questa è una verità dimostrata dal primo teorema di Gödel; altro è affermare che uno specifico problema P è indecidibile: per il momento, noi conosciamo per indecidibili con certezza ben poche questioni (l’ipotesi del continuo di Cantor, il problema della tassellatura di Wang, ecc.). Come si sia assemblato anche solo un organismo monocellulare è un problema tremendo, non c’è dubbio: Stuart Kauffman (che ha invece sempre creduto alla possibilità di trovare una soluzione all’abiogenesi, tanto da dedicarvi gran parte della sua attività scientifica), ne sintetizza efficacemente la difficoltà nella circolarità esemplificata dal paradosso: è nato prima l’uovo o la gallina? che nel nostro caso significa: sono sorti prima il DNA (e i genotipi), o le proteine (e i fenotipi)? E non valgono, evidentemente, le bufale cicliche della volgarizzazione scientifica, come quella secondo cui l’individuazione della proteina OC-17 responsabile della costruzione del guscio dimostrerebbe la priorità della gallina (v. per es. Focus del luglio 2010): come potrebbero le ovaie ignare del pennuto sintetizzare l’OC-17 senza le istruzioni del suo DNA?

L’estrema complessità dei due “mondi” (DNA e proteine) porta alcuni ricercatori ad escludere un meccanismo separato per l’origine dell’uno o dell’altro e ad indirizzarsi verso modelli di processi prebiotici di autocatalisi di molecole organiche a sofisticazione crescente, fino alla formazione spontanea di forme capaci di riproduzione ed ereditarietà, che sono due funzioni essenziali alla vita.

Già: la vita! Ma che cos’è la vita? Ebbene, forse sorprenderò ancora qualcuno, ma la comunità scientifica non condivide nemmeno una definizione di “vita”! Tra tutte, la più illuminante dell’intreccio tra ideologia ed interessi economici che si nasconde spesso dietro la tecno-scienza è la definizione di Carl Sagan: “La vita è un sistema capace di evoluzione attraverso la selezione naturale” (alla voce “Life” dell’Enciclopedia Britannica, 1970). Come dire: la vita è quella cosa che si spiega con la teoria di Darwin! Con questa definizione chi può osare di esprimere un piccolo dubbio sul darwinismo senza passar per scemo? Arrendetevi tutti!, direbbe Grillo. Ebbene, passerò per scemo, ma se la definizione di un fenomeno è “una frase (il più possibile concisa, e comunque completa), così da individuare le qualità peculiari e distintive, sia con l’indicarne l’appartenenza a determinate specie, generi, classi, ecc., sia col rilevarne funzioni, relazioni, usi, ecc.” (Enciclopedia Treccani); se questo è il significato della parola, la definizione di Sagan non descrive empiricamente alcuna evidenza peculiare della vita – quale in questo scorcio di primavera ammiro splendida e brulicante, solo porgendo lo sguardo dalla vetrata sul mio giardino – e mi pare fatta al solo scopo di rendere più plausibile il darwinismo. La definizione di Sagan fu subito fatta propria anche dalla Nasa, forse perché, tenendosi distante il più possibile dal concreto manifestarsi della vita negli organismi terrestri (che sono gli unici viventi finora osservati), spalancava la porta all’approvazione di importanti finanziamenti per la ricerca di “vita aliena” dalle forme più imprevedibili e nei posti più strani…, dalle galassie remote fin dentro le nostre narici, magari passando per un innocuo lago californiano con batteri aventi l’arsenico al posto del fosforo nel DNA…, bla, bla. Con l’appendice, ça va sans dire, d’una miniera inesauribile per i plot hollywoodiani e le riviste di fantascienza. Sfortunatamente però, definire un fenomeno naturale giusto per corroborare la scientificità d’una teoria, o per convincere i governi a finanziare le spese d’un ente strategico, o per supportare gli interessi dell’industria dell’entertainment non ha nulla a che fare col metodo scientifico!

