Il relativismo può essere assoluto?

Relativismo 
Don Anderson Alves*
*dottorando in Filosofia
 
 
da Zenit.it 20/02/13
 

In un testo precedente ci siamo chiesti se sarebbe stato possibile conciliare il relativismo con l’ateismo. Secondo il parere di tre famosi atei (Nietzsche, Adorno e Horkheimer), l’ateismo negando l’origine della conoscenza e acquisendo come dato di verità l’inesistenza di Dio, cade in un’insuperabile contraddizione (M. Horkheimer e Th. Adorno, “Dialettica dell’illuminismo”, Einaudi, Torino 1966).

Chi nega l’esistenza della verità, non potrebbe neppure, infatti, affermare che Dio non esista. Chi si sforza molto nel conciliare relativismo con ateismo, pone l’ateismo in maniera dogmatica quale fondamento del relativismo e costruisce un sistema di pensiero in cui il punto di partenza è proprio la negazione di Dio. E da questa verità pressoché “divina”, fonda un relativismo morale e cognitivo radicale.

Un pensatore che pose in stretto collegamento l’ateismo con il concetto di verità fu Friedrich Nietzsche, il quale venne a considerarsi “ateo per istinto”. Certamente il suo ateismo volontarista aveva come conseguenza affermare un forte relativismo in cui la verità era come “un esercito di metafore, metonimie”, “illusioni di cui non si tenne presente proprio della natura illusoria”, “monete dall’immagine sbiadita” (F. Nietzche, “Sobre verdade e mentira no sentido extra-moral”, ed. Hedra, São Paulo 2007). In un altro testo abbastanza famoso, Nietzsche osservava in maniera interessante: “temo che non potremmo mai allontanarci da Dio poiché crediamo ancora nella grammatica” (F. Nietzche, “Crepúsculo dos Ídolos”, ed. Companhia das Letras, São Paulo 2006). In tal modo l’ateismo radicale dovrebbe portarci verso una società senza scienza, senza spiegazioni finali, una società nella quale l’uomo sarebbe solo in grado di riconoscere i suoi propri stati d’animo (sensazioni).

Tuttavia ciò prende le mosse da un’affermazione con valore di verità assoluta: “Dio è morto, continua morto, noi lo abbiamo ammazzato” (F. Nietzche, “A Gaia ciência”, ed. Hemus, Curitiba 2002, p. 134). Il teocidio sarebbe in fondo l’atto supremo di una volontà alla ricerca di un’autonomia assoluta e non piuttosto di una dimostrazione razionale; un gesto che porterebbe con sé un relativismo radicale, e non certo assoluto. È indiscutibile che oggi molti pensino che il relativismo sia il fondamento dell’ateismo, però ciò si deve ad un modo superficiale di approccio al problema. Se il relativismo è totale, se non c’è alcuna verità, altrettanto impossibile sarebbe quella verità che sostiene che Dio non esista. Perciò, di modo sorprendente, lo stesso ateismo pone limiti al relativismo. In altre parole, può anche esistere un ateismo relativista, cioè un ateismo a partire dal quale si deduce il relativismo, ma non un relativismo dal carattere ateo.

È dunque impossibile un relativismo assoluto? Poniamoci la domanda in maniera diversa: può essere vero che non esiste verità alcuna? Ci sono solo due possibili risposte: “Sì, è vero che non c’è nessuna verità”. Chi afferma questo, si rende conto, forse incoscientemente, che ci sarebbe pure qualche verità. Se qualcuno rispondesse invece: “No, non è possibile esser vero che non esista verità alcuna”, di certo starebbe usando meglio la propria ragione e troverebbe una risposta logica. In un modo o nell’altro, la conclusione è la medesima: non può esistere un “relativismo assoluto”, la verità fa sempre parte del nostro pensiero e del nostro discorso.

La conseguenza di tutto ciò è che, per incredibile che sembri, il relativismo può solo essere relativo, una volta che si riduce ad essere unicamente parziale. Ciò accade perché è sempre necessario accettare l’esistenza di una verità, di qualcosa che può essere conosciuta. Un certo tipo di relativismo può essere accettato attraverso opinioni che sono affermazioni di un qualcosa con scarso fondamento, facendo sì che quando ciò venga valutato emerga il timore che l’affermazione contraria sarebbe in realtà quella vera. Però non tutto nella nostra comunicazione risulta essere una semplice opinione. Aristotele diceva che, essendo la verità una realtà primaria del nostro pensiero, chi nega la verità, l’afferma. Ossia chi nega che la verità esista, è consapevole di cosa sia, affermando che è verità la sua non esistenza, cioè una contraddizione in termini.

Un altro modo di sfuggire al compromesso con la verità sarebbe quello di far propria la posizione scettica, quella secondo cui non sarebbe possibile né affermare come neppure negare la verità. Chi si pone in questa prospettiva si libera del linguaggio e della “grammatica”, facendo sì però che tutto ciò comporti una conseguenza nefasta: non negare né affermare nulla, lascia l’essere umano trasformarsi in qualcosa di simile ad una pianta, con cui non sarebbe educato discutere. Ragion per cui il relativismo può solo essere applicato a certe affermazioni e mai a tutte. La verità non può mai essere esclusa dalla vita e dal linguaggio umano, a meno che qualcuno non abbia intenzione di vivere come un vegetale. Friedrich Nietzsche poté dire soltanto che la verità è “un esercito di metafore”, “un’illusione”, “una moneta senza valore”, proprio perché sapeva perfettamente cosa sarebbe una metafora, un’illusione, una moneta con valore. Negare la verità implica accettarla, così come negare Dio implica presupporre la sua esistenza.

Ecco perché dobbiamo a questo punto porci la scomoda domanda: cos’è la verità? Platone diceva che “vero è il discorso che dice le cose così come sono” (Platone, “Crátilo” 385 b; cfr. anche Sofista, 262 e ss). E Aristotele affermò una cosa tanto semplice quanto essenziale: “Negare quello che è, e affermare quello che non è, è falso, poiché affermare ciò-che-è e negare ciò-che-non-è, è la verità” (Aristotele, “Metafísica”, IV, 7, 1011 b 26 e ss.). La verità si afferma quando il nostro discorso esprime ciò che le cose davvero sono. In che senso quindi può essere accettato il relativismo? Diamo qui una risposta solo iniziale, per approfondire il tutto in un’altra occasione. Ciò che importa adesso è chiarire bene a cosa giungiamo: il relativismo non può essere assoluto, solo può essere, per incredibile che sembri, relativo.

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E anche questa volta l’omofobia non c’entra nulla…

OmofobiaSiamo tutti in prima linea a combattere gli episodi di omofobia e di discriminazione verso le minoranze (tutte, e non solo quelle color rosa), ma occorre opporsi anche a coloro che vogliono strumentalizzare queste tragiche vicende per arrivare ad ottenere una legislazione per i matrimoni e adozioni omosessuali.

Nel gennaio scorso, ad esempio, è stata diffusa la notizia del suicidio del giovane Andrea, studente 15enne di Roma, evento che la lobby gay ha subito cercato di strumentalizzare. «Si è ucciso perché veniva vessato in quanto omosessuale», ha subito detto Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center. La notizia è stata sui media per giorni, poi si è poi saputo che Andrea non era né omosessuale né vittima di episodi di bullismo.

