Ma l’omofobia non c’entra nulla con le nozze gay

After the ballCi uniamo alla dichiarazione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, che ha espresso «vicinanza a quanti sono stati vittime di intollerabili aggressioni e a quanti subiscono episodi di discriminazione che hanno per oggetto l’omosessualità».

Per quanto ci riguarda però, la discriminazione che vogliamo combattere non è solo quella rivolta agli omosessuali, ma anche verso tutte le minoranze, altrimenti anche tali dichiarazioni specifiche diventano una forma di discriminazione (per questo una legge specifica contro l’omofobia è una discriminazione verso le altre minoranze discriminate). Secondo gli studi i più discriminati non sono gli omosessuali ma le persone obese, sopratutto donne.

Rimaniamo perplessi però dal constatare che i messaggi contro l’omofobia si accompagnano sempre alla richiesta di matrimoni omosessuali. Perché questa strumentalizzazione? Perché non si può essere contro la violenza verso gli omosessuali senza voler violentare l’antropologia del matrimonio, istituto previsto unicamente come garante per la filiazione come dice la parola stessa (matrimonio, matris, madre), la Costituzione italiana e l’articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo?

Secondo il presidente del Senato Pietro Grasso, il «dilagare della discriminazione sessuale o legata all’identità di genere è inversamente proporzionale al livello di tutela giuridica riconosciuto alle coppie omosessuali». Bisognerebbe dunque istituire il matrimonio omosessuale per combattere l’omofobia? La tesi è alquanto bizzarra, anche le famiglie poligamiche o le coppie che praticano incesto sono una minoranza e frequentemente vittime di bullismo e denigrazione pubblica, perché allora non sistemare le cose equiparando anche il loro rapporto al matrimonio tradizionale? E’ evidente che la tesi di Grasso non ha la forza per valere come principio generale, e dunque risulta scorretta e discriminatrice verso le altre minoranze.

In ogni caso non sappiamo quali siano le fonti del presidente del Senato, ma in realtà è sufficiente andare ad osservare la situazione nei Paesi in cui i matrimoni omosessuali sono legge da anni per verificare che l’omofobia resta all’ordine del giorno. Nei Paesi Bassi, ad esempio, l’omomatrimonio è legale dal 2001 eppure ancora oggi si deve celebrare la Giornata contro l’omofobia, la quale addirittura risulta in aumento in alcune aree del Paese, vi sono frequenti episodi omofobi, anche a livello mediatico. Il cantante olandese e omosessuale Gordon ha affermato: «L’omosessualità è sempre meno accettata e negli ultimi anni va sempre peggio».

In Belgio le cose non cambiano: le nozze gay sono legali dal 2003 eppure il 30% degli impiegati pubblici ritiene oggi il coming out un rischio per la propria carriera ed è alta la percentuale degli intervistati che, in ufficio, hanno sentito almeno una volta insulti contro gay e lesbiche. Potremmo citare tanti altri Paesi, ci interessa però sottolineare che l’Inghilterra, ad esempio, nonostante non abbia legalizzato il matrimonio omosessuale si è confermata anche nel 2013 il Paese più tollerante verso le minoranze sessuali. Tutto questo cosa significa? Significa che l’omofobia e le nozze gay sono due cose separate, si può (e si deve) combattere la prima e si può (e si deve) essere contrari anche verso la seconda.

Chi vuole invece unire le due richieste a tutti i costi lo fa in modo pretestuoso e si allinea alla perfetta tattica di indottrinamento (“propaganda”, la chiamavano) nata nel 1989 da due intellettuali gay, Marshall Kirk (ricercatore in neuropsichiatria) e Hunter Madsen (esperto di tattiche di persuasione pubblica e social marketing), i quali furono incaricati di redigere un Manifesto gay: il risultato fu il libro After the ball (Plume 1990),  definito il più autorevole manuale di pubbliche relazioni per l’agenda omosessuale.

Tra i loro “consigli” alle comunità omosessuali c’è anche questa: è opportuno non chiedere appoggio “per l’omosessualità”, ma “contro la discriminazione”. I gay devono essere presentati come vittime della società omofoba e del pregiudizio, che deve essere presentato come la causa di ogni loro sofferenza. E ancora: «Per quanto cinico possa sembrare l’Aids ci dà una possibilità, benché piccola, di affermarci come una minoranza vittimizzata che merita legittimamente l’attenzione e la protezione dell’America» (p. XXVII). Qui e qui un approfondimento. Ecco dunque cosa c’è dietro alla enorme attenzione verso l’omofobia e al costante abbinamento con la richiesta del matrimonio omosessuale come presunta panacea di tutti i mali, ora si spiegano i tantissimi episodi di finta omofobia orchestrati appositamente da soggetti omosessuali con lo scopo di apparire sui media più discriminati di quanto già siano, usando il tutto come grimaldello per il riconoscimento giuridico delle unioni gay. Ne abbiamo segnalato qualcuno, si veda: 8/03/13; 28/11/12; 26/09/12, 21/08/12.

La redazione

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Anche il peggiore anticristiano è figlio di Dio

Come parlare di Dio oggi 
 
di Fabrice Hadjadj*
*Institut Européen d’Etudes Anthropologiques Philanthropos
 
 
da Avvenire 3/03/13
 
 

Prima della mia conversione, devo confessarlo, odiavo questa parola. Quando qualcuno diceva «Dio», mi sembrava che mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte. Era un abracadabra, una formula magica e mi verrebbe da dire addirittura una «soluzione finale», con tutto ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione del genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia.