Più seriamente, ad una conferenza internazionale svoltasi a Modena nel 2000 sui fondamentali della vita, per prima cosa fu richiesto ai partecipanti (tutti docenti universitari) di proporre la loro personale definizione di vita. Anche se nessuna definizione risultò uguale ad un’altra, si poterono suddividere le risposte in due classi. Circa una metà rientrava in una classe composta delle definizioni più disparate, come: il possesso di una certa stabilità genetica, ma allo stesso tempo di una sufficiente mutabilità, così da permettere evoluzione e adattabilità; oppure una reattività efficace agli stimoli ambientali, così da supportare la sopravvivenza e la riproduzione; ancora, la capacità di catturare, trasformare ed immagazzinare l’energia per il proprio utilizzo; ecc., ecc. L’altra classe comprendeva invece definizioni aventi tutte un elemento comune: la presenza d’un programma genetico. L’evidenza che nel mondo inanimato non sia mai stata osservata una sequenza di reazioni chimico-fisiche guidata da un programma d’istruzioni crittate in un dato codice era già stata fatta da Mayr nel 1988, portandolo a proporre come criterio di separazione tra organismi viventi e materia inanimata, con maggiore plausibilità scientifica di Sagan, l’esistenza o assenza d’un genoma e d’un codice genetico.

La Nasa però non ha rinunciato alla sua preziosa definizione politica di vita, e si comprende bene che per una struttura economico-industriale da 20 miliardi di dollari di budget annuale e per una “scienza” come l’astrobiologia (di necessità altissimamente speculativa perché, unica tra tutte, persistentemente defraudata di “fenomeni” da osservare), l’una legata all’altra a filo doppio attraverso l’Astrobiology Institute, il SETI Institute, il Carl Sagan Center e tanti altri centri pubblici di spesa, quella è la “definizione che funziona” più appropriatamente secondo una scienziata Nasa: “A dispetto della sua stupefacente diversità morfologica, la vita terrestre rappresenta solo un singolo caso. La chiave per formulare una teoria generale dei sistemi viventi è di esplorare possibilità alternative di vita…, ricercare vita extra-terrestre che ci permetta di forzare i limiti dei nostri concetti geocentrici di vita”. Monod, con la sua convinzione che la vita terrestre sia stata invece per la sua improbabilità un “avvenimento unico nell’universo”, non sarebbe d’accordo.

Ma poiché è facile vedere che il problema scientifico dell’origine della vita è inseparabile da quello d’una sua previa definizione, appare impossibile che la scienza possa risolvere quello finché non si sarà prima accordata su questa. Perfino nella (tanto vituperata dagli scientisti) filosofia è presente un ampio ricorso all’empiria nelle definizioni. Un vero modello scientifico dell’abiogenesi non può partire da una “definizione” ad hoc della vita fatta per accordare le teorie ai pregiudizi e/o ai bisogni esistenziali dei loro autori. Il secolo XXI sarà il “secolo della biologia” solo se la comunità degli scienziati, in un serio sforzo interdisciplinare, comincerà col chiedersi seriamente, e finire col rispondersi, che cos’è la vita che concretamente essi osservano. Tutti i giorni, fuori dalle finestre delle loro aule e più con il supporto dei microscopi che dei telescopi.

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San Francesco, l’amore per la Chiesa e Beppe Grillo

San FrancescoHo un amico francescano, fra Matteo, sacerdote italiano che è in missione in Venezuela. Quando ho letto nel blog di Beppe Grillo che il Movimento 5 stelle è stato fondato il 4 ottobre, festa nazionale di San Francesco, mi ha sorpreso e sono stato contento.

