L’infanticidio torna di moda nelle società secolarizzate

Neonato 
di Giulio Meotti
da Il Foglio, 25/03/13

 

Nel 1977 l’allora chirurgo generale degli Stati Uniti, C. Everett Koop, scomparso tre settimane fa e salutato dalla stampa liberal come il grande pioniere della sanità americana, tenne un discorso che fece scalpore al parterre dell’American Academy of Pediatrics, intitolato “The slide to Auschwitz”. “L’infanticidio è messo in pratica e sono preoccupato perché non c’è protesta, disse il medico-ministro. “Sono preoccupato perché quando i primi 273 mila tedeschi, anziani, disabili e ritardati furono uccisi nelle camere a gas non ci fu protesta neppure allora da parte della professione medica e non fummo molto lontani da Auschwitz”.

Sono trascorsi trentasei anni da quello storico j’accuse di Koop e l’infanticidio, l’eutanasia dei bambini, o come viene chiamato da altri più eufemisticamente “aborto post nascita”, è diventato mainstream.

Il “rottweiler di Darwin”, il professor Richard Dawkins, l’autore di “The God Delusion”, ha appena dichiarato che i feti, i bambini non nati, sono “meno umani” di un maiale adulto. “Riguardo a cosa sia ‘umano’ e alla moralità dell’aborto, ogni feto è meno umano di un maiale adulto”. Dawkins ha così giustificato l’uccisione di neonati disabili: “Moralmente non vedo obiezione, sarei a favore dell’infanticidio”. Della stesso avviso il professor Steven Pinker, docente ad Harvard, appena arrivato in Italia col suo libro “Il declino della violenza” (Rizzoli), per il quale i nuovi nati non sono ancora “persone”.

Le nuove teorie sull’infanticidio, moderna versione della Rupe Tarpea, si formano nel Centro per la bioetica fondato da Peter Singer presso la Monash University di Melbourne. “Se paragoniamo un nuovo nato deficiente a un cane o a un maiale, scopriremo che il non umano ha capacità superiori”, ha scandito il professor Singer, che per questo è stato soprannominato “il filosofo della soluzione finale”. “Pensare che la vita di un neonato abbia uno speciale valore perché è piccolo e grazioso è come pensare che un cucciolo di foca, con la sua soffice pelliccia bianca e i suoi occhioni tondi, meriti più protezione di un gorilla”. Nel 1997 Singer fu invitato a tenere una conferenza sull’eutanasia in Svezia. Il cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal si rifiutò d’incontrarlo perché, disse, “è inaccettabile un professore di morale che giustifica l’uccisione di nuovi nati handicappati”. George Pell, arcivescovo di Melbourne, dove Singer insegnava prima di atterrare nel celebre campus di Princeton nel Massachusetts, gli ha dichiarato guerra, chiamandolo “il ministro della propaganda di Erode”. Per il New York Times la sua popolarità a Princeton è simile a quella di Albert Einstein negli anni Quaranta all’Institute for Advanced Studies. Il New Yorker, in una celebre gigantografia, lo ha definito il filosofo più influente al mondo.

E’ vero, perché non c’è teoria filosofica che abbia scatenato più clamore di quella di Singer negli ultimi vent’anni. La sua assunzione da parte dell’Università di Princeton, la più conservatrice tra le otto prestigiose università della Ivy League, ha scatenato un chiasso mediatico non inferiore al mancato ingaggio del teorico dell’amore libero, Bertrand Russell. Il Wall Street Journal ha paragonato l’assunzione di Singer a quella del nazista Martin Bormann, accusando l’ateneo di aver “gettato in mare la concezione della dignità umana che da due millenni caratterizza la civiltà occidentale”. Vegetariano, evoluzionista di sinistra, militante socialdemocratico, paladino degli animalisti che devolve parte del suo stipendio in beneficenza, Singer ha fondato le teorie sull’eutanasia infantile in vigore oggi in Europa: “Ci sono molti esseri che sono consapevoli e capaci di provare piacere e dolore ma che non sono razionali e quindi non sono delle persone”, ha scritto il famoso bioeticista. “Molti animali non-umani rientrano in questa categoria, alcuni infanti e altri deficienti mentali. Dato che gli infanti sono indifesi e moralmente incapaci di commettere un crimine, chi li uccide non ha le scusanti spesso concesse per l’uccisione di un adulto. Niente di tutto ciò mostra comunque che l’uccisione di un bambino dovrebbe ritenersi grave quanto quella di un adulto”. E’ nata anche una Princeton Students Against Infanticide.

Da anni stanno uscendo saggi importanti di bioeticisti e filosofi che giustificano l’eutanasia dei nuovi nati. Jeff McMahan ha scritto ad esempio in “The ethics of killing” (Oxford University Press) che “l’infanticidio è giustificabile” in caso di “gravi disabilità mentali” del bambino. “La ragione per cui non ci sono differenze intrinseche fra neonati e feti è che un feto potrebbe essere un nuovo nato prematuramente”. Quindi l’aborto e l’infanticidio hanno la stessa valenza morale. In Inghilterra il professore del King’s College Jonathan Glover ha giustificato l’infanticidio sulla base del fatto che “va considerata l’autonomia della persona la cui vita è in gioco, se valga la pena di essere vissuta”. La filosofa utilitarista Helga Kuhse ha articolato la legittimità dell’uccisione degli handicappati in “Should the Baby Live? The Problem of Handicapped Infants”, un libro che ha scritto insieme a Singer. Sulla rivista Journal of Applied Philosophy, con il saggio “Consciousness and the Moral Permissibility of Infanticide”, gli studiosi Nicole Hassoun e Uriah Kriegel hanno sostenuto che “non è permesso uccidere una creatura soltanto quando questa è cosciente; è ragionevole pensare che ci sono casi in cui i neonati non sono coscienti; quindi è ragionevole pensare che sia lecito uccidere alcuni nuovi nati”.

Hugo T. Engelhardt jr, autore del “Manuale di bioetica”, non esclude la possibilità dell’infanticidio osservando che “il dovere di preservare la vita di un neonato generalmente viene meno con il diminuire delle possibilità di successo nonché della qualità e della quantità della vita, e con l’aumentare dei costi del conseguimento di tale qualità”. Il noto bioeticista ha coniato la definizione di “straniero morale” per indicare tutti quegli esseri umani (non nati, gravi ritardati mentali, dementi, comatosi, in stato vegetativo, ecc.) che non avrebbero titolo a essere considerati “persone” perché privi della capacità di esprimere biasimo o lode e quindi, appunto, estranei alla comunità sociale. I due premi Nobel che hanno decifrato la struttura del Dna, Francis Crick e James Watson, hanno dichiarato che dovrebbe essere istituito un periodo di due giorni di osservazione dopo la nascita in cui i bambini non sono ancora pienamente “persone” e quindi soggette a possibile eutanasia. Una delle università mediche reali della Gran Bretagna, il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, ha invitato la comunità medica a studiare la possibilità di consentire l’eutanasia di neonati seriamente disabili. L’università ha sostenuto che “l’eutanasia attiva” dovrebbe essere considerata per il bene generale delle famiglie, per risparmiare ai genitori i turbamenti emotivi e le difficoltà finanziarie di crescere i bambini più gravemente ammalati. “Un bambino molto disabile può significare una famiglia disabile”.

