Cile e Irlanda: aborto illegale ed elevata salute della donna

Donna incinta 
di Elard Koch *
*Epidemiologo presso l’Institute of Molecular Epidemiology (MELISA)

da Mercatornet.com, 21/03/13

 

Nel settembre 2012 ho avuto la preziosa opportunità di partecipare come membro della Committee on Excellence in Maternal Healthcare, convocata a Dublino per analizzare l’esperienza di Irlanda, Cile e altri paesi con un elevato standard di salute materna in tutto il mondo. L’incontro è stato coronato con la Declaration of Dublin: «Come professionisti esperti e ricercatori in ostetricia e ginecologia, affermiamo che l’aborto diretto – la distruzione intenzionale del nascituro – non è medicalmente necessario per salvare la vita di una donna. Noi sosteniamo che vi è una differenza fondamentale tra l’aborto e i necessari trattamenti medici che vengono effettuati per salvare la vita della madre. Confermiamo che il divieto di aborto non influisce in alcun modo, e in nessun caso, sulla disponibilità di cure ottimali per le donne in gravidanza».

Sia il Cile e l’Irlanda sono collocati tra le nazioni al mondo più sicure per la maternità nelle rispettive regioni. Nel caso del Cile, esclusi i decessi dovuti a cause non-ostetriche (chiamate anche cause indirette), 30 morti materne sono state registrate nel corso del 2010, con un tasso di mortalità dell’11,9 per 100.000 nati vivi. Questo colloca il Cile secondo dopo al Canada nel continente americano, con una migliore salute materna rispetto agli Stati Uniti d’America. In Irlanda, solo tre decessi materni sono stati registrati su 74.976 nati vivi, dando un tasso di mortalità di 4 per 100.000 nati vivi, e ponendo questo paese tra le cinque nazioni con il più basso tasso di mortalità materna in Europa.

È interessante notare che questi due paesi hanno le leggi meno permissive sull’aborto nel mondo e nello stesso tempo la visualizzazione di mortalità legata all’aborto è trascurabile. Questo sfida il mito secondo il quale la limitazione di aborto porta a centinaia -se non migliaia- di morti a causa dell’aborto. Questo è falso.

Le morti a causa dell’aborto in Cile sono diminuite del 99% in 50 anni. Inoltre, questa diminuzione è continuata anche dopo la messa al bando dell'”aborto terapeutico”, nel 1989, a conferma che la legge dimostra che tali aborti erano completamente inutili a ridurre la mortalità materna o nell’affrontare i casi eccezionali in cui la vita della madre in gravidanza è a rischio. Questo non è un problema minore dato che la mortalità a causa dell’aborto è un argomento ricorrente utilizzato per promuovere la legalizzazione dell’aborto in Irlanda, Cile, e in America Latina in generale.

Nel corso del 1960, quasi il 45% dei ricoveri per aborto sono stati associati all’aborto indotto. In Cile, dal 1967, la continua diminuzione dei tassi di ospedalizzazione a causa di qualsiasi tipo di aborto, spontaneo o provocato, suggerisce che la pratica dell’aborto indotto è anche diminuita in parallelo con la diminuzione della mortalità per aborto. In effetti, le stime effettuate fino a pochi mesi mostrano che soltanto il 10-19% di tutti i ricoveri per aborto in Cile può essere attribuito all’aborto indotto negli ultimi dieci anni. La maggior parte degli aborti indotti in Cile oggi avrebbe luogo ricorrendo alla acquisizione illegale di Misoprostolo nel mercato nero, un business lucrativo apparentemente senza un adeguato controllo.

In termini statistici, i tassi di aborto in Cile e in Irlanda sono, in media, da 10 a 12 volte inferiori rispetto a quelli dei paesi in cui l’aborto è legale, come la Spagna, il cui tasso di aborto è aumentato di 10 volte dal momento della sua depenalizzazione nel 1985. La ripetizione dell’aborti da parte delle stesse donne è aumentato dal 20 ad oltre il 35%, il che suggerisce che l’aborto legale è utilizzato come una sorta di metodo contraccettivo dalle giovani donne spagnole.

La spiegazione di questa differenza è logica: mentre il permesso legale facilita l’accesso e aumenta l’incidenza di aborto, la sua restrizione legale ostacola l’accesso e diminuisce l’incidenza. Ovviamente, l’effetto dissuasivo di una legge meno permissiva non può eliminare completamente il problema, ma può diminuirlo. Infatti, lo scopo di una tale legge è simile a quella della legislazione che vieta farmaci dannosi.

Sorprendentemente, gli anacronistici riferimenti all'”aborto terapeutico” sono usati in modo stressante più e più volte per ripristinare l’inutile legislazione, prestandosi ad abusi interpretativi. La libera interpretazione delle cause dell’aborto, che portano all’abuso di leggi più permissive, sembra essere un problema più generale. In realtà, la maggior parte degli aborti effettuati in Inghilterra e in Spagna vengono eseguiti per “ragioni di salute mentale”, anche se non ci sono prove scientifiche a sostegno dell’aborto come indicazione terapeutica per eventuali problemi relativi alla salute mentale.

La preziosa esperienza cilena dimostra che l’etica medica è sufficiente per far fronte a tutti i casi di apparente conflitto tra la vita della madre e quella del bambino in gestazione. Inoltre, un ragionamento operativo sul diritto etico all’interno della legge attuale consente un adattamento dinamico al progresso della tecnologia e della conoscenza scientifica, la promozione di una sana, riflessiva e responsabile prassi medica. Infine, se l’obiettivo di nazioni come il Cile e l’Irlanda è quello di mantenere il loro elevato standard nella sanità materna, proteggendo allo stesso tempo la salute della donna e della vita umana in gestazione, mantenendo anche un basso tasso di aborto indotto, il modo per procedere non comporta la modifica delle loro attuali leggi vigenti sull’aborto.