La mia conversione consistette dapprima in una conversione di vocabolario. All’epoca del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola «Dio» non avesse nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura un modo per evitarlo. Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza nel lessico, sforzandomi di svicolare così: negazione della morte, volontà di potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione nevrotica del «papà/ mamma, aiuto!»…

Cos’è accaduto oggi? Sono stato corretto riguardo a tale controsenso. Questa parola non suona più ai miei orecchi come un “tappabuchi”, ma come un “apri-abisso”. È probabile che alcuni la usino come “tappabuchi” (credenti o meno, d’altronde). Non la capiscono affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la musica. Perché il significante «Dio» non discende da un desiderio di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di ciò che mi supera.

Lo ricordo spesso ai seminaristi: «Quando siete in missione di evangelizzazione e una persona vi dichiara: “Io non credo in Dio”, state attenti, non saltategli addosso dicendo: “Ma sì, bisogna credere in Dio!”, perché magari non ci credete neppure voi al “Dio” di cui sta parlando lui! Chiedetegli prima cosa intende con quella parola. E chiedetevi se vi siete mai accorti della vertigine che porta con sé».

Non si tratta di parlare di Dio amando il proprio prossimo, come se potessimo in verità separare l’uno dall’altro (separare la parola dall’amore e Dio dal prossimo). Parlare di Dio vuol dire anche amare, in maniera indissociabile, colui a cui ne parliamo, perché vuol dire riverberare su di lui la Parola che gli dà l’esistenza e che quindi desidera infinitamente che lui esista. Capite la difficoltà? Sono missionario e un bel giorno mi trovo davanti a qualcuno che mi è ostile. Vengo ad annunciargli la Parola di Dio, ma visto che tale Parola mi dice che Dio è provvidenza, mi tocca ammettere che, questo tipaccio, me lo piazza in mezzo alla strada Dio stesso. Di conseguenza, devo innanzi tutto onorarlo questo tipaccio, devo riconoscere che, anche se mi sta parecchio antipatico, anche se è tremendamente contrario ai cristiani, come persona è eternamente voluto dall’alto e ha sempre qualcosa da insegnarmi.

Basta adottare questa giusta prospettiva e ogni fanfarone si rivela essere parola di Dio. Certo, non tanto per via delle intenzioni ostili, quanto per la sua presenza. È la Parola di Dio a conferirgli l’essere. È l’amore di Dio che lo trae fuori dal nulla. Magari l’ignora, ma se sono un apostolo del Creatore, io non posso ignorarlo. Devo andare oltre l’antipatia. Meravigliarmi prima di tutto del fatto che esiste. E non è una strategia di comunicazione, in questo caso: non mi sforzo di essere gentile, di rendermi affabile, di far finta di stare attento per rivendere la mia mercanzia.

In gioco qui c’è la verità della mia identità cristiana. Se non sono capace di meravigliarmi sinceramente, di fronte all’esistenza, per esempio di Michel Onfray (prendo un ateo in Francia, ma avrei potuto scegliere allo stesso modo un fondamentalista in Iran), non sono cristiano, perché Michel Onfray, anche se con la bocca pronuncia idiozie sulla Bibbia, con il suo essere rimane ugualmente una parola di Dio, certo imbavagliata, ma comunque divina nella sua apparizione: «Ben Zoma diceva: “Chi è il sapiente?”. Colui che trova qualcosa da imparare da ogni uomo».

Dio perciò è già presente nel più anticristiano degli uomini, forse non con la presenza di grazia, ma per lo meno con la presenza di creazione, con la presenza d’immensità, tanto che, nel momento in cui parlo di Dio con il mio nemico, devo aver coscienza che Dio è impegnato interamente a creare il mio nemico con amore. Una posizione decisamente destabilizzante, devo dire: mi tocca parlargli di Dio lasciandomi prima interpellare da lui, rifiutarne l’ignoranza accogliendone la presenza, contestarne l’inimicizia attestandone la bontà originaria. Ed è proprio lo stupore davanti alla sua bontà originaria, al di là della nostra antipatia iniziale, che può permettermi di dominare fino al cuore del nemico.

Il brano è tratto da Come parlare di Dio oggi? Anti-manuale di evangelizzazione (Edizioni Messaggero 2013)

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Cresce il numero di cattolici e di sacerdoti nel mondo

VATICAN-POPE-ANGELUSCresce di 18 milioni il numero di cattolici nel mondo dal 2010 al 2011, è anche aumentato il numero dei vescovi, dei sacerdoti, dei diaconi permanenti e dei seminaristi maggiori, diminuito, invece, il numero delle religiose. Sono i dati che emergono dall’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2011, presentato nei giorni scorsi a papa Francesco insieme con l’Annuario pontificio 2013 che si riferisce al 2012 e arriva fino alla elezione dell’attuale papa.

I cattolici nel mondo, come spiega Asianews, sono passati in un anno da 1.196 a 1.214 milioni, con un aumento relativo dell’1,5% e poiché questa crescita risulta di poco superiore a quella della popolazione della Terra (1,23%), la presenza dei cattolici del pianeta è risultata sostanzialmente invariata (17,5%) e dunque possiamo dire che il numero dei cattolici nel mondo cresce al ritmo dell’aumento della popolazione mondiale. L’analisi territoriale delle variazioni nel biennio, mostra un aumento del 4,3% di cattolici nell’Africa, che ha invece accresciuto la sua popolazione del 2,3%. Anche nel continente asiatico si è registrato un aumento di cattolici superiore a quello della popolazione (2,0% contro l’ 1,2%), crescono fedeli e sacerdoti, in aumento anche i religiosi professi non sacerdoti, i seminaristi e, in controtendenza rispetto ai dati mondiali, anche il numero delle suore. In America e in Europa si assiste ad una uguale crescita dei cattolici e della popolazione (0,3%). Nel 2011 il totale dei cattolici battezzati è così distribuito per continente: 16,0% in Africa, 48,8% in America, 10,9% in Asia, 23,5% in Europa e 0,8% in Oceania.