Joy Delhanty, docente di Genetica all’Università di Londra afferma: “Penso che sia immorale sforzarsi di mantenere in vita bambini che soffriranno per molti mesi o anni a causa di affezioni molto gravi”. Richard Nicholson, redattore del Bulletin of Medical Ethics, che ha ammesso di aver accelerato la morte di due bambini neonati gravemente disabili negli anni Settanta, quando era un medico neo laureato, afferma: “Non mi opporrei a questa pratica”, riferendosi anche “al dolore, all’afflizione e al disagio” dei bambini gravemente disabili. Scandalo hanno generato le tesi del professor John Harris, perché è un membro della commissione governativa di Genetica umana e professore di Bioetica all’Università di Manchester: “E’ possibile sopprimere in caso di gravi anomalie fetali finché è un feto ma non possiamo uccidere un neonato. Che cosa pensa la gente che cambi nel passaggio lungo il canale vaginale da rendere giusto uccidere un feto a un’estremità del canale ma non all’altra?”.

In Europa l’infanticidio sta diventando una prassi. Secondo uno studio realizzato da Veerle Provoost, una ricercatrice dell’Università di Gand, la metà dei bambini colpiti da malattie gravissime e deceduti in Belgio entro il primo anno di vita sono stati aiutati o lasciati morire, ricorrendo, quindi, a una forma non dichiarata di eutanasia e non prevista per i minorenni. Per questo oggi il Belgio sta studiando come estendere l’eutanasia anche ai bambini. Lo studio di Provoost calcola che per 150 bambini è risultato che la morte è dovuta alla decisione “di mettere fine alla vita” del piccolo paziente, adottata mediante la sospensione del trattamento capace di prolungarne l’esistenza, la somministrazione di oppiacei e l’impiego di prodotti tesi esplicitamente a provocare la morte del bambino. Nel 30 per cento dei casi non si trattava neppure di malati terminali, ma di bambini che non avrebbero potuto avere “una qualità della vita accettabile”. In questi casi “è insensato prolungare la loro esistenza a ogni costo”, ha dichiarato José Ramet, primario all’ospedale universitario di Anversa e presidente della società belga di pediatria. Il Liverpool Care Pathway (Lcp) è il protocollo seguito negli ospedali britannici che indica come i medici debbano accompagnare alla morte i malati in fin di vita. Il protocollo prevede l’interruzione di alimentazione e idratazione. Alcune settimane fa, sulle pagine dell’autorevole British Medical Journal è stato rivelato che il protocollo è applicato anche ai bambini con disabilità. Un medico inglese che vuole rimanere anonimo ha raccontato la vicenda di un bambino nato con una lista molto lunga di anomalie congenite. I genitori del neonato malformato erano d’accordo sull’applicazione del Lcp e speravano che morisse in fretta. “Si auguravano che gli venisse una polmonite e che non soffrisse. Ma nella mia esperienza di medico ho visto che non si può sapere quanto sopravviveranno i bambini nati con malformazioni”.

Un anno fa è apparso sul prestigioso Journal of Medical Ethics il saggio di due studiosi italiani che fanno ricerca in Australia, Alberto Giubilini e Francesca Minerva: “Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post nascita”. Ovvero: al pari del feto, anche il bambino già nato non ha lo status di “persona”, pertanto l’uccisione di un neonato dovrebbe essere lecita in tutti i casi in cui è permesso l’aborto, anche quando il neonato non ha alcuna disabilità ma ad esempio costituisce un problema economico o di altra natura per la famiglia. Le loro idee sono state sdoganate anche in Italia: Maurizio Mori, direttore del master di Bioetica all’Università di Torino, in gennaio li ha invitati a parlare. “Alle idee di Singer di trent’anni fa, quando non eravamo nemmeno nati, noi abbiamo aggiunto solo un pezzetto: il fatto che non occorra che il neonato sia disabile per poterlo uccidere”. L’infanticidio dovrebbe essere consentito per le stesse ragioni per cui è permesso l’aborto. “L’essere ‘umano’ non è di per sé ragione sufficiente per attribuire a qualcuno il diritto alla vita”, affermano i due studiosi. “Sia il feto sia il neonato sono certamente esseri umani ma né l’uno né l’altro sono ‘persone’ nel senso di ‘soggetto di un diritto morale alla vita”’.

I parametri giudicati sufficienti per deliberare un intervento di “life-ending”, o come la chiamano in Olanda di “terminazione”, sono la “mancanza di autosufficienza”, “mancanza di capacità di comunicazione”, “dipendenza ospedaliera”, “aspettativa di vita”. “Euthanasia in Severely Ill Newborns”. E’ il titolo dell’ormai famoso articolo del New England Journal of Medicine nel quale i due pediatri olandesi Verhagen e Pieter J. J. Sauer annunciarono al mondo il “Protocollo di Groningen”, il documento medico più esplosivo e controverso degli ultimi dieci anni. Nel 2004, il centro medico di Verhagen all’Università di Groningen invase le prime pagine di tutte le principali testate internazionali con l’ammissione che avevano praticato l’eutanasia pediatrica. Da qui la decisione di pubblicare le linee guida per l’eutanasia neonatale che l’ospedale aveva eseguito nel porre fine alla vita di 22 neonati tra il 1997 e il 2004. Anche l’Hastings Center Report, una delle principali riviste di bioetica del mondo, ha pubblicato un saggio di Hilde Lindemann e Marian Verkerk, “Ending the Life of a Newborn”, in cui i due autori sostengono che “porre fine attivamente a una vita qualche volta può essere più umano di aspettare la morte di una persona”. Verhagen ha ammesso di aver praticato l’eutanasia su quattro bambini nei tre anni precedenti alla pubblicazione attraverso l’iniezione letale di morfina e di midazolam (un potente sedativo).

A Norimberga i medici tedeschi furono impiccati perché colpevoli di infanticidio. Oggi l’introduzione e la legittimazione di quello stesso crimine viene discussa sulle pagine delle più prestigiose riviste accademiche e lo si pratica nei corridoi delle migliori unità neonatali d’Europa. Come scrive Mireille Horsinga-Renno nel libro sull’eutanasia nazista “Cher Oncle Georg”, “qual è l’oggetto della civiltà se non quello di far sbocciare il fiore fragile di una speranza collettiva (che si poggia sul rispetto della dignità di ciascuno) sul letame e la sporcizia? Forse il letame sta di nuovo esalando i suoi miasmi? Come il comignolo del castello di Hartheim che sputava il suo fumo di morte”.

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La verità sulle Case Magdalene, altro che Peter Mullan!

Magdalene SistersNel 2002 è uscito nelle sale cinematografiche il film Magdalene, scritto e diretto dal leader marxista Peter Mullan, vincitore del Leone d’oro.

