Le nozze gay spiegate ai miei figli (età media nove anni)

Costanza Miriano 
 
di Costanza Miriano*
*giornalista e scrittrice
 
da Il blog di Costanza Miriano, 26/04/13
 

Cari ragazzi, come sapete nella nostra casa è vietato parlare male delle persone, o almeno ci proviamo, a non farlo. Se qualcuno sbaglia sono affari suoi, tra lui e Dio. A meno che non ci sia un compagno, che so, che si sporge troppo dalla finestra, o che attraversa la strada con gli occhi sull’iPod mentre passa un motorino. In quel caso, visto che rischia di farsi male, potete dirgli qualcosa, direttamente a lui, e possibilmente senza frantumarvi nessun osso.

C’è un solo caso in cui del male degli altri bisogna proprio per forza parlare, anche a costo di prendere un palo in testa, ed è quando rischia di andarci di mezzo qualcuno più debole, che non può difendersi da solo.

È proprio per questo motivo che il babbo e io ce la prendiamo tanto per i cosiddetti matrimoni omosessuali, che poi matrimoni è una parola che in questo caso non si può dire perché viene da munus e mater, cioè il dono che si fa alla madre, e tra due uomini o due donne non può comunque esserci una mamma.

Quindi di cosa facciano gli omosessuali nel privato non ci occupiamo proprio, non è una cosa che ci riguarda, e tra l’altro pensiamo che anche loro non la dovrebbero sbandierare troppo, come facevano quei signori che avete visto a Parigi l’estate scorsa, con le piume e i sederi di fuori. Tra l’altro, avete mai visto me e il babbo andare in giro in mutande? Comunque, se loro lo vogliono fare noi ci limiteremo a passare da un’altra parte, visto che non erano proprio eleganti i signori con le banane gonfiabili e le signore senza reggiseno. Capiamo anche che se sentono il bisogno di farsi vedere vestiti in quel modo forse non sono tanto felici, e quindi se ci capiterà di averne uno vicino, che ne so, al lavoro o in vacanza, cercheremo, se lui o lei vuole, di farci amicizia.

Il problema che ci preoccupa tanto però è quello dei bambini e delle famiglie. Noi crediamo che le leggi, come vietano alle persone di ammazzare, rubare, ma anche di parcheggiare sulle strisce pedonali o mettere la musica altissima alle tre di notte, cioè di fare quello che può danneggiare gli altri, debbano impedire assolutamente di confondere la famiglia con tutti gli altri modi di stare insieme. Modi liberi e magari bellissimi, per chi vuole, ma diversi dalla famiglia. La famiglia è il luogo in cui devono crescere i bambini, e infatti in Italia sono stati chiusi gli orfanotrofi, e si cerca di far vivere i bambini senza genitori in case famiglia, che non saranno il massimo, ma è meglio di prima.

Un babbo e una mamma sono la condizione minima per i bambini per crescere bene. Certo, ci sono anche tanti genitori che non sono sempre bravi, infatti abbiamo detto minima: non basta che ci siano, devono anche impegnarsi un pochino per essere buoni genitori. Ma se non ci sono, per un bambino è impossibile crescere in modo sano, equilibrato, felice. Vi immaginate se il babbo non ci fosse più, e io mi fidanzassi con una signora? Non fate quelle facce terrorizzate, sto dicendo per dire. O se invece di me ci fosse un amico del babbo? (Siete meno terrorizzati? Già vi figurate pomeriggi senza ripasso di grammatica e niente crisi isteriche per i fumetti scaraventati a terra?)

Comunque, tanti dottori che studiano le teste delle persone dicono che è normale che la cosa vi sembri tanto strana, perché è giusto che voi vogliate un babbo maschio e una mamma femmina, anche se a scuola cercano di dirvi il contrario (va di moda, ma non vi preoccupate).

Vi diranno che non siete d’accordo perché andate in chiesa, ma noi pensiamo che sia solo buon senso. Sono le regole di funzionamento delle persone (è vero, le ha fatte Dio, ma funzionano comunque tutte allo stesso modo, non è questione di credere: se non credi nella benzina e metti la Fanta nel serbatoio la macchina si rompe). Noi non siamo contro nessuno, ma come diciamo al compagno di non sporgersi dalla finestra siccome siamo cristiani dobbiamo continuare a dire, quando ci è possibile, senza offendere o attaccare nessuno, qual è il modo per non farsi male, nella vita. Il progetto di Dio sul mondo è la famiglia, un meccanismo faticoso ma affascinante, in cui si mettono insieme le differenze, prima di tutto quelle tra maschi e femmine, e si cerca di funzionare tutti al meglio. Questo è l’uomo a denominazione di origine controllata. Poi ci sono gli ogm, ma i loro semi sono sterili (i semi delle piante create in laboratorio vanno ricomprati ogni anno): allo stesso modo due maschi e due femmine non possono riprodursi. Quando cercano di ottenere dei bambini, non per dare una famiglia a dei bambini, ma perché li desiderano loro, devono fare delle cose che fanno stare male tante persone: le mamme che prestano la pancia, quelle che danno l’ovetto, i babbi che danno il seme da mettere dentro, e soprattutto i bambini che non sapranno mai da quale storia vengono, non sapranno che facce avessero i nonni e che lavoro facessero i bisnonni, e poi avranno due mamme, due babbi, insomma una gran confusione, dove a rimetterci sono i bambini.

A noi dispiace tanto se le persone dello stesso sesso che si vogliono bene non possono avere bambini, e rispettiamo e capiamo la loro tristezza, ma è la natura, e noi abbiamo il dovere di difendere quei bambini che non possono farlo da soli. Ci sarebbe da dire poi che lo stato dovrebbe aiutare le famiglie, che sono moltissime moltissime di più (e forse per questo non ci aiutano, è più difficile risolvere qualche problema alla maggioranza), ma questo è un discorso che abbiamo fatto tante volte… (intanto si sono già alzati tutti da tavola, e sto parlando da sola come al solito).

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Fondi alle scuole paritarie: sconfitti Rodotà ed Il Fatto Quotidiano

BolognaReferendum a Bologna sul finanziamento alle scuole paritarie: solo il 17% si è detto contrario alla collaborazione tra comune e istituti paritari.

 

Ai cittadini bolognesi è stata offerta la possibilità di lanciare un segnale al governo locale (e a quello nazionale): se non siete d’accordo con il sistema attuale scolastico che prevede il finanziamento statale alle scuole paritarie, recatevi alle urne ed esprimetevi attraverso un referendum.

Ebbene, il 70% dei cittadini è rimasto a casa evidentemente non intenzionato a modificare la collaborazione tra il Comune e gli istituti paritari, mantenendo dunque lo status quo. L’affluenza, come è stato fatto notare, è stata la più bassa nella storia recente delle consultazioni popolari cittadine: 90% per quella sul traffico, 65% per l’acqua pubblica, 36% per le farmacie e per la nuova stazione, 28,71% stavolta.

Il 28% (meno di 86mila abitanti su 300mila) si è invece recato alle urne, il 41% ha votato a favore del finanziamento, mentre il 59% (circa 50.700 persone, 15.000 in più dei “si”) ha votato contro. Possiamo dunque affermare che a Bologna ci sono circa 51 mila persone che non vogliono finanziamenti alla scuola privata, a tutti gli altri aventi diritto di voto va invece bene il sistema attuale, tanto che non hanno colto l’occasione per modificarlo. Una vittoria della parità scolastica e infatti il sindaco Virginio Merola non ha alcuna intenzione di tenere conto del responso: «non ci penso neanche, su trentasei milioni di budget, uno lo giro alle paritarie, come facciamo da vent’anni. Accolgono 1500 ragazzi. Noi con un milione in più ne ospiteremmo 150», ha detto. In ogni caso, anche se il referendum non fosse stato consultivo, il quorum non sarebbe stato raggiunto: per ottenerlo sarebbe servito il 50% dei votanti, ed invece è stato raccolto il consenso di meno del 17% degli elettori.

Un fallimento dunque per Stefano Rodotà che su questo referendum ci ha giocato la faccia e per la cultura laicista che fa riferimento al Fatto Quotidiano. Nemmeno la loro ossessiva campagna è riuscita a convincere i bolognesi a recarsi al voto, eppure si era schierato tutto il purpourì anticattolico italiano: sconfitto Piergiorgio Odifreddi (“le scuole cattoliche bisognerebbe chiuderle, semplicemente, per manifesto, doloso e dannoso anacronismo”, ha scritto), sconfitto Marco Politi e le sue sciocche aggressioni alla Chiesa che si approfitterebbe della gente povera, sconfitta Silvia Truzzi (l’unica rimasta, poverina, a cercare qualche connessione tra papa Francesco e la dittatura argentina). Ha fallito Corrado Augias, ha fallito la popolarità immeritata di Margherita Hack, ha fallito l’aver reclutato estranei al dibattito come Gino Strada, Riccardo Scamarcio, Isabella Ferrari, Amanda Sandrelli, Valeria Golino, Neri Marcorè e ha fallito Michele Serra.