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Possedere la verità? Risposta ai relativisti…

La veritàPretendere di possedere la verità…questo è un tema molto discusso in questo periodo storico di dominio relativista, ed è bene un piccolo chiarimento. «È necessario che chiunque abiti una fede non pensi di possedere la verità, e per giunta assoluta». Così l’invidioso Umberto Galimberti minaccia i cristiani. Ma, il filosofo del plagio, non sa che ha completamente ragione.

Lo spiega bene Enzo Bianchi, teologo (seppur, a volte, sui generis): «è assolutamente insensato pensare di possedere la verità. Per l’autentica fede cristiana, infatti, quella consegnataci dalle Scritture e dalla grande Tradizione, la verità è una persona, Gesù Cristo (cf. Gv 14,6), colui che ha narrato Dio (exeghésato: Gv 1,18): è una verità che sempre ci precede; una verità che, se mai, ci possiede, ci chiama fuori da noi stessi aprendoci al dialogo con tutti gli uomini e le donne in ricerca».

Enzo Bianchi si ispira certamente alle profonde parole di Benedetto XVI del settembre scorso: «come si può avere la verità? Questo è intolleranza! L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più credere affatto alla verità o parlare della verità. Sembra essere lontana, sembra qualcosa a cui è meglio non fare ricorso. Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità. E’ la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi. Come nessuno può dire: ho dei figli – non sono un nostro possesso, sono un dono, e come dono di Dio ci sono dati per un compito – così non possiamo dire: ho la verità, ma la verità è venuta verso di noi e ci spinge. Dobbiamo imparare a farci muovere da lei, a farci condurre da lei. E allora brillerà di nuovo: se essa stessa ci conduce e ci compenetra».

Questo indica che è falso sostenere -come impone oggi il religiosus political correctness!- che tutte le religioni sono uguali e non è possibile nemmeno mettere cattolicesimo e altre confessioni sullo stesso piano, nell’ottica di un “supermercato delle religioni” in cui ognuno prende e prova il prodotto che più gli aggrada. Nessun altro uomo ha preteso di dire: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14, 1-6), o quest’uomo è completamente pazzo oppure è quel che dice di essere. Occorre prendere posizione, lo diciamo ai tanti fans laici di Gesù. Molto più radicalmente il teologo Giussani scriveva: «se c’è un delitto che una religione può compiere è quello di dire “io sono l’unica strada”. E’ esattamente ciò che pretende il cristianesimo. Non è ingiusto sentirsi ripugnare di fronte a tale affermazione. Ingiusto sarebbe non domandarsi il motivo di tale pretesa» (All’origine della pretesa cristiana, pag. 31).

Solo in Cristo c’è la salvezza e solo la Chiesa cattolica, guidata dalla successione apostolica, custodisce la piena verità su Cristo. Questa pretesa va totalmente distinta da un’affermazione di intolleranza, anche se oggi viene purtroppo percepita così. Occorre stare attenti alla retorica multiculturalista perché, lo ha spiegato Benedetto XVI, «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo». Da questo punto di vista il dialogo culturale con le altre religioni, una mutua correzione e un arricchimento vicendevole, sono una preziosità infinita.

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Emanuela Orlandi: ecco la cronologia dei fatti

Emanuela OrlandiDa quasi due anni seguo e studio il caso di Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana scomparsa da Roma il 22 giugno 1983 all’età di 15 anni. Non ricordo come iniziai ad interessarmi così tanto della vicenda, senza contare che Emanuela è sparita quando io nemmeno ero nato e dunque non ho vissuto in prima persona l’avvicendarsi dei fatti in questi trent’anni.

Quello della Orlandi è certamente uno dei casi più misteriosi nella storia italiana, costantemente legato -a torto o a ragione- a varie vicende degli anni ’80 e ’90: l’attentato di Giovanni Paolo II da parte di Ali Agca, la gestione dello IOR e il fallimento del Banco Ambrosiano, la morte del colonnello delle guardie svizzere Alois Estermann (di sua moglie e del vicecaporale Cédric Tornay), la Banda della Magliana e la caduta dell’impero comunista. E’ una vicenda molto complessa (anche se poi la verità potrebbe essere più banale di quanto si pensi) che ancora oggi non si può escludere con certezza nessuna delle numerose ipotesi di soluzione avanzate nel corso degli anni.

Questo ginepraio è venuto a crearsi certamente a causa dei numerosissimi depistaggi da parte dei presunti rapitori o di organizzazioni interessatesi al caso per secondi fini, ma anche per la spasmodica attenzione mediatica stimolata dalla presenza di un’abitante della Città del Vaticano a cui vi si è interessato in prima persona Giovanni Paolo II. Le responsabilità di questo impasse vanno anche certamente attribuite agli investigatori (compresi i servizi segreti italiani, allora Sisde) che si occuparono inizialmente del caso, i quali hanno mostrato ben poca professionalità nel portare avanti le indagini e questo ha giustamente dato adito a molti sospetti. Forti perplessità vanno, purtroppo, anche all’eccessiva riservatezza, seppur legittima per svariati motivi, da parte del Vaticano o di ecclesiasti conoscitori di informazioni, così come affermato da padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede.

Chi segue questa vicenda sa benissimo che in questi giorni si potrebbe essere arrivati ad una svolta definitiva, oppure all’ennesimo bluff. La Procura di Roma sta infatti interrogando una persona, Marco Fassoni Accetti, autodenunciatosi tra i responsabili del sequestro di Emanuela. Personaggio particolare di cui avremo modo di parlare più avanti che per ora, almeno leggendo le prime rivelazioni apparse sui quotidiani, ha soltanto complicato ancora di più lo scenario.

