Ma laicità non significa indifferenza e neutralità…

Crocifisso classe 3 

di Marco Fasol*
*saggista e professore di storia e filosofia (cattolico)

 
 

L’articolo di Stefano Colombo sulla laicità dello Stato e sulla libertà di coscienza è ricco di suggerimenti e di riflessioni importanti. Con le mie considerazioni seguenti mi propongo di arricchire la discussione con il mio punto di vista di credente.

Dopo secoli di intolleranze, abbiamo tutti paura dei fanatici, della violenza aggressiva di chi vuole imporre agli altri la propria visione del mondo. Abbiamo tutti paura di un potere statale che vuole imporre ai cittadini il senso della vita. Allora cerchiamo di difenderci, cerchiamo nuove vie di dialogo, pronti a rinunciare ad una parte della nostra identità, perché non vogliamo imporla agli altri.

Tutto questo è molto ragionevole, ma rischiamo di scivolare nel pericolo opposto, che è quello di diventare tutti “irenisti”. Per il bene della pace, molti cristiani sinceri, preferiscono il quieto vivere dell’indifferenza di fronte ai valori. Così lasciamo che il mondo sia organizzato e regolato dagli altri, perché noi credenti ci rinchiudiamo come clandestini nelle nostre case sempre più piccole e sempre più anonime.C’è qualcosa di umiliante in questa rinuncia a noi stessi. E’ come se noi soffrissimo di un complesso di inferiorità, come se avessimo vergogna della nostra tradizione, della nostra cultura, della nostra arte, della nostra storia. Un patrimonio straordinario che è nato e si è sviluppato dall’incontro della civiltà greco-romana con quella giudeo-cristiana. Se noi rinunciamo a questi tesori, diventiamo tutti più poveri. Se l’essere “laici” significa rinunciare alla nostra identità cristiana, se significa essere indifferenti e neutrali di fronte ai valori, allora siamo diventati tutti molto poveri.

Il cardinale Angelo Scola ha pubblicato di recente il testo Non dimentichiamoci di Dio (Milano, Rizzoli, 2013) per aiutarci a riscoprire l’autentico concetto di laicità. Questo tema era già stato approfondito nel suo precedente Una nuova laicità (Marsilio, Venezia, 2007). Scola ci spiega che essere laici non significa essere indifferenti ed amorfi.

Noi non possiamo vivere senza un’etica, senza una concezione dell’uomo e della vita! Se la “laicità” viene intesa come indifferenza o neutralità è un recipiente vuoto, un’idea astratta ed impossibile. Immaginare un “pensiero laico”, un “uomo laico” come “neutrale”, indifferente ai valori, equivale ad immaginare un uomo senza qualità, senza personalità. Un uomo che non esiste né in cielo, né in terra. Invece, l’uomo in carne ed ossa è un uomo che ama, che pensa, che sceglie continuamente il bene e rifiuta o combatte il male in base alla sua visione del mondo. Una laicità amorfa esiste solo nel mondo dei sogni.

Il cardinale ci aiuta a comprendere un nuovo e più completo concetto di laicità che non significa certo indifferenza ai valori, rinuncia alla propria identità, ma testimonianza consapevole della propria visione del mondo e della vita. Non possiamo vivere senza una nostra identità, senza un progetto, una visione del bene e del male, una concezione dei diritti dell’uomo. Essere laici non può significare dunque un abdicare a se stessi, uno spogliarsi della propria personalità e delle proprie convinzioni religiose. Non esiste nessun momento della nostra vita in cui noi siamo neutrali ed indifferenti ai valori.
Essere laici significherà piuttosto accettare che il bene comune non sia deciso per autorità, nè per un ordine esterno alla competizione democratica. La nuova laicità richiede che la scelta del bene comune non venga imposta da un’autorità dogmatica che prescinda dalla competizione elettorale.

Come scrive A. Scola: “Lo stato non è indifferente al risultato del confronto democratico tra le parti… non si deve confondere la non confessionalità dello stato con la neutralità nei confronti dei soggetti civili e della loro identità culturale. Invece queste identità diventano statualmente rilevanti in virtù della loro espressione democratica”. Il “laico” non è dunque la persona senza fede! Perché una qualche fede è presente in ciascuno di noi, sia essa trascendente o immanente, materialista o scientista, edonista ecc. Diciamo piuttosto che il laico è una persona disponibile a sottoporre alle regole della democrazia le proprie scelte politiche, culturali, sociali.

In conclusione, una laicità reale, concreta e non astratta, assume con tutta evidenza e con piena legittimità l’identità religiosa. Per questo un partito laico, un pensiero laico può ispirarsi esplicitamente alla tradizione cristiana. Ed anche la comunità politica, in quanto comunità che progetta e realizza un bene comune, dovrà rispettare e realizzare la domanda religiosa dei cittadini. Il nuovo Concordato definito in Italia nel 1984 riconosce la laicità dello stato che non è più confessionale, (come lo era nello Statuto Albertino e nella precedente Costituzione) tuttavia riconosce la rilevanza sociale ed educativa dell’identità cristiana come qualificante la stragrande maggioranza del popolo italiano. Quindi legittimamente e doverosamente garantisce l’insegnamento religioso nelle scuole, su richiesta dei cittadini, e più in generale un’assistenza religiosa nelle pubbliche istituzioni. E’ vero che lo stato è laico nel senso che non impone nessun credo religioso, perché il bene non può essere imposto, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II. tuttavia è uno stato che tutela e garantisce la dimensione religiosa dell’essere umano e pertanto risponde alle domande dei suoi cittadini mediante l’istruzione religiosa, le opere assistenziali ed educative e così via. In questo concordo pienamente con il pensiero di Stefano Colombo.

Questo riconoscimento e questa sussidiarietà dello stato laico nei confronti delle associazioni religiose non significa però accettazione indiscriminata di qualsiasi credo religioso. E qui vorrei introdurre una precisazione o un’integrazione alle riflessioni di Stefano Colombo. Può infatti insorgere un’incompatibilità tra i principi costituzionali dello stato ed i contenuti etici di una determinata fede. In questo caso viene confermato il discorso precedente sull’imprescindibilità di una identità etica e culturale dell’istituzione statuale. La laicità ritrovata ci permette dunque di evitare la degenerazione in un caotico multiculturalismo incapace di distinguere i valori ed i diritti umani fondamentali. Ci garantisce invece il riconoscimento della centralità della persona e dei suoi diritti umani. Per questo la nostra Costituzione, che si presenta come manifesto di laicità dello stato, riconosce in primis i diritti umani della persona, della famiglia, della libertà religiosa, della pace, come scelte etiche irrinunciabili, non negoziabili. Siamo ben lontani dall’indifferentismo e dalla neutralità! Alla luce della Costituzione abbiamo piuttosto recuperato il concetto originario di “laico” che include il grande patrimonio della nostra identità, della nostra storia, della nostra tradizione bimillenaria, quella che riconosce a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio.