Ha vinto il buon senso e la ragione, ha vinto la libertà d’educazione e ha perso l’ideologia. Hanno vinto tutti gli studiosi e i docenti universitari (ma anche il Resto del Carlino, quotidiano di Bologna) che si sono schierati a fianco della Chiesa e dei partiti politi moderati, già elencati in questo articolo. Ad essi si sono aggiunti in un questi ultimi giorni: Luisa Ribolzi, ordinario di sociologia all’Università di Bologna; Andrea Pasquali, presidente della scuola steineriana di Bologna; Graziano Delrio, ministro degli Affari regionali; Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione e Luigi Guerra, preside della facoltà di Scienza della formazione dell’Università di Bologna.

A velocizzare il pensionamento dei post-comunisti anticattolici citati anche un cliccatissimo sondaggio online sul sito de La Stampa: su 139mila votanti, il 70% ha scelto di continuare a finanziare le scuole paritarie. Chi ha proposto il referendum bolognese dovrebbe anche accollarsi le spese di questo inutile tentativo: perché Rodotà e i suoi amici hanno voluto sprecare 300mila euro, togliendole dalle tasche dei cittadini bolognesi?

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L’aborto rovina la donna: lo dicono gli studi (ma non Chiara Lalli)

Sindrome-post-abortoPoco tempo fa Chiara Lalli ha pubblicato un libro, “La verità, vi prego, sull’aborto” (Fandango 2013) in cui ha furbamente cercato di negare l’esistenza della sindrome post-abortiva al quale abbiamo già risposto. Nelle scorse settimane, in ogni caso, è arrivato un nuovo ed ennesimo studio -pubblicato sull’“Australian & New Zeland Journal of Psychiatry”– a smentire ulteriormente questi subdoli tentativi.

 

Ne abbiamo parliamo con la dottoressa Maria Cristina Del Poggetto, specialista in Psichiatria e Psicoterapia sistemico-relazionale, membro della Società Medico-Scientifica ProMed Galileo, relatrice al convengo lo scorso 11 maggio al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.

“Dottoressa, che cos’è la sindrome post-abortiva?”
Si tratta di una condizione che, seppure non ancora ufficialmente inserita nella tassonomia ufficiale psichiatrica, è indicata nella letteratura medico-scientifica da una mole di autori dal cui contributo abbiamo oggi un quadro abbastanza preciso dei profili che la identificano. Si tratta di una compromissione dello stato di salute mentale che insorge dopo un aborto volontario. Clinicamente si può presentare con vari disturbi d’ansia, come attacchi di panico o post traumatico da stress; con alterazioni del tono dell’umore con quadri di depressione o di tipo distimico; con uso e abuso di sostanze (farmaci, alcool, droghe); ma può presentarsi anche solo con vissuti emotivi di tale intensità da risultare invalidanti.

“Che cosa afferma la letteratura scientifica?”
La letteratura medico-scientifica su questo argomento assomiglia ad un campo di battaglia. Gli studi tendono a risentire delle influenze derivanti dalla posizione morale sull’aborto degli autori. I lavori degli anni ’60 e ’70 su questo argomento tendevano ad evidenziare nelle donne una riduzione dei livelli di stress e di ansia nei mesi immediatamente successivi all’aborto.

“E questo non è importante?”
Piuttosto poco. Qualsiasi elemento stressogeno, e lo stesso intervento abortivo lo è, una volta superato si accompagna ad una diminuzione dello stress e dei livelli d’ansia. Ma le valutazioni a breve distanza di tempo devono essere integrate da osservazioni con più lungo follow-up. A partire dagli anni ’90 alcuni autori cominciano a segnalare la presenza di una percentuale di donne che dopo avere abortito manifestavano sintomi di disagio psichico. Si cominciò pertanto a discutere su questi casi che mettevano in dubbio la giustificazione all’aborto adottata in numerose legislazioni: la salute mentale delle donne.

“Quali sono le evidenze più recenti?”
Nel 2009 l’American Psychiatric Association pubblicò una cosiddetta revisione ragionata della letteratura medica per concludere che le donne che abortiscono non hanno rischi maggiori rispetto alle donne che portano avanti una gravidanza non programmata. Due anni dopo il Collegio Reale degli Psichiatri Inglesi giunse a conclusioni simili, seppure lasciando una certa apertura alla possibilità che alcune donne possano lamentare disturbi mentali e richiedere quindi un’assistenza specialistica. Queste revisioni sono state condotte procedendo ad una selezione a mio parere discutibile della letteratura e dando agli studi un’interpretazione ed un valore che ha tutta l’aria di essere stato influenzato da quell’agenda politica di cui dicevo all’inizio.

“Può fare qualche esempio?”
Certo. Nel 2009 il professor Fergusson aveva pubblicato non solo i dati a 25 anni sull’impatto dell’aborto volontario sul campione studiato nella cittadina neozelandese di Christchurch, ma aveva effettuato un’analisi sulla salute mentale delle donne che hanno abortito sulla base delle loro reazioni emotive dimostrando che le donne con un numero maggiore di reazioni negative all’aborto mostrano un’incidenza significativamente maggiore di problemi mentali rispetto a quelle che dichiarano di non avere dolore, rimorso, pentimento, senso di colpa. Nel 2010 sul Canadian Journal of Psychiatry fu pubblicato uno studio su un campione di oltre tremila donne che tenne conto di numerose covariate compresa la storia di violenza sessuale dimostrando un incremento del rischio di depressione, ansia, uso di sostanze, abuso di sostanze e ideazione suicidarla tra le donne che abortiscono con una correlazione temporale tra primo aborto e disagio psichico in circa la metà dei casi.

“Veniamo allo studio più recente?”
Si tratta di una risposta alle numerose critiche che hanno inondato lo studio di Priscilla Coleman, la ricercatrice che nel 2011 ha pubblicato sul British Journal of Psychiatry la più vasta metanalisi della letteratura, utilizzando oltre ottocentomila donne, e dimostrando un netto incremento di rischio psichiatrico nelle donne che abortiscono rispetto a quelle che portano a termine la gravidanza, anche se indesiderata o non programmata. Quello studio, come dicevo, fu investito da numerose lettere di protesta riguardanti soprattutto la metodologia di esecuzione della metanalisi. La dottoressa Coleman replicò punto per punto respingendo le critiche con solide argomentazioni. Ma lo studio del professor Fergusson, persona non credente e personalmente schierato sul versante pro-choice, pone una seria conferma alla possibilità che l’aborto peggiori la salute mentale delle donne. Egli infatti ha incluso nella propria metanalisi quegli studi che l’American Psychiatric Association e il Royal College of Psychiatrists inglese consideravano più attendibili, dimostrando che quei dati indicano l’incremento di problematiche di ansia, uso di sostanze e atti suicidari tra le donne che abortiscono rispetto a quante decidono di tenere comunque il bambino.

“Che cosa se ne può concludere?”
Lo abbiamo scritto in un nostro intervento sul British Journal of Psychiatry ed in pratica nel suo ultimo lavoro il professor Fergusson conferma questa prospettiva. Se è ancora discussa la possibilità che l’aborto possa avere effetti negativi sulla salute mentale delle donne, ma l’ultimo lavoro del professor Fergusson costituisce un forte indicatore che le cose stiano così, tutti i ricercatori e tutti gli studi sono concordi nel mostrare l’assenza del benché minimo miglioramento della salute mentale delle donne derivante dall’aborto; le donne che abortiscono hanno comunque incidenze maggiori di una serie di disturbi mentali, compreso, quello che è sicuramente il più grave, la tendenza suicidaria. La letteratura è cioè concorde che l’aborto non è in grado di produrre quella tutela della salute mentale della donna che è posta a giustificazione di molte legislazioni, compresa quella italiana.

“Quali conclusioni ne dovrebbe trarre il legislatore?”
La corte costituzionale italiana nel 1975 dichiarò incostituzionale la proibizione dell’aborto perché essa avrebbe violato il diritto alla salute della donna. Ora, a distanza di quasi 40 anni da quella sentenza, abbiamo una mole di dati a dimostrazione che questo non è vero, almeno per quanto riguarda la quasi totalità dei casi di aborto che sono appunto giustificati come strumento per tutelare la salute psichica della donna. Possiamo cioè affermare con ampio margine di sicurezza che l’aborto sotto il profilo psichico non promuove la salute, non previene malattie, non fornisce assistenza terapeutica, non è cioè un atto medico così come esso è stato definito dall’European Union of Medical Specialists nel 2005. Questo è il dato medico-scientifico.