Ho voluto pubblicare su UCCR un dossier dettagliato sulla cronologia degli eventi dal 1983 ad oggi (e sarà in continuo aggiornamento) e tra qualche giorno pubblicherò un secondo dossier in cui saranno analizzate le principali ipotesi di soluzione attualmente ritenute più attendibili. E’ un lavoro che ho intrapreso per interesse personale ma che ora ritengo utile pubblicare per chiunque voglia approfondire e capire di più su questa misteriosa vicenda. Rimango a disposizione all’indirizzo e-mail: redazione@uccronline.it

 
 

Emanuela Orlandi: cronologia dei fatti

 
 

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R. Lewandowski: «sono cattolico, non mi vergogno di Gesù»

Robert LewandowskiFacili le ironie dopo che le due più grandi squadre di calcio spagnole, Barcellona e Real Madrid, hanno preso quattro gol a testa nella partita di andata delle semifinali di Champions League contro, rispettivamente, Bayer Monaco e Borussia Dortmund.

Cristiano Ronaldo e compagni hanno ancora gli incubi di notte a forza di pensare a Robert Lewandowski, attaccante del Borussia Dortmund autore di tutte e quattro le reti segnate al Real Madrid. L’attaccante, scartato in Italia dalla Roma, è uno dei trascinatori anche della sua nazionale, la Polonia. Un campione che non ha timori a parlare pubblicamente della sua fede cattolica, anzi, ha anche aderito alla campagna dei cattolici polacchi chiamata “Non mi vergogno di Gesù”, dicendo: «Il mondo oggi sta andando molto veloce e a volte ci dimentichiamo i nostri valori e ciò che è veramente importante. La fede mi aiuta non solo in campo ma anche fuori da esso per cercare di essere una brava persona e seguire una strada giusta per la mia vita. Aderisco a questa campagna perché io sono cattolico e non mi vergogno di Gesù e di avere fede in Lui. So che Dio sempre mi guarda».

Un altro campione del calcio è certamente Lionel Messi, che ha recentemente dichiarato di voler dedicare il prossimo Mondiale al suo connazionale Papa Francesco. Javier Zanetti, capitano dell’Inter e anche lui argentino, ha avuto proprio avuto il privilegio di incontrare recentemente il Pontefice: «E’ stato un incontro emozionante perché quando è stato eletto, il primo desiderio che ho avuto è stato quello di incontrarlo», ha dichiarato. «Ho potuto farlo ed è stato un privilegio. Ho trovato di fronte a me una persona semplice, con un cuore enorme, che impiegherà tutte le energie necessarie per aiutare i fedeli». Ha poi aggiunto, da cattolico praticante: «La fede è cosi importante nel mondo e noi gli siamo tutti vicini».

Lasciando da parte l’onnipresente mondo del calcio, diamo spazio all’atletica: Daniele Greco ha vinto nel marzo scorso la medaglia d’oro nel salto triplo agli Europei in Svezia, ma ha un solo rimpianto: «Domenica, per più motivi, non sono riuscito ad andare in Chiesa», ha detto. «Cantavo nel coro della parrocchia di Galatone», una fede semplice vissuta con amici e fidanzata. «Ma per la mia attività non potevo seguire sempre le prove. Così ora, alla domenica, alternandomi con Federica e con Massimiliano alla chitarra, presto servizio alla comunità da solo. Sant’Agostino diceva che chi canta prega due volte». Una fede vissuta anche nello sport: «Non cerco di migliorarmi per la mia gloria, che è vana. Ma per quella di Dio. Condivido questo dono con Francesca. Quando ci siamo fidanzati, l’anello è stato un rosario. Dalle nostre parti si dice che il vento unisce i fumi e il Signore unisce le persone». Al punto che i due, a breve, trascorreranno qualche giorno di vacanza a Medjugorje.

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I vincoli interni che guidano l’evoluzione

UccellinoDurante l’Udienza generale del 6 febbraio scorso, papa Benedetto XVI ha spiegato: «nell’epoca della scienza e della tecnica, ha ancora senso parlare di creazione? Come dobbiamo comprendere le narrazioni della Genesi? La Bibbia non vuole essere un manuale di scienze naturali; vuole invece far comprendere la verità autentica e profonda delle cose. La verità fondamentale che i racconti della Genesi ci svelano è che il mondo non è un insieme di forze tra loro contrastanti, ma ha la sua origine e la sua stabilità nel Logos, nella Ragione eterna di Dio, che continua a sorreggere l’universo».

Ancora una volta la Chiesa si è mostrata contraria al Creazionismo protestante, ma anche lontana da un concetto di evoluzione determinato esclusivamente da caso e necessità, come vorrebbero coloro che hanno fatto della biologia evolutiva la bandiera del nuovo ateismo scientifico. I vari Pievani, Dawkins e compagnia bella sono arenati da anni su un modello evolutivo neo-darwinista, ormai superato, basato sul gradualismo, sulla selezione naturale come unico fattore esplicativo dell’evoluzione e sulla macro-evoluzione come una micro-evoluzione semplicemente protratta nel tempo e in condizioni di isolamento geografico. Il neodarwinismo, nonostante sia l’approccio maggioritario negli evoluzionisti, si trova oggi in rotta di collisione con le nuove acquisizioni della biologia molecolare.

Lo ha spiegato, ad esempio, Stuart A. Newman, professore di Biologia presso il New York Medical College, dicendo: «gli scienziati hanno ancora solo idee abbozzate su come le complesse forme viventi sono sorte nel corso dell’evoluzione […]. Anche le cellule “semplici” sono abbastanza complesse e le origini della vita cellulare sono ben lungi dall’essere risolte». Inoltre, il processo microevolutivo immaginato da Darwin e sostenuto dai neodarwinisti, «non tiene conto in alcun modo plausibile i modelli marcoevolutivi, come le differenze tra ostriche e cavallette, pesci e uccelli. Infatti, il gradualismo adattazionista, anche se ancora popolare in alcuni ambienti scientifici, è sempre più messo in discussione e trovato difettoso dai biologi evoluzionisti che lavorano in un set esteso di discipline». In un precedente articolo aveva invece mostrato come la selezione naturale non possa più essere considerata come il meccanismo esclusivo del cambiamento macroevolutivo. Lo scienziato ha quindi evidenziato come «a differenza della presunzione del modello standard, tuttavia, lo scenario fisico-genetico per l’origine delle forme multicellulari complesse non è affatto aperto e senza limiti», ma risponde a vincoli interni pre-esistenti.