In questi giorni un’altra storia molto simile: uno studente sedicenne di Roma ha tentato il suicidio gettandosi dal terzo piano dell’Istituto Tecnico Nautico “Colonna”. I giornalisti falchi si sono subito lanciati sulla nuova preda, inventandosi anche delle frasi che avrebbe scritto sulla discriminazione che riceveva in quanto gay: “Sedicenne si getta dalla finestra a scuola: «Deriso perché gay, non ce la faccio più»” scrive il “Messaggero”. “Il padre lo umilia perché gay. Sedicenne si lancia dal balcone”, si legge su “La Stampa” e lo stesso copione appare su “Repubblica”; “Il Corriere della Sera”, “Il Fatto quotidiano” ecc. Su altri quotidiani si sprecano invece interviste a genitori di omosessuali che incredibilmente si lamentano con i media perché si parlerebbe troppo poco di omosessualità!!

Come al solito il giorno dopo cambia tutto (discorso a parte per il TG3 che invece insiste con la sceneggiata): gli inquirenti hanno accertato che sul ragazzo non c’è mai stato bullismo o atti di omofobia, lui stesso ha dichiarato: «Mai preso di mira per il mio orientamento sessuale». Non risulta nemmeno un’ostilità da parte del padre, dato che i due non si vedono da dieci anni, tanto che il pm Eugenio Albamonte ha escluso l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. Il ragazzo ha detto: «Il bullismo non c’entra col mio gesto, è stata colpa di un malessere interiore, delle mie insicurezze. A pochi avevo confidato la mia omosessualità. Non posso far sentire sui miei compagni il peso del mio gesto. Loro non c’entrano. Semmai ci ha diviso una sorta di reciproca indifferenza. Loro con i loro interessi, moto sigarette e uscite di gruppo, e io, sempre più introverso, con i miei, internet, lo studio, i miei silenzi. Ho legato solo con due o tre compagni di classe. Con loro sì mi confidavo. Non sono stato lasciato solo insomma. Al massimo avrebbero potuto intuire la mia inquietudine». Una cosa comune a tanti ragazzi insomma, anche se la spiegazione del giovane porta alla memoria le parole di Simon Fanshawe, importante scrittore omosessuale e intellettuale inglese, secondo cui il malessere e il disagio di molti omosessuali non dipende dall’omofobia, ma dallo stile di vita gay.

Nemmeno questo allora è un caso di omofobia, rimane tuttavia la disinformazione costante dei media e la continua pressione sull’omofobia, non per reale preoccupazione verso gli omosessuali (altrimenti dovrebbero prestare la stessa attenzione maniacale anche a chi viene discriminato in quanto obeso, basso, timido, con i capelli rossi ecc., come sottolinea giustamente il sociologo Giuliano Guzzo), ma con l’unico obiettivo di arrivare al matrimonio omosessuale attraverso un ricatto sentimentale. In questa direzione vanno le finte aggressioni omofobiche orchestrate da esponenti omosessuali, come quella di Charlie Roger, Joseph Baken, Alexandra Pennell ecc. Se si analizzano gli studi sull’omofobia, inoltre, si scopre che vengono quasi sempre elaborati da attivisti omosessuali e risultano essere privi di rigore nella metodologia e analisi dei dati dell’indagine, come è accaduto recentemente in Spagna.

Eppure non c’è alcun legame vero tra l’omofobia e l’assenza di un riconoscimento giuridico delle relazioni omosessuali, come abbiamo mostrato. Chi persiste su questa strada ha evidentemente interessi ideologici. Lo ha ben spiegato Giancarlo Cerrelli, vicepresidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani: «Alcune forze culturali e politiche, che lavorano da qualche tempo, per rivoluzionare anche in Italia l’istituto familiare, hanno compreso che, per arrivare al matrimonio gay nel nostro paese, serve una procedura più articolata di quella attuata in altri stati, in quanto in Italia si riscontrano più resistenze che altrove. Il primo step è l’approvazione in tempi rapidi della legge sull’omofobia. Una tale legge appare del tutto inutile vista anche l’esiguità dei casi denunciati (si pensi che al numero verde per la segnalazione dei casi di omofobia presso l’Unar, Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali i casi segnalati nel 2012 sono stati soltanto 135); ma soprattutto una tale legge è inutile, perché il nostro codice penale prevede già, per eventuali abusi in tal senso, il reato di ingiuria e sanziona chi lede l’onore e il decoro di una persona (art. 594), la diffamazione (art. 595), la diffamazione per mezzo stampa (art. 596 bis) e, inoltre, prevede l’aggravante comune per aver agito per motivi abietti o futili (art. 61)».

Il vero scopo di questa attenzione spasmodica all’omofobia è allora quella «di voler eliminare gli ostacoli posti da eventuali oppositori sulla strada dell’approvazione di una disciplina sulle unioni gay. In poche parole la legge sull’omofobia avrebbe un carattere intimidatorio nei confronti di chi osasse opporsi alla strategia che vuole portare, finalmente, all’approvazione dei matrimoni gay». Si arriva così al secondo step, una legge che riconosca i diritti civili alle unioni tra persone omosessuali che aprirebbe le porte al terzo step: «questa fase è soltanto un passaggio per giungere al vero obiettivo previsto dal terzo step: il matrimonio tra omosessuali e l’adozione dei minori da parte di questi. È successo così in Francia, con i Pacs (Patti civili di solidarietà), approvati nel 1999, per giungere, dopo qualche anno, al matrimonio tra omosessuali e al loro diritto di adottare minori».

La redazione

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La Chiesa cattolica dice tanti sì

Papa Francesco 
 
di Francesco Agnoli*
*saggista e scrittore

 
da Il Foglio, 9/05/13
 

Recentemente papa Francesco, in una delle sue prediche a santa Marta, ha affermato che la Chiesa è la comunità dei sì, perché nasce dall’amore di Cristo. Ha nello stesso tempo criticato l’atteggiamento dei puritani, il moralismo fine a se stesso, per poi aggiungere: “E’ una comunità dei sì, e i no sono conseguenza di questo sì”. Infine ha affermato che la comunità cristiana che vive nell’amore, chiede perdono a Dio dei suoi peccati, perdona le offese e “sente l’obbligo di fedeltà al Signore di fare come (dicono) i comandamenti”.

A chi scrive sembra che queste puntualizzazioni siano di grande importanza. Il mondo, infatti, tende a leggere la morale della Chiesa come un no, su tutto. Ogni intervento in cui si dica no, viene letto dai media con le solite categorie, per le quali la Chiesa “fulmina”, “scomunica”, “tuona”, opponendo, insomma, ad ogni cosa, la sua testarda negazione. La reazione di molti credenti rischia allora di essere, erroneamente, di due tipi: chi spiega, i più, che non bisogna più dire no, che bisogna “aprirsi”, “aggiornarsi”, viaggiare con il mondo; e chi, al contrario, ritiene che l’atteggiamento da tenere sia quello di un moralismo rigido e un po’ puritano.