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Margherita Hack nega il Big bang: «l’universo esiste da sempre»

Margherita Hack«Io penso che l’universo sia infinito nel tempo e nello spazio, cioè sia sempre esistito e sempre esisterà». A dirlo non è Sara Tommasi, Piergiorgio Odifreddi o altri personaggi a completo digiuno di scienza, ma nientemeno che l’astrofisica Margherita Hack. Lo dichiara in “Il perché non lo so”, autobiografia in libro e dvd (il video è qui sotto) edita da poco da Sperling & Kupfer. Uno dei 27 libri scritti in 27 mesi, uno inevitabilmente più vuoto dell’altro come è stato sottolineato recentemente su “Il Foglio”.

Sembra incredibile che si possa rispolverare con tanta leggerezza il mito, così viene definito da Giovanni Bignami presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dello stato stazionario e dell’universo eterno. Ma dov’è vissuta negli ultimi 50 anni l’astrofisica triestina, celebrata ovunque vada come celebrità e simbolo della scienza italiana? Lei stessa rispondendo imbarazzata a tutti questi deliranti elogi che addirittura la volevano come senatrice a vita, ha risposto: ««È un onore, ma non credo di meritarlo, non ho scoperto nulla».

Risale al 1964 la scoperta la Radiazione cosmica di fondo e il Big Bang, di cui essa è la radiazione elettromagnetica residua da esso prodotta, divenne ormai un fatto acquisito da tutti gli astronomi (o quasi), evento avvenuto 13,7 miliardi di anni fa dal quale nacquero anche spazio e tempo. Inoltre, oggi, come spiega Marco Bersanelli ordinario di Astrofisica all’Università di Milano e tra i responsabili scientifici della missione spaziale PLANCK dell’Agenzia Spaziale Europea, è «consolidata l’osservazione dell’abbondanza degli elementi leggeri primordiali in pieno accordo con le previsioni di una fase primordiale calda dell’universo», come fu la temperatura nei primi minuti dopo il Big Bang. Occorre infine citare la costante di Hubble che riguarda l’allontanamento delle galassie, con maggiore velocità per quelle più lontane esattamente come ci si aspetterebbe se tutta la materia avesse avuto inizio contemporaneamente, tanto che si può procedere a ritroso nel tempo fino ad un momento iniziale. Proprio per queste evidenze esiste un consenso quasi unanime sul fatto che l’Universo sia cominciato con il Big Bang (esistono anche ipotesi minori ma evitano di spiegare queste “prove”).

Appare dunque profondamente antiscientifico ritornare a teorizzare l’universo eterno, senza inizio e senza fine, come fa la Hack, presidente onoraria dell’UAAR (atei fondamentalisti italiani). La questione è chiaramente ideologica e lei stessa, nell’intervista realizzata, lo fa capire tra le righe: «sarebbe tutto più semplice se fosse così», che tradotto significa: “sarebbe tutto più semplice essere atei se l’universo non avesse avuto un inizio”. Effettivamente, lo scopritore del Big bang fu un gesuita, Georges Lemaître, e subito gli scienziati atei si opposero per motivi di natura filosofica essendo un’idea così compatibile con la Creazione. Anche Albert Einstein, che ateo non era, parlando con il gesuita astronomo disse: «Questa faccenda assomiglia troppo alla Genesi, si vede bene che siete un prete». Francis Collins, il genetista che ha sequenziato del DNA umano, oggi direttore del National Institutes of Health, ha sostenuto che il Big Bang «domanda a gran voce una spiegazione divina e infatti si accorda perfettamente con l’idea di un Dio Creatore trascendente. Non riesco a capire come la natura avrebbe potuto crearsi da sé. Solo una forza al di fuori del tempo e dello spazio avrebbe potuto fare una cosa simile» (“Il linguaggio di Dio”, Sperling&Kupfer 2007, pag. 63). Il celebre astrofisico Allan Sandage ha evidenziato che «con le conseguenze riguardanti la possibilità che gli astronomi abbiano identificato l’evento della creazione mette veramente la cosmologia vicino al tipo di teologia naturale medioevale che ha cercato di trovare Dio identificando la causa prima» (citato in “Solo lo stupore conosce”, BUR 2003, pag. 337).

Arno Penzias, fisico e premio Nobel, ha criticato il dogma di alcune persone che «non vogliono accettare l’evidenza osservativa che l’universo è stato creato, nonostante questo sia supportato da tutti i dati osservabili che l’astronomia ha prodotto finora». Queste persone «forse possono essere descritte come aventi un credo filosofico sull’eternità della materia. Queste persone non possono essere considerati scienziati oggettivi» (citato in “Cosmos, Bios, Theos”, Open Court Publishing Company 1992, pag. 5).

 

Qui sotto il video con le dichiarazioni di Margherita Hack

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Battesimi adulti in Nepal, Francia e Spagna

Battesimo LibrescoLa Pasqua di quest’anno ha portato con se molti frutti inaspettati. Oltre 20 catecumeni nepalesi sono stati battezzati nelle varie parrocchie del Paese durante la Veglia della notte di Pasqua e così anche in Francia e in Spagna come in altre parti del mondo. Questo è un fenomeno che colpisce soprattutto se si considera che i neocristiani sono tutti adulti.

Secondo uno dei catechisti in Nepal, ci sono ogni anno circa 30-40 conversioni, che sono aumentate dal 2006 in poi, quando, con la caduta della monarchia induista, si è venuto a creare un clima favorevole che ha consentito la libertà di culto e anche la libera professione in pubblico, contemporaneamente con il tramonto delle ideologie maoista e comunista. Da allora, molti giovani hanno iniziato a considerare la Bibbia parte fondamentale della propria formazione.

Alcuni di loro commentano: “Dio ci ha donato la grazia del suo amore, abbiamo dato un significato nuovo alla nostra vita e serviremo la società e la Chiesa”. Tuttavia questo fenomeno lascia molto stupore per chi vede il cristianesimo nei limiti delineati dall’abitudine, soprattutto se si considera il fenomeno come segno di una Chiesa ancora viva, che a sua volta è segno di Cristo risorto.

Un aiuto a capire meglio il fenomeno arriva appunto da Papa Francesco che in una delle sue omelie dice:
“la prima predicazione degli Apostoli a Gerusalemme riempì la città della notizia che Gesù era veramente risorto, secondo le Scritture, ed era il Messia annunciato dai Profeti. I sommi sacerdoti e i capi della città cercarono di stroncare sul nascere la comunità dei credenti in Cristo e fecero imprigionare gli Apostoli, ordinando loro di non insegnare più nel suo nome. Ma Pietro e gli altri Undici risposero: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù … lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore… E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo» (At 5,29-32). Allora fecero flagellare gli Apostoli e comandarono loro nuovamente di non parlare più nel nome di Gesù. Ed essi se ne andarono, così dice la Scrittura, «lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (v. 41).

Già in questo primo commento si evidenzia l’eccezionalità del fenomeno cristiano che riscontra sempre, già sul nascere, le sue prime avversità. Tuttavia queste avversità vengono infatti viste, non più come tali, ma come occasioni per poter riconoscere qualcosa di veramente desiderabile nella vita. Continua infatti il Papa concentrando l’attenzione su una domanda: “Dove trovavano i primi discepoli la forza per questa loro testimonianza? Non solo: da dove venivano loro la gioia e il coraggio dell’annuncio, malgrado gli ostacoli e le violenze? Non dimentichiamo che gli Apostoli erano persone semplici, non erano scribi, dottori della legge, né appartenenti alla classe sacerdotale. Come hanno potuto, con i loro limiti e avversati dalle autorità, riempire Gerusalemme con il loro insegnamento (cfrAt 5,28)? E’ chiaro che solo la presenza con loro del Signore Risorto e l’azione dello Spirito Santo possono spiegare questo fatto. Il Signore che era con loro e lo Spirito che li spingeva alla predicazione spiega questo fatto straordinario. La loro fede si basava su un’esperienza così forte e personale di Cristo morto e risorto, che non avevano paura di nulla e di nessuno, e addirittura vedevano le persecuzioni come un motivo di onore, che permetteva loro di seguire le orme di Gesù e di assomigliare a Lui, testimoniando con la vita. […] Questa storia della prima comunità cristiana ci dice una cosa molto importante, che vale per la Chiesa di tutti i tempi, anche per noi: quando una persona conosce veramente Gesù Cristo e crede in Lui, sperimenta la sua presenza nella vita e la forza della sua Risurrezione, e non può fare a meno di comunicare questa esperienza. E se questa persona incontra incomprensioni o avversità, si comporta come Gesù nella sua Passione: risponde con l’amore e con la forza della verità”.