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Rodotà chiede al comune di Bologna di non risparmiare

Stefano RodotàNonostante il 70% dei bolognesi non sia per nulla turbato dal fatto che il Comune finanzi le scuole paritarie (usando lo 0,8% del bilancio totale del Comune), il giurista Stefano Rodotà non si arrende ed è tornato a chiedere al governo di tenere conto del risultato del recente referendum contro le scuole paritarie nel quale soltanto 50mila persone, su 300mila, ha dato credito alla sua iniziativa (e a quella di pochi estremisti rossi) tentando di modificare lo status quo.

La maggioranza dei cittadini non ha colto l’occasione fornita dal referendum (seppur consultivo) e, come spiegato da Stefania Giannini, rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, «ha implicitamente premiato il sistema integrato vigente».

Il giurista di “Repubblica” ha insistito a citare l’articolo 33 della Costituzione che riconosce il diritto dei privati “di istituire scuole senza oneri per lo Stato, nonostante gli sia già stato spiegato ed insegnato da Nicolò Zanon, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Milano e membro del Consiglio Superiore della Magistratura, che «non si tratta di istituire scuole, ma di far funzionare quelle che già ci sono. Nel caso concreto non solo non ci sono oneri per lo Stato; l’amministrazione comunale, a fronte di un contributo di un milione, ci guadagna molto di più, riuscendo a soddisfare una domanda di servizi alla quale diversamente non riuscirebbe a rispondere». Ha dunque commentato questi tentativi come «una lettura forsennatamente giacobina della nostra Costituzione, già documentata in altre occasioni sia da questa battaglia antiparitaria, sia da alcune note manifestazioni pubbliche. C’è un’area culturale radical-giacobina che crede di interpretare la purezza originaria dei valori della Costituzione, in realtà la tradisce dandone una lettura fuorviante e parziale». Andrea Simoncini, ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Firenze, ha continuato: «Chiunque abbia studiato la Costituzione sa bene che il “senza oneri per lo stato” non voleva impedire allo Stato di sostenere le scuole nate dalla società civile» (qui un altro approfondimento su questo specifico punto).

Ma Rodotà non ci sente, non gli importa nulla del risparmio, non gli importa nulla dell’efficienza del sistema scolastico bolognese, non gli importa se all’estero le scuole paritarie sono totalmente finanziate dallo Stato, non gli importa della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie. Lo Stato padre-padrone deve educare a tutti i costi il cittadino e vanno osteggiate tutte le forme di sussidiarietà verso iniziative che nascono dalla società e dal popolo. E’ una questione di ideologia e lo dice lui stesso: si tratta di «principi che non possono rimanere sulla carta e che, quindi, non possono essere messi tra parentesi con l’argomento dei vincoli imposti dalla crisi economica». Eh già, chi se ne importa della crisi economica e delle famiglie che non sanno arrivare a fine mese, quel che conta sono i principi (suoi)! D’altra parte lui non avrà certamente problemi se il Comune sarà costretto ad aumentare le tasse ai cittadini per cercare di far fronte al costo degli alunni che non potranno più frequentare le ormai fallite scuole paritarie. La sua pensione d’oro a 8.455 euro al mese continuerà a riceverla, come ha fatto notare Beppe Grillo.

In realtà quel che si nasconde dietro i tentativi di Rodotà e tutti i laicisti anticlericali che si sono schierati contro le paritarie (Odifreddi, Augias, Flores D’arcais, Sabrina Guzzanti ecc.) è il tentativo di “neutralizzare le identità cattoliche negli spazi pubblici” mascherando il tutto da battaglia referendaria in favore delle scuole “pubbliche”, secondo la lucida riflessione di Giuseppe Monteduro, assegnista di ricerca in Sociologia presso l’Università di Bologna. Ovvero, il senso profondo di tale iniziativa sta in una concezione distorta del concetto di laicità. In realtà, «proprio in nome della laicità figlia della cultura occidentale, occorre chiedere con forza che lo spazio pubblico torni ad essere lo spazio di tutti, di ciascuno, e nel quale ogni cultura possa contribuire al bene dell’intera comunità».

Come ha spiegato infine Virginio Merola, sindaco di Bologna (Pd), il finanziamento alle paritarie non è nemmeno una questione economica: «noi non eroghiamo fondi alle scuole paritarie solo perché siamo costretti dalla difficile situazione economica, lo facciamo perché è giusto farlo». In ogni caso, ha detto, «su trentasei milioni di budget, uno lo giro alle paritarie, come facciamo da vent’anni. Accolgono 1500 ragazzi. Noi con un milione in più ne ospiteremmo 150». E buonanotte ai sognatori statalisti.

La redazione

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Gli ideologi della casualità (Chiara Lalli, Piero Bianucci….)

Abbazia Mont Saint Michel 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Per tutta la vita Tycho Brahe (1546-1601) osservò le posizioni dei pianeti, del Sole e delle stelle. Da quelle misure di angoli e tempi il suo assistente Giovanni Keplero ricavò 3 “leggi” che descrivono la geometria delle orbite, le velocità di rivoluzione e le relazioni cinematiche tra i pianeti. Ma perché i corpi celesti seguono proprio quelle leggi? La risposta arrivò nel 1687 da una piccola equazione contenuta nei “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” di Isaac Newton:

f = Gm1m2/r2,

donde, per sovrappiù, si ricavavano le traiettorie balistiche in Terra e… le maree di Mont Saint-Michel. Se Newton avesse proposto di spiegare le ellissi dei pianeti col caso invece che con un’equazione, e così pure le loro velocità col caso, e la caduta dei gravi col caso, ecc., non sarebbe sepolto all’abbazia di Westminster tra i grandi di Gran Bretagna, ma forse avrebbe un posticino nella storia del teatro comico. Certo il “caso” gioca un ruolo negli affari del mondo, come misura dell’imperfezione conoscitiva dell’umana ragione e come effetto dell’incrociarsi delle libere volontà. Ma quando non rinuncia ad interrogarsi su ciò che accade, la scienza ove necessario sposta in là i propri limiti con il ricorso alla statistica e al calcolo delle probabilità.

La raccolta scrupolosa di dati operata da Brahe (e, prima di lui, da babilonesi e greci) fu un elemento necessario ma non sufficiente alla nascita dell’astronomia: “A Tycho Brahe mancava la fede nelle grandi leggi eterne. Perciò rimase uno fra i tanti meritevoli scienziati, ma fu Keplero a creare l’astronomia moderna” (Max Planck). Senza la “fede nelle grandi leggi eterne”, non si dà scienza. Né basta una descrizione matematica, compatta ed elegante, di osservazioni come quella condensata nelle 3 leggi di Keplero. Solo quando molte descrizioni sono dedotte logicamente da pochi postulati, siamo in presenza dello splendore d’una teoria scientifica. Questa impresa riuscì a Newton con la sua gravitazione universale fondata su quell’equazione. In generale, una teoria scientifica riguardante una classe di fenomeni è un sistema logico-formale, dai cui assiomi indipendenti, coerenti ed in minimo numero (principio di Ockam) s’inferiscono predizioni sperimentalmente controllabili (principio di falsificabilità).