Tutto questo è stato confermato in un “recente” articolo del biologo italiano Alessandro Giuliani, ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità dove si occupa della modellizzazione matematica e statistica dei sistemi biologici, nonché collaboratore di UCCR. Citando uno studio su Nature ha mostrato come l’approccio neodarwinista stia venendo pian piano demolito. Non solo, ma, come già fatto dal prof. Newman, ha spiegato anche come non sia possibile oggi evitare di sostenere una visione dell’evoluzione iscritta in una “canalizzazione” generata da leggi fisiche (o vincoli) pre-esistenti.

A sostenere questo nuovo approccio all’evoluzione biologica c’è anche il nuovo libro di Terrence William Deacon, antropologo americano, docente presso l’Helen Wills Neuroscience Institute e membro della Cognitive Science faculty presso l’University of California. In “Incomplete Nature” ha parlato dei processi di auto-organizzazione della materia mostrando l’inadeguatezza delle spiegazioni riduzionistiche. Nel volume ha insistito molto sul fatto che la teleologia, in un modo o nell’altro, ha un posto nelle scienze naturali. Lo scienziato americano si è spinto anche oltre (forse troppo), spiegando che secondo lui anche il pensiero cosciente «in linea di principio potrebbe essere spiegato in termini naturali, da una sorta di architettura di vincoli interni».

Ludovico Galleni, docente di Zoologia presso l’Università di Pisa, lo ha spiegato in modo sintetico parlando del «chiaro segno della presenza di vincoli interni, morfologici e/o genetici che, una volta raggiunta una soluzione morfologica, condizionano i passi successivi, ben al di là del gioco sconnesso mutazione-selezione» (L. Galleni in “Complessità, evoluzione, uomo”, Jaca Book 2011, pag. 162).

Il paleontologo francese Yves Coppens, professore onorario presso il Collegio di Francia e scopritore dell’ominide Lucy, lo ha spiegato a sua volta in modo definitivo: «La materia è partita da una situazione estremamente semplice per andare verso una situazione nel tempo più complicata e questa situazione più complicata era nello stesso tempo più organizzata […]. Questa vita è condizionata, c’è una costrizione genetica […]. E’ impressionante vedere che anzitutto c’è un senso e poi c’è del senso: un senso è la direzione, “del senso” è significato. Tutto è così» (Y. Coppens in “Complessità, evoluzione, uomo”, Jaca Book 2011, pag. 102).

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No ad un mondo senza sessi, il bimbo ha diritto a padre e madre

happy family 
di Monette Vacquin*,
*psicoanalista

e Jean-Pierre Winter*,
*psicoanalista

da Le Monde, 5/12/2012

 

Le parole padre e madre saranno soppresse dal codice civile. Queste due parole che condensano tutte le differenze, poiché portatrici sia della differenza dei sessi che di quella delle generazioni, scompariranno da ciò che codifica la nostra identità. Bisognerebbe essere sordi per non sentire il soffio giovanilistico che percorre tutto questo.

Il colpo di scopa ideologico capace di rovesciare secoli di uso e di sopprimere le parole alle quali dobbiamo la trasmissione della vita evidentemente si basa su ambivalenze inconsce molto arcaiche, e ampiamente condivise, per avere la minima possibilità di imporsi e… ben presto di fare la legge. Questa violenza, deflagratrice, non è certo solo il fatto di una minoranza di omosessuali che richiedono il matrimonio. Senza eco collettiva del problema della perdita o del rifiuto di qualsiasi punto di riferimento trasmesso, questa violenza avrebbe suscitato nel migliore dei casi la risata o il disagio, non la soddisfazione pura e semplice. Questo avvenimento è tuttavia portato avanti da una ultra-minoranza, con il ricorso indispensabile di un linguaggio che è la rovina del pensiero: il politicamente corretto.

Questo diniego della differenza, “una donna è un uomo”, Freud lo chiamava diniego della castrazione. Ciò significa, nel gergo psicanalitico, che la castrazione non esiste, basta che io la neghi mentalmente perché la sua esistenza reale sia rifiutata. Quando un licenziamento diventa un “piano sociale”, ci sentiamo a disagio. Quando un “pallone” diventa un “referente rimbalzante” ci chiediamo se stiamo sognando. Quando il “matrimonio” diventa “una discriminazione legale contro i cittadini fondata sul loro orientamento sessuale”, cominciamo ad aver paura.

Politicamente corretto: il discorso deve essere cortese, senza alcun taglio drastico. La “levigatura” della forma, oggetto di una sorveglianza ideologica puntigliosa, maschera il terrorismo che fa regnare e che porta ad un’ “etica” dell’odio e della confusione, in nome del bene liberato da ogni negatività… cosa che l’umanità non è. La rivendicazione del matrimonio omosessuale non costituisce una richiesta da soddisfare, ma un sintomo da decifrare. Che cosa significa che il matrimonio disertato sia reinvestito sotto forma di parodia? Si tratta di dargli il colpo di grazia? O che questo posto non sia lasciato vuoto? Che cosa significa infine l’identificazione dei politici e dei media a tali sfide, quando ci sono tanti problemi che richiedono la nostra vigilanza?

Da un lato, secoli e secoli di uso, che fanno sì che matrimonio e alleanza di un uomo e di una donna siano una cosa sola. Dall’altro, la rivendicazione di una minoranza di attivisti che sanno parlare il linguaggio che si desidera sentire oggi: quello dell’egualitarismo ideologico, sinonimo di indifferenziazione. E maneggia efficacemente il ricatto dell’omofobia, che impedisce di pensare. Non spetta agli Stati adeguarsi alle provocazioni di alcuni ideologi che parlano una lingua confusa, ma con violenza, sbalordendo o terrorizzando i loro obiettori con dei sofismi. Ancor meno dare a queste provocazioni una forma istituzionale.