Sarebbe impossibile che un fatto accaduto più di duemila anni fa possa ancora portare con se tutto il carisma con cui è nato, se non fosse per il fatto che Chi lo ha generato c’è ancora oggi.

Lorenzo Bartolacci

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“La notte della Sindone” su Rete4, la datazione è stata pilotata?

Locandina La Notte della SindoneUn anno fa informavamo dell’uscita di un importante documentario sulla Sindone, “La notte della Sindone” (prodotto da Polifemo e RAI), particolarmente concentrato sul controverso esame al radiocarbonio eseguito nel 1988 che ne ha suggerito l’origine medioevale ma che ad oggi risulta essere fortemente inattendibile, come abbiamo già mostrato più volte. Lo stesso Christopher Ramsey, responsabile di uno dei laboratori in cui venne realizzata la radiodatazione, ha dichiarato in un comunicato ufficiale del 2008: «Ci sono un sacco di altre prove che suggeriscono a molti che la Sindone è più vecchia della data rilevata al radiocarbonio».

Accertata l’erroneità del risultato ottenuto occorre domandarsi se vi possa essere stata una manipolazione dei risultati per fare emergere una precisa datazione corrispondente al 1290 – 1360 d.C., esattamente coincidente al momento in cui i dati storici segnalano la prima presenza certa della Sindone. Ebbene, grazie al documentario realizzato da Francesca Saracino, è razionalmente accettabile rispondere affermativamente senza passare per complottisti.

Domani, domenica 26 maggio 2013, alle ore 9.00 su Rete4 verrà proprio trasmesso il documentario “La notte della Sindone”. Chi scrive ha già avuto modo di visionarlo e assicura essere un appuntamento imperdibile per chiunque sia interessato al mistero della Sindone! Per la prima volta si fa luce sulle ricerche, sui personaggi e sulle misteriose manovre che hanno coinvolto esponenti della comunità scientifica e del mondo ecclesiastico, alternando le scottanti rivelazioni dei protagonisti e di personaggi di rilievo internazionale che hanno vissuto quegli anni, e vengono analizzati documenti inediti: video, file audio, fascicoli di archivi privati, lettere, foto.

Se è dunque molto probabile che la datazione al Carbonio 14 sia stato un grande bluff, l’origine medioevale della Sindone è stata dimostrata essere impossibile grazie al lavoro dei ricercatori dell’Enea di Frascati attraverso lo studio della formazione dell’immagine sindonica, irriproducibile oggi (se non in forma similsindonica) con i laser più avanzati. Lo ha spiegato il prof. Paolo Di Lazzaro proprio su questo sito web (prima parteseconda parte), risultati poi pubblicati in un vero e proprio documento scientifico.

L’appuntamento è allora domani alle 9:00 su Rete4, ci ritroveremo più avanti su questo sito web per commentarne i contenuti anche attraverso un recente e importante studio sulla Sindone di Tristan Casabianca, ricercatore dell’Université d’Aix-Marseille (France) che ci ha recentemente contattato inviandoci gentilmente il suo lavoro in forma integrale.

Luca Pavani

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La giurista Alvare: «la morale sessuale cattolica difende la donna»

Alvare HeleneRecentemente, il 9 maggio 2013, si è tenuto a Washington DC il nono “National Catholic Prayer of Breakfast“, un annuale evento culturale sorto come risposta alla chiamata di Papa Giovanni Paolo II verso un cammino di nuova evangelizzazione. Questo evento, ha come scopo la creazione di un momento di incontro e riflessione sui temi che i cattolici sono chiamati ad affrontare nella quotidianità, in qualità di elementi attivi della società moderna.

All’incontro di quest’anno, è stato particolarmente interessante l’intervento della Prof.ssa Helen Alvare, docente di Diritto presso la George Mason University School of Law, che ha dedicato un discorso alla moderna morale sessuale, ai suoi effetti, e alla “controproposta” cattolica a questo tipo di valori. Secondo la giurista, infatti, “il nuovo ‘mercato’ del sesso, ha danneggiato terribilmente l’immagine e la dignità della donna, soprattutto fra i più poveri“; prendendo come spunto la figura di Papa Francesco, ha esortato tutti coloro che sono contrari al nuovo costume sessuale dell’Occidente, a farsi avanti per denunciare la rapida avanzata di questo modello culturale : “proprio come il nostro leader è senza paura,” – dice – “cerchiamo di essere leader senza paura“.

Nel suo intervento, la Prof.ssa Alvare ha sostenuto che le moderne strutture sociali e governative, promuovono un modello che danneggia incredibilmente le fasce più deboli della popolazione; questo perché, “i poveri soffrono sia sul piano economico che su quello umano, a partire dai valori che la moderna società propone“; tra questi valori, un certo tipo di “libertinaggio sessuale” ha contribuito tra la popolazione più povera, ad un aumento della trasmissione di malattie, e delle gravidanze indesiderate. Secondo Alvare, la “dottrina cristiana, è in grado di offrire una visione più ampia della sessualità, che permette di salvaguardare la dignità di ogni persona“.

Sappiamo” – continua nel suo intervento – “che il benessere comune è strettamente legato alla presenza di legami forti e fedeli all’interno del matrimonio. Non dobbiamo più teorizzare su questo punto; dobbiamo iniziare ad affrontarlo e risolverlo“. Secondo la giurista, “la qualità della vita degli americani migliorerebbe sensibilmente se si iniziasse a ricostruire il legame tra sesso e matrimonio, lasciando da parte visioni che vogliono questi due aspetti in contrapposizione tra loro.”  Tutto ciò, andrà fatto in collaborazione con il governo, che “non deve continuare nella sua opera di svalutazione della morale cristiana“.

Alvare, insiste molto sull’impegno da parte dei cattolici in questo campo : “Richiederà anche intrepida testimonianza da parte di tutti i ceti sociali, tra cui donne e minoranze, che devono rendere testimonianza alla verità circa l’etica sessuale cristiana“. Secondo la giurista, infatti, è da respingere con forza l’idea che i cattolici non debbano intervenire su questioni controverse e spinose come la morale sessuale : “Sono i temi che incontriamo sul nostro cammino, pertanto sono i problemi che richiedono la nostra attenzione“.

Nicola Terramagra

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Referendum paritarie: gli esperti contro “Rodotà&Scamarcio”

Referendum BolognaDomenica 26 maggio 2013 a Bologna i cittadini saranno chiamati alle urne per pronunciarsi su uno sciocco referendum consultivo dal costo di circa 300mila euro, circa il finanziamento di un milione di euro destinato agli asili paritari. Il referendum non ha alcuna validità e la giunta continuerà a finanziare le scuole paritarie anche in caso di sconfitta, come ha affermato lo stesso sindaco Virginio Merola.

Chi è contro il finanziamento non si accontenta dei 36 milioni di euro che il Comune di Bologna destina alle scuole dell’infanzia ma vorrebbe entrare in possesso anche del milione che invece viene destinato alle scuole paritarie (lo 0,8% del totale, di cui beneficiano 1.736 bambini), qui i dettagli. Questo la dice lunga su quanto la questione sia di stampo ideologico.

La composizione dei due schieramenti la dice lunga: da una parte economisti, giuristi, costituzionalisti e vari esperti del settore scolastico, la Chiesa e tutte le forze politiche moderate, dall’altra parte i reazionari giacobini del Comitato Referendario “Articolo 33”, sostenuti dal “Fatto Quotidiano”, da Sel, Movimento 5 Stelle, i soliti anziani rimasugli del comunismo (Sabrina Guzzanti, Augias, Rodotà, Hack, Camilleri) e qualche spaesato belloccio televisivo reclutato in fretta da Cinecittà (Scamarcio, Neri Marcorè, Golino ecc.). La cosa più simpatica è che il leader di Sel, Nichi Vendola, in Puglia finanzia le paritarie come ha fatto notare Amelia Frascaroli, assessore di Sel a Bologna (che voterà a favore del finanziamento), e lo stesso fa Federico Pizzarotti a Parma, l’unico grillino sindaco. Occorre anche sottolineare i tanti casi di discriminazione dei membri del Comitato “Articolo 33” verso le famiglie pro-finanziamento.

Il finanziamento alla paritarie è un problema solo italiano in quanto nel resto d’Europa le scuole paritarie sono integralmente (o solo parzialmente, come in Italia) pagate dallo Stato. L’Unione Europea è apertamente a favore della libertà di scelta della famiglia e della pluralità educativa e ha quasi copiato i due articoli della Costituzione italiana in merito alla libertà d’educazione. E’ la solita fiera dell’ipocrisia: mentre sui matrimoni gay l’Italia dovrebbe adeguarsi all’Europa, sul finanziamento alle scuole paritarie invece no. Non a caso il sottosegretario all’istruzione Elena Ugolini ha affermato: «Se tu spieghi in Europa il senso di questo referendum, si metterebbero tutti a piangere, non a ridere. In Europa non esiste l’idea che tutto deve essere statale. Voglio dire, cerchiamo di capire quello che permette alle scuole di migliorare e di dare il meglio ai nostri ragazzi, chiediamoci cosa può far avere ai nostri ragazzi una buona proposta educativa e formativa».