Nella nostra era tecnologica si dà per scontato che esistano leggi e teorie scientifiche, ma questa esistenza si poggia su almeno 2 assunzioni:

1) La successione degli eventi naturali non è del tutto casuale e capricciosa, ma vi agiscono relazioni nascoste, dotate di qualche regolarità, che meritano di essere indagate. Questo postulato riguarda l’oggetto di osservazione e di studio, la Natura, e afferma che la Natura è almeno parzialmente dotata di ordine e leggi. Se così non fosse, nessuna scienza e nessuna tecnologia sarebbero a priori possibili; né alcuno scienziato farebbe il suo lavoro se credesse che il mondo è governato esclusivamente dal caso.

2) Le relazioni tra i fenomeni naturali possono essere percepite almeno in parte dalla mente umana. Questo postulato riguarda l’Io, il soggetto delle osservazioni universali, e afferma che l’ordine presente in Natura è almeno in parte visibile e descrivibile dall’Io. La descrizione che l’Io fa della Natura è una “corrispondenza logica” tra l’ordine oggettivo esterno dell’Universo e l’ordine soggettivo interno dell’Io (della specie terrestre Homo sapiens).

Tutti coloro che dichiarano di credere nelle scienze sperimentali credono in questa corrispondenza logica tra fenomeni naturali e linguaggio umano, anche senza rendersene conto. Ma non è sempre stato così perché, di per sé, le leggi scientifiche non hanno maggior ragione di esistere delle sirene di Ulisse, che promettevano la conoscenza ma davano invece l’oblio della morte.

Quando gli esploratori del XVI secolo scoprirono le Americhe e il Pacifico, la loro maggiore sorpresa non fu la scoperta di nuove terre, ma quella dell’egemonia tecnologica globale dell’Europa. Come mai – si chiesero – solo noi abbiamo fonderie, cannocchiali, orologi affidabili, mezzi di trasporto oceanici, ecc.? L’unica risposta che io trovo convincente è: la fede cristiana nel Logos. Mentre le altre religioni ponevano l’accento sul mistero o sul caos o sull’introspezione o sull’obbedienza ad un Arbitrio assoluto, fin dalla Patristica e poi nella Scolastica la teologia cristiana aveva attinto dai greci la logica come strumento per ragionare su Dio, creatore razionale del mondo; e per ragionare sul mondo, la cui natura la ragione umana, proprio in quanto partecipe della medesima essenza divina razionale, può indagare. Logos nella Natura creata e osservata, stesso logos nell’uomo creato e osservatore: ecco la radice storica europea della corrispondenza logica tra Natura e mente, da cui è nata la moderna tecno-scienza. Il teologo Agostino aveva indicato la strada: “Alcuni, per trovare Dio, leggono un libro. Ma anche la grandezza del creato è un gran libro [su Dio]: guarda, considera, leggi il mondo superiore e quello inferiore. Dio non ha tracciato con l’inchiostro lettere per mezzo delle quali tu lo potessi conoscere. Davanti ai tuoi occhi ha posto ciò ch’egli ha creato… Gridano verso di te il cielo e la terra: ‘Io sono opera di Dio’” (Sermones) e il fisico Galileo ha seguìto: “La filosofia [naturale, ovvero la scienza (NdR)] è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta dinanzi agli occhi, io dico l’Universo” (Lettera a Maria Cristina di Lorena, 1615).

Il positivismo ottocentesco e la sua versione aggiornata di Vienna d’inizio Novecento erano destinati al fallimento: essi non potevano negare la metafisica del Logos in nome del logos delle scienze naturali senza negare anche queste. Simul stabunt vel simul cadent. E quando si è capito da tutti che, non solo la realtà è imbevuta di valori su cui l’empiria è muta (le asserzioni normative e valutative non appartengono al mondo naturale, eppure hanno senso nel mondo reale anche più di quelle scientifiche), ma che la stessa empiria non è un mondo dato direttamente, ma un insieme matematico di dati raccolti, ordinati ed elaborati dall’Io secondo regole logiche comunque a quella estranee, filosofia e scienza hanno celebrato dopo il funerale del positivismo anche quello del neopositivismo. Nel XXI secolo l’attacco alla Creazione deve così passare attraverso l’attacco diretto alla scienza di Galileo, Newton, Einstein e Heisenberg.

Nel giro d’una settimana, nelle “pagine culturali” di nostri quotidiani sono apparsi due articoli nei quali s’inneggia al caso come “cuore pulsante dell’universo” (Chiara Lalli in “Dobbiamo imparare a convivere col caso”, Corriere della Sera) e al Caso padre di tutti i casi, il multiverso, “che sta prendendo piede” (Piero Bianucci in “Ognuno di noi ha un sosia, ma in un altro universo”, La Stampa). L’articolo di Bianucci, dove fin dal titolo s’indovina la mira di sostituire nella nuova “scienza” postmoderna l’icona fisico-matematica di Albert Einstein con quella magico-avventuriera di Giordano Bruno, è così pieno di errori storici, scientifici e anche grammaticali, che ho trovato difficoltà ad arrivarvi in fondo. E qui ne termino il commento. La Lalli invece si lascia bere d’un fiato: questa “docente di logica e filosofia della scienza” d’università (dove ai suoi studenti insegna con scrupolo la logica e il metodo scientifico, non dubitiamo), nelle vesti di “divulgatrice scientifica” per i lettori del Corriere a tutto appare interessata fuorché al rigore delle sue materie accademiche, cui preferisce le bollicine dell’auto-contraddizione, come rilevammo in altra occasione a commento d’una sua intervista a Boncinelli.

Ella, quando interroga un autore o ne commenta un libro, tralascia lo spirito critico – che ci aspetteremmo dalla giornalista – per adagiarsi alle tesi dell’interlocutore. Di Boncinelli abbracciò subito l’idea che “l’anima è un’illusione”, senza accorgersi dell’incoerenza: un’illusione di “chi”? l’anima della filosofa non coglie la certezza cartesiana d’esistere stante nel dubbio cartesiano d’illudersi? Con l’ultimo autore (tale Brian Clegg), per mostrare la fallacia degli umani sull’esistenza d’ordine in Natura ed abbatterne la fiducia a “ipotizzare schemi inesistenti piuttosto che convivere con il peso del caso”, la Lalli scopre “l’indifferenza della natura per i nostri desideri”: ma quando mai la scienza, anche quella più meccanicistica e deterministica alla Laplace, ha attribuito alla Natura sentimenti umani?!