La lotta contro l’omofobia, indispensabile, è una cosa. L’organizzazione giuridica dei rapporti tra gli omosessuali che lo desiderano è un’altra. Ma la destituzione delle istituzioni da parte di quegli stessi che sono incaricati di elaborarle è ancora un’altra cosa. Lì sta la difficoltà di pensare il problema del “matrimonio omosessuale”: una difficoltà che mescola una problematica legittima ad un attacco istituzionale selvaggio che mobilita le forze più arcaiche. Che i governi sappiano ciò che fanno: non ci si impone al linguaggio altrimenti si vendica. Devono scomparire anche le parole uomo e donna? Dobbiamo smettere di tener conto del sesso in diritto, se non per abolirlo, almeno per “cacciarlo” in nome dell’uguaglianza, ritenendo che il linguaggio usato sia testimonianza di antichi furori? La nostra generazione continua a superare dei limiti, o a distruggere tutto ciò che li incarna, piuttosto che trasmetterli con la loro parte di insondabilità.

Omosessuali ed eterosessuali non rientrano nella divisione rigida che sembra essere accettata oggi. Tutti condividono lo stesso mondo ed è insieme che sono tenuti ad occuparsi delle istituzioni che strutturano i rapporti tra gli uomini e tra le generazioni. Le distruzioni simboliche sono riconoscibili per la sofferenza che causano ad alcuni, immersi nell’impotenza, consapevoli dell’odio e della distruttività, e che sentono che non si sta argomentando contro una perversione. Si riconoscono anche per la gioia che procurano ad altri, immersi nel trionfo dell’ “onnipotenza” e del diniego della legge. È probabile che il mondo assorbirà questo con indifferenza, che è l’altro nome dell’odio. È perfino a questo che cominciamo ad assomigliare: non più ad un’umanità conosciuta, ma ad un mondo indifferente. Neutro. Neutralizzato.

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La Laiga vuole discriminare i medici obiettori

MediciL’Italia è un paese straripante di bigotti e liberticidi, che sono rappresentati alla perfezione da quel 70% di ginecologi che non ne vogliono sapere di rispettare i sacrosanti diritti della donna, e osano dirsi “obiettori di coscienza” ovvero, scrive Carlo Flamigni, operatori dell’”imposizione di coscienza”, sabotatori di quella Legge 194 che rappresenta il più alto traguardo del riconoscimento dei diritti umani, con il sostegno della Cassazione che, sicuramente per una svista, ha recentemente ri-affermato «il diritto di rifiutare di determinare l’aborto, ma non di omettere di prestare assistenza prima o dopo».

La Laiga (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della Legge 194) si batte per trovare una soluzione a questa situazione iniqua, la presidente dell’associazione è Silvia Agatone ed è stata recentemente intervistata da MicroMega. Lasciate che abbandoni questo commovente eloquio e vediamo cos’ha da dire riguardo la situazione dei medici non obiettori.

La 194 conferisce alla donna la possibilità di richiedere un servizio e contestualmente consente al medico di sottrarvisi: un vicolo cieco (secondo l’intervistatore). Le soluzioni? Fondamentalmente due: offrire benefici ai non obiettori (anche se questa opzione risulta poco attuabile in tempi di crisi) o penalizzare gli obiettori. Sembra infatti che “i non obiettori che rimangono coerenti con il loro impegno civile e sociale” abbiano “una vita lavorativa sfibrata, stressante,” che subiscano “un feroce mobbing”, che abbiano una vita lavorativa molto più faticosa perché, quando viene fatta la diagnosi di malformazione di un feto in gravidanza, non lasciano la donna da sola. Molto interessante, davvero, soprattutto il fatto che la Agatone ci confermi che i medici abortisti subiscono il fenomeno detto burnout che sarebbe una “sindrome da stress legata ad alcune professioni dove si è sottoposti a forti pressioni emotive”: sembra vero, quindi, come suggerisce la Nuova Bussola Quotidiana, che sopprimere feti stressa, quindi occorre far riposare i medici. Sospettiamo che questo non succeda ad altri medici che si ritrovano quotidianamente ad asportare tumori o simili “grumi di cellule”.

Per quanto riguarda il resto, invece, altri testimoni (che magari non saranno attendibili quando la Agatone perché, si sa, gli obiettori non sono attendibili), ad esempio il dottor Gianluigi Parenti, intervistato per commentare gli eventi che hanno portato alla condanna di una dottoressa che si era rifiutata di assistere una donna che aveva abortito e che era a rischio di emorragia, conferma sì l’esistenza di un “carico di tensione notevole” per i non obiettori, ma che sarebbe lo stesso degli obiettori, sempre in bilico tra la scelta morale, il rischio di rimediare denunce in una “società abituata a pensare male di tutto e di tutti”, l’avere perennemente gli occhi puntati addosso perché, soprattutto per l’obiettore, non è difficile andare incontro a conseguenze penali.

La dottoressa Agatone propone, comunque, di rimediare all’obiezione facendo “pagare un prezzo” a chi decide di evitare di praticare aborti. Come? Sulla falsariga del servizio civile che, in tempi di leva obbligatoria, sostituiva la stessa per gli obiettori del servizio militare, e che poteva anche impegnare più tempo di quest’ultimo: “E allora che anche gli obiettori siano obbligati ad impegnare più tempo degli altri nel lavoro! Un lavoro naturalmente coerente con le loro idee. Come per esempio passare più tempo in ospedale o negli ambulatori sparsi sul territorio per la prevenzione delle gravidanze indesiderate.“

Come fa notare, ancora, la Nuova Bussola Quotidiana, il servizio civile non era una “punizione”, un “prezzo”, ma un modo diverso di onorare un dovere cui non ci si poteva sottrarre: quello di difendere la Patria, sancito dalla Costituzione. Cosa che non trova corrispondenza nella questione dell’obiezione di coscienza: il dovere di praticare aborti non grava sul singolo, ma sulla clinica. Inoltre risulta evidente che: “richiamare l’obiezione di coscienza alla leva è un autogol. Sia perché allora venne concessa per tutelare i convincimenti morali e religiosi dei privati cittadini così come avviene proprio per l’obiezione all’aborto. Sia perché la scomparsa (più correttamente: la sospensione) della leva obbligatoria e dunque della relativa obiezione stanno a dimostrare che per il nostro ordinamento quando c’è di mezzo il valore della vita nessuno, se non in alcuni casi, può essere costretto a levare la mano contro un altro . E se questo vale – in punta di diritto – per il nemico in guerra, cioè per l’ingiusto aggressore, a maggior ragione deve valere per il bambino innocente che è nel ventre della madre.”

