La madre lo chiama “figlio”, non “embrione”

Gravidanza 3 
di Davide Rondoni*
*poeta e scrittore

 
da Agenzia Informazione Religiosa (SIR), 10/05/13
 

Non ho mai sentito una donna dire: “Aspetto un embrione”. Per quanto inaspettato o addirittura indesiderato, diciamo: “Aspetto un figlio”. Perché quella è la realtà che inizia, che nasce dentro un’altra (da cui in greco il verbo en-bruo, che origina la parola embrione).

Si chiama figlio. Ovvero la prima parola con cui noi esseri umani veniamo indicati da chi ci ha concepito. Prima ancora del nome proprio. La prima parola. La parola dell’inizio umano. Non si dice “aspetto una cosa”, ma “aspetto qualcuno”. Non ho mai sentito una donna dire diversamente. Perché l’esperienza, quel che dovrebbe guidare la ragione, indica con chiarezza fin nelle parole di cosa si tratta. Nell’inizio c’è tutto. In ogni inizio c’è in nuce tutto quel che si svilupperà da quel seme. Avviene così per le piante, per gli uomini. Avviene così anche per i personaggi teatrali o cinematografici. Quando appare Amleto sulla scena o quando compaiono certi attori di memorabili interpretazioni, nella prima battuta o gesto è contenuto tutto lo sviluppo del personaggio. Per questo l’inizio è delicato e importante. C’è in gioco già tutto. Per questo non tutelare l’inizio non è solo una spaventosa dimenticanza di qualcosa, anzi, di qualcuno che già c’è, che già entra in scena, ma una amputazione di futuro.

Nel negare diritto di esistenza all’inizio, si compie una negazione di ogni diritto successivo. Il diritto all’inizio è l’inizio dei diritti. La negazione del diritto a nascere non è solo negazione dei capelli, delle labbra, dei baci, del dolore, dell’amore, del sangue, e nervi e muscoli che saranno, non solo nega il personaggio alla scena, la sua unica e irripetibile parte nella scena del mondo, ma anche negazione di tutti i diritti. In quel che non chiamiamo cosa, ma figlio quando è nella nostra carne, nel nido del nostro ventre e invece, con orrendo spostamento lessicale, con assassinio nelle parole, chiamiamo “embrione” come un oggetto, quando vogliamo allontanarlo, tenerlo là nel bidone, o nel bidone o cloaca gettarlo, “cosandolo”, “reificandolo” nel nome prima ancora che nell’atto di spegnerlo. Perché si può forse accettare di spegnere un embrione, ma un figlio…

La violenza, come insegna la storia, inizia nelle parole. Nel cambiare il nome alle persone. Le menzogne antropologiche agiscono sul linguaggio, cioè sulla conoscenza. Le parole che si nutrono di vita, di esperienza sono continuamente contrastate dalle parole che si nutrono di ideologia, di astrazione. È qui che si ha per così dire la negazione dell’inizio degli inizi. Del primo elementare modo per indicare, per prender atto della realtà che abbiamo di fronte. Se lo chiamiamo embrione invece di figlio (se pur nella nostra pancia, nella carne di chi amiamo, o della carne in cui siamo stati, noi stessi fin da subito “figli”, chiamati così e non in altro modo da chi ci ha generati) si può come indossando un guanto o una pinzetta, una lontananza disinfettante, manipolare, eliminare. Se lo chiamiamo ebreo o negro o zingaro invece di Joseph, Amin o Ruben è più facile trattarlo a parole o nei fatti in modo brutale o violento. Se lo chiamiamo embrione è più facile dire che non ha diritti. Ma qui, tra le parole della vita, non lo chiamiamo così.

Lo chiamiamo figlio, e in questa parola dolce e tremenda, come primo nido tremante dell’esistere, nascono tutti i diritti. A un figlio – addirittura – siamo disposti a riconoscere più diritti del necessario, di solito. Perché è il futuro, perché è fragile, perché lo amiamo più di noi stessi. E invece se lo chiamiamo in un altro modo? Il diritto all’inizio è nido, paglia, abbeveratoio, radice e bacio di tutti gli altri diritti. Affermare questa cosa che oggi sembra rivoluzionaria è affermare un principio di realtà. Affermare una esistenza, una entrata in scena che merita attenzione almeno come e quanto i problemi che può portare con sé. Essendo una battaglia per l’inizio di tutti i diritti non è una battaglia contro nessun altro autentico diritto. Anzi diventa la affermazione che li fonda tutti, altrimenti sarebbero affermati – come ora avv iene spesso – su un grande vuoto, su una tremenda ombra. Perciò l’affermazione che è uno di noi è linfa vitale per ogni vera passione per tutti i reali diritti.

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L’associazione Snap ammette di aver difeso un pedofilo

SnapLo SNAP, ovvero il “Survivors Network of those Abused by Priests”, è un’associazione fondata da Barbara Blaine, che si autodefinisce come il più grande gruppo di sostegno alle vittime di abusi da parte di religiosi (solamente quelli cattolici, of course).

Nel 2011 ha presentato all’Aia un dossier con cui si è chiesto che Papa Benedetto XVI venga processato per crimini contro l’umanità a causa del caso di padre Lawrence C. Murphy, accuse che nel 2012 sono state ritirate perché sapevano essere false e non volevano un pronunciamento negativo da parte del giudice. Il tutto nel silenzio dei media, come abbiamo mostrato. Lo Snap a causa dei suoi dubbi metodi di conduzione delle indagini non è mai stata ammessa dalla BBB, agenzia di rating delle charities statunitensi, tra le “charity”.

Per mostrare come l’attività di questa associazione non sia in realtà in difesa delle vittime dei preti pedofili ma abbia come unico interesse l’aggressione mediatica alla Chiesa cattolica basterebbe sottolineare che alle loro conferenze venga invitato come relatore nientemeno che Marco Politi, l’anticattolico vaticanista del “Fatto Quotidiano”, il quale trova il pubblico ideale per diffamare Benedetto XVI e chi si è più battuto per fare luce su questa vergognosa macchia prodotta da pochi -fortunatamente- preti cattolici traditori del Vangelo.

Se non bastasse questo si potrebbe riflettere su quanto è accaduto quando il principale collaboratore dello Snap, il dott. Steve Taylor è stato arrestato e incarcerato con l’accusa di possesso di più di 100 immagini pedopornografiche. Per negligenza o scarsa attenzione purtroppo può paradossalmente accadere che una associazione in difesa delle vittime di pedofilia mandi i suoi clienti a confidarsi da un pedofilo. L’associazione avrà chiesto scusa, si penserà, prendendo le distanze dal medico e spendendosi per eliminare tutte le sue tracce dall’organico della società.