È facile lasciarsi sedurre da schemi ordinati e diventa sempre più difficile orientarsi nella complessità del mondo, considerando che, mentre noi siamo rimasti più o meno uguali a migliaia di anni fa, intorno a noi ci sono realtà inimmaginabili anche un paio di secoli fa”, allarga sconsolata le braccia la nostra divulgatrice scientifica. Già: tutte queste “realtà inimmaginabili anche un paio di secoli fa” però, sono frutto della tecno-scienza nata nell’Europa cristiana e fondata sulla corrispondenza logica tra Natura e ragione umana. Prendiamo una di queste corrispondenze, quella in capo a tutte tra spazio-tempo e materia-energia da un lato e logos dall’altro:

Rμν – ½gμνR + Λgμν = (8πG/c4)Tμν

Questa è l’equazione della Relatività Generale. Provino gli ideologhi del caso ad “indovinare” i moti degli astri con la sua precisione, e poi l’espansione dell’Universo intero, e poi l’esistenza dei buchi neri, ecc.: eppure tutto ciò vi è ordinatamente contenuto con meravigliosi simboli!

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Violenza contro le donne: la famiglia non c’entra

Famiglia a tavolaSe si ritiene che la serietà, almeno quando si affrontano alcuni temi, sia un dovere, allora è bene agire di conseguenza evitando di tenere in vita stereotipi duri a morire ancorché totalmente infondati.

Secondo uno di questi la famiglia sarebbe l’ambiente più pericoloso per le donne e le mogli sarebbero dunque le donne col maggior pericolo di subire violenza. Tale credenza è rilanciata con insistenza da alcune fonti, come per esempio l’Osservatorio del Telefono Rosa. Ebbene, si tratta di affermazioni totalmente prive di fondamento giacché esiste una consolidata letteratura scientifica che certifica come le donne conviventi corrano lo stesso rischio, se non addirittura un rischio maggiore, di subire violenze rispetto alle donne sposate (cfr. “American Journal of Public Health 2013; “BMC Public Health”, 2011; “Bureau of Justice Statistics”, 2011), le quali però evidenziano, rispetto alle altre, tutta una serie di vantaggi per esempio nelle condizioni della gravidanza, esperienza che vivono con maggiore serenità nel matrimonio.

Il punto interessante e poco considerato è che questi riscontri emergono anche da rilevazioni effettuate in Italia e che dimostrano come la violenza domestica che taluni uomini esercitano sulle donne non abbia nulla a che vedere col fatto di essere mariti. «Sono più colpite da violenza domestica – osserva l’Istat – le donne il cui partner è violento anche all’esterno della famiglia». E’ dunque la violenza di alcuni uomini in quanto violenti, non già in quanto mariti, il problema su cui si dovrebbe ragionare, senza ricorrere a banalizzazioni volte solamente a gettare fango sulla famiglia e, nello specifico, sul matrimonio. Anche analizzando le molestie fisiche in senso lato subite dalle donne in Italia si riscontra come il fenomeno, nella maggior parte dei casi, non riguardi la famiglia. Osservano i ricercatori dell’Istat che «prendendo in considerazione le sole molestie fisiche, ovvero le situazioni in cui la donna è stata avvicinata, toccata o baciata contro la sua volontà, è possibile osservare che la maggior parte di esse sono perpetrate da estranei (59,4 per cento)». Quello del “marito mostro” – anche se ciò non toglie che molti mariti si siano resi e si rendano purtroppo autori di violenza nei confronti delle proprie mogli – è dunque uno stereotipo giacché le violenze fisiche per lo più risultano «perpetrate da estranei».

Non regge all’evidenza empirica neppure la tesi – anch’essa rilanciata con frequenza per diffamare la famiglia – secondo cui, tra le donne che subiscono violenza, quelle sposate o che comunque conoscono il proprio partner sarebbero meno inclini, rispetto le altre, a sporgere denuncia dal momento che, sempre l’Istat, ci informa che se il 93% delle donne che afferma di aver subito violenze dal coniuge ha dichiarato di non aver denunciato i fatti all’Autorità detta, la percentuale sale al 96% se l’autore della violenza non è il partner (cfr. Istat 2008, “La violenza contro le donne. Indagine multiscopo sulle famiglie. “Sicurezza delle donne” Anno 2006). Né va sottaciuto un altro aspetto: le violenze che si verificano fra coniugi sono per lo più legate al tramonto della vita coniugale, non già al fatto di viverla: altrimenti non si spiegherebbe come mai dal gennaio 1994 all’aprile 2003, per esempio, si siano verificati 854 omicidi maturati in seguito a divorzi, separazioni o cessazioni di convivenze e, su un campione di 46.096 casi di divorzi, separazioni e cessazioni di convivenza analizzati, 39.919 (l’86,6%) abbiano avuto implicazioni penali come calunnia, minacce, sottrazione di minore, percosse, maltrattamenti, lesioni, sequestro di persona, violenza privata, violenza sessuale (cfr. Dati Associazione Ex cit. in. Ludovici G.S. «IL TIMONE» n. 55 Anno VIII – Luglio/Agosto 2006, pp. 32 – 33).

Per non parlare dei danni che la fine del matrimonio arreca ai figli. Lo certifica in particolare un recente studio condotto sulla popolazione canadese ed effettuato confrontando dati raccolti nel 2005 con quelli rilevati dieci anni prima, nel 1995, che ha rilevato come – rispetto ad un tasso di abuso infantile medio pari al 3,4% –  il divorzio comporta, per i figli di genitori decisi a lasciarsi, una percentuale di abusi pari al 10,7%; questo significa che il divorzio, a suo tempo introdotto e salutato quale istituto moderno e filantropico triplica per questi la possibilità di rimanere vittime di violenze. Dicendo questo, lo ribadiamo, non s’intende in alcun modo negare che la famiglia possa purtroppo divenire luogo di violenza contro le donne, ma solo chiarire che il problema rimane la violenza e non il matrimonio, che in quanto tale non risulta affatto generatore di violenza. Tutt’altro. E questo vale – con buona pace del Corriere della Sera on line, che lo scorso agosto scrisse che «la famiglia uccide più dei criminali» – anche sul versante non solo intimo della coppia, ma pure sociale, come attestano per esempio studi che hanno riscontrato come il matrimonio risulti correlato ad una riduzione del crimine del 35% [10].

A quanti non fossero ancora persuasi dai dati sin qui ricordati e pensano che l’Italia non sia “un Paese per donne” ricordiamo che da noi, dove pure casi di violenza purtroppo non mancano, questi sono percentualmente inferiori rispetto a quelli accaduti in altri Paesi europei, solitamente dipinti come all’avanguardia rispetto alla “cattolica” e “patriarcale” Italia. A dirlo sono i numeri di donne vittime di omicidio: per gli anni 2008 e 2010 l’Italia, col suo 23,9% di vittime femminili di omicidi, si colloca in una posizione molto più favorevole rispetto a tanti Paesi quali la Svizzera (49,1%), il Belgio (41,5%), la Croazia (49%), ed in linea con gli Stati Uniti (22,5%). Sia chiaro: questo non ci autorizza ad abbassare minimamente la guardia e a giustificare i casi di violenza – neppure uno! – che si verificano nel nostro Paese. Tuttavia sapere che l’Italia non è, per le donne, quell’inferno che spesso i mass media denunciano, aiuta a comprendere la differenza fra la realtà di un fenomeno e la sua distorta rappresentazione.