La dottoressa Agatone, presidente della Laiga, si lamenta per il comportamento dei pro-life e delle forze politiche che combattono l’aborto: “potrebbero impegnarsi seriamente in tante altre battaglie, dice, “come la crisi alimentare, la crescente povertà, le guerre”, “sono pro life ma non li vedo altrettanto pervicacemente impegnati su questi terreni. Eppure sono tanti e potrebbero veramente fare molto”. Ne deduciamo che lei li conosca tutti uno per uno, oltre all’ovvia ed assente considerazione per il valore della vita dei più piccoli ed indifesi, che tanto sono solo “grumi di cellule”. Ribaltiamo la domanda: perché la dottoressa Agatone, piuttosto che impegnarsi a promuovere la soppressione dei neoconcepiti e ostacolare il diritto dei colleghi a non seguire il suo esempio, non si impegna lei stessa in queste battaglie?

Michele Silvi

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Cristianesimo, Islam e le crociate: due pesi e due misure

CrociateCome è già stato fatto notare in questo sito, davanti alla libertà d’espressione i media utilizzano ipocritamente due pesi e due misure rispetto al cristianesimo e all’islam richiamandosi al diritto di esprimere pubblicamente le proprie opinioni quando opere d’arte o vignette blasfeme offendono la sensibilità cristiana, ma condannando le provocazioni al sentimento religioso quando invece si attacca la religione islamica.

L’ultimo caso riguarda forse quello del regista Renzo Martinelli che, basandosi sulle teorie dello storico Bernard Lewis il quale afferma che la rabbia dell’estremismo islamico risale fin dalla sconfitta subita a Vienna dagli ottomani nel 1683, ha prodotto un film su Marco D’Aviano, il frate che contribuì alla fondamentale vittoria delle forze cristiane: il film è stato criticato perché “antislamico,” e “leghista”. Sarebbe interessante sapere se i detrattori abbiamo giudicato razzista anche i film che attaccano i cristiani (si pensi ad esempio alle “Crociate” di Ridley Scott).

Tra l’altro simile disparità di trattamento si poteva ravvisare fino a qualche tempo prima anche in ambito storico specialmente per quel che riguarda le crociate. Infatti le crociate sono entrare nell’immaginario collettivo diventando lo stereotipo del fanatismo e dell’intolleranza religiosa ossia uno dei più gravi crimini di cui la Chiesa Cattolica si sia mai macchiata. Non di rado si contrapponeva un cristianesimo medievale intollerante ad un islam aperto e liberale verso le altre culture. Eppure le crociate non sono state certamente le prime guerre sante e i massacri che ne seguirono furono ben poca cosa rispetto ad altri massacri, operati da re, duchi e sultani dell’epoca (J. Rummel, Stati assassini, p. 57).

Quando gli arabi si espansero, riuscendo a costruire nel giro di un secolo un impero che andava dalla Spagna all’India, lo fecero per motivi religiosi: lo storico Evangelos Chrysos nel suo “Impero bizantino 565-1025” ricorda che il trattato di pace stipulato con i bizantini nel 678 fu giudicato sovversivo dagli arabi perché per la prima volta fece maturare nella loro dottrina la possibilità di concludere un accordo con gli infedeli e di riconoscerne l’esistenza politica. Ma anche dopo di esso, l’aggressione araba continuò nell’VIII secolo sotto forma di incursioni militari avente il preciso obbiettivo e dovere religioso di attaccare l’impero ogni anno indipendentemente dall’effettiva preparazione alla guerra e dalla capacità dei bizantini di contrattaccare. La situazione non dovette modificarsi neppure quando agli arabi si succedettero i turchi: questi incalzarono i bizantini a tal punto che, come riferisce il cronista Bernoldo di Costanza, l’imperatore Alessio Comneno inviò ambasciatori al papa per chiedere aiuto contro gli invasori. (cfr. M. Hesemann, Contro la Chiesa, Torino 2009 p. 148).

Riguardo alla tolleranza islamica nei confronti delle altre religioni, è stato più volte affermato che, mentre la Chiesa Cattolica perseguitò con ferocia ebrei ed eretici, i musulmani dimostrarono invece un notevole rispetto verso i popoli assoggettati consentendoli di praticare la loro fede senza interferenze. In realtà, i cristiani nelle terre islamiche erano sottoposti a diverse restrizioni religiose: essi diventavano dei “dhimmi” (“protetti”) e veniva consentito loro di praticare la loro religione ma solo in privato, ed era perciò fatto loro divieto di suonare le campane, costruire nuovi edifici di culto, fare processioni, esporre icone o croci e tentare di convertire un musulmano alla loro religione. Inoltre erano soggetti anche a varie discriminazioni giuridiche: dovevano pagare tasse più alte, non potevano testimoniare contro un musulmano in tribunale, non potevano servire nell’esercito, né aspirare a importanti posizioni politiche e dovevano indossare abiti distintivi. Ovviamente, tali discriminazioni variavano in meglio o in peggio in base al periodo o al luogo in cui venivano applicate, ma in tutte le epoche il dhimmi era considerato un cittadino di seconda categoria. Non bisogna stupirsi se questo sistema diede un rapido impulso alle conversioni: un cristiano che si fosse convertito, sarebbe entrato nella comunità islamica migliorando così la sua condizione sociale; per contro un musulmano che fosse diventato cristiano sarebbe stato condannato a morte come apostata. Nonostante questo episodi di martirio o persecuzione non furono rari ed erano provocati da una mancata osservanza della “dhimma” o dall’avvento di sovrani poco tolleranti o da scoppi d’ira popolare che sfociavano spesso in pogrom (cfr. Bat Ye’or, Il declino della cristianità sotto l’islam, Torino 2009).