E invece no: la fondatrice di Snap, Barbara Blain, ha recentemente ammesso le accuse che gli sono state rivolte: nel 2009, quando il Louisiana State Board of Medical Examiners stava considerando di ritirare la licenza del dottor Taylor, Blaine ha scritto una lettera al consiglio di amministrazione chiedendo di chiudere un occhio, spostando l’attenzione sul fatto che Taylor aveva fondato un’associazione locale di SNAP e aveva svolto un buon lavoro. Quando l’esistenza di questa lettera è emersa pubblicamente, i leader dello SNAP hanno sempre rifiutato di riconoscerla pubblicamente.

Blaine ha infine ammesso di aver scritto questa lettera in un comunicato interno firmato anche dal Direttore Nazionale di Snap, David Clohessy (lo stesso che probabilmente ha recentemente invitato Marco Politi a tenere una conferenza contro la Chiesa cattolica). Alcuni leader dell’associazione, molto turbati dall’accaduto, hanno ovviamente chiesto che Blain si scusasse pubblicamente e si dimettesse. Questo non è mai avvenuto, addirittura è stato incredibilmente espulso dall’associazione chi ha fatto queste richieste in modo pubblico.

Come si evince dalla nota, la fondatrice di Snap voleva che la lettera in difesa del dott. Taylor rimanesse segreta. Eppure, fin dal suo inizio, lo SNAP ha ripetutamente chiesto le dimissioni di funzionari cattolici per la loro presunta “segretezza” e “privacy” nel trattamento di casi, risalenti a decenni prima, che hanno coinvolto alcuni sacerdoti. Nel loro comunicato Blaine e Clohessy invitano proprio i membri a non far emergere tutto questo, coprendo così l’esistenza di questa imbarazzante lettera. Come è stato sottolineato su www.the mediareport.com se SNAP avesse scoperto che un vescovo cattolico era l’autore di una lettera simile per conto di un prete accusato, la sua risposta sarebbe stata esplosiva, come anche quella mediatica. Questa è l’ipocrisia di chi combatte la Chiesa.

Ricordiamo infine che David Clohessy ha pubblicamente ammesso di aver pubblicato notizie che sapeva essere false riguardo la Chiesa cattolica, oltre non aver mai controllato le licenze lavorative dei consulenti delle vittime alle proprie dipendenze. Clohessy è stato anche chiamato a deporre presso la corte di Clayton in Missouri, per aver divulgato alla stampa fatti relativi al segreto istruttorio, con lo scopo di diffamare la Chiesa prima che le accuse venissero verificate dalla Corte. Clohessy si è anche rifiutato di rivelare le fonti dei suoi finanziatori e non intende presentare ai tribunali i documenti con i quali accusa i sacerdoti.

La redazione

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La prova biologica dell’individuo-persona dal concepimento

Cinque prove esistenza uomoLa questione sull’inizio della vita umana è più pragmatica di quanto si possa pensare, dichiara Carlo Casini nella Prova biologica dell’esistenza umana fin dal concepimento. Infatti, gli uomini e le donne comuni devono farsi un’idea per decidere. Non hanno tempo di frequentare corsi, lezioni, approfondimenti specialistici o accademici per sapere se quella “azione – aborto, procreazione artificiale, pillola del giorno dopo, abrogazioni o meno di leggi sull’inizio vita – incide su un essere umano oppure no”.

Necessitando di un linguaggio comprensibile, questi uomini e donne – che fanno e sono la società – sono in realtà trattati come un branco di scimmie ammaestrate. All’inseguimento di scopi tutt’altro che scientifici, la cosiddetta “opinione pubblica” è blandita e ingannata da una serie di ridicoli quanto inaccettabili costrutti semantici. Attraverso una piana eppure rigorosa esposizione didattica, Casini c’introduce a quanto accade in quell’oscuro big-bang che è il concepimento, e alle “inoppugnabili conseguenze” che ne derivano.

Biologicamente, “non appena uno spermatozoo (…) riesce a toccare e superare la membrana che racchiude l’ovocita – ovulo maturo – avviene una serie di fenomeni. In primo luogo la membrana esterna diviene impenetrabile per qualsiasi altro spermatozoo”; spermatozoo e ovocita “riducono poi a 23 il numero dei cromosomi, in modo che il nuovo vivente abbia anch’egli 46 (23+23) che comandano e guidano lo sviluppo”; infine, con l’attrazione e allineamento delle due serie di cromosomi ha inizio “la moltiplicazione delle cellule: da una a due, da due a quattro, a otto e così via fino a divenire le centinaia di migliaia di miliardi di cellule che compongono il corpo adulto di un uomo e di una donna”.

La prima inconfutabile evidenza di questa fase, rileva Casini, è che “non appena lo spermatozoo è entrato nell’ovocita si forma un’entità biologica diversa. (…) Coloro che non vogliono riconoscere un essere umano in questa iniziale fase dello sviluppo preferiscono parlare di “ovocita fecondato”, quasichè il nuovo complesso fosse soltanto un’evoluzione dell’originario gamete femminile”; essi ignorano perciò, di fatto, “il materiale – in particolare il DNA – portato dallo spermatozoo.” In realtà, “il patrimonio genetico del nuovo essere umano è già tutto presente fin dal primo contatto dello spermatozoo con l’ovocita e non può essere più sostanzialmente cambiato. (…) Ciascuno di noi – ci dicono i biologi e ci conferma l’esperienza personale – è unico e irripetibile a causa principalmente dell’eredità cromosomica. Infatti, “il dimezzamento dei cromosomi (da 46 a 23) fa sì che nessuno sia geneticamente identico né alla madre né al padre. D’altronde la praticamente infinita possibilità di combinazione dei miliardi di geni e il fatto che il dimezzamento dei cromosomi avviene ad ogni trapasso generazionale rendono praticamente inimmaginabile una ricombinazione identica del materiale genetico.”.

Secondariamente, “il nuovo complesso è da subito un organismo, cioè un tutt’uno in cui le singole parti si influenzano e si servono reciprocamente.” Gli oppositori, invece, sostengono che “soltanto l’allineamento definitivo dei cromosomi di provenienza maschile e di quelli di provenienza femminile determinerebbe l’inizio della vita”; immediatamente prima, trattasi – dicono – di un innocuo “ootide”, una specie di gemello diverso del gamete (o, cellula riproduttiva). Lo scopo di tale contorsionismo semantico, denuncia l’autore, è chiaro: “Se siamo in presenza di un gamete e non di un embrione vengono eliminati tutti i problemi etici che comportano le azioni distruttive di congelamento, selezione, sperimentazione.”
È interessante notare, a questo punto, lo stato confusionale di molte aree della politica e della ricerca, perlopiù internazionale. Dal 1984 al 2004 e oltre, “mai era stata pronunciata la parola “ootide”, ancor oggi sconosciuta persino a gran parte dei medici. Per giustificare la pretesa di manipolare e distruggere i nuovissimi concepiti si era coniato il termine di pre-embrione e si era cercato di sostenere che la vita umana comincia solo dopo 14 giorni dall’incontro dello spermatozoo con l’ovocita”. Come mai? Cosa accade al 14° giorno di così importante?