Tornando a noi, ossia al legame – del tutto pretestuoso e smentito da riscontri che qui abbiamo citato solo in parte – fra violenza sulle donne e famiglia fondata sul matrimonio, ci permettiamo un ultimo pensiero, che poi è anche un invito: perché i mass media, anziché insistere con resoconti dettagliati e spesso macabri circa gli episodi che purtroppo vedono vittime delle donne, non riservano spazio anche alle storie di donne sposate e che, senza ipocrisie, si spendono assieme ai loro mariti per mandare avanti la famiglia e pagare gli studi ai figli? Perché l’eroismo silenzioso di tante mogli e madri deve passare sempre in secondo piano rispetto alle orrende violenze di cui si rendono autori alcuni uomini? Forse perché pubblicizzare il Male rende economicamente di più rispetto al racconto del Bene? E ancora: la censura sistematica nei confronti delle storie di queste mogli e madri – e delle loro famiglie – non è forse, per certi versi, l’ennesima forma di violenza e di attacco alla dignità della donna e del matrimonio?

Giuliano Guzzo

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Retorica illuminista, ma ormai Odifreddi è da museo

Odifreddi vince l'asino d'oroOdifreddi non si arrende, in pieno 2013 ancora recita a memoria la retorica illuminista: «spero che il Vaticano diventi un grande museo all’aria aperta, uno degli effetti secondari della cultura scientifica sia non credere nei dogmi e nella religione ma nelle cose che vengono dimostrate e sperimentate, quindi una cultura dimostrativa e razionale», come ha detto recentemente al festival Passepartout di Asti.

Il Pierpippo nazionale è ancora a questi livelli? Ancora a “credo solo a quel che si può dimostrare scientificamente”? In poche parole un troglodita da museo all’aria aperta dei personaggi più bizzarri che hanno contraddistinto gli ultimi dieci anni, come lo ha definito un nostro lettore che si è divertito qualche mese fa a trollarlo sul suo blog ospitato da “Repubblica” (ormai unica sua fonte di sussistenza pubblica). Micidiale la stoccata inflitta al noto matematico incontinente: «Odifreddi non ha ancora spiegato la tesi secondo cui solo i cretini non rifiutano la Bibbia. Tuttavia i più grandi pensatori della storia della scienza hanno detto proprio il contrario, sono dunque cretini loro oppure è cretino l’autore della tesi? Perché l’autore di tale tesi si fa chiamare “scienziato” e poi non ha mai realizzato una pubblicazione in peer-review, al contrario dei tanto odiati (da lui) Paolo Diodati, Giorgio Israel e Antonio Ambrosetti?». Ricordiamo che il primo di questi, assieme ad altri docenti universitari, lo ha nominato per ben due anni il peggior divulgatore scientifico d’Italia, premiandolo con due Asini d’Oro (2007 e 2009).

Ringraziamo comunque il simpatico pensionato torinese per permetterci di tornare sul tema della religione tra gli scienziati, questione che -non si sa perché- appassiona parecchio anticlericali e laicisti di ogni risma. Se si vuole affrontare con serietà tale argomento non si può però prescindere dagli studi più recenti, ovvero quelli realizzati da Elaine Howard Ecklund, professore associato di Sociologia e Director del Graduate Studies presso la Rice University Department of Sociology e vincitrice di alcuni premi dalla National Science Foundation.

In un libro pubblicato nel 2010 dalla prestigiosa Oxford University Press, la sociologa ha mostrato i risultati di una ricerca condotta su 1.700 scienziati d’elite, trovando che coloro che affermano di avere una religione rappresentano il 50%, mentre gli atei o gli agnostici dichiarati arrivano al 30% e solo la metà di essi ritiene che religione e scienza siano «inevitabilmente in conflitto». Il restante 20% si qualifica come aventi un «rapporto individualizzato e non convenzionale» con l’Assoluto (deisti, potremmo definirli). Ma c’è di più: la studiosa ha evidenziato che gli scienziati più giovani sono più religiosi di quelli con i capelli bianchi e considerano meno antagoniste ricerca scientifica e indagine spirituale. «Non so precisamente il motivo per il quale i più giovani si dichiarano maggiormente religiosi», ha annotato Ecklund in un’intervista per “Avvenire”, «forse questo può derivare dal fatto che oggi vi è più possibilità di conversare sulla religione nelle migliori università di quanto avveniva nel passato».

Proprio in questi giorni Susan Hanssen, docente di storia presso l’Università di Dallas ha osservato che «la religione è l’intuizione razionale primaria nella nostra condizione umana e deve essere anche al centro del nostro discorso pubblico». Non è un caso che a dirlo sia un professore di storia, dato che è evidente come i più grandi scienziati esistiti siano stati tutti (o quasi) ferventi religiosi e in massima parte cristiani come abbiamo mostrato in questo dossier. In aggiunta, in questo secondo dossier abbiamo raccolto (e stiamo raccogliendo) centinaia di citazioni di questi celebri scienziati, ognuno vi può trovare quella più adeguata a rispondere agli ultimi sussulti dei “nipoti ritardati del positivismo” (copyright Lanfranco Pace).

La redazione

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Lo squallore del Gay Pride e la controproposta dei cittadini

Gay PrideDal 14 al 23 giugno 2013 si svolgerà a Palermo il Gay Pride Nazionale 2013, la cosiddetta “fiera del nulla” attraverso la quale gli omosessuali penseranno di eliminare i pregiudizi vestendo (per poi togliersi, vedi foto) abiti carnevaleschi e mimando rapporti sessuali all’interno di adolescenziali orgie esibizioniste consumate su carri colorati mentre sfilano in mezzo alle strade palermitane, tra bambini e genitori.

La manifestazione del presunto orgoglio gay è sostenuta dal governo grazie alla presenza del presidente della Camera, Laura Boldrini (SEL) e dal ministro delle Pari Opportunità, Josefa Idem (PD), nonché patrocinata con 10mila euro dalla Regione Sicilia e dal Comune di Palermo nonostante la protesta di tante associazioni cittadine e regionali, come ad esempio la Campagna Sos Ragazzi. «Inopportuno ci sembra inoltre il contributo destinato alla manifestazione dalla Città di Palermo: denaro che sarebbe stato più opportuno investire in altri modi», ha spiegato Filippo Campo, responsabile di Sos Ragazzi.