 

Lasciando da parte l’imbarazzante discesa in campo del gruppetto denominato “Rodotà&Scamarcio”, abbiamo raccolto il parere dei veri conoscitori della tematica dibattuta dal referendum i quali rispondono a tutte le possibili obiezioni e domande che possono sorgere.

Nicolò Zanon, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Milano e membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ha affermato: «Il referendum è figlio del clima folle che si è creato intorno ad alcuni totem, uno dei quali è proprio l’articolo 33. Si tratta in realtà di una battaglia ideologica e di retroguardia, falsamente ricondotta alla Costituzione italiana. Io leggo che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Mi pare che a Bologna non si tratti di istituire scuole, ma di far funzionare quelle che già ci sono. Nel caso concreto non solo non ci sono oneri per lo Stato; l’amministrazione comunale, a fronte di un contributo di un milione, ci guadagna molto di più, riuscendo a soddisfare una domanda di servizi alla quale diversamente non riuscirebbe a rispondere. Siamo nel solco di una lettura forsennatamente giacobina della nostra Costituzione, già documentata in altre occasioni sia da questa battaglia antiparitaria, sia da alcune note manifestazioni pubbliche. C’è un’area culturale radical-giacobina che crede di interpretare la purezza originaria dei valori della Costituzione, in realtà la tradisce dandone una lettura fuorviante e parziale». C’è il tentativo, ha continuato, di veicolare «una laicità di combattimento, non positiva ma negativa, che chiede allo Stato una “neutralità” che non risulta affatto neutra, come invece potrebbe sembrare a prima vista, perché profondamente ostile al pluralismo religioso e al ruolo della religione nella vita pubblica. Sotto questo aspetto accusiamo un ritardo clamoroso», poiché «in tutte le grandi democrazie, a parte la Francia che si trova in questo momento in una condizione forse diversa, il dibattito pubblico tiene conto dell’apporto della religione e non nega affatto che la religione possa partecipare al dibattito pubblico e per questo possa avere un ruolo nell’educazione e nella formazione dei giovani. Da noi invece si insiste nel replicare una lettura della laicità come divieto dello Stato di favorire lo sviluppo di un pensiero plurale». Ha quindi concluso: «Il contributo che il Comune dà consente alle scuole convenzionate di mantenere delle rette ragionevoli, e quindi di allargare il diritto di scelta dei genitori meno abbienti a favore delle scuole paritarie non statali. Parallelamente il Comune ottiene che il complesso dell’attività scolastica nelle scuole paritarie non statali sia equipollente a quello svolto dalle scuole statali», e così si arriva a «tutelare il pluralismo culturale delle famiglie e conformare a precisi standard il servizio scolastico offerto delle scuole paritarie. Mi pare uno di quei pochi esempi virtuosi esistenti nel nostro paese di collaborazione efficace tra le autorità pubbliche e l’iniziativa dei privati. Volerlo abbattere sulla base di un presunto “ritorno alla Costituzione” è fanatismo. Un servizio pubblico non è necessariamente in mano allo Stato: un conto è la funzione, un conto la natura giuridica di chi eroga il servizio. Ebbene, la cosa incredibile è che ancora si debba spiegare che pubblico non è sinonimo di statale».

 

Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’università di Bologna e presidente del comitato pro-finanziamento, ha affermato: «i referendari hanno basato la loro campagna su informazioni sbagliate. Io voglio credere nella buona fede, però non è vero che le scuole paritarie non fanno parte del sistema pubblico: sono a gestione privata, ma la legge 62 del 2000, detta “Berlinguer”, dice che partecipano al sistema pubblico. Secondo punto: l’articolo 33, cui appunto si appellano anche nel nome del comitato i referendari, dice che gli enti privati possono istituire scuole, però “senza oneri per lo Stato”. Attenzione però, oneri viene dal latino onus, “peso”: la costituzione prevede quindi che all’ente pubblico sia risparmiato di far fronte ad un peso, non ad un semplice pagamento. Nello specifico delle scuole bolognesi, il Comune dà 1 milione all’anno, ricevendo però in cambio un servizio di 6 milioni: è quindi il contrario, l’onere è sulle spalle della società civile. In questo l’argomentazione dei referendari è ribaltata di 180 gradi, a maggior ragione se si attinge alla relazione di accompagnamento dell’articolo 33: Corbino, Labriola e Mortati, i tre costituenti che all’epoca la firmarono, spiegavano esattamente questa interpretazione della parola “oneri”. In questa fase storica di ristrettezza economica gli enti pubblici non possono prescindere dalle materne paritarie, il giorno in cui l’ente comunale si rintanasse nel proprio nucleo, questo determinerebbe un abbattimento della qualità dell’insegnamento e del servizio. I referendari hanno fatto una manifestazione in Piazza Maggiore: si aspettavano migliaia di persone, erano solo in 120. Ai bambini hanno fatto cantare “Bella Ciao”, “Il Resistente” e altre canzoni di quel repertorio: non mi vengano a dire che rispettano la libertà di quei bambini di 4 anni, che chissà se sanno la storia di quelle canzoni. Io però sono molto fiducioso: sono convinto che vinceremo, e dato che Bologna non è un paesino, sarà un bel segnale per l’Italia: qui è in gioco il bene della gente, e la stessa cosa varrà per la sanità, l’assistenza degli anziani ecc.». Ed infine ha sottolineato: «Il comune di Bologna versa un milione alle paritarie e riceve un servizio pari a sei milioni. Non ci vuole un economista per capire che il guadagno è pari a cinque milioni all’anno».

 

Maria Chiara Carrozza, attuale ministro dell’Istruzione e ordinario di bioingegneria industriale presso la Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna di Pisa, ateneo di cui è stata rettore per due mandati, ha affermato: «Le scuole paritarie coprono una parte degli studenti italiani e offrono un servizio pubblico. Se togliessimo questi soldi metteremmo in grave difficoltà queste scuole e molti bambini non avrebbero accesso alla scuola. Sarebbe un disastro, tra l’altro i 500 milioni circa di finanziamento alle scuole paritarie sono una parte dei 40 miliardi di spesa per la scuola pubblica. Sono una piccola parte, che però copre laddove il sistema delle scuole statali non riesce ad arrivare. Soprattutto sulla scuola dell’infanzia sulla quale siamo deboli e sulla quale dovremmo tornare ad investire». Per questo «il dibattito sul referendum di domenica 26 maggio di Bologna sembra privilegiare soprattutto le esigenze politiche e i diversi posizionamenti ideologici, piuttosto che gli interessi dei bambini».

 

Virginio Merola, sindaco di Bologna (Pd) ha inviato una lettera a tutte le famiglie bolognesi in cui ha scritto: «Diamo un milione di euro alle scuole paritarie private perché lo riteniamo giusto. È questo modello che permette di avere qualità educativa diffusa e di non lasciare a casa i bambini quando i tagli del governo diventano insostenibili. Va detto senza ambiguità: è questa per noi la scuola pubblica, non un’altra che non c’è. È bene farla finita con un imbroglio ideologico: questo non è un referendum per dire se sia meglio la scuola privata o la scuola pubblica». In una intervista ha detto: «Il sistema pubblico integrato della scuola, che vede insieme Comune, Stato e scuole paritarie, è attivo da 18 anni e dal 2000 è stato riconosciuto da una legge nazionale. Bisognerebbe capire che le scuole materne paritarie sono dentro il sistema pubblico, se è per questo noi diamo soldi anche alle materne statali visto che lo Stato fa molto meno di quello che dovrebbe fare. Ma il punto è un altro: noi non eroghiamo fondi alle scuole paritarie solo perché siamo costretti dalla difficile situazione economica, lo facciamo perché è giusto farlo. Chi vuole abolire i fondi alle scuole private è un estremista conservatore». Purtroppo lo stesso quesito, ha spiegato ancora, «fa confusione perché crea la falsa informazione che esisterebbero delle scuole private alle quali vengono dati i soldi di tutti. Non è così. Stiamo parlando di scuole paritarie private, esattamente come sono paritarie le scuole comunali. Entrambe riconosciute da una legge del 2000, la n. 62, voluta da Luigi Berlinguer. Invece di chiedere tutti insieme che lo Stato faccia la sua parte, aumentando le sezioni di scuola dell’infanzia statale o riconoscendo maggiori fondi al Comune di Bologna, si fa una lotta tra poveri per togliere i fondi alle scuole paritarie private. Se, grazie alla convenzione con le paritarie private, noi assicuriamo al costo di 1 milione un sostegno a più di 1.700 bambini, a parità di spesa riusciremmo al massimo ad aprire quattro sezioni di scuola dell’infanzia comunale, dando risposta ad appena 150 bambini. Inoltre c’è chi non vuole convincersi che in questo paese una legge è costituzionale fino a quando la Consulta non ne dichiara l’incostituzionalità; e per la legge 62 ciò non è mai avvenuto. Al tempo stesso si pretende che attraverso un referendum consultivo si possa decidere della costituzionalità di una legge. È un atteggiamento aberrante e antidemocratico. Ci si ostina a far confusione sul concetto di scuola pubblica, che nella nostra città − da anni − non è fatta solo da dipendenti del comune o da dipendenti dello Stato. Se un Comune finanzia e sostiene attività che sono di servizio pubblico, queste sono a tutti gli effetti pubbliche, indipendentemente dall’essere svolte da un dipendente comunale, dal dipendente di una cooperativa o di un’associazione no profit».