Nel Rapporto di un gruppo di studiosi, nominato dal ministro della Sanità inglese nel 1984 – noto come Rapporto Warnock e accolto poi nella legislazione britannica e spagnola – al capitolo relativo alla sperimentazione sull’embrione, si legge testualmente: “Abbiamo tuttavia concordato nel ritenere questo un settore nel quale devono essere assunte alcune precise decisioni per calmare l’ansietà diffusa nella pubblica opinione”; in base a questo attendibilissimo criterio, gli scienziati decidono pertanto “che la sperimentazione sull’embrione potrebbe essere consentita ‘finché l’embrione è incapace di sentire dolore’, cioè prima che cominci a svilupparsi il sistema nervoso centrale”. In uno sconcertante balletto di date, il discrimine viene individuato prima in una fase di 22-23 giorni dopo la fecondazione, quando il tubo neurale comincia a chiudersi; poi non oltre i 17 giorni “perché questo è il momento nel quale inizia lo sviluppo di un primitivo sistema nervoso”; e infine intorno al 15° giorno dal concepimento a motivo della raccomandazione di “tenere come punto di riferimento la formazione della “stria primitiva”.

Giustamente, commenta Casini, la teoria del pre-embrioneha perso oggi credito e non è stata accettata né dal Consiglio d’Europa, (…) né dal Parlamento europeo (…)” e né – indirettamente – dalla legislazione italiana (Cfr., L. 40/2004). Inoltre, il criterio di “umanità” della stria primitiva dell’embrione è inaccettabile e paradossalmente a favore del fatto che fin dall’inizio “il concepito è pienamente un essere umano vivente”; se “infatti – argomenta l’autore – la morte del cervello è considerata morte dell’uomo (…), perché il cervello è la parte che (…) unifica e finalizza le varie funzioni”, allora il dato decisivo per attestare “l’esistenza di una vita umana è l’unità organica determinata da un principio unificatore e finalizzatore”. Nell’embrione, “un tale principio unificatore e organizzatore non solo è presente ma svolge una funzione possente e mirabile tutta proiettata verso il futuro.” In una battuta, l’embrione che non ha cervello è tutt’altro che un cadavere!

E pur tuttavia, come nel migliore dark fantasy che si rispetti, seppellito un criterio – quello della stria neurale – rieccone spuntare un secondo, o dell’annidamento. Altrettanto accomodante e mendace. Secondo tale ipotesi, l’embrione che si è formato in una delle due tube e sta per raggiungere un punto preciso della mucosa uterina non sarebbe un individuo umano (dunque, plausibilmente martirizzabile). Il cosiddetto “annidamento” definitivo necessita, infatti, di circa 14 giorni dopo la fecondazione. Ebbene, questi fautori di “materia indistinta” – solo perché “in viaggio” – porterebbero come prova l’esempio dei gemelli monozigoti, quelli cioè che derivano da un solo ovocita fecondato; poiché la loro divisione in più individui avviene prima dell’annidamento e non dopo, tutto ciò che si è sviluppato fino a questo momento non verrebbe considerato un essere umano.

La vacuità di tale tesi, spiega Casini, è già presente in una sorprendente discordanza dai sostenitori del 14° giorno, ossia la retrodatazione del passaggio da “grumo” a uomo da 14 (termine della fase di annidamento) a 7 giorni (inizio della fase di annidamento). Inoltre, sembra totalmente misconosciuto il caso, in biologia, della generazione per gemmazione, in cui “l’essere che genera la gemma è un’entità biologica ben determinata”; come ha sottoscritto nel 1995 il Comitato nazionale di bioetica: “A ciascuno dei due gemelli deve essere riconosciuta una piena individualità fin dal loro costituirsi – il primo, nella fecondazione; l’altro o gli altri, nella scissione gemellare”.

In definitiva, che dalla fecondazione lo sviluppo dell’embrione sia continuo (non esistono salti di qualità), autonomo (autodiretto), e finalisticamente orientato è una constatazione concorde di tutti gli scienziati. Ed è proprio da questo continuo, teleologico sviluppo che si evince l’indiscutibile prova biologica dell’individuo-persona, fin dal concepimento. Tutti i tentativi di contrastare tale evidenza sono irragionevoli – eppure, curiosamente vicini a quel tipo di speculazione magico-esoterica che da Aristotele fino al ‘600 ha regnato indiscussa nella comprensione del momento fecondativo.

Valentina Fanton

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Nuovo studio: padre e madre sono insostituibili

Couple giving two young children piggyback rides smilingLa rivista Early Children Develop­ment and Care ha dedicato il suo ultimo numero alla figura del padre nel suo contributo allo sviluppo mentale del bam­bino. Come indica la letteratura precedente, viene confermato che padre e madre so­no ugualmente importanti per il figlio ed insostituibili poiché ognuno ha un suo ruolo indispensabile per l’equilibrio psicofisico del bambino. Evidente il riferimento all’adozione da parte di persone omosessuali.

Una donna non può prende il posto dell’uomo nell’educazione del bimbo e un uomo, come dovrebbero insegnarci le femministe, non può sostituire il contributo unico che solo una donna può dare al suo bambino. La scienza parla chiaro: nell’edi­toriale di questo numero monografico si ricorda infatti che i figli di genitori con ruoli madre-padre differenziati «hanno capacità sociali più sviluppate e sono più pronti alla competizione» rispetto ai figli di genitori con ruoli non differenti. Si ri­corda inoltre, citando un secondo studio, che i figli delle coppie con ruoli differenziati tra madre e padre «hanno minor ag­gressività». La specificità dei ruoli non significa un monopolio ma una complementarietà tra madre e pa­dre, un giusto equilibrio a cui tutti i bambini hanno diritto: «I padri sembrano giocare un ruo­lo maggiore nel processo di apertura dei figli al mondo esterno che è legato allo sviluppo dell’autonomia e alla ca­pacità di affrontare i rischi». Invece, «le madri attribuiscono maggior valore al lavoro in casa, al supporto e­motivo per i figli e all’educazione ses­suale». Chi pensa che un uomo possa prendere il posto di una donna nel ruolo educativo dei figli compie una violazione rispetto a quanto avrebbe bisogno un bambino.