La Chiesa, invece, è la comunità dei sì, ed è da questi sì, giova ribadirlo, che conseguono dei no. Il di Maria è all’origine della storia della salvezza; il alla volontà del padre, quale che essa sia, è il cuore della preghiera insegnata da Cristo (fiat voluntas tua); il è il cuore del matrimonio, scelta di amare per sempre; il è, ancora, il motore della carità e della missione. E’ la cultura dominante, relativista ed egoista, che, al contrario, mentre accusa la Chiesa di dire sempre no (si veda il libro di Marco Politi, con prefazione di Emma Bonino, “La chiesa dei no”), negando l’amore e il Dio della vita, oppone il suo no pervicace a ciò che è bello e buono. L’egoismo, la vendetta, la prepotenza, sono dei no. E l’aborto, il divorzio, la droga… tutte le altre libertà proposte dai radicali di ogni tipo, cosa sono, se non, anch’essi, un no, pieno, sonoro, alla vita? Un no al disegno di Dio per ognuno di noi? L’esito della cultura odierna è appunto, il no: il nichilismo.

Non serviam, è, infatti, la affermazione di Lucifero, al punto che Arrigo Boito, nel suo “Mefistofele”, prendendo spunto dal Faust di Goethe, gli fa dire: “Son lo spirito che nega/Sempre tutto…”. Mefistofele nega la bellezza della vita, l’importanza del sacrificio, l’ordine della realtà, la struttura divina della famiglia, il senso dell’esistenza terrena, l’orizzonte trascendente… Il Dio dei cristiani, invece, ci chiede di dire sì, alle circostanze, alle persone, al bene che incontriamo ed anche ai sacrifici che ci sono richiesti. Promettendoci la felicità non nell’aldilà, soltanto, ma anche su questa terra: “il centuplo, quaggiù, e l’eternità”. Non è un caso dunque che nella Rivelazione Dio si definisca per affermazione, non per negazione: “Io sono colui che è”; “Sono la Via, la Verità e la Vita….”.

Il sì, però, comporta anche l’esistenza del no; il Bene, nella caducità terrena, la possibilità del male. Non è sempre facile dire sì, perché ci è spesso offerta la scorciatoia, la fuga, l’illusione della facilità del no. Per questo la Bibbia è Rivelazione in due parti: nell’Antico Testamento Dio dà i comandamenti: alcuni sono positivi (“Io sono il Signore Dio tuo…”; “Onora il padre e la madre”), altri, i più, sono negativi (“non uccidere, non rubare…”). Dio, mi sembra, agisce con l’umanità come si fa con un figlio: finché è piccolo, occorrono dei no, chiari, precisi; poi il figlio cresce, incomincia sempre più ad avere una sua personalità, una sua libertà, l’uso della ragione. E allora i genitori non possono più limitarsi ai no: devono dargli le ragioni profonde di quei no; devono cioè indicargli uno stile di vita, dei modelli, una tensione ideale, una meta. E’ l’ora del sì, che costruisce la persona. Ai giovani si mostrano le cime, non ci si limita ad additare le valli; si spronano al bene; si indicano gli eroi e i santi… senza dimenticare il male, conoscere il quale, come nell’Inferno di Dante, serve solo a renderne ancora più evidente la bruttezza.

Così al Vecchio Testamento, segue il nuovo, in cui tutta la legge è racchiusa nell’unico comandamento, tutto in positivo, dell’Amore: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Matteo 22,37-40). Nella pedagogia dei grandi santi educatori, si ritrova questo stesso stile di Dio. Santa Teresa Verzeri, ad esempio, o san Giovanni Bosco prendevano per mano i loro discepoli, insegnando loro il timore, e, soprattutto, l’amore di Dio. Perché, come spiegava un tempo il catechismo di san Pio X, così semplice e chiaro, Dio accetta il nostro “amore servile”, ma desidera che questo amore diventi “filiale”. Vuole che arriviamo a non fare il male, non solo per un giusto timore, della creatura verso il Creatore, ma per amore Suo. Solo così si spiega il detto di sant’Agostino: “Ama, e fai ciò che vuoi”.

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La religione nello spazio pubblico: riflessioni di un non credente

Crocifisso classe 3Tra gli obiettivi di UCCR, secondo la nostra presentazione, c’è quello di essere un luogo di confronto con chiunque abbia interesse ad un dialogo, indipendentemente dalla sua posizione esistenziale. Questo avviene già (e con toni spesso fin troppo accesi) nei commenti che seguono ogni articolo, ma abbiamo comunque desiderato ospitare la riflessione di Stefano Colombo, un nostro amico agnostico nonché magistrato ordinario del Tribunale di Milano, su varie tematiche, chiedendogli di aiutarci ad individuare i punti in comune che ci sono tra noi ma di segnalare anche le eventuali divergenze per cercare di affrontarle, anche di risolverle magari, nel pieno rispetto delle rispettive opinioni con lo scopo di un cammino assieme. Per questo, chi volesse rispondere pubblicamente alla riflessione di Stefano (chiunque, credenti o non credenti) può scriverci a redazione@uccronline.it, prenderemo in esame il testo per verificarne la possibile pubblicazione.

 
di Stefano Colombo*
*magistrato (agnostico)

 

Queste brevi riflessioni circa il ruolo che la fede e l’appartenenza ad una religione ricoprono attualmente nella società, prendono spunto dalle parole del cardinale Camillo Ruini, pronunciate in occasione della lectio magistralis alla Lettura annuale 2013 di Fondazione Magna Charta Roma, del 6 Maggio 2013.

Personalmente, non sono credente, nel senso che non sono affatto certo, né tantomeno convinto, dell’esistenza di una divinità dotata di sentimenti praticamente analoghi a quelli umani, qual è il dio delle grandi religioni. D’altra parte, non sono neppure ateo, non essendo in grado di affermare, in senso opposto, neanche l’inesistenza di un dio che abbia le caratteristiche di cui sopra, che sia in grado di amare le proprie creature e che si preoccupi del loro destino.

Quando si parla di credenti o non credenti, è fondamentale distinguere l’oggetto del credere. Personalmente, ritengo che il mondo, la natura e gli esseri umani che ne fanno parte non possano essere frutto di un mero caso o di una coincidenza. Non mi sembra convincente pensare che la mera probabilità abbia determinato non soltanto le condizioni indispensabili affinché si generasse la vita sulla Terra, ma anche la complessità biologica ed anatomica animale e umana. A maggior ragione, mi sembra impossibile spiegare – almeno, in maniera soddisfacente – l’intelligenza e, soprattutto, la sfaccettata psicologia dell’uomo, liquidandole come frutto di un semplice caso. Ritengo, quindi, di poter almeno pensare che ci sia una ragione, una forza o persino un’intelligenza alla base della vita e del mondo.