 

Walter Vitali, ex sindaco di Bologna dal 1993 al 1999 del Partito Democratico, ha spiegato: «I bolognesi dovranno rispondere a una domanda decisamente faziosa. Questo non è un tema di destra o di sinistra, questa è l’occasione per confermare la scelta giusta del sistema integrato, che va difeso e rilanciato. Tutti noi difendiamo e abbiamo a cuore il sistema pubblico. Un pubblico che, da ormai cinquant’anni, si è liberato di quella visione statalista che, ai tempi della Guerra Fredda, ha fatto molti danni, secondo la quale può essere definito pubblico solo ciò che è statale e nient’altro». In un’altra occasione ha rilevato che «l’offensiva dei referendiani indebolirebbe tutta la scuola pubblica perché senza il milione di euro del Comune molte paritarie sarebbero costrette a chiudere e senza di loro le liste d’attesa crescerebbero». Oltretutto ha ricordato che chi chiama in causa l’articolo 33 della Costituzione che «tutti i ricorsi fatti alla Consulta contro il finanziamento alle paritarie sono stati bocciati».

 

Stefano Ceccanti, costituzionalista e professore di Diritto pubblico comparato nell’Università La Sapienza di Roma, ha spiegato: «L’argomento risolutivo resta comunque quello della distinzione tra pubblico e statale. Infatti i sostenitori dell’ipotesi A non si occupano di questo criterio, obiettando a priori, se capisco bene, che una soluzione sensata se fosse incostituzionale sarebbe comunque inaccettabile. Il punto è che non è affatto incostituzionale. Fuori da Bologna il referendum è ormai vissuto come un conflitto sulla possibilità di distinguere tra pubblico e statale. Il vero problema è che la lettura dei principi è filtrata da una mentalità statalista secondo la quale i beni comuni possono essere prodotti solo dalla gestione pubblica diretta. È uno schema che non corrisponde a quello della nostra Costituzione».

 

Giuliano Cazzola, docente di economia presso l’Università di Bologna e politico del PDL, ha spiegato: «la riforma Berlinguer nel 2000 l’ha confermato: in Italia la scuola pubblica è sia quella statale sia quella gestita da privati e paritaria. Pubblico, infatti, non vuol dire necessariamente statale, come, invece, sostiene il comitato promotore del referendum. Perché dare soldi pubblici a scuole private? Perché fanno risparmiare i cittadini! Con un solo milione di euro e poco più dati grazie alle convenzioni alle scuole dell’infanzia paritarie di Bologna, infatti, il Comune permette ad oltre 1.736 bambini di frequentarle, che sono il 21 per cento dei bambini bolognesi. Se quel milione fosse dato alla scuola statale, non si riuscirebbero a garantire lo stesso numero di posti a parità di spesa e molti bambini dovrebbero restare a casa». In un’altra occasione ha commentato: «Mi sembra evidente che quello che sta succedendo a Bologna non è altro che la prova generale di quello che potrebbe accadere a livello nazionale. Il fatto che persone quali Margherita Hack o Andrea Camilleri, che nulla c’entrano con Bologna, abbiano sottoscritto il manifesto del comitato a favore dell’abrogazione dei fondi ne è la prova più evidente. Ci troviamo di fronte all’ennesimo contenzioso tra quelli che si definiscono laici e i cattolici. Una partita vecchia giocata sulla pelle dei bambini».

 

Sergio Belardinelli, docente di Sociologia politica nell’Università di Bologna, ha scritto: «Il Comitato articolo 33 si sta rivelando un singolare concentrato di tutta una serie di pregiudizi che in questi anni siamo venuti alimentando irresponsabilmente nel nostro paese, primo fra tutti quello secondo cui pluralismo e sussidiarietà sarebbero la semplice copertura ideologica di inconfessabili interessi clericali e liberisti. Stefano Rodotà lo dice espressamente: “è necessario riprendere il filo, spezzato in questi anni, della politica costituzionale e della legalità che essa esprime”. Forse che la sussidiarietà non sia un principio costituzionale? Forse che le paritarie dell’infanzia non rappresentino un indispensabile servizio per i bolognesi, oltre che un notevole risparmio per le casse comunali? Siamo di fronte insomma a un mix di laicismo anticlericale, costituzionalismo giacobino, moralismo e demagogia che sarebbe semplicemente ridicolo, se non fosse che proprio questo mix sta diventando una carta politica vincente nel nostro paese».

 

Romano Prodi, ex presidente del Consiglio, fondatore del Partito Democratico ed ex docente di Economia all’Università di Bologna, ha scritto: «Se, come spero, riuscirò a tornare in tempo da Addis Abeba, domenica prossima voterò sui quesiti riguardanti le scuole dell’infanzia e voterò l’opzione B. Il mio voto è motivato da una semplice ragione di buon senso: perché bocciare un accordo che ha funzionato bene per tantissimi anni e che, tutto sommato, ha permesso , con un modesto impiego di mezzi, di ampliare almeno un po’ il numero dei bambini ammessi alla scuola dell’infanzia e ha impedito dannose contrapposizioni? Ritengo che sia un accordo di interesse generale».

 

Salvatore Sechi, docente di Storia contemporanea nell’Università di Ferrara, ha fatto notare che prima della decisione di finanziare parzialmente le scuole paritarie «le scuole statali erano sovvenzionate interamente con le risorse pubbliche (cioè di tutti i cittadini), mentre quelle private, per lo più cattoliche, si alimentavano dei contributi delle famiglie e dei cittadini singoli. Gli stessi ai quali venivano prelevate quote di reddito per finanziare gli istituti statali. Pagavano, dunque, due volte un servizio di cui fruivano parzialmente. Il finanziamento alle scuole paritarie è legittimato dalle legge 62/2000, che riconosce loro un ruolo preciso, cioè una funzione pubblica. Un ruolo che non può essere disconosciuto se non a prezzo di farsi carico di una discriminazione. Ne è derivato un sistema pluralistico che non ha più al proprio centro lo Stato-impiccione tanto caro ai vecchi e nuovi giacobini che hanno prevalso sul liberalismo di origine risorgimentale». In ogni caso a Bologna, «il finanziamento pubblico di cui si chiede l’abolizione sarebbe assolutamente insufficiente a fronteggiare i bisogni reali della popolazione», anche per questo «sarebbe realmente grave se alla fine il monoteismo laicista avesse la meglio».

 

Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, è intervenuto più volte sul tema: «Il pensiero dei promotori del referendum di Bologna è viziato da un fortissimo pregiudizio ideologico che confonde la laicità con la discriminazione, per cui dovrebbe essere prerogativa esclusiva dello Stato fornire il servizio educativo scolastico, mentre è prerogativa dei genitori scegliere a chi delegare l’istruzione dei figli. La nostra scuola è la scuola pubblica. Quale che sia il soggetto che eroghi il servizio, lo Stato, un comune, un privato profit o non profit: il servizio è pubblico. Così, del resto, vuole una norma, oltretutto, introdotta in Costituzione da una maggioranza di centrosinistra. La contrapposizione tra scuola pubblica e privata è antica e, ormai, superata». In un editoriale critica Stefano Rodotà: «Nella lettera pubblicata ieri dal Corriere, per esempio, Rodotà non usa mai una volta la parola bambini. Preferisce concentrarsi sui principi, sui valori, sui diritti. Interpreta poi con intransigenza una via esclusiva, in cui solo lo Stato rappresenta il “pubblico” e tutto il resto deve restare fuori dal suo perimetro, più che mai se ha a che fare con la Chiesa. I referendari, infatti, non chiedono solo più fondi alla scuola comunale: chiedono che siano tolti a quella non comunale». In un secondo editoriale ha scritto: «La battaglia sembra essere di principio: non un soldo dello Stato a ciò che non è gestito dallo Stato. Ma in questo modo si rischia di negare il diritto alla libertà educativa delle famiglie, anch’esso riconosciuto nella Costituzione. C’è insomma in gioco una questione di libertà molto delicata, visto che si parla di educazione, e che Aldo Moro difese alla Costituente. E infatti la legge, una legge varata dal centrosinistra e che porta il nome di Luigi Berlinguer, stabilisce dal 2000 che tutto il sistema nazionale di istruzione, che sia gestito dallo Stato, dai Comuni o dai privati, è “pubblico”, perché svolge un servizio pubblico e si assoggetta a norme fissate dal potere pubblico, a partire dall’obbligo di essere aperto a tutti. Lo strano connubio tra statalismo e retorica dei diritti, tra post-comunisti e post-giacobini, che ha già terremotato il Pd in Parlamento, tenta ora di conquistarne il popolo nella città simbolo del riformismo».