La pellicola intende denunciare i presunti soprusi subiti da ragazze delinquenti o prostitute accolte nelle Case Magdalene nel’800-900, gestite da religiose cattoliche, per essere rieducate secondo i metodi d’uso allora attraverso il lavoro manuale come lavandaie (da qui il nome di Magdalene Laundries). E’ stata l’occasione per l’ennesimo attacco alla Chiesa cattolica, ovviamente organizzato in modo ideologico attraverso lo snaturamento dei fatti, la generalizzazione e le falsità.

D’obbligo, per il regista marxista Mullan, la sua premura a definirsi “cattolico” per evitare qualsiasi ombra di sospetto, ma a cui nessuno ha ovviamente creduto. La sua inattendibilità è emersa chiaramente quando ha affermato: «sentivo il bisogno di pormi domande sulla natura dell’oppressione di una Chiesa che non differisce troppo dai talebani, che istiga alla crudeltà anziché alla compassione, trascinando la società in una spirale di follia collettiva. Mi aspetto polemiche in Irlanda perché la ferita è ancora troppo aperta e in Italia perché c’è il Papa. Ma la Chiesa, se vuol sopravvivere, deve riconoscere le sue colpe».

Mullan parla di fantomatiche “colpe della Chiesa”, ma -come ha spiegato il laico Brendan O’Neill su The Telegraph– il McAleese Report avviato per analizzare i fatti, non ha individuato neanche un caso di abuso sessuale da parte delle suore, ma soltanto alcuni casi circoscritti di punizioni corporali, sulla linea della prassi nelle scuole anglosassoni degli anni ’60-’80.

Ad affrontare tutta la questione ci ha pensato Francesco Agnoli nel libro “Chiesa e pedofilia. Colpe vere e presunte” (Cantagalli 2011). Abbiamo riportato la sua chiarificatrice analisi storica in un dossier UCCR specifico, vi si può accedere cliccando qui sotto:

 

La verità sulle Case Magdalene in Irlanda

 
 

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Papa Bergoglio e i farisei della scienza

 
di Enzo Pennetta*
*docente di Scienze naturali

 

Appena eletto, papa Bergoglio ha suscitato l’attenzione del mondo della scienza, commenti rispettosi e pieni di attese positive. Ma a ben vedere si tratta di un rispetto condizionato, quello di chi mette alla prova ponendo domande capziose per “avere di che accusarlo”.

Prendiamo ad esempio quanto scritto sull’autorevolissima Nature, dove in un editoriale del 19 marzo si inizia esprimendo una irresistibile simpatia verso l’uomo Bergoglio, nelle parole dell’articolo si trova poi un inaspettato riconoscimento per i meriti scientifici della Chiesa: «Contrariamente alla credenza diffusa, la Chiesa cattolica moderna è science-friendly e Papa Francesco continuerà senza dubbio, e forse approfondirà, quella tradizione. Il forte sostegno della Chiesa per l’evoluzione darwiniana, per esempio, è in netto contrasto con la credenza retrograda e non scientifica del creazionismo di molti evangelici statunitensi e legislatori – un concetto che Papa Benedetto XVI ha giustamente criticato nel 2007 come “assurdo”. I sacerdoti ci hanno anche dato la genetica mendeliana e hanno contribuito alla teoria del Big Bang»

Come si può notare tra gli apprezzamenti si affaccia già un’insinuazione contenuta nella frase “la Chiesa cattolica moderna è science-friendly”, sottintendendo che in passato non era così. Si parla poi anche del “forte sostegno per l’evoluzione darwiniana”, sorvolando con questa frase su alcuni importanti distinguo riportati sul sito della Pontificia Accademia delle Scienze: «Le religioni abramitiche sanno che il punto di partenza non è il caso amorfo e neppure il capriccio del destino come ipotizzano gli scettici e i materialisti». E così il forte sostegno all’evoluzione darwiniana della Chiesa cattolica, e quindi del Presidente della PAS, il Nobel Werner Arber, oltre ad essere un sostegno contro quel creazionismo che rifiuta la scienza, passa anche attraverso una bella porta chiusa in faccia ai sostenitori accaniti dell’evoluzione per “caso e contingenza”. Chissà se quelli di Nature sono informati di questo.

Un altro passaggio interessante è quello in cui si parla dell’apertura della Chiesa su argomenti di bioetica: «Inoltre, recenti papi hanno aumentato notevolmente gli sforzi per avviare un dialogo con gli scienziati su una serie di questioni, dalla ricerca sulle cellule staminali embrionali e le colture geneticamente modificate, alla fecondazione in vitro, l’aborto e l’eutanasia – e in futuro sarà senza dubbio sempre di farlo su i progressi nel campo delle neuroscienze e della genetica, tra cui lo screening prenatale. Gli scienziati che hanno preso parte a tali discussioni raccontano di dibattiti stimolanti e costruttivi, con la Chiesa aperta a alle idee e spesso al cambio di dottrine come risultato. Un’eccezione dannosa è la sua lunga data opposizione all’uso del preservativo per prevenire la diffusione del virus HIV, e si può solo sperare che il Papa Francesco avrà un approccio più illuminato». Non si sa quali fonti di informazioni abbiano a Nature, ma parlare di apertura su aborto, eutanasia, screening prenatale e appoggio al contrasto all’HIV con il profilattico, dà l’impressione di una profonda mancanza di conoscenza dei principi cristiani.

Non vanno molto diversamente le cose andando a leggere quanto scritto sull’altrettanto autorevole Scientific American, dove in un articolo del 13 marzo l’impostazione seguita è stata la stessa. Si inizia infatti ricordando quanto la Chiesa in passato sia stata antiscientifica (e cosa di meglio che citare Giordano Bruno?) e di come invece in seguito lo stesso Enrico Fermi si sia appassionato alla fisica leggendo il libro scritto da un religioso. Anche la conclusione dell’intervento è dello stesso tipo di quella apparsa su Nature: «E’ probabile che il punto di vista del nuovo papa sulla scienza sia piacevolmente moderno e riflessivo, ma è anche probabile che sia perfettamente in linea con quelle detenute dai suoi predecessori. Per quanto ne sappiamo, le sue opinioni su aborto o l’evoluzione potrebbe essere contrario a tutto ciò che sappiamo di scienza. Il nuovo Papa è un gesuita e un chimico, ma è anche un essere umano che deve conformarsi alle opinioni di più di un miliardo di suoi seguaci in tutto il mondo. Dovremo aspettare di sentire le sue opinioni sui vari argomenti scientifici con i quali la Chiesa ha strappato e parzialmente riconciliato nel corso di centinaia di anni. Ma qualunque cosa il nuovo Papa abbia da dire, trovo soddisfazione nel fatto che un gesuita e un chimico in Vaticano – un discendente intellettuale di Andrea Caraffa e Pierre Chardin – sia lontano da il peggio che la Chiesa può fare quando si tratta di scienza».