Taluni scrittori occidentali hanno portato l’ipotesi che lo scontro attuale tra l’Occidente e alcuni settori dell’islam integralista sia dovuto alla rabbia per i soprusi che hanno subito i musulmani sotto le crociate. Questa tesi è alquanto bizzarra dato che gli stessi scrittori musulmani dell’epoca mostrarono uno scarso interesse per le crociate. Ciò era dovuto in parte al fatto che molti di questi consideravano una minaccia peggiore all’unità islamica l’avvento della dinastia fatimide in Egitto che era sciita ismaelita (lo stesso Saladino verrà celebrato non tanto per le sue vittorie contro i crociati, ma per aver conquistato l’Egitto). Bisogna aggiungere inoltre che, nonostante quello che afferma certa pubblicistica, la maggioranza delle guerre medievali non aveva un dogma religioso e sia i cristiani che i musulmani combatterono contro i loro correligionari altrettanto ferocemente che contro gli “infedeli” e questo accadde anche ai tempi delle crociate: all’epoca infatti alcuni stati islamici giunsero a stipulare trattati di amicizia con gli stati cristiani e altri si spinsero addirittura a chiedere un’alleanza contro i loro correligionari. Questa situazione si modificherà però quando il cavaliere Reinaldo de Châtilon, violando un patto stipulato nel 1182, cominciò ad attaccare le carovane di pellegrini dirette verso la Mecca e iniziò ad infestare il mar Rosso con le sue scorrerie giungendo a minacciare i porti della Mecca e di Medina. Quest’atto segnò un profondo shock nel mondo musulmano (paragonabile allo shock subito dai cristiani quando gli arabi giunsero ad attaccare Roma) e ciò scatenò una “controcrociata” diretta da Saladino anche se in seguito i rapporti si normalizzeranno di nuovo (B. Lewis, Il medio oriente, Milano 1996 pp. 226-227).

Se si considera che tra le cause delle crociate vi era anche la rabbia per le uccisioni e gli assalti contro i pellegrini diretti a Gerusalemme, si può dedurre che il comportamento cristiano dell’epoca non era differente da quello musulmano. Eppure taluni “storici” hanno contrapposto un Occidente barbaro contro un Oriente più sofisticato e civile. Molti portano come esempio per la propria tesi il comportamento del Saladino: si paragonava la conquista di Gerusalemme nel 1099 nella quale i cristiani massacrarono parecchie persone a quella islamica del 1187 nella quale invece i musulmani acconsentirono a risparmiare gli abitanti. In realtà, il massacro operato dai cristiani a Gerusalemme fu terribile, ma è importante ricordare che nei codici di guerra del tempo, esso veniva considerato legittimo perché la città aveva rifiutato d’arrendersi e dovette essere presa d’assalto, causando molte vittime tra gli assalitori (anche le vittorie musulmane in circostanze simili sfociavano in enormi carneficine). Quando invece Saladino prese Gerusalemme, stipulò una resa con i cristiani offrendo una condotta pacifica in cambio della consegna della città e accettò di lasciare andare gli abitanti in cambio di un riscatto (chi non pagava veniva fatto schiavo). In moltissimi altri casi, però Saladino fu poco cavalleresco: dopo la battaglia di Hattin, per esempio, partecipò personalmente all’uccisione di alcuni cavalieri catturati, poi si sedette e si godette lo spettacolo dell’esecuzione degli altri. Come disse il segretario di Saladino, Imad ad-Din: “[Saladino] ordinò che fossero decapitati, anziché imprigionati. Era con lui un’intera comitiva di studiosi e sufi e un certo numero di devoti e di asceti; ognuno di essi chiese [ed ottenne] il permesso di ucciderne uno.” (R. Stark, Il trionfo del cristianesimo, Torino 2012 pp. 300-305).

Nel nome di un presunto rispetto al multiculturalismo è nato un razzismo alla rovescia che vede nelle altre culture dei fari di civiltà, mentre al contrario nella propria solo barbarie e intolleranza. Questo atteggiamento però non servirà certo ad instaurare un reciproco rispetto, ma al contrario potrà solo esacerbare gli animi di chi prospetta una “guerra di civiltà”.

Mattia Ferrari

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Documentario sui credenti uccisi dall’ateismo sovietico

GulagPochi giorni fa Israele si è fermata completamente per due minuti per ricordare le vittime dell’Olocausto. Far memoria delle vittime di un così immane disastro è sicuramente necessario per non dimenticare cosa ha potuto procurare la follia umana.

Dispiace però vedere che non tutte le vittime dei totalitarismi del ‘900 vengono commemorate o perlomeno fatte presenti alle nuove generazioni. Il caso in questione riguarda i 12 milioni di russi, e non solo, che dal 1917 fino al 1990 sono stati fatti uccidere, torturare o confinare nei gulag dalla dittatura sovietica.

Ma ciò che neanche i pochi informati sanno è che queste milioni di persone, o almeno la maggior parte, hanno subito tali atrocità solamente perché avevano fede in Dio. Uno dei concetti principali che le nostre intellighenzie pretendono ancora di tener nascosto è che alla base del comunismo e dei totalitarismi da esso derivanti c’è un totale e viscerale odio verso qualsiasi forma di religione.