La rivista esamina con sette ar­ticoli di studiosi internazionali proprio queste differenze sottolineando in particolare le specificità paterne, anche perché quelle materne sono ormai note e approfondite in moltissimi studi. Si sottolinea inoltre l’importanza del gio­co-lotta tra padre e figlio, e il rapporto tra divisione dei ruoli padre-madre per la crescita sociale del figlio. La complementarietà dei sessi educa e permette l’importante esperienza con una sessualità diversa dalla propria, cosa che non sarebbe possibile con due genitori dello stesso sesso. Il figlio è in rapporto di crescita con la madre per certi tratti del carattere e col pa­dre per altri.

Anche altre riviste scientifiche specializzate, come spiega Carlo Bellieni,  chiariscono i dubbi: «L’aiuto alla so­cializzazione dei figli dato da madre e padre differiscono in alcuni tratti ma servono nella loro complementarietà a creare l’impalcatura di regolazione del­le emozioni» (New Directions for Child and Adolescent Development, 2010). Per far crescere bene un figlio non è vero che “basta volerlo”, non è vero che “basta l’amore”. Avere due mamme significa condannare i bambini ad essere orfani del padre e viceversa, è la scienza stessa a ribadirlo come abbiamo mostrato in questo dossier.

Un secondo studio, citato da diversi siti web, apparso recentemente ha stabilito che «i figli minori che vivono con entrambi i genitori biologici in un matrimonio stabile hanno un welfare molto più elevato rispetto ad altri tipi di situazioni». La ricerca è realizzata dall’Instituto de Estudios del Capital Social (INCAS) della Universidad Abat Oliba CEU. Fra le altre conclusioni questa è particolarmente interessante: «si può dire con forza che la famiglia classica previene la violenza domestica contro le donne e verso i bambini, i quali hanno tutti gli indicatori di salute migliori, beneficiano di un reddito più alto e maggiori condizioni stabili e favorevoli». Secondo un altro recente studio, realizzato da ricercatori della Rice University e della University of Houston, i bambini (campione di 10.400 soggetti) che vivono in famiglie in cui i genitori sono sposati hanno meno probabilità di essere obesi. Matrimonio stabile e con genitori biologici è l’equazione d’oro, il luogo ideale per crescere i bambini.

P.S.
No, inutile cercare, la notizia di questi studi non la troverete sui principali quotidiani internazionali.

La redazione

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Pio XII e i tentativi di affrontare il nazismo con la diplomazia

Pio XII scrive A livello di opinione pubblica i rapporti tra la Chiesa Cattolica e il regime nazista sono collegati ad una visione manichea tra chi vede in Pacelli il “papa di Hitler” e chi invece lo vuole annoverare tra i Giusti delle Nazioni. Il risultato di questa contrapposizione è stato quello di impedire per molto tempo un serio dibattito storico che avrebbe permesso di collocare il pontefice dell’epoca nel suo giusto ruolo e che invece ha fatto nascere di diverse false visioni sul ruolo di Pio XII (non estranee anche gli stessi ambienti cattolici che dipingono il papa come antitetico al Concilio Vaticano II o attribuendoli un carattere “aristocratico” e distaccato dalla gente).

Quando Pacelli salì al soglio pontificio i rapporti tra la Santa Sede e il governo hitleriano erano tesi al limite a causa delle iniziative intraprese da Pio XI contro il regime nazista (redazione dell’enciclica Mit brennender Sorge, elogio del vescovo di Chicago, George Mundelein, che aveva definito Hitler un pazzo imbianchino, abbandono della città di Roma in occasione della visita del Führer, condanna pubblica dell’antisemitismo, ecc.) e perciò iniziò a cercare una via di compromesso per il bene della Chiesa. In questa trattativa va considerata anche la sua decisione di non pubblicare l’enciclica sull’unità del genere umano che il suo predecessore Pio XI non ebbe il tempo di concludere.

Ciò ha fatto pensare ad alcuni che esistessero divergenze tra i due pontefici riguardo al loro pensiero sul nazismo. È esatto, ma a patto di specificare che esse non riguardavano il giudizio su Hitler per entrambi negativo (lo stesso John Cornwell, autore del “Il papa di Hitler” afferma che Pacelli odiava il dittatore tedesco) ma i mezzi per contrastarlo: Pio XII non voleva arrivare ad una rottura dei rapporti diplomatici con la Germania per il timore delle ricadute che un simile gesto poteva avere. Tuttavia la politica conciliante non avrà alcun effetto e a peggiorare ulteriormente la situazione intervenne lo scoppio della seconda guerra mondiale. Il pontefice aveva inutilmente intrapreso sforzi diplomatici per cercare di evitare il conflitto e, fino al giugno 1940 quando l’Italia andò in guerra, di impedirne la sua estensione.

Pio XII si attenne per tutta la durata bellica ad una via diplomatica e all’atteggiamento di imparzialità che aveva caratterizzato il suo predecessore Benedetto XV durante la prima guerra mondiale. La simpatia del pontefice però andava chiaramente verso gli Alleati e ciò anche per il fatto che la Germania aveva stretto un’alleanza con l’Unione Sovietica tramite il patto Molotov-Ribbentrop. Tracce di condanna della politica aggressiva dei due totalitarismi si poterono trovare nei suoi discorsi: nella sua prima enciclica Summi Puntificatus parlò del “sangue di innumerevoli esseri umani, anche non combattenti, [che] eleva uno straziante lamento sopra una diletta nazione, quale la Polonia”, si espresse contro l’aggressione della Finlandia da parte dell’URSS e inviò tre telegrammi di solidarietà ai sovrani di Belgio, Olanda e Lussemburgo i cui regni erano stati invasi dall’esercito tedesco nonostante la loro neutralità. Quest’ultima azione fu causa di un grave scontro con Mussolini perché il dittatore italiano si stava sempre più legando ad Hitler tanto da considerare quasi un affronto personale ogni attacco contro il suo alleato: l’ambasciatore italiano Dino Alfieri fu mandato a protestare e giunse al punto di paventare a Pio XII la minaccia di «gravi conseguenze» se avesse continuato con la sua politica (minaccia a cui Pacelli seppe rispondere con grande coraggio).

Gli edicolanti dell’Osservatore Romano che avevano pubblicato i messaggi di condanna furono aggrediti e lo stesso papa fu bloccato mentre si trovava in auto da un gruppo di fascisti al grido di “Abbasso il papa! Morte al papa!” (A. Tornielli, Il papa degli ebrei, Bergamo 2002 pp. 139-140). Il pontefice però svolse attività antinaziste ancora più dirette ed è dimostrato dalla sua intercessione presso gli inglesi per appoggiare un complotto della resistenza tedesca per spodestare Hitler. I contatti con i congiurati continueranno anche dopo questo fallito tentativo (in un precedente articolo avevo scritto che Pio XII fu informato dell’Operazione Valchiria, ma la nota a cui facevo riferimento si riferiva ad altri falliti complotti contro il dittatore tedesco anche se forti indizi sembrano indicare che alcuni vescovi non fossero del tutto ignari dell’attentato).
Il 22 giugno 1941 Hitler diede il via all’operazione Barbarossa attaccando di sorpresa la Russia.