E infatti, nello stesso solco di quanto letto su Nature, gli apprezzamenti e le attestazioni di stima con cui gli articoli iniziano risultano condizionati al fatto che Papa Bergoglio si allinei alle indicazioni espresse su Nature e Scientific American, con particolare riferimento ad un’apertura su aborto ed eutanasia. Particolarmente sconcertante risulta al riguardo il passaggio in cui si afferma che le opinioni sull’aborto della Chiesa cattolica siano contrarie a quanto sappiamo di scienza. Semmai è l’esatto contrario. Particolarmente velenosa poi la frase di chiusura «trovo soddisfazione nel fatto che un gesuita e un chimico in Vaticano sia lontano da il peggio che la Chiesa può fare quando si tratta di scienza».

Il clima che si respira leggendo questi interventi, che ricordiamo vengono dalle testate più autorevoli, è lo stesso che si trova nel vangelo (Giovanni 8,1-11) quando i Farisei mostrando rispetto e disponibilità mettono invece alla prova Gesù e cercano un pretesto per condannarlo. Sappiamo come andò a finire.

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Il legame tra l’eugenetica e il laicismo progressista

Margaret SangerOpinione comune e diffusa è che l’eugenetica e gli esaltati deliri del bisogno di “salvare” la purezza della razza siano nati col Nazismo, a sua volta lunga gestazione delle superstizioni medievali (per “medievali” leggasi “cattoliche”).

In realtà l’ossessione eugenetica è più vecchia del nazismo, nulla ha a che fare col “barbaro” medioevo e ha origini inglesi: nasce con Francis Galton, scienziato cugino di Charles Darwin, creatore del termine “eugenetica” e propugnatore del “darwinismo sociale”. Galton a sua volta è figlio del laicismo scientista e positivista che alla fine dell’800 ha condotto molti paesi occidentali (specie Usa, Inghilterra, Germania, Svezia) all’eugenetica così come la intendiamo oggi.

E’ un clima culturale, quello di cui si cibò Galton, nel quale l’uomo, liberandosi di ogni trascendenza divina, elevando il progresso e il proprio ingegno a somme divinità, confida di raggiungere la libertà e la felicità assolute. In questo tragitto eugenetica-nazismo ha un suo posto di rilievo Margaret Sanger (1879-1966), figura quasi sconosciuta in Italia, colei che coniò il termine “birth control”, che tutt’oggi così enorme peso ha nelle politiche familiari dell’Onu e in quelle natali di Cina e India.

Ma chi è Margaret Sanger? Laicista progressista di orientamento anarchico, nel 1914 concepì appunto il “birth control” come strumento di prevenzione della povertà (meno bocche da sfamare = più risorse per tutti) e della guerra (meno povertà = meno bisogno di far guerre), e di emancipazione delle donne dalla morale cristiana sulla sessualità (meno morale = più felicità). Fatto sta però che, se da un lato la Sanger ottenne le simpatie di coloro che si battevano per ideali rivoluzionari contro ogni costrizione, d’altro canto di fatto i sostenitori più forti, coloro che davvero appoggiarono le sue istituzioni (la più famosa è la Planned Parenthood, catena di cliniche per l’aborto più grande del mondo) non furono né anarchici né rivoluzionari né femministe, bensì propugnatori dell’eugenetica e scientisti laicisti.

Perché? Quale filo collega Galton alla Sanger? Prima di tutto, bisogna dire che la Sanger era perfettamente consapevole di questo legame tra i suoi ideali progressisti e le istanze scientiste. Lei stessa passò dagli ideali rivoluzionari agli ideali di Galton per un salto logico che all’inizio può apparire poco chiaro se non contraddittorio, ma in realtà coerente. La Genitorialità Pianificata della Sanger adottò come strumenti di diffusione della pianificazione delle nascite la contraccezione, l’aborto, la sterilizzazione, lo screening prenatale e la fecondazione artificiale, stessi identici strumenti di quelle istituzioni che volevano incidere sui costumi sociali per prevenire la sovrappopolazione e la nascita di persone malate e deforme. Lotte diverse ma stessi strumenti, quindi. Sì, ma non solo. Nell’ultima fase della sua vita la Sanger passò agli ideali scientisti dicevamo, e ciò ha fatto pensare gli studiosi a una sorta di chiusura conservatrice, un ripiegare su sé stessa in posizioni più rigide e diverse, se non opposte a tutti quegli ideali di libertà e liberazione della giovinezza. In realtà no, la Sanger non ripiegò su nulla in particolare, né “deviò” o “cambiò”: anzi, fu estremamente coerente con sé stessa. Il passaggio alla dottrina eugenista era molto comune tra gli intellettuali radicali cui lei apparteneva, si rapportava e s’ispirava.

Perché? Perché l’eugenetica ha lo stesso fondamento degli ideali progressisti che la Sanger avrebbe “tradito”, cioè la totale autonomia dell’uomo, inteso come essere che appartiene solamente a sé stesso, del tutto indipendente da ogni legame sociale e familiare, istituzionale o affettivo, libero di non interessarsi al benessere di nessun altro se non il proprio esclusivo e, quindi, di ignorare ogni possibile prescrizione etica o religiosa. La nuova morale fa coincidere in modo totale e assoluto la coscienza con la volontà individuale, e questa nuova morale è il filo che collega Galton alla Sanger, la quale, in modo intelligente e coerente, si rese conto che era nel laicismo scientista che poteva trovare i migliori sviluppi dei suoi ideali: l’eugenetica era il frutto più ricco e abbondante che le sue idee progressiste potessero portare, e lei se ne rese conto.

La Sanger disse che il suo obiettivo finale era convincere le donne a dare sé stesse alla scienza così come, in passato, si erano date alla religione. Perché mai? Perché la “scienza” com’era intesa dagli scientisti avrebbe portato, attraverso piani come il “birth control”, a una “società pulita e intelligente” e quindi a un mondo migliore, come le vecchie religioni si auspicavano. Però, effettivamente, poi cadde in una contraddizione: pur lottando per il riconoscimento al diritto individuale di regolare la propria vita riproduttiva senza legacci, sostenne con passione decisi e forti interventi dello Stato nella programmazione di una seria politica eugenetica. Quindi, un estremo individualismo plagiato però da pesanti interventi statali.

Di nuovo: perché? Perché la nuova morale progressista e scientista rende ogni singola donna e ogni coppia responsabili non solo di sé stessi e del proprio piacere ma anche della tutela e salvezza di tutta la razza umana. In realtà, a pensarci, non è una grossa contraddizione: l’assoluta libertà propugnata dalla Sanger è soltanto libertà da convinzioni (e convenzioni) etiche, morali e religiose, e null’altro, perché uno Stato eugenista non può permettere che le coppie siano davvero libere, nella loro coscienza e nelle loro scelte. E’ non altro che una fuga da ogni possibile Credo, tenuta a freno dalla lunga catena del “birth control” di Stato. La libertà sessuale della donna è tutelata mentre lo Stato ne tiene a freno l’aspetto più dannoso, ciò che la rende un Vaso di Pandora: la capacità di portare la Vita.