 Le grandi religioni, sia politeistiche che monoteiste, compiono un passo ulteriore, perché, a questa intelligenza o forza creatrice e creativa, aggiungono delle connotazioni ulteriori che, sostanzialmente, la “umanizzano”. E, così, le divinità greche provano emozioni e sentimenti umani, come il rancore, la tenerezza e la gelosia, gli aesir nordici si ubriacano e si massacrano come guerrieri, le divinità dell’induismo personificano i sentimenti positivi e negativi delle persone ed, infine, il Dio delle tre grandi religioni monoteiste assume le caratteristiche di un “padre” per le sue creature. Personalmente, non riesco a credere all’esistenza di quest’ultima tipologia di divinità e, quindi, non riesco a credere al Dio della Bibbia e dei Vangeli. E’, però, accattivante ed affascinante l’idea che esista una Forza intelligente che non si limita solo a creare ma giunge persino ad Amare le sue creature. L’idea di Dio, così come proposta dalla religione cristiana (in senso lato), è molto bella, per dirla con parole semplici. Quindi, il fatto di non credere non significa smettere di cercare. Mi piace affermare che, nel mio caso, delle tre virtù teologali, mi difetta la Fede ma possiedo la Speranza.

Penso che anche colui che si dichiara assolutamente ateo, il più ateo di tutti, alla fin fine, dentro di sé, è alla ricerca di un senso, di una ragione giustificativa che vada oltre il mero caso e la semplice probabilità. Se non altro, per spiegare l’unica frontiera che il progresso umano non è (ancora?) riuscito a valicare e che, in definitiva, impedisce agli esseri umani di trascurare completamente i pensieri trascendenti e di dedicarsi soltanto ad un totale materialismo, ovvero la morte. In un certo senso, è molto facile negare in toto l’esistenza di un dio, mentre si è giovani e in salute. Quanti, però, si convertono nella malattia o in punto di morte? Proprio considerando questa ricerca incessante verso dio (userò l’iniziale minuscola per riferirmi ad una divinità che non sia necessariamente quella della religione cristiana, cui, invece, farò riferimento come Dio, con la maiuscola), s’inseriscono le parole del Card. Ruini circa il ruolo della fede nella società attuale.

Premetto che concordo praticamente in tutto con il pensiero del Cardinale. La fede ha necessariamente una dimensione privata ed una dimensione “collettiva”. Anche chi segue dottrine filosofico-religiose più legate all’Io e, quindi, più intime e personali,  come i più recenti movimenti New Age, ricerca altre persone che abbiano le stesse convinzioni per condividere esperienze, pratiche ed idee. La condivisione delle proprie convinzioni religiose ed, eventualmente, anche dei propri dubbi, con altri “simili” non può che aiutare a trovare ed a mantenere una fede. Se, poi, la propria fede si basa non soltanto sulle proprie convinzioni personali e/o emozioni ma, com’è il caso delle grandi religioni monoteistiche, su di una Rivelazione, la dimensione collettiva assume grande importanza, perché, a fronte delle difficoltà e delle “prove” che la vita ci mette dinanzi, il supporto di altri “fedeli” e, soprattutto, di “guide spirituali” (che, nel caso della religione cattolica, saranno ovviamente il Papa e gli altri sacerdoti) può risultare fondamentale.

Ribadendo quanto ho affermato sopra, ovvero che ogni essere umano, ancorché si dichiari più o meno ateo, deve, superficialmente o in modo più approfondito, fare i conti con la ricerca di un “senso” e di un “significato” per la sua vita, ne consegue il ruolo essenziale che giocano le religioni e, più in generale, la fede, anche nella società moderna. Ecco perché è irrimediabilmente sbagliato pretendere di cancellare ogni traccia di religione e di fede dalla sfera pubblica, per relegarla ad una sfera unicamente privata. Non solo è sbagliato, ma è fondamentalmente impossibile. Perché è impossibile eliminare le domande che nascono nel cuore dell’uomo circa il senso della propria vita e, soprattutto, del proprio destino. E’ impossibile eliminare, in altre parole, quella ricerca verso dio (o verso il trascendente) che è propria di qualsiasi uomo. Almeno, fino a quando non saremo in grado di dare risposte concrete e indubitabili su questi interrogativi e fino a quando non saremo in grado di sconfiggere e di superare l’invecchiamento e la morte. Chiarito, quindi, che la fede ha una dimensione necessariamente pubblica e collettiva, vorrei evidenziare una bella differenza che ha colto e messo in luce il cardinal Ruini. La differenza tra libertà religiosa ed imposizione di una religione.

Con l’editto di Costantino, sottolinea il cardinal Ruini, è stato finalmente concesso, dopo tanto spargimento di sangue, ai sudditi dell’Impero Romano di professare liberamente la fede cristiana. E’ stata introdotta, in altre parole, la prima forma embrionale di libertà religiosa, intesa quale libertà di professare una propria fede o un proprio culto, non imposto dallo Stato. L’editto di Teodosio, all’opposto, ha tentato di obbligare tutti i sudditi dell’Impero a professare la religione cristiana. Ha tentato, cioè, l’imposizione di una religione. Ogni fede (ed ogni religione), in quanto tale, ha la pretesa di essere “quella giusta” o la “verità”, altrimenti non potrebbe definirsi “fede” ma, al massimo, “speranza” o “convinzione dubbiosa”. Fa bene, quindi, chi professa una religione a sostenere che il proprio credo sia quello “giusto” o “vero”. Il problema nasce quando si vuole comunicare questa “verità” ad altre persone che, invece, non la condividono. L’idea che tale “verità” vada inculcata con qualsiasi mezzo finisce con il determinare, inevitabilmente, violenze e soprusi.

Alcune voci (fortunatamente isolate), ad esempio, agognano il ritorno ad uno Stato Teocratico, in cui la religione (in questo caso, cattolica) con i suoi conseguenti ed inevitabili dogmi, venisse imposta per forza di Legge. Un po’ come accade, purtroppo, in alcuni Stati Islamici. Poniamoci, però, un interrogativo: al Dio Padre di Gesù farebbe davvero piacere essere adorato da milioni di persone solo perché coercite da un potere esterno? O preferirebbe, invece, l’adorazione spontanea di mille persone, sinceramente convinte del loro credo? Ecco perché lo Stato Italiano si pone come Stato Laico. Esiste un concetto, però, di “laicità all’italiana” che, in questo caso, non ha connotazioni negative ma assolutamente positive. In base agli importanti dettami della Costituzione Italiana sulla questione (art.li 7, 8 e 19), lo Stato Italiano non si pone come indifferente alla dimensione religiose, bensì come equidistante dai vari culti e, al contempo, come supporto per il culto, inteso come manifestazione della personalità umana (art. 2 Cost.). In Italia, laicità non significa, quindi, che lo Stato sia totalmente indifferente alla dimensione religiosa ma indica, molto più correttamente, l’imparzialità dello Stato – Istituzione rispetto ai diversi culti e religioni.

Lo Stato Italiano, quindi, concede la devoluzione di una parte delle proprie imposte a varie confessioni religiose (con cui ha stipulato apposite Intese) e considera giorni festivi alcune ricorrenze proprie della religione, in questo caso, cattolica. Così, nulla vieta allo Stato Italiano di agevolare o finanziare l’apertura o il mantenimento di luoghi di culto o di formazione, quali, ad esempio, le scuole private, dove venga dato più spazio all’insegnamento di una religione rispetto alle scuole pubbliche. Il risvolto della medaglia, per un credente, consiste nel fatto che lo Stato dovrà trattare in egual modo anche le religioni diverse dalla propria, considerandole tutte “ugualmente vere” ed “ugualmente meritevoli di tutela”. Così, un musulmano in Italia avrà certamente diritto a professare il suo credo e ad avere un proprio luogo di culto ma, al contempo, non potrà pretendere che questi diritti siano vietati ad un cristiano.