È stato più volte affermato che la Santa Sede vedeva nel nazismo un baluardo contro il comunismo e che proprio per questo motivo si deve ricercare la sua renitenza a condannare apertamente il genocidio degli ebrei. Tuttavia dai documenti vaticani si evince che la speranza della Santa Sede fosse che le due dittature si distruggessero a vicenda: se è vero che Stalin stava effettuando feroci persecuzioni antireligiose in nome dell’ateismo di stato, è pur vero che i nazisti stavano propagandando una nuova visione del mondo in cui non ci sarebbe stato posto per il cristianesimo. La resa dei conti con la Chiesa era solamente rimandata al dopoguerra, ma già durante il conflitto si ebbe un ulteriore aumento della persecuzione in Germania: il regime iniziò a catalogare come Gegner (“avversari”) tutte le attività, anche quelle religiose o caritative, della Chiesa Cattolica e della Chiesa Confessante (R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna 2002 p. 107). Il pontefice rifiutò sia gli appelli angloamericani per una esplicita denuncia del nazismo, sia quelli italotedeschi per una chiara condanna del comunismo. In definitiva, Pio XII si attenne alla neutralità politica durante la seconda guerra mondiale anche perché auspicava che da entrambe le parti provenissero iniziative di pace che avrebbe voluto sostenere. Verso la fine del conflitto però cominciò a rivolgersi in prevalenza verso le potenze occidentali e in tale prospettiva va a collegarsi il discorso di Natale del 1944 nel quale espresse apprezzamento per la forma di governo democratica.

Un discorso a parte riguarda il suo rapporto con gli ebrei dovuto alla principale accusa di aver taciuto sull’Olocausto. Pur avendo un certo pregiudizio verso l’ebraismo comune a larghi settori ecclesiastici del tempo, provò orrore verso i crimini commessi dai nazisti contro gli ebrei. Il suo “silenzio” riguardante la deportazione degli israeliti era dovuta alla sua scelta d’intervenire tramite la diplomazia. Vi furono alcuni vescovi tedeschi e polacchi che chiesero un atteggiamento meno diplomatico, ma la sua scelta era in realtà dettata dalla ricerca del male minore («Ventresca: “Pio XII, basta con le polemiche!”», Avvenire 10/03/13).

Del resto, il pontefice non restò con le mani in mano e fin dall’inizio delle deportazioni il Vaticano tentò d’influenzare gli stati europei satelliti della Germania che avevano rapporti diretti con la Santa Sede (Slovacchia, Croazia, Romania, Ungheria, Francia) per tentare di arrestare la deportazione o aiutando i perseguitati ad espatriare. Al contempo, Pacelli approvò incondizionatamente le azioni di soccorso organizzate in segreto in favore degli ebrei da alcuni prelati tedeschi come il vescovo di Berlino, von Preysing (nelle cui lettere è testimoniata anche la paura di Pio XII di peggiorare la situazione in caso di una sua pubblica denuncia) e aiutò gli ebrei romani a salvarsi dalla deportazione favorendo il loro nascondiglio nei conventi e nelle proprietà vaticane e protestando tramite reclami diretti o indiretti contro la deportazione. Per la sua attività di salvataggio, la comunità ebraica di Roma affisse nel 1946 sulla parete di un edificio nella quali erano acquartierate le SS, una targa per ringraziare Pio XII per avere aperto le porte delle chiese e aiutato i perseguitati (Rudolf Lill, Il potere dei papi, Roma-Bari 2008 pp. 140-143). È stato rimproverato al papa di non aver saputo fare di più per salvare i perseguitati, ma è importante ricordare che anche altre organizzazioni dell’epoca non seppero fare meglio e forse difficilmente avrebbero potuto farlo perché si trovarono di fronte ad una tragedia molto più terribile di quanto avessero mai potuto immaginare: il dramma di interi popoli soggetti alla tirannia nazista.

Mattia Ferrari

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Ma i comunisti ci credono ancora?

Milano, l'ultimo saluto a Franca Rame“Come diceva mia madre Dio c’è ed è comunista. E io aggiungo che è anche femmina”; “Possiamo stare certi che questo mondo lo cambieremo”; “Grazie compagni, grazie compagne”. Queste varie citazioni del discorso di Jacopo Fo al funerale laico della compianta Franca Rame, fanno sorgere spontaneamente una domanda: i comunisti non sono scomparsi, ma ancora ci credono?

Compagni e compagne, pugni alzati, sciarpe e camice rosse, inni partigiani e “Bella ciao”: questa la grande fiera dell’anacronismo che sono sembrati a molti i funerali di Andrea Gallo e Franca Rame, dopo i quali non può non tornare alla mente la lucida riflessione del presidente Giorgio Napolitano di qualche mese fa: «Certo, è stato impossibile – se non per piccole cerchie di nostalgici sul piano teoretico e di accaniti estremisti sul piano politico – sfuggire alla certificazione storica del fallimento dei sistemi economici e sociali d’impronta comunista». Parole chiarificatrici dopo che lui stesso, leader del Partito Comunista Italiano nel 1956, all’indomani dell’invasione dei carri armati sovietici a Budapest, giustificò «l’intervento sovietico in Ungheria», in quanto ha «contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo».

Ha ragione Napolitano, esistono ancora queste “cerchie di nostalgici” che non si arrendono all’illusione del “mondo nuovo”. Ancora non si arrende il teologo rosso Vito Mancuso, che onora il compagno don Gallo spiegando che «la stola sacerdotale, che egli amava e a cui è sempre stato fedele, veniva dopo la sciarpa arcobaleno con i colori della pace che spesso indossava, e veniva dopo la sciarpa rossa spesso parimenti indossata per l’ideale di giustizia e di uguaglianza che a lui richiamava». Prima comunista e no global e poi -semmai- sacerdote, e questo sarebbe un motivo d’orgoglio per Mancuso. Ancora non si arrende il vaticanista rosso Marco Politi, che a sua volta rende gli onori al compagno Gallo sperando che tutti i preti diventino così: «Sigaro in bocca, col bacchetto in testa, tra pugni chiusi e bandiere rosse». Politi identifica chi ha partecipato al suo funerale -come Alba Parietti, Vladimir Luxuria, Antonio Padellaro, Paolo Ferrero e tanti sbandati dei centri sociali- con il vero popolo cattolico, spiegando che i loro fischi al card. Angelo Bagnasco mostrano che «la Chiesa-istituzione è lontana dalle persone». Eppure basterebbe che il noto vaticanista facesse un giro in piazza San Pietro durante un’udienza di Papa Francesco per capire dov’è il popolo cattolico, deducendone che ad essere lontani dalla Chiesa-istituzione sono quelli che inneggiano al comunismo tra pugni al cielo e bandiere rosse, e lo stesso vale per i nostalgici di “Faccetta nera” e delle camicie nere (sacerdoti o laici che siano).