La presenza dei sacerdoti, diocesani e religiosi nel mondo è aumentata nel tempo, passando nell’ultimo decennio dalle 405.067 unità del 31 dicembre 2001 alle 413.418 del 31 dicembre 2011 (+2,1%). Tale evoluzione non è stata, tuttavia, omogenea nelle diverse aree geografiche. La dinamica del numero dei presbiteri vede Africa e Asia con una crescita, rispettivamente, del +39,5% e +32,0%, e con un incremento di oltre 3.000 unità, per i due continenti, soltanto nel 2011, mentre l’America si mantiene stazionaria attorno ad una media di 122 mila unità. L’Europa, in controtendenza rispetto alla media mondiale, ha conosciuto nel decennio una diminuzione di oltre il 9%. In Europa crescono rapidamente invece i diaconi permanenti passando da 9.000 unità nel 2001 a quasi 14.000 nel 2011, con un incremento di oltre il 43%.

Il gruppo dei religiosi professi non sacerdoti è andato consolidandosi nel corso dell’ultimo decennio, posizionandosi a poco più di 55 mila unità nel 2011. In Africa e in Asia si osservano variazioni del +18,5% e del +44,9%, rispettivamente. Nel 2011 questi due continenti rappresentavano complessivamente una quota di oltre il 36% del totale (erano meno del 28% nel 2001). All’opposto, il gruppo costituito da Europa (con variazione del -18%), America (-3,6%) e Oceania (-21,9%) si è ridotto di quasi 8 punti percentuali nel corso dell’ultimo decennio. Per le religiose professe, si osserva una dinamica fortemente decrescente con una contrazione del 10%, dal 2001 al 2011. Il calo ha riguardato tre continenti (Europa, America e Oceania) mentre in Africa e Asia l’incremento è stato decisamente sostenuto, superiore al 28% nel primo continente e al 18% nel secondo.

I seminaristi sono a loro volta cresciuti, passando da 112.244 nel 2001 a 120.616 nel 2011, con un incremento del 7,5%. L’evoluzione è stata molto differente nei vari continenti. Mentre, infatti, Africa (+30,9%) e Asia (+29,4%) hanno mostrato dinamiche evolutive vivaci, l’Europa e l’America registrano una contrazione del 21,7% e dell’ 1,9%, rispettivamente. Ci sono comunque delle eccezioni come ad esempio in Inghilterra e Galles dove i dati a partire dal 2012 mostrano che le donne e gli uomini che hanno risposto alla chiamata alla vita religiosa o sacerdotale sono in aumento per il terzo anno consecutivo.

Questa la situazione nel 2008, 2009 e 2010. Ogni anno, è stato notato, vi è una media di 16 milioni di cattolici in più nel mondo. Secondo uno studio simile realizzato dall’University of California, Berkeley, Duke, negli Stati Uniti, mentre l’appartenenza religiosa è rifiutata dal 20% della popolazione, il 97% ha affermato di credere in Dio.

La redazione

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Il suicidio è un atto di libertà? No, è proprio l’opposto

DisperazioneRispetto per la persona di Daniela Cesarini e per le sue sofferenze, la donna che ha scelto tragicamente di andare in Svizzera per il “suicidio assistito”. Nessuna legittimazione però per il suicidio, che Immanuel Kant definisce così: «il suicidio non è abominevole e inammissibile perché Dio lo ha proibito, ma al contrario Dio lo ha proibito perché, degradando al di sotto dell’animalità la dignità intrinseca dell’uomo, è abominevole».

Era in carrozzella ma non era malata, dicono gli amici, solo addolorata per la morte del figlio Diego. Aiutava i figli degli immigrati nei compiti perché tutti i bambini hanno diritto a un futuro decente, diceva. Come Mario Monicelli, come Lucio Magri, fondatore del quotidiano “Il Manifesto”, come Piera Franchini, colonna della sezione veneziana di Rifondazione Comunista, anche Daniela era comunista fin nelle vene: militanza nel Pci e poi in Rifondazione comunista, consigliere comunale e assessore di Jesi (Ancona), leader del circolo Karl Marx. Il binomio di comunismo (o post-comunismo) e suicidio sembra essere sempre più stretto, come spiega Camillo Langone.

Vite segnate dalla solitudine esistenziale, privata di qualcosa che desse senso alla morte del marito prima e del figlio dopo. Per quale significato, infatti, ostinarsi a continuare le battaglie politiche e costruire l’agognato “mondo nuovo” comunista quando tutto prima o poi si sfalda come burro, da un giorno con l’altro? Vittorio Messori lo ha detto in altre parole: «il dolore ha un valore, e altissimo, solo nella prospettiva di chi crede in quel Dolorante per eccellenza che è il Dio appeso sulla croce. Fuori di quella prospettiva la sofferenza è un flagello che, non potendo essere domato altrimenti, esige la radicalità della soppressione il più possibile “dolce” del sofferente» (Qualche ragione per credere, Ares 2008, pag. 188)

Il problema dell’eutanasia e del suicidio assistito è dunque un problema esistenziale, prima che etico e politico. Oggi nelle società post-cristiane è un problema opprimente: ci si libera dalla vita perché non si riesce a darle un senso adeguato. «Non voleva mai parlare della sua disperazione», spiegano le amiche. La di-sperazione è l’assenza di speranza, sola prospettiva per chi non crede alla vittoria sulla morte, alla “buona notizia” del cristianesimo. La presenza della morte in costante attesa dell’uomo è la tomba della speranza umana, l’uomo non cristiano -se coerente- può solo essere di-sperato, cioè senza speranza. Per lui la morte, cioè la distruzione di tutto quanto ha costruito in vita (affetti, carriera, passioni, progetti…), è sempre l’ultima parola sulla vita, così come è senza speranza un condannato nel braccio della morte in attesa che il secondino lo venga a prelevare.