Oltre alla infantile sfilata, il 20 e il 21 aprile -sempre all’interno delle manifestazioni del Gay Pride- si è svolto un altro evento come è stato opportunamente segnalato da Luisella Saro. Ovvero, si legge, una «due giorni di contaminazioni tra corpi, desideri, sovversione di genere, postporno, pornoestetica con laboratori, performance, pornocucina…». Attenzione al chiodo fisso: il 20 aprile secondo il programma c’è stato un Workshop «sulle rappresentazioni della sessualità attraverso il punto di vista del Postporno, un insieme di pratiche discorsive atte a decostruire gli stereotipi eteronormativi che le caratterizzano e che si propone come mezzo di riappropriazione del proprio immaginario sessuale». Chi capisce cosa significhi ci avverta, per favore. In serata invece «uno showcooking ironico con la preparazione di un dolcissimo dessert vegano servito su vassoio umano». Per concludere un «rituale iniziatico alla sacralità dell’Osceno» (con lettera maiuscola). La domenica si è lavorato invece su «Spudorat – Esercizi di volgarità espressiva», cioè un «laboratorio di Porno–Estetica per vaiasse, troie e troioni latenti. Per tirare fuori l’espressività più colorita, assertiva e sessuata del movimento, della voce e della parola, dando vita a quella parte di noi che la cultura comune perseguita come volgare, sessualmente “troppo” esplicita, politicamente scorretta. L’oscenità della libertà espressiva è il fattore che innesca l’aggressività sessuofoba comune sia nei vissuti omofobi che misogini. Siamo disposti a tuffarci nella volgarità alla ricerca di quella vitalità erotica che dà fastidio alla cultura coercitiva. Primo modulo: IL CANNOLO».

E questo era solo un piccolo assaggio di quello che avverrà durante il Gay Pride di giugno, patrocinato da Regione e Comune. Ma anche Milano non scherza, tanto che il “Fatto Quotidiano” ha realizzato una recensione mistica del Muccassassina, ovvero -si legge- «un enorme paese dei balocchi fatto non di sesso e turpitudini ma di divertimento allo stato puro, cazzeggio totale». Anche qui tutta roba per persone mature. Dentro vi si può incontrare «tutta la gamma di froci e frociaroli che somiglia davvero a uno spettro infinito di colori. Checche, orsi, favolose, travestiti, marchette, studenti, fisicati, zoccole e nerd: c’è di tutto, non manca davvero nulla di quel panorama ampissimo che è l’universo LGBT». Ah, questo sarebbe l’universo LGBT?

La descrizione del locale continua: «Tocca smontare queste leggende: sulle piste di Muccassassina si balla, ci si dimena, si Family day“sfrocia” (verbo più utilizzato dello slang omosessuale), ma non si scopa. Non lì, perlomeno. Perché al primo piano esiste una vasta e accogliente dark room, dove si consumano rapporti sessuali fugaci e anonimi, squallidi e sudati, ma che sono parte integrante, almeno per alcuni, di un rito settimanale che ha la sua liturgia. Sono nati amori, su quei divanetti. Così come storiacce di sesso fugace, orgie e tradimenti colpevoli. Per fortuna». Bando al moralismo, avverte l’autore del delirio Domenico Naso, perché «il Mucca è uno stato mentale, un’esperienza ultraterrena, un non-luogo». Per questo «il venerdì sono tutti lì, a compiere il settimanale pellegrinaggio in quello che potremmo definire il Vaticano gay del nostro paese». La domanda sorge spontanea: ma l’American Psychological Association (APA) è al corrente di tutto questo?

Fortunatamente, tornando a Palermo, 13 associazioni regionali e nazionali lo scorso 16 maggio hanno costituito il comitato “Family day Palermo” (www.familydaypalermo.wordpress.com) per non lasciare la città in silenzio davanti alle ossessioni (omo)sessuali. Nei giorni 22-23 giugno 2013 in contemporanea si svolgerà infatti il “Family Day Palermo – Giornata della Famiglia”. Nessuna stanzetta per “sesso fugace, orgie e tradimenti colpevoli”, ma spettacoli, canti tradizionali, tavole rotonde e presentazione di libri. Si parlerà ad esempio del libro di Luca di Tolve, ex omosessuale ora sposato e convertito al cattolicesimo, che interverrà personalmente per raccontare della sua esperienza anche nella mattinata di domenica e verrà presentata la rivista Pro life news.

La redazione

 

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Ancora oggi i preti cattolici difendono i nativi dai colonialisti

Missionario amazzoniaDobbiamo davvero essere grati al prestigioso sociologo americano Rodney Stark e dovremmo anche domandarci come mai tra tutti i ricercatori e studiosi cattolici usciti dalle decine di Università cattoliche ci troviamo oggi a ringraziare sopra tutti uno studioso che cattolico non è, ma ex agnostico e oggi vicino alla chiesa episcopale.

Chiunque voglia affrontare il ruolo della Chiesa cattolica nella storia, in particolare per le tematiche su cui è soventemente attaccata, non può prescindere dai libri Stark che è riuscito a contrastare egregiamente la storiografia anticlericale che ha dominato fino al secolo scorso (e lo ha fatto in modo attendibile, la bibliografia citata a fine libro arriva sempre a sfiorare le 50 pagine!).

Rispetto al colonialismo europeo, ad esempio (lo ha fatto notare Francesco Agnoli), ha fatto notare che le leggi schiaviste più umane erano quelle della Spagna e della Francia: questo a causa della influenza esercitata dalla Chiesa cattolica, in prima linea nel difendere la natura umana e di creature di Dio anche degli schiavi. «Il problema non era che la Chiesa non condannava la schiavitù, quanto piuttosto che erano in pochi ad ascoltarla» (“A gloria di Dio”, Lindau 2011), ha spiegato, osservando addirittura che nell’Inghilterra anglicana e nella Danimarca protestante si scatenarono spesso le ire e le persecuzioni nei confronti dei cattolici più coraggiosi nel difendere il diritto alla libertà.

In ogni caso abbiamo già affrontato la questione in uno specifico dossier su questo sito web, dove abbiamo anche citato la posizione dei più grandi studiosi in questo campo, come lo storico americano Eugene D. Genovese, fra i massimi esperti di schiavismo americano: «Il cattolicesimo», ha scritto quando ancora era un leader del marxismo, «ha impresso una profonda differenza nella vita degli schiavi. E’ riuscito a creare un’etica nuova ed autentica nella società schiavista americana, brasiliana e spagnola» ( E. Genovese, “Roll, Jordan, Roll: The World the Slaves Made”, 1974, pag. 179).

In questi giorni è tornato sul tema anche Franco Cardini, noto storico italiano e ordinario presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (Sum), il quale ha spiegato: «sarebbe ingiusto negare che molti della Chiesa cattolica si siano piegati alle esigenze delle potenze colonialistiche e alla loro pratica di violenza e rapina. Resta tuttavia un fatto: nel mondo protestante non c’è nessun missionario che sia riuscito a combattere ingiustizia e violenza con lo stesso successo con cui l’hanno fatto i cattolici: e difatti nell’America settentrionale e Oceania si sono avuti sistematici genocidi su larga scala, messi in atto sopratutto da inglesi e olandesi, che non trovano riscontro nell’America meridionale dove stragi e razzìe di schiavi ebbero certamente luogo, ma dovettero fare i conti con apostoli che difesero i nativi a viso aperto, spesso accettando insieme a loro la persecuzione». E’ il caso del domenicano Bartolomé Las Casas che riuscì a convincere Carlo V a promulgare le “Nuevas Leyes”, «irreprensibile codice garantista nei confronti dei nativi, che resta un modello giuridico a testimonianza del senso di equità di un sovrano cattolico e che impedì molte sopraffazioni».