Una prospettiva antropologica senza alcuna trascendenza ma tesa all’ideale: l’ideale di un essere umano capace di curare il proprio piacere senza limiti, senza alcuna responsabilità, ma chiuso alla Vita. Un ideale lontano dall’uomo reale, portatore non solo di desideri sessuali ma anche e soprattutto di istanze ben più profonde, istanze di Vita, mortificate e schiacciate da un ideale di razza sana e di libertà assoluta che uccide colui che dovrebbe salvare.

La redazione

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Omosessuali, incestuosi e poligamici chiedono il matrimonio

PoligamiaUna volta che si abbandona l’attuale concezione del matrimonio sostituendola con un contratto che legittima solamente una relazione tra persone adulte e consenzienti legate da un rapporto sentimentale, non esiste più una base di principio per negare o resistere all’estensione della licenza di matrimonio a tutte le possibili forme di relazioni tra individui adulti. Il discorso è stato riaperto da Robert P. George, giurista presso la Harvard Law School e l’università di Princeton, Girgis Sherif, ricercatore di filosofia a Princeton e alla Yale Law School e Ryan T. Anderson ricercatore della Heritage Foundation.

In altre parole, se il matrimonio non è più il garante dell’ordine delle generazioni (matrimonio deriva da matris munia, doveri della madre verso i figli) basato sulla complementarietà e sulla fecondità, istituzionalizzando tra l’uomo e la donna quelle relazioni pubbliche di particolare intensità e responsabilità che consentono la nascita della famiglia, come struttura di socializzazione primaria, ma serve solo a soddisfare il desiderio di compagnia tra adulti, risulta una negazione di uguaglianza negare un riconoscimento e un’equiparazione al matrimonio naturale anche alla poligamia, all’incesto e a tutte le possibili e fantasiose forme di relazione tra gli uomini. Rifiutarle sarà possibile, ma violeremo il principio di uguaglianza e non avremo più un fondamento giuridico stabile e coerente.

«Per troppo tempo l’Australia ha negato ad alcune persone il diritto di sposarsi. Troviamo questo aberrante. Noi crediamo che tutti dovrebbero essere autorizzati a sposare i loro partner, e che la legge non dovrebbe mai essere un ostacolo all’amore». Pensate che la frase sia stata detta dal leader omosessuale Franco Grillini? Assolutamente no, proviene dall’associazione di poligamici australiana Polyamory Action Lobby, che ha approfittato del dibattito sulle nozze gay per intervenire con le sue richieste: «Chiediamo niente di meno che il pieno riconoscimento delle famiglie poligame. Il poliamore spesso non è una scelta, molta gente ama più di una persona e non può farne a meno». L’uguaglianza del matrimonio la chiedono anche loro, perché -si legge sui siti poligamici (e certamente anche tra gli incestuosi)-, «una famiglia dovrebbe basarsi sulla sicurezza, la stabilità e l’amore, non sulla sua struttura». Come si vede, lo stesso linguaggio e le stesse richieste degli omosessuali arrivano anche dai poligamici…ma con quale argomento dire di “no” a loro, una volta che la relazione omosessuale è stata equiparata al matrimonio naturale? Come difendere costituzionalmente il matrimonio monogamico? Risponde in questo ottimo lavoro lo studioso Ryan T. Anderson, della The Heritage Foundation: «Se la complementarità sessuale viene eliminata come una caratteristica essenziale del matrimonio, allora nessun principio limita il matrimonio civile alle coppie monogame»

Su un portale anglosassone si è affrontata la stessa tematica, chiedendosi provocatoriamente: «se due lesbiche, perché non due sorelle?», ovvero se il matrimonio diventerà semplicemente l’unione di due persone che si amano, indipendentemente dal loro sesso, perché non si può sposarsi tra fratelli? Qual è la differenza tra due sorelle e due lesbiche che desiderano sposarsi? Entrambe le coppie non possono procreare, entrambe si amano e sono disposte a prendesi cura del partner. Se il matrimonio è associato al romanticismo e ad una rivendicazione sentimentale, non c’è alcun motivo per discriminare l’amore tra due sorelle. In realtà potremmo spingerci oltre e domandarci con quale autorità lo Stato deve permettere il matrimonio solo a persone che si amano e non riconoscere anche la relazione tra due amici legati soltanto da un grande affetto? Cosa potrà mai importare allo Stato della qualità del sentimento che provo per un’altra persona, sono entrambi consenzienti e vogliono beneficiare entrambi del loro affetto, anche se non è amore. Perché dunque negare il matrimonio anche a due amici? Chi osa dire che l’amicizia vale meno dell’amore? E’ evidente che lo stravolgimento antropologico del senso del matrimonio genera una serie di reazioni a catena totalmente incontrollabili.

L’unica soluzione per mantenere una coerenza e una stabilità dei fondamenti giuridici, evitando di modificare la Carta costituzionale, snaturando il senso del matrimonio, è quella ribadita dal prof. Francesco D’Agostino, professore di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata: «In quanto costitutivamente sterile, il rapporto omosessuale (come peraltro qualsiasi altra forma di rapporto affettivo o amicale) non ha alcun bisogno di un riconoscimento legale, o almeno non ha bisogno di un riconoscimento diverso da quello che l’ordinamento giuridico potrebbe, se volesse, offrire, ma solo sul piano patrimoniale, ad altre forme di convivenza “non sessuate” , che venissero ritenute meritevoli di attenzione sociale (come quelle tra fratelli conviventi o tra anziani genitori e un figlio)». Usare la stessa parola “matrimonio” per designare due o più realtà fondamentalmente diverse, non rispetta queste realtà e introduce, per di più, un’enorme grado di confusione. Inoltre, come ha fatto notare la prestigiosa filosofa francese Sylviane Agacinski, «È molto difficile separare il problema del matrimonio “omosessuale” da quello della “omogenitorialità”, perché nessuno può ignorare che un “matrimonio omosessuale” instaurerebbe simbolicamente come coppia genitoriale due persone dello stesso sesso e metterebbe in discussione la filiazione bilaterale dei figli (un lato materno e un lato paterno)», dunque è una posizione errata quella di chi afferma di essere favorevole alle nozze gay ma senza aprire all’adozione.

Certo, negare le nozze gay significa negare la felicità di molti omosessuali, così come negare un riconoscimento giuridico dell’incesto o della poligamia significa negare la felicità di molti incestuosi, poligamici o semplici amici (secondo l’esempio di sopra). Molte sono le battaglie in nome della felicità, ma -ha spiegato ancora il giurista D’Agostino- sono «una battaglia molto ingenua, perché, comunque essa vada a concludersi, non è dal diritto e dai suoi eventuali (e impropri) riconoscimenti simbolici che deriva la nostra felicità, ma dalla coerenza tra il bene, nella sua oggettività, e il nostro personale stile di vita». Il punto chiave del discorso è invece «la deformazione oggettiva del matrimonio come istituto giuridico che è conseguenza inevitabile del riconoscimento del matrimonio tra omosessuali. Su questo punto e su questo soltanto dobbiamo discutere, senza cedere a suggestioni che hanno un notevole rilievo ideologico, ma una limitata forza argomentativa». Il tutto sintetizzato bene da un titolo di Avvenire: la legge promuove i diritti non appaga i desideri.