Al circolo Karl Marx di Jesi, si spiega su Repubblica, si consolano della perdita di Daniela con una frase di una canzone di Francesco Guccini: «Ognuno vada dove vuole andare / ognuno invecchi come gli pare / ma non raccontare a me cos’è la libertà». Ed invece è bene capire cosa sia la libertà, perché questa parola viene spesso abusata quando si parla di queste tematiche.

Inutile giocare con le parole: suicidarsi non è un atto di libertà, ma è proprio il sintomo della mancanza di libertà. Quando uno è libero? Quando non deve più scegliere perché ha già trovato quel che lo rende libero. Per i cristiani la libertà è una dipendenza, cioè si è liberi solo se dipendenti da Dio. «Il Creatore ci ama e la nostra dipendenza è essere nello spazio del suo amore, in tal caso proprio la dipendenza è libertà», ci ha insegnato Benedetto XVI. Solo questa dipendenza rende liberi e permette di stare davanti al dolore e alla sofferenza arrivando a dire, come san Francesco d’Assisi, «lodato sii, mio signore per sorella morte».

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Rodotà contro il laicismo, ma elimina l’obiezione di coscienza

Stefano RodotàL’Italia ha rischiato di avere Stefano Rodotà come capo dello Stato, candidato presentato dal Movimento 5 Stelle come scelta secondaria di qualche migliaio di sostenitori, nonché sostenuto da diversi personaggi caratterizzati da spiccato odio antireligioso: Paolo Flores D’arcais, Dario Fo, Barbara Spinelli ecc.

Il giurista Rodotà dall’alto dei suoi 80 anni e delle sue quattro legislature parlamentari viene incredibilmente visto da qualcuno come “volto nuovo” della politica italiana. Nel 2011 proprio sul blog di Beppe Grillo, Rodotà è finito in una lista nera di cosiddetti “pensionati d’oro” accompagnato da questa frase: «Questo sconcio è ormai intollerabile, per farvi venire la bile ecco qualche pensionato parlamentare eccellente: Rosa Russo Iervolino: 9.947 euro, Nicola Mancino: 9.947, Pino Rauti: 9.387, Alfredo Reichlin: 9.947, Stefano Rodotà: 8.455, Vittorio Sgarbi: 8.455, Giuliano Urbani: 6.590, Walter Veltroni: 9.014» (lui, per ricambiare, definì Grillo un “pericoloso”).

«Rodotà per cambiare!», titola il Manifesto (ma non doveva fallire per mancanza di lettori?), ma il noto giurista è un membro della Casta né più né meno del “dinosauro” Emma Bonino: bazzica la politica dal lontano 1979 quando venne eletto nelle liste Partito Comunista Italiano. «Un politico di prima e seconda repubblica, vecchio comunista, già quattro volte parlamentare, già vicepresidente della Camera, eccetera eccetera. E poi ha 80 anni. E questo sarebbe il nuovo che avanza?», si è domandato giustamente Massimo Pandolfi.

E’ da molti ritenuto il principe e il paladino dei diritti civili ed umani, peccato che si scordi sempre quello più importante, il diritto alla vita del neoconcepito e il diritto all’obiezione di coscienza da parte dei medici. Anzi, non solo quest’ultimo non lo cita mai, ma è arrivato addirittura a sostenere: «a più di trent’anni dall’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, la possibilità dell’obiezione di coscienza dei medici andrebbe semplicemente abolita». Come può il presunto avvocato italiano dei diritti civili pensare di privare la maggioranza dei medici della libertà di coscienza obbligandoli così ad agire contro la loro etica? Un diritto, quello dell’obiezione, che è stato per l’ennesima volta ribadito proprio qualche giorno fa da dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa.

Occorre tuttavia informare i tanti sostenitori di Rodotà, la maggioranza anticlericali e laicisti come gli “intellettuali” citati sopra, che il noto giurista ha una posizione positiva circa la laicità: «credo fermamente nella divisione tra Stato e Chiesa, precetto per altro detto e scritto nel Vangelo. Ma l’essere laico non significa osteggiare ed essere ostile alla Chiesa ed in genere alla fede. In quel caso possiamo serenamente parlare di laicismo. Il laicismo è un atteggiamento culturale estremista, che tende a disprezzare e dimostrare ostilità alla Chiesa. Un vero laico, pur non condividendo, rispetta e divide con sapienza tra Stato e Chiesa», ha affermato in un’intervista. La fede, ha continuato, «non è un affare esclusivamente privato che attiene alla sfera personale dell’uomo. Quando parlo di laicità intendo dire che la Chiesa non può fare politica attiva, cioè non influire nelle cose concrete dei partiti. Ma ritengo che i religiosi e i vescovi abbiano la facoltà di opinare su temi pastorali con implicazioni sociali ed anche indirettamente politiche. La fede ha natura pubblica, senza dubbio».

Qualcuno dovrà pur avvertire Flores D’arcais e i suoi amici laicisti che il loro nuovo idolo la pensa in modo talmente opposto su una tematica a loro così scottante. O no?