Il cristianesimo rimane, ancora, la religione più fortemente presente e considerata in Italia, anche per ragioni storiche e culturali. Eppure, lo Stato Italiano tollera anche religioni, culti o, comunque, convinzioni che sono del tutto incompatibili con la religione cristiana. Il satanismo, ad esempio, non è punibile né sanzionabile a livello giuridico (salvo qualora dovesse sfociare in un reato) e l’ateismo (che, spesso, si sfoga contro il cristianesimo) non solo è ammesso e tollerato, ma è anche ben rappresentato a vari livelli, culturale, sociale e politico. In tutto questo discorso, si colloca, poi, il processo democratico, cui fa riferimento anche il cardinal Ruini. E’ chiaro che, in una società dove tutte le voci sono considerate come equipollenti, per la risoluzione dei problemi occorre trovare una risposta che sia condivisa dai più, ovvero da una “maggioranza”. Non significa, ovviamente, che si possa configurare una “dittatura della maggioranza”, ma è necessario che si costruisca un discorso, una dialettica tra le varie posizioni che, alla fine, porti ad adottare, comunque, una soluzione concreta. Anche chi professa una fede ha, ovviamente, il diritto di partecipare a questo processo dialettico, così come chi si dichiara ateo o agnostico. Il punto cruciale è che, giunti al dunque, occorre prendere una soluzione che, nel bene o nel male, lo Stato italiano dovrà poi mettere in pratica. E, qualcuno, deve saper perdere. Questo vale per tutte le parti in gioco. Nel dialogo a proposito dei numerosi temi etici, ormai così pressante, si affrontano “schieramenti” diversi, ciascuno portatore di soluzioni opposte.

Credo che non sia utile sostenere con la violenza (non solo fisica, ma anche verbale o “mediatica”) le proprie idee. Credo, invece, che sia importante esporre le ragioni fondanti delle proprie convinzioni, per convincere altre persone e per creare, quindi, una “maggioranza” attorno ad una determinata soluzione. I credenti e, segnatamente, i cattolici hanno gli stessi diritti e gli stessi poteri di tutti gli altri cittadini italiani, nel “gioco dialettico” relativo ai temi etici. Anche attraverso il grande risalto mediatico che ha la Chiesa Cattolica, hanno la possibilità di far sentire la propria voce e di esporre valide ragioni argomentative. Sull’altro piatto della bilancia, ci sono, ovviamente, i portatori di interessi opposti, anche loro dotati di grandi mezzi e di forte volontà per convincere circa la bontà delle loro tesi. Nasce, quindi, una sfida appassionante in cui ogni persona è chiamata a giocare attivamente, a far sentire con forza le proprie convinzioni e le proprie idee. E, come in ogni sfida, si può vincere o si può perdere. Dato l’ambito in cui sto scrivendo, mi riferisco in modo particolare a chi si dichiara cattolico ma, ovviamente, il discorso vale per chiunque è portatore di una fede o di un ideale (anche per l’ateo o il “laicista”, dunque). Ogni problematica crea una serie di “fazioni” che propongono soluzioni diverse. Questo vale, a maggior ragione, per questioni molto vicine alla vita umana, come i cosiddetti “temi etici”. Se non prevale immediatamente il proprio punto di vista, penso che sia quanto mai opportuno impegnarsi ancora di più.

Come ho scritto in apertura, ci sono alcune persone, dichiaratamente cattoliche, che vorrebbero un ritorno al “pugno di ferro”, dove un’Autorità indiscutibile ed invincibile imponesse, con l’uso della forza, tutta una serie di determinate regole (dal divieto di divorziare all’incriminazione assoluta dell’aborto fino al carcere per gli omosessuali). Trovo che questo atteggiamento sia, in primo luogo, stupido e inutile perché non tiene conto del dato di fatto, ovvero  l’esistenza di una Carta Costituzionale e di uno Stato ormai definitivamente democratico e pluralista. In secondo luogo, lo ritengo dannoso per la causa stessa, in quanto “minaccia” chi ha idee differenti, invece di convincere della bontà delle proprie ragioni. Una corretta e pacata divulgazione delle proprie idee, invece, può essere la soluzione migliore per “vincere” le proprie battaglie e per realizzare la propria fede anche a livello politico e sociale. Tenendo in considerazione, ovviamente, che il successo non  è assicurato.

A fronte di leggi incompatibili con il proprio credo (per il cattolicesimo, penso, ad esempio, alla legge sull’aborto e sulla fecondazione artificiale), chi professa una fede rimane, comunque, titolare del potere di dissentire e di criticare, anche organizzando manifestazioni di piazza. L’obiezione di coscienza può rappresentare, infine, un utile strumento per consentire a chi professa una fede di non tradire i principi in cui crede, anche se lo Stato Italiano, di volta in volta, dovrebbe farsi carico del compito di garantire, comunque e in ogni caso, servizi o diritti che la Legge riconosce ai cittadini. E, se probabilmente, non è affatto semplice comporre in uno Stato l’infinità varietà di pensieri, convinzioni, religioni e prese di coscienza di ogni essere umano, credo, comunque, che lo Stato Laico (inteso, appunto, come equidistante da ogni religione) sia la soluzione certamente più corretta e più efficace. Basta solo imparare a convivere nel rispetto reciproco, dopotutto.

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La Chiesa cattolica e l’impegno per le donne africane

Programma DreamUn sogno per le mamme africane: è quello a cui tendono Msd Italia e la Comunità di Sant’Egidio. Due grandi sostegni per un solo, grande, traguardo: ridurre il tasso di mortalità materna.

Ed è un sogno, anzi un dream (da cui prende nome l’iniziativa), incorniciato dal pragmatismo dato che, statistiche alla mano, l’obiettivo dovrebbe sfiorare il 75 per cento entro il 2015. Questa è la prospettiva di donne che potranno essere salvate dalla “morte da gravidanza o da parto”. La stima è dell’Organizzazione mondiale della sanità che avverte della crescita di decessi prevista nei prossimi dieci anni .

“Il numero di morti rosa potrebbe salire a tre milioni” contando oltre un milione di orfani l’anno. Il colosso farmaceutico MSD già nel 2011 aveva presentato un progetto di 500 milioni di dollari da investire al vaglio dell’Assemblea generale dell’Onu . Nell’ambito di questo progetto, MSD Italia ha scelto di finanziare,per l’appunto, con 1 milione e 300 mila dollari il Programma “Dream” della Comunità di Sant’Egidio per la prevenzione e il trattamento dell’Aids in Africa. Partito nel 2002 in Mozambico, oggi “Dream” si è esteso ad altri dieci Paesi africani. In 11 anni il Programma “Dream” ha seguito e curato 200mila persone, ha creato 38 centri di cura nei Paesi interessati e 20 laboratori, ha formato personale sanitario, ha ridotto al minimo la trasmissione dell’Hiv da mamma a figlio.