Il Santo di Assisi non è proprietà di nessuno e chiunque può rivendicare l’eredità di qualche aspetto: ciò ne denota l’attualità e la modernità. Tuttavia nel testo ho letto qualche passaggio che mi ha lasciato sgomento come la frase in cui il blogger dice che Francesco era “il santo che la Chiesa voleva bruciare come eretico”. Altra cosa che andrebbe controbilanciata è fare del Santo un semplice pacifista, ecologista e quasi depauperista. Allora ho pensato di chiedere all’amico fra Matteo di commentare il testo di Grillo, anche in riferimento alla coraggiosa scelta programmatica del Papa di chiamarsi Francesco.

Ecco cosa mi ha risposto:
«Non sapevo che il M5S fosse nato il giorno della festa liturgica di San Francesco. Mi sembra una bella scelta, forse ancora più coraggiosa di quella di un Papa che decide di assumere un tale nome. Se non è stata casuale la data scelta per nascere, allora sarebbe bene confrontarsi con un gigante della spiritualità di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Perché è riduttivo pensare a Francesco solo come il santo dell’attenzione agli animali e al medio ambiente. Come giustamente si fa notare dai fondatori del Movimento, si tratta di un santo distaccato dal denaro, dall’avere luoghi, sedi. Ma non perché demonizzava tutto questo, bensí perché sono cose che possono far nascere e favorire logiche di potere. Più della ricchezza, Francesco era spaventato dalla corsa al potere, desiderio e tentazione forte per chiunque. Anche un povero può essere tentato dall’ebrezza del potere… Tant’è vero che Francesco annoverava, tra i suoi amici più cari, persone ricche: il nobile che gli regalò parte de La Verna; colui che invita a preparare il primo presepe a Greccio; frate Jacopo dei Settesoli, nobile romana, unica donna ammessa nella clausura, e la cui presenza richiede in punto di morte…

Francesco chiede ai suoi frati che non usino il denaro, perché strumento di potere sugli umili, che avevano il baratto come possibilità di vita. Il denaro “compra e mercifica”; lo scambio di merci valorizza il lavoro autonomo e la dignità dell’altro, che non è forza lavoro di proprietà del potente di turno. Nella fraternità francescana tutti sono chiamati a lavorare e produrre, ma nella solidarietà fraterna, non nel dominio di chi è più ricco o produce di più. Tutti godono degli stessi diritti all’interno della fraternità. Francesco ha parole durissime per coloro che non hanno voglia di lavorare e che definisce “frate mosca”. Anche nei confronti del denaro, Francesco fa una eccezione importante nella Regola: si può ricevere, però solo per assistere gli ammalati nelle loro infermità, o per aiutare chi è nel bisogno, come si può leggere in alcuni episodi delle biografie. La Chiesa “povera, di e con i poveri”, augurata da Papa Francesco, è una chiesa che rifugga dalle logiche di potere, così come ha detto anche ai cardinali nella sua prima allocuzione. Direbbe don Tonino Bello, una chiesa capace di mostrare “il potere dei segni” e non “i segni del potere”, appunto come fece Francesco, quello di Assisi.

Il M5S sta vivendo tutto questo?!? Non voglio dare giudizi azzardati, ma dalle notizie che leggo da questa parte di mondo, pare che il morbo della politica come potere che mostra i muscoli stia attentando anche ai loro ideali di partenza. Francesco, quando il suo “movimento” cominciò a percorrere strade non sempre condivise dal fondatore, non usò parole forti contro i suoi “fratelli”, non abbandonò tutto e tutti. Si mise da parte lui!!! Rinunciò ad essere Ministro generale, per non cadere in pericolosi giochi delle parti e in tentazioni di mostrare i denti, per dedicarsi a qualcosa di molto più alto: accompagnare il suo movimento con l’esempio di vita, assumendo scelte ancora più radicali, se possibile, a livello personale, senza pretendere dagli altri ciò che egli stesso non vivesse. Tutto in un amore smisurato per i suoi frati, in un rispetto incondizionato verso ogni creatura, cominciando dagli uomini, frutto di scelte evangeliche, di un incontro-confronto con Cristo povero e crocifisso, che gli aveva capovolto il modo di pensare la vita e rapportarsi con il mondo.