Non a caso papa Francesco ha citato e preso come esempio don Pino Puglisi, beatificato proprio il giorno del funerale di don Gallo. E non ha minimamente citato quest’ultimo, facendo infuriare i rossi del “Fatto Quotidiano”. Come ha spiegato Dario Fo, quello che trasmetteva don Gallo era questo: «standogli accanto avevi la sensazione di avere vicino a te un essere che certamente non poteva essere un prete». Probabilmente il giudizio peggiore che possa ricevere chi ha avuto la vocazione sacerdotale! Al contrario, quando si stava con don Puglisi si aveva la sensazione di stare accanto a Cristo, ed è questo ad averlo reso testimone e beato nella Chiesa, anche lui prete di strada ma lontano dalle telecamere e dal potere politico (al contrario del prete genovese). Uno faceva opere, l’altro polemiche è stato sottolineato. «C’è chi dice: “Cristo sì, la Chiesa no”. Ma la Chiesa nasce da Cristo, è la famiglia di Dio», ha detto recentemente Papa Francesco, affondando i continui tentativi separatori dei vari teologi e sacerdoti dissidenti. Don Gallo

Fratel Ettore, don Oreste Benzi, padre Aldo Trento…a loro occorre pensare quando si parla di “preti degli ultimi”, quando si ascolta l’invito del Pontefice argentino a far risplendere la misericordia di Cristo nelle periferie esistenziali del mondo. Come ha spiegato Antonio Socci, «i funerali di don Gallo segnano la fine simbolica di un mondo, quello del cattoprogressismo degli anni Settanta», una cultura ideologica dalla quale occorre allontanarsi il più velocemente possibile. Si può uscirne guardando proprio Papa Francesco, un altro grande dono del Cielo e dei saggi cardinali, che «sconcerta pure tradizionalisti e reazionari, quelli che si fissano nelle forme, i velluti e le formule».

Gli orfani di Karl Marx, oggi anziani borghesi che stonano sulle note degli inni partigiani, si sono radunati una seconda volta anche durante il funerale laico radical chic di Franca Rame. “Dio c’è, ed è femmina e comunista”, ha urlato Jacopo Fo alla piazza colorata di rosso, come su richiesta della nota attrice, moglie di Dario. «La rivoluzione che non si è riuscita a fare sulla terra si finisce per immaginarla nell’aldilà», ha replicato ironico Maurizio Caverzan. Aggiungendo una perla preziosa: «Quanto alla storia, il Dio che “c’è” come, bontà sua, garantisce Jacopo Fo, è arrivato qualche anno prima di Marx e Lenin. E anche dei premi Nobel. La vera rivoluzione c’è già stata duemila anni fa. Fortuna che non l’abbiamo fatta noi, perché avrebbe immancabilmente riprodotto tutti i nostri limiti. Quando il comunismo non era nemmeno una favola, Dio si è fatto uomo e ha sconfitto la morte. Perciò se qualcuno ha preso in prestito qualcosa per liberare l’uomo è certamente chi è arrivato dopo».

La redazione

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La diagnosi prenatale e l’ipocrisia di chi è “contro le differenze”

Bambino downIl 4 maggio 2013 abbiamo posto una domanda ai grandi volti noti della televisione, come Jovanotti, Claudio Bisio, Diego Abatantuono ecc., che si sono impegnati nella Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down per abbattere i pregiudizi e invitare a guardare con occhi diversi queste persone. Abbiamo chiesto loro se avessero anche la coerenza di condannare l’aborto selettivo (o eugenetico) verso queste persone e la discriminazione delle leggi dello Stato che lo permettono. Secondo una accurata indagine del prof. Benedetto Rocchi, professore di economia all’Università di Firenze, il numero è stato tra i 799 e 1309 di bambini down abortiti (stima “pessimista”) nell’anno 2009.

Potremmo anche chiedere alle scalmanate femministe moderne di condannare la diagnosi prenatale che, tra le altre informazioni, individua anche il sesso del bambino e anche nei Paesi occidentali conduce molto spesso all’aborto di bambine: «Se qualcuno sa a cosa serve sapere il sesso del feto a 8 settimane se non ad abortirlo – quando non è del sesso gradito – nei tempi permessi dalla legge, ce lo dica», afferma Carlo Bellieni, neonatologo presso l’Università di Siena, «con buona pace poi delle femministe che ben sanno rispondere a questa domanda, e che ben sanno quale è il sesso più abortito in troppe parti del mondo». Nessuna risposta perché tutto fa parte della grande fiera dell’ipocrisia allestita dai media ogni giorno, d’altra parte le stesse femministe sono a favore delle adozioni gay, ovvero della menzognera condizione per cui un uomo può tranquillamente sostituire una donna (una madre) nella crescita di un bambino, non avendo quest’ultima nessuna capacità propria.

La diagnosi prenatale è una vera e propria caccia agli anomali, alla faccia dell’abolire le differenze come oggi va di moda nei titoli di “Repubblica” e del “Corriere”. Gli esami per fare l’identikit genetico del feto umano aumentano di numero e di complessità anno dopo anno, spiega ancora Bellieni. Con essa il bambino è “schedato “, “braccato“, -pardon, “seguito” – dal suo concepimento, come hanno scritto in un appello i maggiori esponenti della medicina francese: la diagnosi prenatale è divenuta un «mercato della paura». Tanti esami e tante combinazioni di test tutti mirati a ricercare il feto con anomalie genetiche. Tanta ricerca e tanto denaro destinato all’unico fine di scoprire se il feto è come si deve, e come si deve volere, l’ideologia del “figlio perfetto”.

Tuttavia in America le cose sembrano iniziare ad incrinarsi: la rivista del Massachussets institute of technology del 23 aprile si è interrogata sul diritto alla privacy del feto di fronte alla prospettiva di analizzare tutti i tratti genetici prima che nasca:«Quanti genitori abortiranno un feto destinato a essere un adulto calvo? Non credo molti. Ma più di zero», ha scritto l’autore. Dal 26 marzo, inoltre, il Nord Dakota è diventato il primo stato a proibire l’aborto proprio in base ai test genetici, con un particolare riferimento alla sindrome Down.