 

Luigi Berlinguer, ex ministro dell’Istruzione e padre della riforma sulla scuola paritaria (legge 62/2000), ha scritto: «il referendum di Bologna pone l’accento lontano dalla questione sociale della scuola, confondendo il concetto di statuale con quello di pubblico, con la conseguente rinuncia a sollecitare e a battersi per estendere al massimo il servizio e per qualificarlo sempre più. Gli articoli 3, 5, 33, 34 e 117 costituiscono la cornice costituzionale della legge 62/2000, che è appunto legge fortemente laica di attuazione costituzionale. Il sistema integrato favorisce l’uguaglianza sostanziale e la partecipazione».

 

32 sindaci di altrettanti Comuni della provincia di Bologna hanno sottoscritto un appello in cui hanno affermato che «l’eliminazione dei finanziamenti alle scuole paritarie private non porterebbe a un aumento dell’offerta pubblica, bensì a una diminuzione drastica dell’offerta formativa complessiva e della sua qualità. Le convenzioni fra Enti Locali e scuole paritarie hanno consentito, nella nostra regione, di generalizzare l’offerta e garantire omogeneità nell’ambito del sistema. Per questo, i sottoscrittori del presente appello, sindaci di una regione nella quale la presenza del sistema paritario garantisce una copertura del 33% dei posti di scuola dell’infanzia, chiedono che sia tutelato nel modo più estensivo il diritto alla scuola delle bambine e dei bambini, preservando un’esperienza di alto valore sociale e civile, che garantisce qualità all’intero sistema scolastico».

 

Beatrice Draghetti, presidente della provincia di Bologna (Pd) ha scritto in una nota: «Come cittadina bolognese il 26 maggio prossimo andrò a votare al referendum e voterò B». Il referendum voluto dal comitato Articolo 33 è «assolutamente mal formulato e fuorviante», «ideologico» e affetto da «banalizzazione e qualunquismo», e ignora completamente la legge 62/2000, alla quale era necessario fare riferimento «non solo perché esiste, ma per le ragioni di bene comune e di profilo costituzionale che l’hanno ispirata, sostenuta, consentendo un salto di qualità significativo nelle opportunità di istruzione a disposizione dei cittadini».

 

Francesca Puglisi, senatrice e responsabile nazionale per la scuola del Partito democratico, ha affermato: «Tagliando i fondi alle paritarie non si risolverebbe nulla, anzi sarebbe un autogol perché lo si aggraverebbe. Il nostro problema è garantire un posto all`asilo a tutti i bambini e non lo si risolve certamente con battaglie ideologiche. Se a Bologna il Comune copre la maggioranza dell`offerta formativa, ci sono regioni, come il Veneto e la Lombardia, dove il 60% dei posti è assicurato dalle paritarie. Per questo dico che è velleitario pensare di statalizzare tutto e lo è non soltanto per ragioni economiche ma anche di qualità della scuola. Occorre puntare al governo pubblico di un sistema integrato pubblico-privato, secondo il principio della sussidiarietà. Questo modello sta dando eccellenti risultati di qualità». Rispetto alla militanza di Stefano Rodotà e altri esponenti della sinistra ha spiegato: «Esiste una sinistra che si accontenta di accarezzare le proprie ideologie e un`altra, rappresentata dal Partito democratico, che invece ha vocazione maggioritaria e cultura di governo e che crede che il primo compito della politica sia risolvere i problemi della propria comunità. Sono convinta che l`unica strada per continuare a garantire l`eccellenza del sistema bolognese delle scuole dell`infanzia, sia quella della collaborazione tra pubblico e privato. La sola capace di promuovere quella funzione pubblica del sistema che la legge garantisce».

 

Giuseppe Fioroni, deputato PD ed ex ministro della Pubblica Istruzione, ha sottolineato: «Non mi interessa il “che bello se tutte le scuole italiane fossero statali”. Credo sia più importante garantire a tutti l’accesso all’istruzione, e soprattutto alle materne. Con questo referendum si rischia di far perdere a molti bambini il diritto alla scuola materna. Oppure di trasformarlo in un lusso per pochi».

 

Francesco D’Agostino, professore di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, ha scritto: «La richiesta dei referendari di abrogare il finanziamento alle scuole materne “private” non nasce dal fatto che esse siano discriminatorie (nessuno si è sognato o può sognarsi di dire una cosa del genere), ma solo dal fatto che non sono di proprietà statale o comunale. E qui il nodo ideologico della questione emerge nettamente: i referendari ritengono evidentemente che solo una proprietà statale o comunale possa garantire servizi ottimali per tutti. Tesi ardita, ma che qui non voglio discutere nel merito. È sufficiente ribadire che l’opposta tesi (quella per la quale un servizio pubblico affidato a privati possa essere ben più vantaggioso) non è vergognosa e non merita di essere denigrata come una tesi «contabile». È piuttosto una tesi che ci aiuta a capire cosa davvero sia la laicità autentica: il discutere cioè a partire dalle cose stesse e non da valutazioni pregiudiziali, ancorché nobili e suggestive (almeno per chi le propone!). Laicità è «credere che le cose esistano», diceva l’indimenticabile Sofia Vanni Rovighi, è ragionare a partire dal “basso” dell’esperienza (cioè in questo caso dalla concretezza della situazione bolognese) e non dall’”alto” dei concetti (anche di quelli della tradizione latinocristiana e dalla sua pretesa diffidenza verso l’analisi economica della «massima convenienza»). Introdurre nel dibattito su un sistema di istruzione pubblico integrato e, specificamente, sul ruolo della scuola materna convenzionata e sui finanziamenti a essa destinati un riferimento a tali concetti assoluti significa restare chiusi in quel recinto ideologico che la modernità ha costruito per difendere se stessa e i suoi dogmi (non meno vincolanti dei dogmi cristiani e molto meno storicamente filtrati di questi!). Da questo recinto bisogna assolutamente fuoriuscire: per chi è chiamato a farlo, anche con un saggio voto referendario domenica prossima».

 

Vittorio Feltri, direttore del quotidiano di destra Il Giornale, ha posto una domanda provocatoria a Stefano Rodotà: «se io scelgo di iscrivere i miei figli a un istituto privato, e saldo la retta annuale fino all’ultimo centesimo, di fatto togliendomi dal carrozzone pubblico (statale o comunale), perché oltre a quell’istituto privato devo pagare anche la quota d’imposta relativa al funzionamento del carrozzone su cui ho rifiutato di salire? Se la scelta della scuola è facoltativa, come previsto dalla Costituzione, e io opto per quella – poniamo – religiosa, giusto che mi carichi personalmente della retta. Fin qui ci siamo. Ma perché dovrei pagare anche le tasse per contribuire a tenere in piedi la scuola pubblica di cui non usufruisco?»

 

Benedetto Zacchiroli, consigliere comunale del Pd e attivista omosessuale, ha ricordato che «Se togliamo i soldi alle scuole paritarie di Bologna dobbiamo toglierli anche al Cassero», cioè lo storico circolo omosessuale della città che riceve un contributo dal Comune per le sue attività. Per questo voterà anche lui “B” al referendum per le paritarie: «Diamo 36 milioni alle scuole comunali e vogliamo toglierne 1 alle paritarie?». Per questa presa di posizione ha ricevuto l’attacco dell’Arcigay ma lui ha ribadito: «Il Comune, tramite sgravi fiscali su bollette e altro, dà dei soldi al Cassero perché ritiene che il servizio offerto sia pubblico: informazioni sull’Aids, counseling a omosessuali, lesbiche e transessuali. Se questo servizio non fosse offerto dal Cassero, il Comune non sarebbe in grado di fornirlo. Ma il principio è lo stesso. La sussidiarietà è una. Siccome le scuole paritarie fanno un servizio pubblico il Comune le sostiene. Tra l’altro, va sempre ricordato che stiamo parlando dello 0,8 per cento su un totale di 36 milioni di euro che il Comune destina all’istruzione. In ogni caso: se non ci fossero le paritarie sarebbe un problema, perché con gli stessi soldi il Comune non potrebbe provvedere a quei bambini».