La ricerca della santità, la sua ricca spiritualità evangelica sono il valore aggiunto alle scelte di Francesco, senza le quali il rischio di abbandonarsi a reazioni e logiche egoistiche o vecchie, è parecchio forte. Insomma, il confronto con Francesco e il movimento da lui creato è piuttosto forte. Riferirsi alla figura dal santo di Assisi per un movimento politico è pericoloso, perché parecchio esigente. Inoltre, credo che l’aspetto cristiano ed evangelico è imprescindibile per capire davvero Francesco e le sue scelte di vita, e per tentare di imitarlo in verità e profondità. Altrimenti si possono affermare visioni di “taglio francescano”, ugualmente lodevoli. Se anche voler vivere “affinità” con lui è importante, tuttavia volersi rifare a lui, o chiamarlo in causa per la nascita di un movimento, richiede livelli alti, “soprannaturali” (nel senso che vadano al di là di scelte dettate dalla natura e dall’istinto terreno) per le proprie scelte ed opzioni.

Naturalmente, le affermazioni “il santo che la Chiesa voleva bruciare come eretico, il poverello di Dio che si scagliò con il solo esempio contro la lussuria dei cardinali del suo tempo” sono fuori da qualsiasi verità storica ecclesiale e francescana. Basta conoscere solo un poco Francesco, per sapere che mai la chiesa volle bruciarlo come eretico, né mai lo sfiorò l’idea di passare all’eresia. Francesco amava troppo la Chiesa, quella del suo tempo corrotta e santa, come in tutti i tempi. Basta leggere i suoi scritti per rendersene conto. Anzi, il vescovo di Assisi, Guido, intuí la sua santità quando tutti lo ritenevano ancora un “pazzo”, e lo prese subito a benvolere. Il cardinale di Ostia (lussurioso?…) facilitò di molto il suo incontro con papa Innocenzo III per l’approvazione della sua “Forma di vita” evangelica. Francesco chiese un cardinale come protettore del suo Ordine e lo ottenne. Insomma, Francesco sperimentò la chiesa come madre. La volle più bella, questo è vero, con il suo esempio; ma senza “scagliarsi contro”, cosa che non rientrava nel suo modo di essere né nelle sue convinzioni. Santo della penitenza-conversione, predicata con l’esempio prima di tutto. Uomo di pace e di non violenza assoluta, né verbale né fisica».

Massimo Zambelli

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La rivista Mente&Cervello: «chi crede in Dio è più sano e felice»

Chiesa messicanaQualche giorno fa discutevo con una collega insegnante, anche lei laureata in psicologia, e mi ha detto: “Non riesco a capire come fai ad aver studiato psicologia e continuare a dirti credente. La psicologia, Freud in particolare, ci ha fatto capire che la religione è una cosa negativa e ansiogena”. E questo sentire è molto diffuso tra gli psicologi nostrani. È vero che Freud, seguito dalla psicologia di buona parte del ’900, aveva una visione pessima del fenomeno religioso, capace (a suo dire) di generare ansia, sensi di colpa, ritualismo…

È vero anche che Freud è morto nel 1939. Da allora, ovviamente, la ricerca psicologica è andata avanti, sviluppando intuizioni e modelli decisamente positivi nei confronti della religione: per esempio l’esperienza di picco di Maslow, la logoterapia di Frankl, la teoria dell’attaccamento religioso di Kirkpatrick, l’intelligenza esistenziale o religiosa di Gardner. E a queste intuizioni va aggiunto il contributo della psicologia comportamentista, il cui frutto più significativo può essere identificato nel Manuale di religione e salute: la metanalisi compiuta su circa 2.800 studi rileva che la religione, in concreto, fa bene alle persone dal punto di vista psicologico, fisico, sociale. Decisamente pertinente, in questo panorama, è l’aforisma di Francesco Bacone: “Poca scienza allontana da Dio, molta scienza riconduce a lui” (Saggio sull’ateismo, 1612).