Ecco il vero abbattimento delle differenze! Chissà quando sentiremo qualche “vip” o leggeremo su qualche quotidiano progressista la frase: “Non abortire un diverso, accoglilo!”.

La redazione

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L’obiezione di coscienza anche per assistenza indiretta all’aborto

Obiettori di coscienzaNel 2010 il partito Radicale si è rivolto al Consiglio d’Europa per abolire l’obiezione di coscienza imponendo i medici contrari all’aborto (attorno all’85% dei medici in Italia) ad agire contro la loro coscienza. Bonino e Staderini sono andati in minoranza in Assemblea parlamentare e il documento si è trasformato in una certificazione della libertà di coscienza dei medici obiettori.

In questi giorni è stata emessa un’altra fondamentale sentenza (2013 CSIH 36 P876/11) da parte, questa volta, della Corte Suprema civile scozzese, in un caso divenuto un importante precedente (common law). Come ha spiegato l’avvocato Gianfranco Amato, il caso riguarda la vicenda di due ostetriche cattoliche e obiettrici di coscienza, Mary Teresa Doogan e Concepta Wood, che da molti anni lavorano presso il plesso ospedaliero del NHS Greater Glasgow and Clyde Health. Sul presupposto di una carenza di personale, la struttura sanitaria ha preteso che le due ostetriche dessero un’assistenza indiretta alle procedure di interruzione della gravidanza. Il reclamo delle due donne è stato rigettato sull’assunto che la semplice presenza, supervisione e assistenza alle procedure abortive non significhi una partecipazione diretta alle medesime. La sentenza ha distinto dunque tra partecipazione diretta e indiretta all’intervento di interruzione della gravidanza, e riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza soltanto nel primo caso.

La decisione del Lord Ordinary è stata impugnata dalle due ostriche avanti la Court of Session di Edimburgo, che ha provveduto a riformarla deliberando che «il diritto all’obiezione di coscienza non può riferirsi, in maniera riduttiva, al solo momento chirurgico dell’interruzione della gravidanza, ma si estende necessariamente all’intero procedimento finalizzato all’aborto». In questo senso, i magistrati hanno condiviso il precedente del caso R v Salford Area Hospital Authority ex parte Janaway [1989] 1 AC 537, nella parte in cui stabilisce, appunto, che il diritto all’obiezione di coscienza si estende «a tutta la fase di cura pre e post operatoria, comprendendo anche il caso in cui, per una qualunque ragione, l’interruzione della gravidanza non abbia comunque luogo». Oltre il punto di vista etico, inoltre, se ci fosse una distinzione tra le fasi dell’aborto sarebbe assurdo dal punto di vista pratico, come si legge nella sentenza, il dover valutare ogni singolo atto per verificare quanto esso possa considerarsi direttamente connesso all’operazione chirurgica di interruzione della gravidanza.

Il tema dell’obiezione di coscienza è stato recentemente affrontato in un congresso dall’associazione Scienza & Vita (www.scienzaevita.org), dal titolo «L’obiezione di coscienza tra libertà e responsabilità». Presente, oltre alla nuova presidente nazionale Paola Ricci Sindoni, ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Messina, anche Francesco Paolo Casavola, presidente del Comitato nazionale di bioetica. L’obiezione di coscienza non è un colpo basso, una deroga, una disobbedienza concessa dallo Stato a una sua legge. Chi obietta compie un atto di fedeltà alla radice più profonda di tutto il diritto, cioè la dignità e la difesa della persona.

La redazione

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Le teorie adolescenziali di Odifreddi e Girotto

Girotto e OdifreddiHo avuto il piacere di assistere ad una conferenza tenuta dal professor Vittorio Girotto, esperto di psicologia del pensiero, e introdotta da Piergiorgio Odifreddi sulle modalità con cui la mente è naturalmente portata a credere.

I relatori si sono prodigati in alcune adolescenziali teorie sulla religione, di cui probabilmente non conoscono nulla (ma d’altra parte loro sono scienziati quindi gli ignoranti sono gli altri), per poi adoperarsi, in modo neanche troppo velato, nell’escogitare qualche strategia al fine di debellare la tremenda piaga della fede. Non è mia intenzione analizzare le innumerevoli fallacie logiche e conclusioni del tutto opinabili che sono state portate avanti in quella che doveva essere un’analisi scientifica di un fenomeno che và ben oltre le attuali possibilità di indagine razionale. Voglio solo mettere in guardia dal pensare che questo genere di idee abbia qualcosa a che fare con la scienza, che è una disciplina meravigliosa in quanto permette di contemplare, in un modo del tutto particolare, la bellezza della natura. Cerchiamo di non fraintenderla

Quello che infastidisce è l’ignoranza riguardo all’aspetto religioso da cui trae origine il tutto. Quante volte ho osservato scienziati indignati da un’affermazione scientificamente scorretta pronunciata da un uomo di fede! Il mantra che si sente in questi casi è quello che recita: «Prima di parlare di scienza senza capirla sarebbe meglio che si studiasse a fondo!». Perché, invece, di religione può parlare chiunque? Eppure ciò che è spirituale è difficilissimo da cogliere ed è necessario un onesto percorso interiore di molti anni per essere anche solo intravisto. E non è sufficiente la lettura di alcuni libri per colmare il vuoto, non è il pensiero analitico che conduce alla fede, sebbene la possa rinforzare, ma l’intuizione e il sentimento.

Infatti, come Girotto ha fatto notare tramite alcuni esperimenti psicologici, vi è una correlazione fra modalità analitica sviluppata e tendenza a non credere. Quello che è assolutamente dogmatico è che analitico sia meglio di intuitivo o empatico. Così, si dice che bisognerebbe maggiormente educare i bambini alla modalità analitica di pensiero, cosa che può aver l’effetto di soffocare la controparte intuitiva. E pensare che Einstein scrisse: «La mente intuitiva è un dono sacro , mentre la mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono». Si è poi sostenuto che la tendenza a credere è più tipica degli animali da cui, evidentemente, solo l’ateo si può elevare. Ma non temete: grazie alla ragione, dal credere si può guarire! Il credente sembra essere favorito dall’evoluzione ma l’ateo è da essa fuori, è una mente disincarnata che osserva in modo oggettivo il mondo, una specie di superuomo… Tale ateismo militante è una pericolosa sorgente di intolleranza poiché la repressione del diverso viene attuata tramite l’educazione, in modo impercettibile. Quel che è divertente osservare è come alla base di tutte queste idee vi siano una quantità enorme di credenze e assiomi abilmente nascosti. Ogni sistema di pensiero poggia su pilastri che vanno accettati o rigettati ma l’importante è averne consapevolezza. Da un logico ed uno psicologo della mente mi sarei aspettato più rigore.