“Dream ha raggiunto traguardi strabilianti”– commenta il direttore esecutivo del Programma, Paola Germano, corroborata dalle parole, di Cacilda Isabel Massango, testimonianza viva della grandezza del progetto; entrata a far parte di questo per essere salvata e divenuta poi attivista dei centri Dream. Cacilda è una trentaseienne mozambicana, che dopo la nascita di sua figlia scopre di essere sieropositiva e con lei anche la bimba; salvata dalle cure di questo progetto d’amore, ha ritrovato fiducia in se stessa e vuol trasmettere la sua esperienza felice ad altre donne. “Quando noi stessi diventiamo protagonisti della nostra cura, dei nostri trattamenti, diventiamo anche persone di riferimento nella società: allora qualcosa cambia e lo sguardo delle persone si fa più rispettoso”– si esprime così la donna strappata alla morte, tornata alla vita. Una di quelle 275mila salvate; una di quelle che con la forza recuperata salverà altre tre milioni di donne, rendendo “dream” un sogno sempre possibile.

Suggestive le parole di Rose Busingye, infermiera professionale specializzata in malattie infettive e fondatrice del Meeting Point Kampala Association, dove si occupa dei pazienti affetti da HIV/AIDS e altre malattie infettive. L’intervista è stata raccolta quando ancora a guidare la Chiesa c’era Papa Benedetto XVI: «Noi africani ci appoggiamo al Papa perché è l’unico che ci ha sempre difesi e amati. Nessuno qui in Uganda si sente voluto bene da chi polemizza contro Benedetto XVI. Qui la gente muore per le armi, le malattie, la fame, e chi ha fatto qualcosa per noi? Soltanto il Papa. Mentre la borghesia occidentale, che non ha il problema della malaria e della mancanza di acqua, può permettersi di attaccare il Vaticano a prescindere. Dove sono i difensori dei diritti umani quando i bambini africani muoiono di fame o saltano sulle mine?».

Livia Carandente

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Germania: secolarizzazione e occultismo

Occultismo“Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli”, diceva il teologo K. Barth. Più che una massima sembra essere un’evidenza storica dopo l’ubriacatura di secolarizzazione che ha sconvolto il ‘900, triplicando per l’uomo i vitelli d’oro davanti a cui inginocchiarsi (la Razza, il Comunismo, il Nazismo, la Natura, la Scienza, la Politica ecc.) e lasciando oggi le società meno cristianizzate in balia di miriadi forme di spiritualismi vari, esoterismi e pseudoreligioni.

Ne è un caso classico la Germania, ex terra protestante e dunque la più esposta tra i maggiori stati occidentali all’effetto secolarizzazione. Lo Spiegel nel 2011 ha annunciato che nel 2010 vi è stato un picco di persone che ha deciso di uscire dalla Chiesa cattolica (in gran parte dovuto allo scandalo sugli abusi sessuali), ben 180mila, per la prima volta un dato superiore a quanti abbandonano ogni anno quella protestante. Uno studio del 2011 ha invece attestato che la Germania nel suo complesso si trova al di sotto della media europea di “religiosità”, con solamente il 47% della popolazione che afferma di credere in Dio. Ad abbassare tale media è la parte orientale della Germania, la regione al mondo con il maggior numero di non credenti (52,1%). La causa è da ricercarsi nella forte secolarizzazione impressa dal nazismo con l’aggiunta della successiva eredità marxista.

Se dunque la Germania è vista come la testa d’ariete della secolarizzazione occidentale, a confermare la citazione iniziale di Barth è la definizione arrivata in questi giorni di “repubblica dell’occulto”. Il processo di scristianizzazione infatti pare viaggiare in parallelo al giro d’affari legato all’esoterismo, che quest’anno ha toccato quota 20 miliardi, il doppio di dieci anni fa. Un tedesco su quattro è aperto a guaritori, terapie alternative e cure spirituali, oltre il 40% ha un’opinione positiva su astrologia e new age, oltre la metà ha simpatia per l’antroposofia e la teosofia.

Una prova esattamente opposta a questo fenomeno l’ha mostrata nel 2008 lo studio “What Americans Really Believe”, una delle indagini più vaste mai condotte sugli atteggiamenti degli americani verso la religione, mostrando che la religione cristiana tradizionale diminuisce di molto la credulità generale, dai lettori dei tarocchi all’astrologia. Si è notato inoltre che gli irreligiosi e i membri delle denominazioni protestanti più liberali, lungi dall’essere resistenti alla superstizione, tendono ad essere molto più propensi a credere nel paranormale e alla pseudoscienza.

Due altri fenomeni per cui purtroppo la Germania viene citata è la crescente cristianofobia, come segnalato dal sociologo Massimo Introvigne, coordinatore dell’osservatorio della Libertà religiosa del Ministero degli esteri, e la pesante denatalità che secondo l’Ufficio statistico federale tedesco è arrivata ai minimi storici (anche qui).

La redazione

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Contrari ad aborto e contraccezione: non è contraddittorio

Donna incintaFrequentemente i pro-life vengono accusati in modo retorico di criticare l’aborto ma anche la contraccezione. Secondo chi avanza queste accuse, essi dovrebbero invece cercare di prevenirlo favorendo e contribuendo a diffondere contraccettivi e metodi anticoncezionali, magari in modo gratuito.

Ci sono due motivi per cui questa obiezione è errata, il primo di natura etica e il secondo di natura tecnica.

 

Motivo di natura etica: innanzitutto occorre dire che società non ha evidentemente la stessa concezione di “amore” e di “sessualità” di cui invece parla la Chiesa cattolica. Non può esistere alcuna scissione tra i due e la sessualità non è un bene di consumo o una fonte di gratificazione fine a se stessa. Il Magistero della Chiesa individua giustamente nella contraccezione un linguaggio oggettivamente contraddittorio, quello cioè del non donarsi all’altro in totalità: ne deriva non soltanto il positivo rifiuto all’apertura alla vita, ma anche una falsificazione dell’interiore verità dell’amore coniugale, chiamato a donarsi in totalità personale. Solo un amore vissuto come dono totale, anche dal punto di vista fisico, è rispettoso per il coniuge in quanto considerato come termine del proprio dono e non semplicemente come oggetto di godimento. Allo stesso modo il Magistero sconsiglia fortemente i rapporti prematrimoniali perché una unione sessuale, spiega bene padre Maurizio Faggioni ordinario di Bioetica presso la Accademia Alfonsiana, è vera quando l’unione dei corpi simboleggia e compie l’unione delle esistenze e, quindi, esprime una relazione di totale coinvolgimento, di reciproca conoscenza, di corresponsabilità, di condivisione. Il contesto migliore perché ciò avvenga è soltanto nel matrimonio perché solo in esso, inteso come progetto globale di vita, la sessualità può esprimere le due dimensioni fondamentali dell’amore coniugale, la comunione e la fecondità (ovviamente bisogna distinguere i rapporti occasionali da quelli tra fidanzati onestamente impegnati nel loro itinerario verso il matrimonio).