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L’on. Binetti e l’orgoglio di essere integralmente cristiana

Paola BinettiL’anticattolicesimo è l’ultimo pregiudizio socialmente accettato, ha detto lo studioso lo storico americano (laico) Philip Jenkins e lo si vede nel gioco mediatico: quando bisogna parlare male dei cattolici si passa a definirli “fondamentalisti”, “fanatici”, “estremisti” e “integralisti” ecc.

Anche i politici cattolici sono quotidianamente presi di mira, ma non tutti, solamente quelli coerenti con la loro coscienza. Nessuno, ad esempio, oserà mai dare del fondamentalista al cattolico Ignazio Marino, perché la sua posizione etica è completamente allineata al pensiero nichilista-relativista che va per la maggiore, e completamente opposta a quella di Papa Francesco. Marino fa parte di quei cattolici che, come ha spiegato il filosofo Giovanni Fornero– fanno finta che «non esista una posizione cattolica ufficiale sui temi bioetici». Invece, essendo il cattolicesimo diverso dal protestantesimo, «ciò che dicono i documenti – a cominciare dalle encicliche papali – non costituisce un optional o un particolare secondario, ma un dato di primaria importanza, soprattutto in un settore decisivo come quello della bioetica»

Lo sa bene Paola Binetti (UCD), psichiatra, membro dell’Opus Dei e tra i fondatori del Campus biomedico di Roma, da sempre denigrata sui media per la sua permanenza in una posizione scomoda in favore dei “valori non negoziabili” e del magistero della Chiesa cattolica. Una figura politica a cui tutti i cattolici, di qualsiasi schieramento, dovrebbero guardare con stima e gratitudine, così come a Maurizio Lupi e Eugenia Roccella (PDL), a Beppe Fioroni (PD), e a tanti altri di sinistra, di centro e di destra.

In una recente intervista per Panorama, la Binetti ha proprio parlato del suo ruolo in politica e della persecuzione mediatica a cui sono sottoposti i cattolici coerenti: «Sono a favore dei diritti di ogni individuo e contraria a ogni discriminazione. E dunque sono a favore dei miei diritti di cristiana e contraria alla mia discriminazione. Il pluralismo conformista non consente sconti a chi vive con coerenza la propria scelta di fede. È una tipica patologia dell’Occidente», ha spiegato. Come spiega l’intervistatore, l’ottimo Pierangelo Buttafuoco, sulla Binetti «c’è sempre qualcuno che ne chieda l’interdetto a causa della sua fede cristiana».

Il problema è spiegato benissimo da lei: «Quando si fa coincidere con l’affermazione dei principi la coerenza dei fatti, s’incappa nell’accusa di integralismo». La vera definizione di “integralista” è «quella di essere consapevoli dell’integrità di un’adesione alla fede in Cristo. La vera libertà è l’integrità. Sui temi etici e sui valori dobbiamo ancora scatenare tutte le risorse di libertà» e -come dice Benedetto XVI- “non c’è libertà senza verità”.

Il politicamente corretto non perdona chi ha posizioni scomode, i media -si pensi al modus operandi del Fatto Quotidiano-, continueranno ad interpretare appositamente male le sue affermazioni per farle dire ciò che non ha detto -come è avvenuto per sette anni con papa Ratzinger- tuttavia la Binetti ne è pienamente consapevole: «i cristiani, che vengono nei giorni della storia quali martiri e vittime sono “naturaliter” paladini della libertà. Questo 2013 sarà l’anno dell’editto di Costantino. Fino al 313 i cristiani non potevano uscire allo scoperto, non avevano basiliche e le chiese, come quella di Santa Prassede, erano case. Erano abitazioni private e Roma, la città che oggi ha più università fra tutte le città al mondo, ricca di sapienza, di scienza e di ragione proprio perché fruttificata dalla Chiesa, fino al 313 non poteva avere né un campanile né una chiesa. Chi viene da questa storia non può che desiderare la libertà per tutti e, se c’è ancora chi patisce l’oppressione ed effonde se stesso nel martirio, oggi, quello è il cristiano».

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L’aborto è un forte trauma negativo per la donna

Sindrome post aborto«La legge […] ignora il diritto del nascituro e il trauma dell’aborto per la donna», questo il ‘verdetto’ dell’intervento del dottor Manuel Gurpegui, professore di Psichiatria all’Università di Granada, tra i relatori della CienciaDAV 2013, “la seconda conferenza scientifica del Diritto alla Vita”. All’evento, lo psichiatra ha presentato il tema ‘Complicazioni psichiatriche dell’aborto’. Infatti, contrariamente a Chiara Lalli, il dottore prende in seria considerazione le ripercussioni dell’interruzione volontaria di gravidanza -spesso invece dipinta come senza conseguenze dagli abortisti-, come spiega nell’intervista rilasciata a HazeteOir.org.

Alla domanda circa gli effetti dal punto di vista psichiatrico, il dottore infatti risponde lapidario,  «si tratta di un evento conflittuale che ogni donna colpita elabora successivamente», abbattendosi «sulla visione della vita, della famiglia e sulle risorse sociali e psicologiche», senza nessuna eccezione per la «vulnerabilità psichiatrica». Senza girarci tanto intorno, il professore dichiara, «è difficile sottrarsi alla realtà dei fatti», i quali «hanno un impatto personale innegabile».

Nel consenso informato e nella sua reale capacità informativa, il dottor Gurpegui non nutre molte speranze. «Vera informazione» non viene fornita, commenta, «almeno [non] in molti istituti del nostro ambiente». E sull’annosa questione se «l’aborto sia realmente un diritto della donna o se ne sia vittima» dichiara, «la legge influenza enormemente come la gente pensa», riferendosi all’attuale legislazione spagnola in materia introdotta da Zapatero, che lo considera un diritto, «ma ignora il diritto -riconosciuto dalla Costituzione spagnola- del nascituro». «A mio parere, -conclude il dottore- donne e uomini sono vittime di questa e di altre conseguenze della banalizzazione della sessualità».

Nicola Z.

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Telmo Pievani dimostra che Odifreddi ha torto

Pievani e OdifreddiIl darwinismo porta alla negazione della fede in un Dio Creatore? A rispondere affermativamente sono rimasti ormai solo Piergiorgio Odifreddi e pochi altri anziani sacerdoti dell’ateismo.

Fortunatamente le “nuove” leve del proselitismo laicista hanno preso le distanze da queste convinzioni preistoriche. Telmo Pievani ad esempio afferma che «La scienza non può dimostrare la non esistenza di Dio. Con l’evoluzione la scienza offre una spiegazione della vita molto plausibile. Ci dà una opportunità. Chi vuole, può trovare nell’evoluzionismo una risposta esaustiva. Ma altri potranno, se vogliono, integrarla con un credo religioso». Grazie per la concessione, Telmo.