Un esempio reale e concreto di come si stia attuando finalmente un vero e proprio ribaltamento di paradigma (religione da negativa a positiva) è offerto dal recente numero di Mente e Cervello (marzo 2013), la più diffusa rivista italiana di psicologia. Il dossier Nati per credere contiene due articoli, che vale la pena di analizzare.

Nel primo articolo, Più credenti più sani? di Sandra Upson, l’autrice prende atto del fatto che la religione fa bene alla salute: “Un’ampia massa di ricerche suggerisce che, in confronto alle persone religiose, chi non ha un credo ha meno probabilità di essere sano e felice – certamente le nostre due massime aspirazioni terrene – e tenderebbe a perdere almeno sette anni di vita. Parecchi studi condotti su larga scala hanno confermato la stessa cosa: più ci si impegna in attività religiose e meglio si sta” (p. 25). Un’ammissione che può sembrare sorprendente, tenendo conto che la rivista è pubblicata dallo stesso gruppo editoriale di L’Espresso e La Repubblica, non certo filo-religiosi.

L’autrice però, nel proseguo dell’articolo, cade di fatto in un semplicistico riduzionismo: i benefici della religione vanno ricondotti all’appartenenza a un gruppo sociale coeso. Anche se dice che “i vantaggi della religione non possono essere ridotti solo alle reti sociali che offre” (p. 28), conclude: “Nei paesi meno religiosi – fra cui Estonia, paesi scandinavi, Hong Kong e Giappone – […] la fede religiosa è bassa ma il morale delle persone è alto” (p. 30); “Una società pacifica e cooperativa, anche senza religione, sembra avere lo stesso effetto” (p. 31).

Certo, uno scienziato – in quanto tale – non può ricondurre gli effetti positivi della religione p.es. ai frutti dello Spirito Santo (amore gioia pace pazienza…). Ma non dovrebbe arrivare a liquidare la religione con un semplice riduzionismo sociale. Far parte p.es. di un gruppo di ultrà sportivi, o di una bocciofila di pensionati, può anche avere risvolti sociali positivi per la persona, ma non è certo un elemento che può avere ricadute positive per la società. E rimanendo agli esempi citati dall’autrice, le nazioni indicate dalla Upson come esempi di “morale alto”, a ben vedere di alto hanno il tasso di suicidio (vedi voce sulla en.wiki): Giappone 21,7; Estonia 18,1; Finlandia 16,8; Hong Kong 14,6; Svezia e Norvegia 11,9; Danimarca 11,3. Come indice di paragone, si pensi ai casi della Spagna (7,6) e dell’Italia (6,4), nazioni tutto sommato religiose a livello popolare.

Nel secondo articolo, Credenti nati di Girotto, Pievani e Vallortigara, gli autori prendono atto del fatto che “migliaia di credi religiosi hanno affollato la storia dell’umanità” (p. 34), e che dunque – volendo usare categorie antropologiche – il sacro è un apriori umano. Tuttavia, proseguendo ancora con un intento riduzionista, gli autori riconducono questa credenza alla facilità dei bambini nel vedere agenti (divinità) dietro a eventi di per sé inerti. Credenza che da adulti si può agevolmente abbandonare (p. 39).

Ma la domanda vera, a cui uno scienziato non può dare risposta, è: vedendo la regolarità e razionalità del cosmo, davvero noi ci inventiamo un Dio inesistente? Non potrebbe essere invece che scopriamo un Dio esistente? È questa la strada – la “via oggettiva” – seguita dalla tradizione cristiana: iniziando dall’Antico Testamento (“tu hai disposto ogni cosa con misura, calcolo e peso”, Sap 11,20; “dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore”, Sap 13,5), passando per Paolo (“le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute”, Rm 1,20), e culminando con le 5 vie di Tommaso, con strascichi significativi nel pensiero di grandi intellettuali credenti come p.es. Galileo, Einstein, Anthony Flew.