La redazione

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Dal comunismo a Dio, storie di conversioni

ConversioneCapita spesso che il naturale slancio dell’uomo verso l’infinito, si tramuti in una conversione religiosa. Molte persone, a fronte di un lungo cammino interiore, intravedono in Dio il senso ultimo della loro vita, la ragione profonda che si pone al centro della loro esistenza e del loro agire nella storia dell’umanità e del mondo. Vladimiro Roca, Jan Verkade e Dolores Ibárruri, sono un chiaro esempio di questo particolare percorso, che li ha portati ad abbracciare la fede cristiana dopo un passato lontano da Dio.

 

La storia di Vladimiro Roca, affonda le sue radici nelle frange più estreme del comunismo cubano; suo padre Blas Roca, fu infatti uno dei fondatori del Partito Comunista Cubano, nonché uno dei suoi più apprezzati esponenti, tanto che, al suo funerale, Fidel Castro spese nei suoi confronti parole di grande elogio. Vladimiro, quindi, crebbe a stretto contatto con il marxismo più ortodosso; a 18 anni fu scelto come componente di una giovane élite selezionata per la formazione di piloti da caccia in Unione Sovietica. Per 10 anni servì le forze armate cubane, dopodiché lavorò come economista per il Governo. Durante quest’ultimo periodo, Roca ebbe accesso a lettere e documenti provenienti dall’U.R.S.S., in cui si parlava chiaramente delle violenze perpetrate dal regime comunista e della mancanza di rispetto dei diritti umani.

Tutto ciò fece riflettere profondamente Vladimiro, che iniziò a rendersi conto che anche nel suo Paese, Cuba, avvenivano le stesse violenze fisiche e psicologiche nei confronti dei dissidenti. Roca venne licenziato dal Governo cubano, e in quel momento, anche a causa della morte del padre e della moglie, iniziò dentro di lui una lunga serie di conflitti spirituali. In quel periodo, nonostante fosse ateo, Roca iniziò ad avvicinarsi al Cristianesimo. Partecipò ad alcuni incontri a casa di amici, in cui si discuteva di fede e di Dio, ed iniziò a frequentare le catechesi in parrocchia. Venne colpito in particolar modo da un incontro con l’arcivescovo Jaime Ortega, in cui veniva sottolineata l’importanza ricoperta dalla lettura della Bibbia; Vladimiro avvertì con chiarezza che Dio dirigeva i passi della sua vita. In quel periodo, le sue preoccupazioni sul fronte sociale lo spinsero ad unirsi all’economista Marta Beatriz Roque, all’ingegnere Felix Bonne e all’avvocato Rene Gomez con cui formò la famosa “Banda dei Quattro”, un gruppo di opposizione al regime castrista che denunciò con fermezza la drammatica situazione dei diritti umani a Cuba e la necessità di profonde riforme in campo economico e sociale.

I Quattro vennero arrestati nel 1997 e processati nel 1999; Roca fu condannato a 5 anni di reclusione. Fu proprio in carcere che proseguì il suo cammino di conversione; come ebbe modo di ricordare lui stesso, la lettura della Passione di Cristo gli permise di sopportare la violenza e la durezza del carcere cubano, e di vivere in pace con gli altri prigionieri e le autorità. Il 24 settembre 1999, in una cerimonia molto semplice ma entusiasmante, Vladimiro Roca ricevette il Battesimo; appena uscito di prigione, volle immediatamente iniziare il percorso di preparazione per ricevere l’Eucaristia e la Cresima. Il militare addestrato dall’Unione Sovietica, aveva incontrato Dio: “L’unica via è Cristo. La nostra libertà è possibile solo attraverso l’amore”.

 

La stessa via percorsa da Roca, fu intrapresa, anche se con modalità differenti, da Dolores Ibárruri, simbolo mondiale dell’antifascismo e mitica Pasionaria del celeberrimo slogan “No pasarán”, della Guerra Civil spagnola ’36-’39, segretaria del PCE dal ’42 al ’60. Secondo il racconto del noto giornalista gesuita di sinistra, Pedro Miguel Lamet, Dolores, negli ultimi anni della sua vita, abbracciò la fede cattolica : “Negli ultimi anni di vita, per la amicizia con Padre Llanos, morto 21 anni fa, la Pasionaria tornó alla fede che aveva abbandonato in gioventù. In una lettera al sacerdote, Dolores gli chiede di ricordarsi di lei durante la comunione.” In una lettera ad un mese dalla morte, nel gennaio dell’89, la Pasionaria scrive a Padre Llanos che lo ricorda nelle sue preghiere «e gli augura un anno santo».

 

Un’altra incredibile storia di conversione, infine, è quella che vede protagonista Jan Verkade. Nato nel 1863 da una famiglia di calvinisti olandesi appartenenti alla borghesia, Verkade fu un pittore post-impressionista appartenente al circolo che faceva riferimento a Paul Gauguin. Dopo aver rifiutato il battesimo, Verkade partì per Colonia con il fratello, e fu all’interno della maestosa cattedrale della città tedesca che avvertì per la prima volta la presenza di Dio. Da quel momento, il giovane pittore iniziò un lungo viaggio alla ricerca della Verità, facendo uso del suo talento per l’arte e per la pittura.