Proprio Pievani ha avuto il merito di confutare la tesi citata inizialmente, cioè l’incompatibilità tra fede e darwinismo, attraverso “Lettere sulla religione” (Einaudi 2013), dove ha raccolto alcune lettere del naturalista Charles Darwin, padre del darwinismo, in cui parla del suo rapporto con il cristianesimo. Il suo distacco dalla fede e l’approdo ad un agnosticismo leopardiano avvenne principalmente a causa della morte della figlia e non per le sue scoperte scientifiche. Anche il male e la violenza presente nella natura erano per lui scandalo alla fede, enfatizzato da una società protestante non cattolica, come quella vittoriana, abituata all’interpretazione letterale dell’Antico Testamento.

Lui stesso, tre anni prima di morire, scrisse: «Il mio giudizio è spesso fluttuante, e persino nelle mie fluttuazioni più estreme non sono mai stato ateo nel senso di negare Dio. Credo che in generale, ma non sempre, la mia posizione possa essere descritta più appropriatamente con il termine agnostico» (C. Darwin, “Autobiografia”, 1879). Nei momenti migliori, invece, mentre rifletteva sull’uomo, arrivava ad affermare: «Quando rifletto su questo, mi sento in dovere di guardare ad una Prima Causa avente una mente intelligente in qualche misura analoga a quella dell’uomo; e merito perciò di essere chiamato un Teista» (citato in Quoted in The Life of Charles Darwin, [1st Edition – 1902], Francis Darwin – author. London: Senate, 1995, reprint, p. 60).

Odifreddi, autore di “In Principio era Darwin”, noto per le sue epiche “odifreddure”, non è certo difficile da mettere alle strette, lo ha fatto di recente in modo goliardico anche un nostro lettore. Probabilmente però non si sarebbe mai aspettato questo brutto tiro da Pievani, si è scoperto che in questi giorni si è chiuso in casa per giocare online al videogioco SimCity…evidentemente non l’ha presa per nulla bene.

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Ecco perché il miracolo impaurisce lo scientista

Miracoli 
di Enzo Pennetta*
*biologo

 

Il credente può fare a meno dei miracoli, ma lo scientista non può fare a meno della loro negazione, se ne parla nel nuovo libro di Francesco Agnoli e Giulia Tanel: “Miracoli. L’irruzione del soprannaturale nella storia (La Fontana di Siloe 2013)

“Miracolo”, questo termine spesso abusato, conosciuto da tutti ma poco compreso, un termine che viene accettato se indica un “miracolo economico”, ma che nella sua accezione originale viene evitato come qualcosa di cui vergognarsi, come un retaggio di una cultura primitiva della quale l’uomo moderno deve assolutamente liberarsi. Ma questo atteggiamento è il riuscito frutto di una mentalità che non è affatto il frutto della scienza ma dello scientismo, di quell’ideologia che nega dogmaticamente che possa esistere una qualsiasi realtà oltre a quelle indagabili e interpretabili con il metodo scientifico sperimentale.

Appare quindi in tutta la sua evidenza come sia dirompente, e direi “scandalosa”, agli occhi di questa società l’affermazione che per essere buoni scienziati si debba essere pronti ad ammettere che le proprie conoscenze non sono in grado di spiegare un certo fenomeno, che si è di fronte a quello che può poi essere definito un “evento miracoloso”. Quello che supera l’apparente, e erroneamente insinuata, incompatibilità tra scienza e miracoli, è la semplice constatazione che per parlare di miracoli non si può prescindere dalla premessa che esistano delle leggi naturali: se non ammetto che esistono leggi naturali, come posso affermare che qualcosa non si è svolto secondo una tale legge?

Ecco quindi che solo in una società dove si è affermata la scienza moderna, frutto della convinzione che esistano delle leggi, si può parlare di un evento miracoloso, nelle società pagane infatti tutto avveniva per volontà, spesso capriccio, degli dei, e così era un prodigio il fulmine di Zeus al pari di un’eruzione vulcanica o di una guarigione inspiegabile. E’ solo con la nascita della scienza moderna, a sua volta figlia di una divinità che ha istituito il mondo con le leggi di cui le tavole consegnate a Mosè sono un’espressione, e figlia di un “Logos” ordinatore, che si può parlare in senso compiuto di miracoli come di eventi che si collocano secondo leggi che non sono quelle ordinarie.

Ma se il miracolo è etimologicamente derivato da “meraviglia”, il senso del miracoloso è necessaria premessa della ricerca scientifica, diceva infatti Einstein: “Chi non riesce più a provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere”. “La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero. Sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza. L’uomo per il quale non è più familiare il senso del mistero, che ha perso la facoltà di meravigliarsi davanti alla creazione, è come un uomo morto, o almeno cieco.”.

La mancanza di meraviglia, la scelta riduzionista di voler rinchiudere tutto il reale nelle categorie del misurabile e delle realtà già conosciute è quindi nemica della scienza, dove infatti la scienza ha bisogno del meraviglioso, lo scientismo vuole vedere solo banalità meccaniche, ecco dunque che il Big Bang diventa nelle parole di un’astronoma come Margherita Hack solo: “la più grande scorreggia dell’universo”. E che, come si ebbe a dire in una conferenza dell’UAAR, quelle strutture straordinarie, che sono le cellule, in realtà sono solo “uno schifo”: “Non tutti sanno che una cellula non è come tutti la descrivono, una fabbrica perfetta con tutti gli ingranaggini a posto, ma è un… uno schifo, cioè una roba molle, fatta di cose spesso che non servono, messe lì che uno si porta dietro dall’evoluzione.“

Ma un’altra cosa che va chiarita è che i fedeli cristiani non temono che un evento ritenuto miracoloso possa essere spiegato con la scienza conosciuta, non è l’eccezionalità di un evento miracoloso a determinare o no la fede, per il cristiano in realtà tutto è meraviglia e stupore, e quindi tutto è miracolo, l’esistenza stessa dell’Universo, così come la nascita del un germoglio di una pianta o il cielo stellato, sono “miracoli”. Il miracolo per il cristiano quindi non è tanto un fatto quanto la sua interpretazione, tutta la natura rimanda ad un’altra realtà e tutto è un segno di quella realtà, le cose che osserva un cristiano o un non credente sono le stesse, ma sono invece i significati ad essere differenti, o meglio, la presenza di un significato piuttosto che il “non senso”.

Lo scienziato che è pronto ad arrendersi davanti ad un “miracolo” è quindi più pronto ad accettare i limiti personali e della propria scienza, è quindi un vero scienziato. Se invece questi limiti non vengono accettati e per paura dell’inspiegabile si ricorre a spiegazioni forzate, allora non si è bravi scienziati, si è al massimo scientisti. Un’ultima cosa va detta infine con grande chiarezza: se il cristiano non ha timore che un evento “miracoloso” sia spiegato con la scienza sperimentale, chi è invece ad avere assolutamente bisogno di non essere smentito è l’ateista: se infatti la mancanza di un miracolo non minaccia la fede, la presenza anche di un solo miracolo è mortale per lo scientismo ateo.