In secondo luogo occorre comunque ricordare che la Chiesa sostiene e aiuta le coppie sposate all’uso dei metodi naturali per la regolamentazione della fertilità, è sbagliato pensare che la Chiesa inviti ad «un’ideologia della fecondità ad oltranza, spingendo i coniugi a procreare senza alcun discernimento e alcuna progettualità. Ma basta un’attenta lettura dei pronunciamenti del Magistero per constatare che non è così» come spiegava Giovanni Paolo II nel 1994. E’ evidente che i metodi naturali non sono intesi come contraccettivi, come viene spiegato qui.

 

Motivo di natura tecnica: come più volte abbiamo mostrato l’uso di contraccettivi non diminuisce affatto il numero di aborti, anzi in parecchi casi lo aumenta. Lo hanno mostrato proprio recentemente i dati diffusi dal Ministero della Salute della Spagna: il 43% (contro il 32%) delle 119mila donne che hanno abortito nel 2011 avevano usato un metodo contraccettivo. Secondo la Fundación Española de Contracepción (FEC) il motivo sarebbe il “cattivo uso” del preservativo ma la spiegazione non risulta esplicativa per cifre così alte e oltretutto proviene da chi ha un’oggettivo conflitto di interesse in gioco.

La causa è molto probabilmente quella riscontrata in tanti altri studi che rilevano esattamente la stessa problematicità. Il dott. Renzo Puccetti proprio su UCCR spiegava che un’ampia offerta di contraccettivi porta facilmente ad assumere il modello comportamentale conosciuto come rational choice model, ovvero la convenienza verso una vita sessuale liberata dalla paura della gravidanza. E’ quello che Edward C. Green, direttore dell’AIDS Prevention Research Project al centro Harvard per gli Studi su Popolazione Sviluppo definisce “compensazione di rischio” parlando dell’HIV: «C’è un’associazione costante, dimostrata dai nostri migliori studi, inclusi i “Demographic Health Surveys” finanziati dagli Stati Uniti, fra una maggior disponibilità e uso dei condoms e tassi di infezioni HIV più alti, non più bassi. Questo può essere dovuto in parte a un fenomeno conosciuto come “compensazione di rischio”, che significa che quando si usa una “tecnologia” a riduzione di rischio come i condoms, spesso si perde il beneficio (riduzione di rischio) “compensando” o prendendo chances maggiori di quelle che uno prenderebbe senza la tecnologia di riduzione del rischio».

 

Abbiamo dunque visto due motivi, che non pretendono certo di essere esaustivi, per cui è fallace la retorica accusa verso chi è contrario sia all’aborto sia all’uso della contraccezione ma è invece aperto alla vita e ad un amore inteso come dono totale di sé, anche nella sessualità.

La redazione

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Il processo Kameneff e la rivoluzione sessuale

Léonide KameneffNel 2006 è stato realizzato il più autorevole studio sulla pedofilia da parte di sacerdoti cattolici condotto da un team di ricercatori del John Jay College of Criminal Justice di New York, la cui conclusione è stata questa: la pedofilia di alcuni preti non è dovuta né al celibato né all’omosessualità, bensì al clima culturale libertario e permissivo degli anni successivi al 1968. 

Sul finire di questo inverno, senza molti clamori, le maggiori testate giornalistiche (vedi articolo sul Corriere del 13 marzo) hanno riferito della sentenza di condanna nei confronti dello psicologo infantile Léonide Kameneff a ben 12 anni di carcere per violenza sessuale, tentata violenza e aggressioni sessuali verso minori. Crimini consumati nello spazio temporale di un ventennio in associazione con altre persone. La sentenza di condanna è stata emessa dalla Corte di Assise di Parigi al termine di un processo drammaticodurato tre settimane nel quale il noto psicologo ha provato a “diminuire” la portata delle sue azioni giustificandole nell’ambito del più generale clima permissivo proprio di una certa cultura post-68. Ancora una volta più ombre che luci sui protagonisti dei rivoluzionari anni 70 del trascorso secolo, quando la rivendicazione di nuovi stili di vita improntati ad una ritrovata libertà e il contestuale rifiuto di quelli già esistenti sembravano precludere ad una nuova era.

Per chi non conoscesse il pensiero e l’opera di Kameneff, precisiamo subito che questo psicologo si è fatto promotore e paladino a suo tempo di un metodo scolastico che coinvolgeva decine di bambini e adolescenti francesi impegnati nell’apprendimento di diverse materie su velieri che solcavano i mari per un anno o più. Chiaramente, giova ribadirlo, ci troviamo di fronte ad una delle più classiche utopie degli anni 70: tantissimi adolescenti dai 10 ai 15 anni sono stati affidati a Kameneff e al suo staff da parte dei loro genitori convinti della bontà di un metodo educativo che fosse alternativo e più adatto a quello in voga nelle anguste scuole borghesi del tempo.

Ma la verità emersa in sede processuale è molto più scabrosa di quanto si possa immaginare in quanto Kameneff e i suoi assistenti plagiavano e abusavano dei bambini che erano stati loro affidati. Quegli stessi bambini, oggi adulti tra i 33 e i 46 anni, che hanno raccontato in tribunale come il loro “educatore” usava entrare nei loro letti, di notte, dicendo loro «Se ti faccio stare bene, è perché non ti faccio niente di male». E i bambini, in molti casi neppure entrati nella pubertà, non osavano deludere il loro maestro di vita e benefattore-orco. Kameneff nel corso del processo ha provato a rievocare queste turpi vicende inquadrandole nell’atmosfera permissiva di quegli anni, quando la pedofilia non era diventata un’emergenza sociale e mediatica e il clima culturale dell’epoca incoraggiava, semmai, a rispettare e assecondare la sessualità dei bambini.

Non a caso, sui velieri da lui approntati si viveva nudi. «Ma bisogna calarsi (sic!) nel contesto, tutti stavano nudi sulle barche all’epoca, adulti e bambini», ha detto Kameneff, autore, tra le altre cose, di un libro-manifesto La scuola senza lavagna dove afferma che «il bambino ha gli stessi diritti e doveri degli adulti, tra i quali quello di vivere la sua sessualità come preferisce». Alla fine di questa squallida storia di violenza ed abusi, la sola riflessione che possiamo fare la prendiamo dalla motivazione della sentenza, nella parte in cui si afferma che: «L’imputato si è reso responsabile di un condizionamento simile a quello di una setta nei confronti di bambini particolarmente vulnerabili, una forma di dominio psicologico usato per soddisfare le sue pulsioni sessuali». Nessuna attenuante dunque per «un’epoca che si pretende permissiva», semmai condanna per un uomo caratterizzato da «una sessualità deviata e profondamente traumatica per le vittime».

Salvatore Di Majo

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Più religiosi, meno depressi

Cattolici cinesiLa religione fa bene anche alla salute psicofisica. Questo ormai è ben noto ai tanti psicologi “seri”, cioè non ideologizzati né aprioristici, che si occupano del benessere delle persone.

La più autorevole conferma si trova nel già tante volte citato Manuale di religione e salute: la metanalisi compiuta su circa 2.800 ricerche scientifiche ha trovato in circa 2/3 di esse effetti positivi della religione nel benessere (psichico, medico e sociale) delle persone, con una minima parte di studi negativi e gli altri inconcludenti.

Uno degli ultimi studi che conferma questo legame positivo è stato pubblicato poco fa, nell’aprile 2013, nella rivista Journal of Affective Disorders. La ricerca esamina 159 pazienti in cura psichiatrica per depressione, e trova che l’avere un credo religioso migliora la risposta al trattamento terapeutico.