Un giorno, un amico cattolico lo invitò in chiesa, per assistere ad una Messa. Nonostante le iniziali resistenze, Verkade entrò; all’atto della consacrazione, il suo orgoglio ebbe uno scatto istintivo : “Come? In ginocchio? Il mio orgoglio protestò con tutte le sue forze contro tale umiliazione. Ma io stavo là, in piedi, e non potei fare altro che inginocchiarmi a mia volta. Quando tutti si alzarono, mi alzai anch’io, e vidi subito che qualcosa in me era cambiato; mi ero inginocchiato, il mio orgoglio si era rotto”. Questa esperienza turbò profondamente il giovane artista, che decise di fare un ulteriore passo in avanti nella sua ricerca della Verità, accostandosi alla lettura del Nuovo Testamento. In quel periodo, Verkade entrò in contatto con i gesuiti, iniziando, dopo qualche iniziale resistenza, un cammino spirituale insieme a padre Le Texier. Questa esperienza lo portò in seguito a ricevere il Battesimo e l’Eucaristia; questo evento costituì la prima importante tappa di un cammino che avrebbe condotto Verkade ad una scelta straordinariamente importante per la sua vita.

Alcune settimane dopo, il giovane pittore partì insieme ad un amico alla volta dell’Italia; a Firenze, l’artista entrò in contatto con la spiritualità francescana, e trascorse qualche tempo in un convento dell’ordine. Qui, approfondì la lettura di S.Agostino e Santa Teresa di Lisieux, e la sua anima, come lui stesso disse in seguito, “prosperò meravigliosamente“. Verkade partì per Copenaghen per allestire una mostra; nonostante il successo dell’evento, Jan si rese conto che quella fama non lo appagava più, perché lo allontanava da Dio, ovvero dalla fonte di quella felicità a cui anelava da tanto tempo. Durante un viaggio in Germania, Verkade venne ospitato all’abbazia benedettina di Beuron, dove avvertì fortissimo il desiderio di abbracciare la vita monastica. Così, nel 1902, al mosaico della Verità che il pittore olandese intendeva comporre, si aggiunse un importante tassello; Jan venne ordinato monaco benedettino, e mise il suo talento al servizio di Dio, dipingendo in moltissime chiese in tutta Europa. Jan aprì le porte della sua vita a Dio, e in Lui trovò quella pienezza dell’arte e del bello che fin da giovane aveva cercato.

Nicola Terramagra

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Luca Di Tolve non può parlare, la lobby gay lo vieta

Luca Di Tolve e sua moglieEnnesima prova di forza e di intolleranza della lobby LGBT contro la libertà d’espressione, questa volta tocca a Luca Di Tolve e a sua moglie Teresa, invitati a raccontare la loro esperienza di conversione alla parrocchia di Monteforte (Verona).

Luca Di Tolve è noto come ex Mister Gay, convertitosi a Medjugorje e ora è felicemente sposato con una donna. Ma la lobby gay vieta a chiunque di affermare che dall’omosessualità si può uscire, è possibile diventare omosessuali come è successo all’icona gay Alessandro Cecchi Paone («Ero eterosessuale fino a 35 anni, oggi ho bisogno di una donna oppure di un ragazzo»…un ragazzo????). ma è un crimine da perseguire il contrario. Pena l’aggressione e l’insulto mediatico, almeno fino a quando non diventa anche fisico.

Il circolo Pink-gay, lesbiche, bisex, trans, etero di Verona e altre originali associazioni vogliono infatti impedire all’ex omosessuale di parlare pubblicamente della sua storia, della sua conversione e del suo felice matrimonio. L’evento si svolgerà giovedì 16 maggio nell’ambito del cammino della parrocchia nell’anno della fede. Luca e Teresa hanno anche fondato l’associazione Gruppo Lot Regina della Pace Onlus (www.gruppolot.it, qui il gruppo Facebook) che «aiuta tutte le persone sofferenti che portano dentro di sé ferite e dipendenze a livello emotivo, relazionale, di identità sessuale, di abuso e di violenza, che hanno difficoltà nell’avere sane e buone relazioni con il fine di ritrovare la propria identità in Cristo».

Il circolo Pink-gay ritiene che la biografia di Luca Di Tolve sia da censurare perché è «un insulto alle persone glbt», come scrivono in un comunicato. Immancabile l’accusa pavloviana di “omofobia”. Intendono quindi «fare pressione sul parroco affinché annulli la serata prevista», in caso contrario hanno minacciato di contestare l’iniziativa, probabilmente impedendo fisicamente all’ex omosessuale di raccontare la sua vita (come è già accaduto varie volte). Il parroco don Alessandro Bonetti ha ribadito: «Non sarà una serata di discussione sulla tematica dell’omosessualità, ma l’ascolto della testimonianza di conversione alla fede di un uomo. Non vedo il problema. Ad ogni modo sentirò il Vescovo».

Nel 2009 il cantante Povia ha portato a Sanremo proprio la storia di Luca con la canzone: “Luca era gay”. In quell’occasione l’Arcigay minacciò addirittura di bloccare il Festival della Canzone italiana per impedire al cantante di esprimere la sua arte. Fa piacere ricordare che la canzone si è classificata seconda ed ha vinto il prestigioso Premio Mogol come miglior testo dell’anno. Solo una cosa, cari amici omosessualisti: evitate, d’ora in poi, di parlare di tolleranza. La feroce inquisizione che avete allestito dice già tutto. Non serve altro.

 

Qui sotto il video, dedicato a tutte le persone intolleranti verso la diversità

La redazione

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Alfred Russel Wallace arrivò prima di Darwin

wallace e darwinAlfred Wallace e Charles Darwin. La teoria di Wallace sull’evoluzione anticipò quella di Darwin, il quale lesse il suo saggio “Legge di Ternate” e soffiò a Wallace il merito della scoperta. Lo rivela lo storico Richard Newbury.