Proprio come è riportato nel libro di Agnoli e Tanel. Era proprio un propagandista di prima grandezza dell’ateismo come Emile Zola, ad affermare che anche un solo miracolo è sufficiente a confutare l’ateismo.

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“ZeroZeroZero”: la tesi fallace di Saviano sulla droga legale

DrogaLa Chiesa ha a cuore il bene dell’uomo, la sua proposta etica si rivolge a chiunque voglia ascoltarla, cristiano o no, credente o no. Secondo il Catechismo l’uso della droga costituisce gravissimi danni alla salute e alla vita umana e per questo viene ritenuta una colpa grave della persona che ne fa uso. Allo stesso modo la produzione clandestina e il traffico di droga sono attività a loro volta respinte poiché portano a pratiche gravemente contrarie alla legge morale.

La Chiesa non sostiene il proibizionismo o l’antiproibizionismo, la sua è una precisa posizione morale. Occorre a noi laici riflettere quale sia il metodo migliore per diminuire il più possibile il consumo di droga, cioè una violazione della dignità umana. Ha affrontato questo l’ultimo libro di Roberto Saviano, intitolato “ZeroZeroZero”, il quale propende prevedibilmente per la legalizzazione della droga come miglior metodo per combattere la sua diffusione: «Non si può contrastare il narcotraffico senza politiche di legalizzazione. In questo modo si sottraggono le droghe al mercato illecito per esser affidate al sistema delle farmacie», ha scritto.

Saviano non ha mai brillanti idee, lo abbiamo visto con gli argomenti banali con cui sostiene l’agenda LGBT, e anche in questo caso le sue sono affermazioni non paiono valide. Il criminologo Federico Varese, professore di Criminologia presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Oxford lo ha completamente smontato: nessuna mappa, nessuna bibliografia, niente informazioni dettagliate sugli individui intervistati «o un filo analitico che si dipani in modo lineare. Il nuovo libro di Saviano è costruito a incastro, infatti gli elementi di alcune storie si ritrovano in altre». E ancora: «Certe parti del libro sono basate su dati facilmente reperibili su internet, incluso wikipedia».

Varese elenca alcuni meriti di Saviano ma la conclusione non è solare, compreso l’invito a lasciar perdere le inchieste e dedicarsi al romanzo: «Piuttosto che una tesi forte e rivelazioni ad effetto, ZZZ racconta il personalissimo viaggio dell’autore nell’inferno della cocaina, un viaggio compiuto in gran parte tra le mura della sua particolarissima prigione. Saviano ha scritto il primo romanzo sperimentale d’inchiesta. Credo sia giunto il momento di affrancare questo grande scrittore italiano dal ricatto dello scoop e della denuncia quotidiana, e di restituirlo al mondo della letteratura». Il copia-incolla da Wikipedia, un’onta grave per uno scrittore-intellettuale, è stato verificato anche da Il Giornale. Fabio Fazio gli ha dedicato due puntate di “Che tempo che fa”, ma il mega spot è stato un fallimento: lo share è precipitato.

Entrando nel merito della tesi della liberalizzazione delle droghe, occorre ricordare che -seppur l’intento nobile- il Rapporto mondiale sulle droghe 2012 dell’Unodc, l’ufficio delle Nazioni Unite che si occupa di droga e criminalità, ha giustificato le politiche proibizioniste che improntano i trattati internazionali e le legislazioni nazionali in materia: «Il sistema internazionale di controllo della droga sembra aver mantenuto il consumo di droghe illegali e al di sotto dei livelli registrati per le sostanze psicoattive legali». E ancora: «I livelli di consumo di droga sarebbero probabilmente superiori senza un effetto di contenimento. Il sistema di controllo internazionale della droga sembra agire come un freno sul consumo di droga, in particolare tra gli adulti che sono meno disposti a trasgredire le leggi per consumare droghe».

Lo stesso possiamo dire della situazione italiana, la l. 49/2006, più nota come Legge “Fini-Giovanardi”, ha funzionato e lo dimostra il continuo calo del consumo di droga nella popolazione: – 0,09% per l’eroina , – 0,14% per la cocaina, – 0,11% per gli stimolanti, – 0,05% per gli allucinogeni e – 1,18% per la cannabis. Lo ha riportato la «Relazione sullo stato delle tossicodipendenze in Italia 2012», p.7

Antonio Costa, ex direttore dell’Ufficio Antidroga delle Nazioni Unite, nell’estate 2012 ha attaccato al Royal Institute of International Affairs di Chatam House la campagna per la legalizzazione della droga e ha definito “semplicistico” il discorso «secondo cui la legalizzazione farebbe scomparire la criminalità organizzata. Combattere i criminali legalizzando gli stupefacenti causerebbe un’epidemia di drogati e posso provarlo rifacendomi ai fatti storici. La pressione per legalizzare le droghe viene da svariate fonti, alcune innocenti e ben intenzionate – che io rispetto -, altre pericolosamente speculative». Suggeriamo anche questo bellissimo e sintetico intervento del filosofo Giacomo Samek Lodovici, docente di Filosofia della Storia presso l’Università Cattolica di Milano sul perché è eticamente corretto essere contro la liberalizzazione della droga: un fine buono (colpire le organizzazioni criminali) non giustifica un mezzo malvagio, cioè smerciare droghe mortifere. Con la liberalizzazione non si risolverebbe nulla perché gli spacciatori, rimasti senza la licenza dello Stato, non potendo più guadagnare con i maggiorenni, cercherebbero di vendere droga agli adolescenti e ai preadolescenti. Infine, la legalizzazione aumenterebbe il consumo perché le leggi hanno un effetto pedagogico e molti pensano erroneamente che se un comportamento è legale allora è anche morale. Inoltre, comporterebbe un facile accesso dei maggiorenni alla droga: sarebbe possibile comprarla alla luce del sole, senza sotterfugi.

Vogliamo anche citare l’opinione di un gigante alla lotta alla mafia, Paolo Borsellino, secondo cui l’ipotesi che la liberalizzazione del «commercio di droga» possa togliere «dalle mani di Cosa Nostra la ragione prima della sua attuale potenza», è una «tesi semplicistica e peregrina», tipica di quanti hanno «fantasie sprovvedute».

Infine, occorre sfatare un mito: la droga non si vincerà purtroppo né con il proibizionismo, né tanto meno con l’antiproibizionismo. La questione è esistenziale non politica: la droga serve a riempire il Nulla in cui molte vite sono immerse, disilluse dal fatto che ci possa essere una Risposta al desiderio umano. La droga si vince solo riempiendo questo Nulla che soffoca l’esistenza di chi ha deciso che la vita non ha e non deve avere un Senso ultimo. La storia di don Roberto Dichiera, dallo spaccio al sacerdozio, la dice lunga.

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