Ma la lotta contro il colonialismo, nel continente mesoamericano, continua ancora oggi. Purtroppo l’offensiva delle multinazionali neocolonialiste, ha spiegato Cardini, «si è andata sviluppando di pari passo alla campagna di sètte protestanti che, ad esempio in Guatemala, hanno quasi sradicato la Chiesa cattolica». La cronaca di oggi ci dice infatti che, ad esempio, il vescovo brasiliano Pedro Casaldaliga è stato obbligato a lasciare la sua residenza a causa delle minacce di morte ricevute per la sua difesa degli indios. In Honduras padre Candido Pineda è stato più volte minacciato per la sua attività in difesa degli indigeni e dei contadini poveri, ed è stato arrestato per questo dalla polizia. In Amazzonia i missionari cattolici stanno difendendo i nativi contro le multinazionali e le loro ruspe, padre Dario Bossi ha recentemente vinto contro il colosso minerario Vale, salvando i villaggi locali. E così via.

Non a caso la conclusione dell’articolo di Cardini è questa: «I tempi sono cambiati: ma nel continente americano la battaglia tra chi difende gli oppressi e chi sostiene gli oppressori continua. E i preti cattolici sono ancora in prima linea».

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Emergency come Radio Maria, ma Concita resta zitta

Concita de GregorioAncora una volta un episodio di ipocrisia laicista e di denigrazione cattolica. Arriva come spesso dalle colonne di “Repubblica” e dalla penna della nuova icona laica Concita De Gregorio che ultimamente sembra davvero appassionata alla retorica anticlericale.

Pochi giorni fa ha denunciato in prima pagina che Radio Maria, sotto forma di questionario ha invitato gli ascoltatori più anziani a fare testamento per l’emittente radiofonica diretta da don Livio Fanzaga che ogni giorno tiene compagnia e aiuta a pregare milioni di persone. Il noto sacerdote ha spiegato che si tratta di un’iniziativa dell’ufficio commerciale e non sua.

La Concita ha accusato Radio Maria di circuire sadicamente i vecchietti e portare via loro l’eredità facendo leva su una lettera, un depliant, un questionario e perfino un’eventuale visita a casa di un loro addetto. Il tutto metterebbe in atto una «soave circonvenzione d’incapace». In realtà, come è stato ben spiegato, quello dei lasciti testamentari è tema attualissimo nel campo del fundraising. Non sarà proprio un’idea geniale ma proprio in questo mese è partita la campagna “Testamento solidale” per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla nozione stessa di testamento, firmata da numerose associazioni: Action Aid, Aism, Ail, Fondazione Don Gnocchi, Lega del Filo d’Oro, Save the Children e Unicef, con la collaborazione del Consiglio nazionale del notariato.

Tutte queste organizzazioni, così come numerose altre, hanno i loro depliant, i loro questionari, i loro numeri verdi, i loro colloqui personali per approfondire le modalità in cui attuare un lascito testamentario, esattamente come Radio Maria. Anche sul sito dell’associazione Emergency è partita la campagna per lasciare i propri averi in eredità all’ente guidato da Gino Strada. E funziona da tempo: nel 2011 su 26 milioni di “entrate”, 1,5 sono lasciti testamentari. «Con un lascito testamentario a favore di Emergency fai una scelta di solidarietà», si legge nella pagina dedicata, che subito dopo spiega: «permetterai ai nostri medici di continuare a portare cure alle vittime della guerra, delle mine antiuomo e della povertà».

Eppure l’editorialista di “Repubblica” non ha pensato di citare Emergency perché probabilmente a lei interessava soltanto delegittimare la radio cattolica più famosa d’Italia. Alla fine di tutto, l’unica che si può accusare di “soave circonvenzione d’incapace” è soltanto lei: Concita de Gregorio.

La redazione

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La presenza cristiana nei Paesi ateo-comunisti

Cristiani in CoreaSono passati oramai 23 anni da quando in Albania è caduto il regime comunista con la sua ideologia di ateismo di stato, tuttavia ancora se ne vedono gli effetti al giorno d’oggi. La situazione è di poco diversa per la Corea del Nord, in quanto la dittatura è attualmente in vigore.

Iniziamo dall’Albania che una volta era uno stato dalle forti radici cristiane, fondato da santi e martiri come Giorgio Castriota Scanderberg, che fu nominato dal Papa come Athleta Christi (il Campione di Cristo) e che impedì l’invasione ottomanna in Europa fino alla sua morte. Eppure ancora oggi questo stato sta cercando di smaltire i postumi del regime comunista che diventò carnefice dei molti cristiani, prelati, vescovi e laici. Al giorno d’oggi l’Albania non ha trovato la sua identità religiosa e di stato, come testimoniava Teodor Nasi (giovane avvocato cristiano albanese) alla presentazione di una mostra sulle radici dell’Albania al Meeting di Rimini 2012. Dopo 25 anni di regime il popolo fatica a credere di essere libero, tanto da confondere la libertà con l’emigrazione verso un altro paese.

E’ in questo contesto odierno che tuttavia vengono alla luce molti volti cristiani che nonostante le circostanze fanno risplendere la loro fede. Tra questi c’è Maria Dhimitri, una donna semplice che faceva l’organista in una chiesa a Kavaja e che rimane oggi una dei pochi colti cristiani sopravvissuti al comunismo. L’accesso alla chiesa durante gli anni dell’ateismo di Stato era vietato perché “tutti i sacerdoti sono stati arrestati, uccisi o rinchiusi in prigione e il governo minacciava le persone dicendo che “i muri hanno orecchie e che avevano spie statali ovunque”. Come molti altri cattolici Maria si chiudeva in casa e pregava con i suoi familiari cercando di non fare il minimo rumore sospetto, fino al 1990 quando il Comunismo cadde.

Guardando la situazione odierna della Corea del Nord di Kim Jong-un si nota una forte similitudine per quanto riguarda i diritti umani, come mostrano i recenti casi di cannibalismo dovuti alla povertà e alla fame del popolo. E’ incredibile notare che, anche in una situazione come questa, il volto di Cristo si fa presente tra gli ultimi attraverso la sua Chiesa: si parla di Gerald Hammond Crossing, ovvero l’unico sacerdote cattolico in grado di poter entrare regolarmente in Corea del Nord. Nato negli Stati Uniti è arrivato come missionario nella penisola coreana appena dopo la fine della guerra fratricida che divise il Paese tra Nord e Sud. Oggi Padre Gerald si occupa dei malati di tubercolosi insieme ad un medico, un infermiere e alcuni esperti di tbc.