Roberto Reggi

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La Chiesa auspica un Umberto Veronesi meno confuso

Umberto Veronesi 
 
di Alessandro Giuliani*
*biostatistico e primo ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità

 
 

Già Pascal faceva notare la differenza tra l’attenzione che gli intellettuali atei mettevano nello studio dei principi della fede cattolica (due chiacchiere con un sacerdote, quattro paginette lette in fretta..) e lo studio attento che gli intellettuali credenti dedicavano alle posizioni filosofiche degli atei.

Passano i secoli e la situazione non muta, in un trafiletto apparso sul Messaggero del 15 marzo scorso, il prof. Umberto Veronesi esordisce con un annoso preconcetto sulla fede che viene definita come “opposta alla razionalità e cieca”, ogni credente per lui è “un integralista”.

Ora, già San Tommaso d’Aquino molto chiaramente affermava: “In fide est assensus et cogitatio ex aequo” e il ruolo della ragione e del libero assenso dell’uomo è stato sempre al centro del messaggio cristiano. La gran parte degli scienziati nei secoli sono stati (e sono) cristiani o comunque credenti ma questo a Veronesi non sfiora neanche l’anticamera del cervello, come non lo sfiora la palese contraddizione tra una definizione di scienza come “casa del dubbio sistematico” e insieme “fondamento dell’etica laica”, allora bisogna far pace con il cervello, o la scienza è “dubbio sistematico” e quindi non si pone neanche il problema di ciò che bene e ciò che è male (etica) oppure si propone come sistema di credenze morali, abbandona il dubbio sistematico, e allora può immaginare di stabilire un’etica e quindi dire ciò che è bene o no fare.

Sull’aggettivo “laica” poi c’è molta confusione, così come l’altro aggettivo “integralista”, sono tra gli esempi più tristi della degenerazione del linguaggio (e quindi del pensiero) di questi tempi di definizioni frettolose e superficialità eretta a sistema. Anche l’etica dei cristiani è “laica” in quanto il nucleo trascendente della nostra fede è l’amore per il Dio che si è fatto uomo, che è morto e risorto per noi per liberarci dalla morte, e il nostro sentimento di figliolanza verso il Signore. Se Veronesi capitasse ad una celebrazione eucaristica si renderebbe conto che nel Credo i fedeli non dicono mai “siamo contrari all’eutanasia e ai matrimoni gay” ma “morì e fu sepolto, il terzo giorno è resuscitato secondo le scritture”.

La contrarietà all’eutanasia e ai matrimoni gay ha a che vedere con le conseguenze secondarie dell’adesione alla sequela di Cristo nella nostra vita nel mondo (e quindi le conseguenze laiche, laico viene da laos che in greco significa popolo, non certo ateo). Questa sequela non è un cammino solitario ma un pellegrinaggio in comitiva a cui diamo l’assenso (non la fede cieca, l’assenso), la comitiva che ci comprende si chiama Chiesa Cattolica, e che in ogni momento si premura di spiegarcene le ragioni LAICHE cioè le sue conseguenze per la nostra felicità nel mondo, nella nostra vita. Veronesi ascolterà sempre nel Credo “..credo [] nella Santa Chiesa Cattolica” detto vicino alla “Comunione dei santi” che vuol dire né più né meno che affermiamo di far parte di una comunità a cui rinnoviamo sempre spontaneamente e liberamente per “assensus e cogitatio” la nostra appartenenza.

Quando ci innamoriamo di una persona e la sposiamo (e qui arriviamo al punto dell’integralismo) non lo facciamo per fede cieca ma per libero assenso (in cui la ragione ha un ruolo cruciale) e con lei (lui) siamo sempre sposati, non è che ci sono momenti o occasioni della nostra vita in cui “non siamo sposati”, siamo sposati quando dormiamo, quando lavoriamo, quando ci facciamo il bagno, siamo insomma integralmente sposati. Lo stesso vale per quell’amore che portiamo a Gesù Cristo, lo amiamo in ogni aspetto della nostra vita e sempre, in questo senso siamo degli integralisti, siamo integralisti perché siamo integri (che vuol dire non scissi), quindi la parola integralista, a ben vedere, vuol dire solo che non siamo matti, che non abbiamo personalità multiple, mentre per la vulgata corrente integralista vuol dire un pazzo fanatico magari suicida.