 

Fu Alfred Russel Wallace, e non Charles Dawrin, ad arrivare per primo alle conclusioni sulla selezione naturale e «se l’avesse inviata direttamente ad una rivista per farla pubblicata, la selezione naturale sarebbe stata la scoperta di Wallace», ha spiegato George Beccaloni del Natural History Museum. Invece volle inviare a Darwin il suo saggio intitolato «Ternate essay» in cui enunciava la sua teoria dell’evoluzione e, in seguito ad operazioni poco oneste, gli venne soffiata l’opera e il merito, anche se oggi sempre più si sta facendo giustizia riconoscendolo come co-autore della scoperta che ha rivoluzionato il mondo della biologica.

 

Wallace anticipò Darwin, lo svela lo storico Richard Newbury.

Sul “Telegraph” di qualche mese fa, ad esempio, un articolo è stato intitolato così: «Alfred Russel Wallace, l’uomo che anticipò Darwin». Su TuttoScienze di qualche giorno fa, invece, un titolo ancora più intraprendente: «È ora di celebrare Wallace il genio che Darwin schiacciò». L’autore è lo storico Richard Newbury il quale a sua volta ribadisce: «Wallace non aveva idea che Darwin avrebbe reso pubblica la sua “Legge di Ternate” sulla tendenza degli organismi a progredire senza limiti temporali rispetto al prototipo: in altre parole era il nocciolo della futura “Origine delle specie”. Ma se Wallace avesse mandato il suo saggio direttamente alla rivista “Annals and Magazine of Natural History”, si sarebbe imposta – come Darwin, Lyell e Hooker temevano – la Teoria dell’Evoluzione di Wallace e il Wallaismo». Il saggio di Wallace è infatti datato agosto 1858, mentre «L’origine delle specie» uscì nel dicembre 1859.

 

Senza Darwin ci saremmo risparmiati il darwinismo sociale.

Su Panorama invece è comparsa una recensione del libro “Darwin deleted” di Peter J. Bowler, storico della biologia, il quale ha spiegato come, anche senza Darwin, la scienza sarebbe comunque arrivata alle sue (e di Wallace!) stesse conclusioni. Tuttavia, senza Darwin e con un’altra legge evolutiva, l’autore si è chiesto se l’umanità si sarebbe almeno risparmiata la nascita del materialismo, del “darwinismo sociale” e dell’ateismo. La risposta è stata “no”, perché nonostante sia indubbia l’influenza del darwinismo e il seguente “darwinismo sociale”, sull’esplosione di un’ondata di razzismo durante gli anni ’30 e ’40 del 900, «io credo che un mondo nel quale Darwin non avesse scritto “L’origine delle specie” avrebbe provato più o meno le stesse esperienze di storia sociale e culturale. Il razzismo e le varie ideologie individualistiche, e i violenti conflitti nazionali che ne sono seguiti, sarebbero “fioriti” nello stesso modo e avrebbero trovato altre giustificazioni scientifiche in teorie rivali, ovvero le idee dell’evoluzione non darwiniana», scrive Bowler.

 

Le citazioni e le frasi di Alfred Wallace.

La scienza, secondo lo studioso, «è separata dalla matrice sociale nella quale si sviluppa» e in un modo o nell’altro le idee scientifiche sarebbero state comunque estrapolate dal loro contesto per legittimare la causa ateista e riduzionista. «Tutta la mia argomentazione tende nella direzione di un Creatore, anche se lo scopo dei miei studi sul posto dell’uomo nell’universo è stato puramente scientifico, non religioso»,  così diceva Alfred Russel Wallace. Forse però, se lui avesse inviato il suo lavoro ad una rivista scientifica al posto che a Charles Darwin, oggi forse molti sarebbero più restii ad usare la teoria dell’evoluzione come clava contro le persone di fede religiosa.

La redazione

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L’Università Cattolica tra i migliori atenei del mondo

Università cattolicaL’Università Cattolica del Sacro Cuore migliora il proprio posizionamento nel ranking 2013 elaborato dalla società QS, che ha preso in esame 2.858 atenei di tutto il mondo, valutati in base a 30 aree disciplinari.

In particolare, l’Ateneo fondato da padre Gemelli si colloca tra le prime 100 Università al mondo, e prima in Italia, nell’area disciplinare “Philosophy” ed è l’unica, tra le università della Lombardia, inserita nelle prime 150 posizioni nell’area “Psychology”. Molto positiva, inoltre, la posizione dell’Ateneo nelle aree: Agriculture & Forestry, Economics & Econometrics e Medicine situate nel rank 151-200.

La classifica è stata redatta da QS World University Rankings by Subjects, che fa capo alla società QS fondata nel 1990 e divenuta leader mondiale per la valutazione dell’istruzione superiore dei profili di carriera e della ricerca.

La redazione

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Il tollerante illuminismo e il genocidio vandeano

VandeaCiascuna nazione pare avere un argomento storico riguardante il proprio passato del quale è più o meno tacitamente scomodo parlare. Se in Italia hanno causato un acceso dibattito i libri che trattavano dei crimini compiuti nel dopoguerra da alcuni partigiani, in Francia invece l’argomento tabù sembra essere la Vandea.

Fino a pochi anni fa, la Vandea era vista in maniera profondamente negativa come sinonimo di cattolico reazionario, di servo dei nobili e nemico della rivoluzione, ma la cosiddetta “scuola revisionista” ha permesso di squarciare quel velo di silenzio che la storiografia ufficiale ha lungo tramandato sui sacrifici subiti da quel popolo.