Nello specifico, la ricerca ha trovato che l’effetto positivo sarebbe riconducibile a una migliore compliance (leggi còmplaians), cioè la “complicità” tra malato e terapeuta, da parte dei pazienti credenti rispetto ai non credenti. La cosa di per sé non costituisce una novità: già il Manuale aveva trovato che, su 27 studi a proposito, in 15 (56 %) la complicità è positiva (migliore nei credenti), mentre in 4 (15 %) è negativa.

Vale forse la pena di allargare lo sguardo rispetto alle conclusioni assodate dallo studio: il rischio è di arrivare a dire “la religione fa bene solo perché…”. Il benessere psicofisico maggiore dei credenti è dovuto a diversi motivi:

* chi crede sa bene che la vita ha un senso. E avvertire un senso nella vita implica vivere la vita meglio, con pienezza e gusto (vedi la logoterapia di Frankl);

* chi crede sente l’amore di Dio su di sé. E sentirsi amati è ovviamente una cosa positiva (vedi l’attaccamento religioso di Kirkpatrick);

* chi crede avverte la religione come un’esperienza di picco, capace di subordinare gli altri bisogni umani a un ideale più grande, altruista verso gli uomini e trascendente verso Dio (vedi l’esperienza di picco di Maslow);

* chi crede sa di avere una comunità di riferimento e di cui fa parte, dalla quale eventualmente attingere informazione, sostegno e risorse (vedi il paradigma socio-costruttivista, che riconduce il comportamento umano all’ambiente sociale).

Tutto questo rimanendo, per così dire, a livello scientifico, dato che chi crede sa bene che al proprio benessere contribuisce lo Spirito Santo con i suoi doni: amore, gioia, pace, pazienza… Elementi che ovviamente la ricerca scientifica non può (per definizione) accertare.  In definita: credere fa bene alla salute. E di questo aspetto positivo, indubbiamente fondamentale per la nostra società, purtroppo non se ne parla mai abbastanza.

Roberto Reggi

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Nuovo libro contro i credenti, ma il mondo non ne può più

Ac Grayling«La molla atea che ha avuto inizio poco più di un decennio fa è finita, grazie a Dio. Richard Dawkins è oggi considerato da molti, anche molti non credenti, come una figura di scherzo». Così inizia un recente articolo pubblicato sul magazine inglese The Spectator. Lo stesso PZ Myers, collega di Dawkins nel proselitismo laicista, ha infatti riconosciuto: «credo seriamente che siamo sull’orlo di una crisi».

Stesso copione su The Week: «Il mondo ha davvero bisogno di un altro nuovo manifesto ateo? No, lo stile laicista provato nei libri di Sam Harris, Richard Dawkins, Daniel Dennett e il compianto Christopher Hitchens ha raggiunto un punto morto. Se l’ateismo è vero, è tutt’altro che una buona notizia». A proposito di Hitchens, vale la pena leggersi questa micidiale stroncatura di tutta la sua carriera intellettuale da parte di un suo ex-collega a Vanity Fair, Michael Wolff.

Credenti e non credenti sono tutti stanchi e annoiati dell’aggressione alle persone religiose, della ridicolizzazione di chi ha fede in Dio, dell’anticlericalismo ottocentesco. Lo si è visto benissimo nelle reazioni all’ennesimo libro, “The God Argument” di un intellettuale laicista, AC Grayling, in cui ricopiando Dawkins, Odifreddi e amici vari non fa che deridere le religioni, denigrare i credenti e inneggiare all’umanesimo ateo. «Grayling nella prima parte è come un profeta del Vecchio Testamento, arrabbiato e ringhioso verso i religiosi per la loro stupidità e l’ipocrisia, nella seconda parte si trasforma invece in un predicatore evangelico. L’umanesimo è per lui la via, la verità e la vita», secondo una recensione dissacrante su The Independent.

Il filosofo newatheis ammette che la religione è stata responsabile della nascita e dello sviluppo dell’arte e della musica, ma cerca poi di incasellare -come già tentato da Michael Onfray nel suo “Trattato di ateologia” e confutato da Matthieu Baumier nel suo “Antitrattato di ateologia”– gli «psicopatici atei Hitler e Stalin come religiosi praticanti per il loro totalitarismo e la la loro inimicizia ai valori dell’Illuminismo. Questo non è solo una strambata semplicistica ma è un insulto per i milioni che sono morti a causa della loro fede», è il commento di Catherine Pepinster. La quale conclude: «Il serio “Manifesto per l’Umanesimo” di Grayling ha avuto lo stesso effetto di quello che ha il mangiare troppa lattuga per Peter Rabbit». Inutile dire che le tesi principali di Grayling sono state in ogni caso puntualmente abbattute da Craig Brown sul Dailymail e da John Cornwell sul Financial Times.

Damon Linker dell’Università della Pennsylvania spiega che «sapere che siamo soli nell’universo, che nessuno ascolta o risponde alle nostre preghiere, che l’umanità è del tutto il prodotto di eventi casuali, che non abbiamo più dignità di grumi inumani non-animati, che siamo impotenti di fronte all’annientamento nella morte, che le nostre sofferenze o le nostre gioie sono completamente inutili, che le nostre vite e i nostri amori non hanno senso, che coloro che commettono mali orribili ed eludono la punizione umana la faranno franca con i loro crimini impuniti…tutto questo (e molto altro) è assolutamente tragico. Gli atei onesti lo capiscono», peccato che oggi ce ne siano sempre meno. Anzi, si assiste ad un fenomeno imbarazzante e sciocco di orgoglio del nichilismo.

Theo Hobson non concorda con questo sguardo completamente privo di speranza verso il movimento ateista: è vero, «i “new atheist” sono riusciti a convincere loro stessi che la religione è fondamentalmente cattiva e che l’intellettuale coraggioso dovrebbe urlare contro di essa. Il successo di cinque o sei autori atei, da entrambe le sponde dell’Atlantico, sembrava annunciare un nuovo e forte movimento. L’ateismo è ancora con noi, ma i suoi sostenitori più giovani sono riluttanti a competere per il ruolo di discepolo di Dawkins». Ammirano molto di più l’atteggiamento rispettoso di Julian Baggini, che riconosce senza problemi le virtù della religione e il fatto che l’umanesimo abbia bisogno di imparare da essa. Oppure Alain de Botton, il filosofo laico che ha chiesto ai non credenti di imparare una nuova etica dalle persone religiose. Ma ci sono anche Douglas Murray, Polly Toynbee o Andrew Brown, tutti autori agnostici che disprezzano le crociate atee e che sono attratti culturalmente dal cristianesimo.

In Italia la situazione è ancora più solare: i pochi estremisti laici sono tutti concentrati tra “Repubblica” e “Il Fatto Quotidiano”, ma hanno in gran parte superato l’età della pensione. Tra una ventina di anni il mondo potrà forse liberarsi finalmente dei fomentatori di odio verso le religioni e il dialogo rispettoso e fruttuoso tra credenti e non credenti conoscerà una nuova stagione. Speriamo non sia solo una illusione.

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