Che noia leggere queste cose, leggere ancora di Fede e Scienza come se fossero due appartenenze contrapposte, che noia leggere della necessità per la Fede di aderire a quello che i suoi nemici (chi la considera né più né meno che un ottundimento del pensiero) le consigliano “per il suo bene”…insomma cosa direbbe Veronesi se la polizia di stato si facesse consigliare dai capi mafia nel suo lavoro? A parte gli scherzi, mi sembra che il pensiero cosiddetto “laico” non riesca ad uscire dai cliché più triti. In una situazione normale la cosa mi farebbe pensare ad un isterilimento di un filone di pensiero che non si rinnova da due secoli, in una situazione in cui la superficialità è pervasiva e così la menzogna sistematica, che diventa verità solo in ragione del numero di consensi sul web. Da qui questo mio intervento, altrimenti abbastanza pleonastico.

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Papa Francesco sfida il riduzionismo della cultura secolare

Papa francesco 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

«Il Signore disse a Caino:“ Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose:“ Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?». Così recita uno dei primi passi della Genesi ( 4,9 ). Impossibile non rinvenire il collegamento concettuale e teologico con le parole di Papa Francesco nella sua Omelia dello scorso 19 marzo 2013, allorquando il neo-eletto Pontefice ha fermamente ribadito l’imperativo etico in base al quale ciascuno è e deve essere custode dell’altro, del proprio prossimo specificando inoltre che «la vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti».

Papa Francesco, quindi, ha lanciato una sfida al mondo secolare il quale, sempre più atrofizzato nella sua visione soggettivistica e nella sua concezione relativistica della natura umana, inciampa su un duplice errore. Per un verso, infatti, si tende ad esaltare il valore della tutela dell’ambiente e della natura, equiparando addirittura l’uomo alle altre creature, senza cogliere e problematizzare le differenze esistenti, mentre, all’un tempo, per altro verso si ritiene che ad una accresciuta tutela dei diritti degli animali (sottraendo gli stessi agli esperimenti da laboratorio, alle manipolazioni genetiche, alla vivisezione e ad altre pratiche artificiose ) non corrisponda una simile salvaguardia da estendere in favore dell’uomo, il cui embrione, per esempio tra i tanti, può essere creato, modificato, manipolato, selezionato, distrutto a seconda delle esigenze o dei desideri del momento.

La provocazione di Papa Francesco si oppone, quindi, alla “vocazione riduzionistica” della cultura secolare contemporanea, ritematizzando in senso più ampio e luminoso il problema dell’ecologia che, a questo punto, può essere interpretata come vera e propria bioetica globale, anzi, riproponendo il problema del creato e della custodia reciproca come dimensione etica universale, Papa Francesco, in modo più che razionale, ha indicato la via per intendere la bioetica come vera e propria forma di ecologia umana. Nell’ambito bioetico, il tema del custodire è quanto mai fertile e foriero di suggestioni. Vi è il custodire della madre rispetto al proprio feto; il custodire del medico rispetto alla vita dei propri pazienti; il custodire dei parenti rispetto alla dignità di chi versa in stati patologici cronici o terminali; il custodire dello scienziato rispetto alla indisponibilità della vita nelle sue molteplici caratterizzazioni e fasi di sviluppo; il custodire dei legislatori rispetto all’integrità sociale fondata sulla famiglia quale società naturale incardinata sull’unione tra uomo e donna; il custodire della sanità pubblica rispetto al diritto alle prestazioni mediche delle fasce meno abbienti; il custodire del bioeticista rispetto al senso del dolore e della sofferenza; il custodire del giurista rispetto a ciò che è giusto o ingiusto, oltrepassando, se necessario, il mero dato della legislazione positiva.