 
La redazione

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Lavoisier, lo scienziato ucciso dall’illuminismo

Antoine Lavosier8 maggio. Pochi lo sanno e quasi nessuno, potete scommetterci, lo ricorderà ma questa non è una data qualsiasi perché in quel giorno, 219 anni fa, i mitici rivoluzionari francesi ghigliottinarono il chimico Antoine Lavoisier (1743 –1794), un gigante assoluto della scienza. Tanto che Lagrange, per commentare l’accaduto, affermò: «Alla folla è bastato un solo istante per tagliare la sua testa; ma alla Francia potrebbe non bastare un secolo per produrne una simile».

Ciò nonostante ancora oggi, quando si parla di “scienza perseguitata”, molti evocano il processo a Galileo Galilei (1564 – 1642). Anche a costo di inciampare in errori da matita rossa, come fece tempo addietro Alessandro Cecchi Paone sostenendo che lo scienziato pisano sarebbe stato il primo a dimostrare «attraverso l’osservazione» che la Terra ha una forma sferica: l’ennesimo, gratuito schiaffo al Medioevo, epoca nella quale che la Terra non fosse piatta era dato ampiamente per scontato.

Ma torniamo al Lavoisier, vittima dimenticata di una cultura, quella giacobina e rivoluzionaria, che sotto mentite spoglie resiste tutt’oggi, passando dalla commemorazione del processo a Galilei – di cui ignora quasi tutto – alla celebrazione del pensiero scientifico di Giordano Bruno (1548 –1600), che però era più che altro mago e tifoso «della religione magica degli antichi Egizi quale veniva descritta nell’Asclepius»» (Eliade M. Storia delle credenze e delle idee religiose, Bur 2006 p. 279). Lavoisier invece era uno scienziato vero, come lo era, per esempio, il filosofo, matematico e specialista in ingegneria elettrotecnica Pavel Florenskij (1882-1937), morto fucilato dal regime comunista. Ma degli scienziati perseguitati dai rivoluzionari francesi o dai regimi comunisti poco o nulla si deve sapere; meglio fossilizzarsi sul trito e ritrito “caso Galilei”, guardandosi però bene dal dire quale fu l’effettivo destino dell’illustre scienziato. Un destino per nulla crudele.

Infatti Galilei non solo non fece neppure un giorno in cella né fu sottoposto ad alcuna forma tortura, ma durante il famigerato processo venne accolto – a spese della Santa Sede, per la cronaca – in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale; e dopo la sentenza fu alloggiato prima nella magnifica dimora dei Medici al Pincio e poi in una villa di Arcetri talmente brutta da essere soprannominata «il gioiello». Tutt’altra sorte toccò purtroppo a Lavoisier al quale, come abbiamo visto, mozzarono la testa, anche se quell’orrendo delitto è ricordato talmente poco che non meraviglierebbe l’ipotesi che gli studenti di oggi – gli stessi che magari pensano che Galileo Galilei sia stato sottoposto a chissà quali indicibili torture dalla Chiesa – ammesso e non concesso che sappiano chi era il grande chimico, se interpellati sulla sua fine, possano rispondere: chi tagliò la testa a Lavoisier?

Giuliano Guzzo

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Don Gallo, il prete che negava il Papa e la laicità

Don GalloSi è spento nella sua Genova e a 84 anni, dopo una lunga malattia, don Andrea Gallo. Era stato dimesso dall’ospedale e ha vissuto gli ultimi momenti nella comunità di San Benedetto al Porto che lui stesso aveva fondato alla metà degli anni’70 ospitando poveri ed emarginati. Ci uniamo al cordoglio dei suoi cari e delle persone che si sono sentite da lui volute bene.

Non possiamo tuttavia evitare di tratteggiare quello che ha rappresentato pubblicamente questo sacerdote dal nostro punto di vista. Non ne emerge un profilo positivo e siamo consapevoli di non essere in linea con la fiera dei media e dei vip che in queste ore sta sprecando elogi, ma ci interessa ovviamente molto poco. Don Gallo ha certamente aiutato tante persone come ogni giorno fanno tantissimi sacerdoti nell’ombra e nel nascondimento. Ma lo ha fatto davanti alle telecamere costruendosi un personaggio, mediatico, mentre il ruolo del sacerdote è quello di portare a Cristo e alla Chiesa, e non a sé.

Ancor meno positiva è la sua costante denigrazione della Chiesa, condanna pronunciata dall’alto della sua celebrata e riconosciuta attenzione ai poveri. Un ricatto emotivo che ha condizionato molti, purtroppo. Anche Giuda, nei Vangeli, sgridava chi lavava i piedi di Gesù con un olio costoso, invitando ad usare quei soldi per aiutare i poveri. Papa Francesco ha commentato: «Questo è il primo riferimento che ho trovato io, nel Vangelo, della povertà come ideologia». Esaltato dal “Fatto Quotidiano” e dalla cultura anticattolica di cui è portavoce il quotidiano di Padellaro, è stato da loro miseramente sfruttato (e lo è anche in queste ore) per chiari interessi antipapisti e anticlericali. Purtroppo ha voluto lasciarsi usare, questa è la differenza tra lui e don Lorenzo Milani, che invece rispondeva così al laicismo che lo portava in trionfo: «Ma che dei vostri! Io sono un prete e basta! In che cosa la penso come voi? Questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica “L’Espresso”. E la comunione e la Messa me la danno loro? Devono rendersi conto che loro non sono nella condizione di poter giudicare e criticare queste cose. Non sono qualificati per dare giudizi. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono». Don Gallo ha invece sempre cercato l’applauso del mondo, mai prendendo le distanze da chi lo usava come clava contro Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Favorevole a tutto ciò a cui papa Francesco è contrario, dall’aborto all’eutanasia. Favorevole al Papa gay e alla farfallina di Belen, perché «il Paese vuole vedere le gambe e il sedere», favorevole al matrimonio omosessuale salvo poi legare l’omosessualità alla pedofilia: «Il prete omosessuale deve poter essere libero di esprimere la sua identità e la sua sessualità, altrimenti si reprime e arriva alla pedofilia». Una frase omofoba e violenta, questa sì, che però non ha provocato alcun scandalo, nessuna protesta da parte omosessuale, nessun anatema sui media. Si provi a pensare cosa sarebbe successo se a pronunciarla fosse stato un qualsiasi altro sacerdote.

Orgoglioso comunista e partigiano, la società secolarizzata lo ha incredibilmente sempre sostenuto nella sua continua violazione della laicità: da sempre immanicato con il potere politico genovese e non solo, sosteneva platealmente la rappresentanza che più si avvicinava alla sua ideologia politica tanto da essere definito dai quotidiani della destra il «king maker del centrosinistra». Benediceva l’assalto violento alla Mondadori del 2010, cantava “Bella ciao” al termine della S. Messa, sprecava consigli politici ai politici («avevo incontrato Marta Vincenzi in dicembre e le avevo consigliato di non candidarsi alle primarie», diceva), ma mai nessun giornalista del “Fatto”, nessun Marco Politi ebbe mai nulla da ridire per questa pesante e continua ingerenza, mentre gli ipocriti si stracciano le vesti se il card. Bagnasco consiglia semplicemente di votare tenendo presente «i valori che saranno a fondamento della vita». La laicità evidentemente possono violarla soltanto i sacerdoti antipapisti.

Fanatico di Che Guevara più che di Gesù Cristo, il suo motto è racchiuso in questa frase: «La Chiesa si dovrebbe invece convincere che viviamo in un villaggio post cristiano. Spero che abbia il coraggio di cambiare qualcosa», ovvero la Chiesa deve abbandonare le sue posizioni e farsi dettare l’agenda dagli uomini, come se Gesù avesse detto: “Ah, la maggioranza degli ebrei non mi riconosce come Messia? Allora cambio e dico qualcosa di diverso». Ma questa è una posizione atea che non riconosce nella Chiesa un’autorità al di sopra del contingente scorrere del tempo, significa negare l’autorità del Pontefice, del tutto legittimo ma non per un prete cattolico. Per questo sono nel giusto coloro che lo accusano così: i suoi contenuti “non sono religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti”.

Questo è il nostro giudizio sul personaggio pubblico don Andrea Gallo, In ogni caso rimane comunque ben presente un riconoscimento di stima per tutte le persone che ha cristianamente aiutato. Arrivederci don Andrea!

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