La conferenza è stata comunque interessante, in particolare per quanto riguarda la presentazione degli esperimenti psicologici che sono stati condotti in merito, e di cui non dubito il valore. Mi è sembrato, piuttosto, che si nascondesse dietro ad un linguaggio scientifico, molta superficialità. Per fare un esempio, nel promuovere alcune spiegazioni funzionaliste si è sostenuto che credere è consolatorio e rassicurante. Il percorso religioso è invece doloroso e pieno di ostacoli; certo, dall’alto delle loro credenze, questi fatti non hanno bisogno di alcuna evidenza empirica…

Flavio Grandin
ilpensieroassiomatico.wordpress.com

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Il fallimento del “divorzio breve” e la sua pericolosità

DivorzioSi leggeva quasi del compiacimento nelle parole del giornalista di “Repubblica” che, registrando l’avanzata del secolarismo, alcune settimane fa annotava che – dopo «i primi anni del pontificato di Ratzinger», anni «di recupero, o almeno di freno» dello sgretolamento della società con «divorzi pressoché stabili» e «matrimoni religiosi meno rovinosamente in crisi (anzi, in lieve ripresa fra 2009 e 2010)» – le cose, per la stabilità della famiglia in Italia, sono tornate a peggiorare.

Dispiace che siffatta tendenza non solo non venga riconosciuta e commentata con la dovuta gravità, quasi si trattasse di un fenomeno non negativo, ma addirittura sia alle porte, ad opera dei soliti Radicali, una raccolta di firme per l’introduzione del cosiddetto “divorzio breve”. E dire che il divorzio è uno degli eventi peggiori, specie per quei bambini che ne sono spettatori e che accusano per questo pesanti conseguenze; conseguenze che – attesta la letteratura scientifica – incidono sul loro stato di salute, sulla loro crescita e sui loro comportamenti devianti e correlate difficoltà di inserimento sociale (si veda qui, qui, qui, qui e qui), fino a renderli più esposti, a loro volta, al rischio di divorziare una volta adulti.

Non solo: l’evento del divorzio, com’è stato accertato da accurate ricerche, triplica per i figli il rischio di rimanere vittima di abusi – rischio che sale dal 3,4% al 10,7% – , espone costoro a maggiori tentazioni suicidarie, concorrendo a determinare più alti tassi di mortalità prematura. Come se non bastasse il divorzio appare correlato anche al rischio di povertà dei figli: secondo rilevazioni effettuate negli Stati Uniti, infatti, i bambini che vivono con un solo genitore hanno più possibilità, rispetto agli altri, di vivere in una famiglia al di sotto della soglia di povertà – 28% rispetto alla media del 19% – e di vivere in una casa in affitto, 53% rispetto al 36% (Cfr. Elliott D.B. – Simmons T. (2011) Marital Events of Americans: 2009 U.S. Department of Commerce Economics and Statistics Administration – «U.S. Census Bureau», p. 12).

Quanto sarebbe bello sapere che ne pensano di questi “benefici” del divorzio gli amici Radicali. I quali però, astuti come sono, risponderebbero che col “divorzio breve” le cose migliorerebbero rispetto ad oggi: tempi più rapidi per lasciarsi e meno stress e conseguenze negative. Ma sicuro, come no. Lo vadano pure a raccontare agli spagnoli, che questo innovativo istituto lo conoscono dal 2005 ed hanno già potuto apprezzarne i frutti: 1.343.760 rotture coniugali fra il 2003 ed il 2012 (la quasi totalità determinate dal “divorzio breve”) con l’aumento vertiginoso di quelle conflittuali – furono il 35,52% del totale nel 2004, sono state il 40,74% nel 2012. Nel frattempo i divorzi, nel loro insieme, continuano a crescere: furono 124.702 nel 2011, sono stati 127.362 nel 2012 (+2,13%). Morale: in Spagna oggi finisce un matrimonio ogni 4 minuti.

Un dato che certifica non solo, evidentemente, il fallimento del “divorzio breve”, ma dello stesso divorzio come istituto idealmente filantropico e liberatorio ma in realtà generatore di violenze e sofferenza. Il che è perfettamente in linea con le evidenze che da molti anni a questa parte attestano per coloro che divorziano, per esempio, maggiori tassi di morbilità cronica per disturbi nervosi (Elaborazione da: Istat, Indagine Multiscopo sulle famiglie italiane, vol. 10, Roma 1994) nonché, come conseguenza alla solitudine e alla sofferenza vissute, più alti tassi di malattie coronariche, ictus, polmonite, cancro, cirrosi epatiche, incidenti automobilistici e suicidi (vedi qui, qui, qui e qui). Del resto, se pensiamo che già Émile Durkheim (1858 – 1917), sociologo non certo cattolico, riscontrava «l’alto numero dei suicidi nei paesi a divorzio diffuso» (Opere, Utet, Novara 2013), non ci vuole molto a capire quanto questo istituto rappresenti una vera e propria piaga sociale.

Alla luce di così tanti riscontri della pericolosità della rottura coniugale per l’equilibrio della società, urge – pur nella consapevolezza che la vera medicina è rappresentata dalla necessità di un lavoro educativo – correre ai ripari. Per esempio seguendo le indicazioni di organizzazioni come Family Watch, che ritiene di poter incidere in una riduzione dei divorzi fino al 40% attraverso quattro percorsi strategici: 1) l’istituzione di un periodo di riflessione prima del divorzio; 2) la promozione della mediazione e consulenza familiare durante questo periodo di riflessione; 3) un rilancio della mediazione familiare; 4) la promozione, per le coppie, di meccanismi che possano prevenire il divorzio.

Gli scettici risponderanno che, anche se attuate, queste misure servirebbero a poco. Può anche darsi, ma perché almeno non provare? Perché le Istituzioni, anziché introdurre quel “divorzio breve” – che poi tanto “breve” non è, visti i drammatici effetti che produce e che abbiamo in parte ricordato – che in Spagna sta letteralmente mandando al macero la famiglia, non investono finalmente nella tutela e nella promozione del matrimonio? Se solo ci fosse la volontà di procedere in questo senso, forse si potrebbe realmente invertire la rotta di una tendenza al precariato effettivo che sta facendo a pezzi la società. Nessuna illusione: purtroppo la situazione è assai grave e pure in continuo peggioramento, ma forse non tutto è perduto se si torna a scommettere con convinzione sul matrimonio. Basta però che lo si faccia, cessando di assecondare le voglie di quel relativismo culturale che non ammette l’esistenza di alcun bene al di fuori di quello individuale.

Giuliano Guzzo

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