Il grande scienziato Jerome Lejeune amava raccontare il suo stupore allorquando venne a scoprire, durante una sua conferenza, che l’espressione da lui stesso utilizzata per anni di “tempio segreto” per identificare la gravidanza, coincideva con l’analoga espressione, tipica della cultura giapponese, shi-kyu, cioè “palazzo del bambino”; in entrambi i casi emerge vigorosamente il tema della custodia. In un tempio, infatti, si trova ciò che è sacro, così come nel tempio della vita, cioè la gravidanza, pur nella sua sacrale misteriosità, anzi, proprio per la sua segretezza, si custodisce il feto; al feto si dedica addirittura un “intero palazzo”, cioè la gravidanza, affinché possa essere cresciuto, accudito, per l’appunto custodito. Nella gravidanza, si potrebbe ritenere, l’umanità custodisce se stessa, non già in termini banalmente riconducibili alla successione biologica, circostanza di per sé evidente, ma nel senso ontologico ed etico, per cui in essa l’umanità custodisce il senso di se stessa in quanto consacra la custodia dell’altro, di quell’altro che è più debole, di quell’altro che è più indifeso.

La sfida di Papa Bergoglio alla modernità, quindi, si muove esattamente in questa direzione, cioè nell’avere il coraggio di fuoriuscire da un’etica utilitaristica ed individualistica, per recuperare, tramite la custodia dell’altro, l’etica della naturale relazionalità. Come ha evidenziato Ryszard Kapuscinski, «l’uomo della società di massa è caratterizzato dall’anonimità, dalla mancanza di legami sociali, dall’indifferenza verso l’altro e, a causa del suo sdradicamento culturale, dall’impotenza e dalla vulnerabilità al male, con tutte le sue tragiche conseguenze, di cui la più disumana sarà l’Olocausto». Papa Bergoglio, del resto, si inserisce lungo la via del magistero morale tracciata in questo senso dai suoi predecessori. Giovanni Paolo II, infatti, nel 1995, parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, non evitò di ribadire che «non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli». Benedetto XVI, infine, ha più volte approfondito il problema, ricordando per l’appunto che l’interruzione volontaria di gravidanza e la sperimentazione sugli embrioni rappresentano una negazione dell’atteggiamento di accoglienza verso l’altro, cioè, in sostanza, una diretta negazione dell’altro: «Scrive Giovanni Paolo II nella Lettera enciclica Centesimus annus: “Non solo la terra è stata data da Dio all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è stato donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato ”. E’ rispondendo a questa consegna, a lui affidata dal Creatore, che l’uomo, insieme ai suoi simili, può dar vita a un mondo di pace. Accanto all’ecologia della natura c’è dunque un’ecologia che potremmo dire “umana”, la quale a sua volta richiede un’“ecologia sociale”».

Papa Francesco, insomma, già dall’inizio del suo pontificato non solo si dimostra attento continuatore del magistero morale dei suoi predecessori, ma lascia intendere che il suo Pontificato rappresenterà un baluardo in difesa dei diritti indisponibili, all’insegna non già di un naturismo ideologico o di un ambientalismo cieco e aprioristico, ma proponendo una ecologia che abbia al suo centro un umanesimo integrale, razionale, relazionale. In un’epoca in cui impera una cultura tanatocratica, tramite l’invito al mondo secolare ad attivarsi in favore delle ragioni della natura, il nuovo Pontefice esorta tutti e ciascuno ad abbandonare gli schemi irrazionali ed irragionevoli dell’ideologia per abbracciare, invece, gli assiomi razionali di una ecologia umana, cioè fondata sulla verità ontologica dell’uomo. Per questo, in conclusione, possono utilizzarsi le stesse parole di Papa Francesco che ha ricordato come tutti «siamo custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo».

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