Le dittature novecentesche, che siano di stampo nazista o comunista, una cosa hanno in comune: l’ateismo, frutto dell’assolutizzazione dello stato. Questa assolutizzazione pretende di omologare l’uomo, di sradicarlo da tutto ciò che non porta al bene dello stato. Lo stato diventa l’unico organismo in grado di portare il benessere ai propri “cittadini”. Qualsiasi forma istituzionale che si appropri degli obbiettivi dello stato, come la Chiesa, che ha come “obbiettivo” la salvezza dell’uomo, deve essere eliminata, semplicemente perché toglie allo stato la possibilità di esercitare il monopolio sull’uomo stesso (Si veda Luigi Negri, False accuse alla Chiesa, Piemme, pag 66-70). Questo era l’obbiettivo di Lenin e Stalin, questo era l’obbiettivo di Hitler.

Tutto questo lo mostra chiaramente un documentario realizzato da Kevin Gonzales sui martiri dell’URSS, su queste milioni di persone morte per la loro fede religiosa. E’ intitolato “Martiri in USSR: l’ateismo militante nell’ex Unione Sovietica”. Quello a cui mira Gonzales è informare le nuove generazioni su fatti accaduti nel loro paese, che nessuno accenna o spiega nella Russia di oggi. Questo non è vero solo per la Russia, ma anche per l’Italia, dove il mito comunista continua ad aleggiare nella nostra cultura grazie, o meglio, per colpa della Resistenza, e che non permette di scalfire minimamente questa devastante ideologia.

Ancora oggi troviamo paesi che ci mostrano i risultati di questa “dottrina illuminata”: basti l’esempio della Corea del Nord, paese dove i diritti umani, ancora nel 2013, sono tra i più bassi del mondo, dove il partito annienta qualsiasi opposizione direttamente con la pena di morte (ricorda non poco la Russia sovietica). La prossima uscita del documentario, e anche questo articolo per quanto possibile, cercano di mostrare la realtà dei fatti, che ancora in questa società “democratica” e liberale non riesce a vedere la luce. Occorre anche ricordare che il comunismo, come ideologia e come partito, è condannato e scomunicato dalla Chiesa Cattolica fin dal 1949.

Luca Bernardi

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Il fallimento etico delle Femen

FemenChiudono lo zoo? E si svestono! Approvano una legge non condivisa? E si svestono! E così via. Qualcuno definisce questa pratica come una “modalità di contestazione”, qualche altro la relega a semplice “esibizionismo”, altri ancora parlano iperbolicamente di attivismo politico.

Il nome tecnico di questa iniziativa fondata in Ucraina, che sta prendendo piede anche in Italia, è Movimento di Kiev; fondato dall’economista Anna Gucol nel 2008 a Kiev. Non come alternativa ai calendari di soubrette sexy o volgari (come preferite), di cui siamo inondati settimanalmente; ma come risposta di protesta all’immagine dell’Ucraina riconosciuta all’estero come meta di turismo sessuale . L’obiettivo del movimento è “smuovere le donne in Ucraina, rendendole socialmente attive”; questa  la motivazione ufficiale che il movimento diffonde circa la propria nascita; perchè (svestirsi) “è l’unico modo per essere ascoltate”.

Dunque combattono l’immagine della donna oggetto, denudandosi. Un ossimoro quasi. E allora diventa complicato seguire la logica del discorso. Si presentano nude per non far passare l’idea della donna come merce sessuale. Anticipano il messaggio, in sostanza, verrebbe da pensare. E invece no, stando alla loro filosofia.  Perchè anzitutto sono loro a volerlo, a volersi presentare nude. Ma non perchè si decide di far qualcosa volontariamente se ne cambia il senso, ribadiamo. Si potrebbe addirittura supporre che oltre ad avallare il messaggio che teoricamente starebbero combattendo, lo rendano più facilmente fruibile, perché gratuito. E anche qui, invece, le Femen (femministe ucraine) controbattono di «veicolare ed affermare il corpo, passando da quello spettacolarizzato a quello politico, capace di affrontare la repressione senza timori» con evidente frecciata alle donne dello show televisivo. Si preparano psicologicamente e fisicamente alle loro irruzioni a seno nudo, alla possibilità di essere picchiate dalle forze dell’ordine. E affrontano tutto, impavide; guardando la meta. Certe che il loro corpo debba diventare il mezzo per attirare l’attenzione mediatica. E dunque per portare al mondo la loro opinione.

Le Femen si sono agglomerate in tanti Paesi del Mondo; ma in Italia ancora non riescono ad imporsi perchè ostacolate legalmente; rischiano infatti condanne dai 2 ai 7 anni per manifestazione non autorizzata e resistenza a pubblico ufficiale oltre che al reato di atti osceni in luogo pubblico. Un fermo di facciata messo dal nostro Paese che, stando alla legge, non consentirebbe “oscenità”. Forse quelle gratuite. L’Italia in genere paga per assistere a queste ultime. A quelle in prima serata, dove donne con qualche centimetro di tessuto indosso, conducono, talvolta anche male, programmi tv o compaiono solo per “rallegrare” la conduzione. Vediamo altri atti di oscenità in parlamento, con donnine elette dopo lunghe gavette su sgabelli, in funzioni decorative all’interno di uno studio televisivo. Tutto gira intorno al corpo femminile; anche le pubblicità più asettiche; anche una mozzarella o un detersivo da acquistare sono possibilmente associati ad un seno nudo o una coscia lunga.

Un vilipendio contro la “dignità delle donne” che neppure più provoca irritazione o sconcerto. Tale infatti la drammatica abitudinarietà con cui assistiamo a tale indecoroso spettacolo, saremmo anzi quasi portati ad elogiare questa nuova “forma di nudismo”; che apparentemente almeno sottenderebbe una motivazione nobile. Poi, per grazia, rinsaviamo. Il nudo non combatte il nudo. La guerra non combatte la guerra. La volgarità non sfuma nel tempo. Il rispetto del proprio corpo non si ottiene scrivendovi sopra che lo vogliamo perchè è prezioso. Si dimostra che è prezioso; preservandolo.

Livia Carandente

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