La loro storia è ormai nota: nel marzo 1793 la regione dell’ovest si sollevò quasi simultaneamente e i ribelli riuscirono ad occupare gran parte del territorio grazie anche alla pessima organizzazione delle truppe rivoluzionarie. I contadini che si ribellarono al governo di Parigi non erano certamente fautori dell’ancien regime e la loro ostilità verso la repubblica nacque a causa del malcontento provocato dall’aggravarsi della pressione fiscale, dall’ostilità verso la borghesia cittadina (unica beneficiaria delle terre nazionalizzate), dalla persecuzione del clero refrattario considerata particolarmente odiosa da una popolazione profondamente religiosa e dalla coscrizione obbligatoria di 300.000 uomini. Una particolarità di questa insurrezione è che essa non venne programmata dai nobili, che anzi ne furono presi alla sprovvista e la giudicarono persino prematura, ma fu marcatamente popolare. In un secondo momento alcuni nobili si metteranno a capo delle bande degli insorti, ma altri capi rimasero d’estrazione “plebea” come il guardiacaccia Stofflet o il venditore ambulante Chatelineu.

In una prima fase la guerra andò a vantaggio dei vandeani che costituirono un’enorme minaccia per i repubblicani anche perché erano riforniti dagli emigrati e dagli inglesi, tuttavia a svantaggio degli insorti andarono le divisioni interne (alcuni volevano marciare sulla Bretagna, mentre altri su Parigi) e la difficoltà di costruire un esercito permanente ( i contadini si riunivano per combattere gli “azzurri”, ma si disperdevano dopo la fine della battaglia), così la guerra nei mesi seguenti si stabilizzò fino alla vittoria dei rivoluzionari nel novembre 1793. Vi erano ancora delle bande che scorrazzavano nella regione, ma come dissero già all’epoca alcuni deputati, la guerra di Vandea era “politicamente finita”. I rivoluzionari però non erano intenzionati ad attuare una politica di pacificazione, ma al contrario volevano trasformare la Vandea, secondo le parole di Robespierre, in un “cimitero nazionale”.

Secondo lo storico Reynald Secher, il piano di sterminio si articolò in tre fasi: nella legge del 1 agosto quando la Convenzione decretò di fare terra bruciata del territorio vandeano ; il 1 ottobre quando si decise l’eliminazione fisica degli abitanti del territorio insorti, in particolare di donne in quanto “solchi riproduttori” e di bambini perché “futuri briganti” e infine la legge del 7 novembre che toglieva il nome alla Vandea con quello di “Dipartimento Vendicato”. A causa di questi provvedimenti nei mesi successivi perirono all’incirca 117.000 persone su una popolazione di circa 800.000 abitanti e furono distrutti circa diecimila casolari su cinquantamila (Dal genocidio vandeano al memoricidio).

Le uccisioni avvennero in maniera brutale con tutti i modi: ad Anger si ricorsero alle fucilazioni sommarie, a Nantes invece agli annegamenti notturni, mentre in altre zone si fecero dei falò nella quale si buttarono le persone ancora vive. Questi massacri avvennero in maniera indiscriminata praticamente in tutte le regioni che avevano osato insorgere: il famoso scrittore Aleksandr Solzenicyn ha ricordato il massacro avvenuto a Luc-sur-Boulogne una piccola località dove il generale Cordelier fece uccidere in soli 4 giorni 564 abitanti tra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni. Nonostante ciò la Vandea non venne domata e anzi i massacri indiscriminati operati dalle “colonne infernali” del maresciallo Turreau avevano ingrossato le fila dei ribelli (più di venticinquemila contadini si erano uniti alle bande degli insorti in seguito alle devastazioni operate), così il Comitato di Salute Pubblica in seguito all’avvento dei termidoriani decise di ricorrere alla politica di pacificazione nella quale promettevano ai ribelli di rispettare i loro beni e la loro fede.

Questo provvedimento consentirà anche la riapertura delle chiese in tutta la Francia e la libertà di culto per i preti refrattari e costituzionali seppur soggette a molte discriminazioni (le chiese rimanevano proprietà dei comuni che potevano utilizzare per le cerimonie decanenarie o per le adunanze elettorali, vi era il divieto di esporre simboli religiosi per strada come quello di fare processioni, indossare l’abito talare, chiamare i fedeli con il suo suono delle campane, ecc.). Come affermò anche uno storico filorivoluzionario come Albert Mathiez: «[I cattolici] non ottenevano una vera libertà; la tolleranza veniva gettata loro come un’elemosina». La pace però durerà pochi mesi e la Vandea continuò ad essere per la Rivoluzione una vera e propria spina nel fianco (delle armate terranno impegnato Napoleone durante la battaglia di Waterloo).

La Vandea è stata oggetto di molte dispute in parecchi campi, ivi compreso quello della Chiesa: mentre Padre Giuseppe della Rosa afferma che non bisogna fare della Vandea “il simbolo dell’intero cristianesimo”, l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi vede invece nelle stragi operate in quel secolo “la premessa e le stragi che hanno insanguinato il XX secolo”. Lo stesso Giovanni Paolo II beatificò 164 martiri vandeani, ma trascurò il senso politico dell’insurrezione e condannò i massacri di cui i vandeani furono responsabili.

Per gli storici invece la disputa riguarda il termine di genocidio: mentre alcuni come Reynald Secher o Pierre Channu non esitano ad attribuire questo termine ai massacri che sono stati operati in Vandea; altri invece come Alain Gerard o Jean-Clément Martin lo rifiutano sottolineando il fatto che i vandeani non furono uccisi in quanto tali, ma perché i rivoluzionari non potevano tollerare che qualcuno si potesse ribellare al loro governo. (Giulio Meotti, Il massacro dei lumi). Nessuno però nega che quello subito in Vandea fu un massacro di proporzioni immani che sta a dimostrare come anche nel nome della libertà si possono commettere i crimini più atroci.

Mattia Ferrari

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