“I medici e i pazienti sono molto grati per l’aiuto che portiamo. Sono sempre stato accolto in modo molto cordiale. Sanno che noi andiamo da loro solamente per portare aiuto umanitario” Tuttavia “io sono un sacerdote e ho anche altro da dare alla gente. Posso dare la speranza. Io parlo di questo e parlo anche di riconciliazione tra il popolo del Nord e quello del Sud”. Racconta ancora Padre Gerald: “ll Governo parla di circa 3mila cattolici su 23 milioni di abitanti. Ma non c’è in alcun modo una presenza visibile della Chiesa. All’inizio della Guerra di Corea, iniziata nel giugno del 1950, tutti i vescovi, i sacerdoti, le suore e i catechisti sono stati arrestati o uccisi.  Mi piace pensare che sto andando in un luogo di pellegrinaggio. Perché, se guardiamo con gli occhi della Chiesa, quello è un Paese imbevuto del sangue dei martiri e della gente che soffre. Per me è un pellegrinaggio.

Continua ancora Padre Gerald: “Dicono che non dovrei aiutare un Paese terrorista, che è un regime comunista e tutto il resto. Ma a me la politica non interessa. Io credo che questo sia quello che Cristo ci chiede di fare. Ci chiede di prenderci cura delle persone più trascurate. Io la chiamo “pastorale della presenza”: essere lì. C’è la dimensione religiosa, certo. Ma c’è il fatto che aiuti la gente e la gente sa chi sei tu. Tu gli dai vita, permetti loro di sopravvivere. Ma gli dai anche la speranza”.

Lorenzo Bartolacci

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“L’etica laica è migliore”, ma poi Veronesi tradiva la moglie

Umberto VeronesiTutti conoscono Umberto Veronesi, direttore scientifico dell’Istituto Europeo di Oncologia nonché prestigioso medico che ha speso la sua carriera lavorativa alla prevenzione e alla cura del cancro, premiata dalla bellezza di tredici lauree honoris causa, nazionali e internazionali.

Non tutti invece conoscono l’altra faccia di Veronesi, quella decisamente meno meritoria. Parliamo del Veronesi militante ateo-anticlericale, antireligioso e a volte anche denigratore della fede cristiana. Troppe volte ha usato il “Dawkins-game”: sfruttare la sua autoritaria posizione in campo scientifico per invadere i confini della filosofia e della teologia e sparare a zero contro i credenti: «la religione, al contrario della scienza, impedisce di ragionare», un esempio tra tanti. Un altro: «i non credenti curano meglio dei credenti».

Favorevole all’aborto radicale, ritiene l’amore omosessuale più puro di quello etero, fautore dell’eutanasia considera gli stati vegetativi dei “morti viventi” e pensa che «dopo aver generato i doverosi figli e averli allevati, il loro compito è finito, occupano spazio destinato ad altri, per cui bisognerebbe che le persone a cinquanta o sessant’anni sparissero» (“La libertà della vita”, Edizioni Cortina Raffaello 2006, pag. 39). Nel libro “Essere laico” (Bompiani Milano 2007, pp- 55-56) ha affermato: «Le indagini [quali?, ndr] ci dicono che il 90% dei russi è rimasto solidamente non credente. Quindi chi conquista con la forza della ragione una posizione agnostica è difficile che torni indietro». Le statistiche dicono il contrario, da notare comunque l’elogio dell’ateismo di stato dell’Unione Sovietica come “laicità realizzata e razionale!”.

Più volte Veronesi ha voluto paragonare l’etica laica a quella religiosa, spiegando come la prima sia migliore e più matura. «L’allontanarsi dalla religione mi ha fatto maturare», ha scritto sempre in “Essere laico”. Non c’è bisogno della religione e dei comandamenti cristiani, spiega nel libro, perché per avere una coscienza etica basta credere alla forza dei laicissimi valori umani prodotti dall’evoluzione biologica e culturale. In un’intervista nel 2009 addirittura disse: «l’etica laica è mille volte superiore all’etica religiosa perché ti dice che devi comportarti bene per il rispetto degli altri mentre l’etica religiosa ti impone di comportarti bene perché cosi vuole Dio». Il concetto è ovviamente semplicistico: fin dall’inizio i cristiani si sono preoccupati e occupati degli altri (mentre pagani e romani scappavano dai malati, ad esempio) in quanto hanno guardato all’essere umano come fratello, anch’egli figlio di Dio da amare e rispettare in quanto portatore di un valore unico. «L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si potè più sacrificare», scrisse Nietzche in “L’anticristo”. Anche l’essere più misero e impotente ha acquisito una sacralità infinità quando Dio non ha avuto vergogna di farsi uomo.

In ogni caso appare curioso sentire da Veronesi che per lui il rispetto degli altri si basa sull’etica laica e poi scoprire il trattamento verso sua moglie, che tradiva con un’altra donna dalla quale ha anche avuto un figlio. E’ stato rivelato in un libro autobiografico scritto proprio dalla sua consorte, Sultana Ranzon Veronesi (Il cuore, se potesse pensare, Rizzoli 2013) che addirittura secondo Dagospia avrebbe “sputtanato” il celebre oncologo. Lei stessa ha comunque ribadito: «Però mi ha sempre sostenuto nei momenti difficili». I quotidiani hanno riportato una piccola frase, ma occorre andare a leggere cosa direttamente c’è scritto nel libro, capitolo 34.

«Umberto disse improvvisamente: “Susanna, ti devo fare una confessione”. Guardando fisso la strada con le mani sul volante mi confessò: “Ho un altro figlio di quattro anni”. Mi sentìì gelare, mi irrigidii e lo guardai sbalordita», scrive oggi la moglie di Veronesi. «Avertii un dolore acuto allo stomaco, come se avessi ricevuto un pugno violento. Ero ferita mortalmente, sentivo salire dalle viscere un odio implacabile, una sorda umiliazione». Continua poi: «per quanti tradimenti sospettassi non avevo mai considerato l’evenienza di un figlio. Per dieci, quindici anni mi era stato tenuto nascosto questo adulterio. Non tolleravo la sua vista, le sue parole, le sue scuse infantili. Mi sembrava di non poter più sopportare le attese snervanti, i sotterfugi, le scuse, le bugie, le umiliazioni fuori e dentro le mura domestiche. Persino nelle mie discussioni con il personale lui parteggiava pubblicamente per loro, accusandomi anche se non aveva capito bene i termini del contendere».

Il racconto prosegue agghiacciante: «Umberto era rammaricato di avermi procurato tanto dolore. Malgrado tutti i tradimenti giurava che io ero l’unica donna che avesse mai amato, l’unica con cui si trovasse bene fisicamente e psichicamente. Come facevo a credergli? Forse preferiva restare a casa sua perché era un albergo funzionante e gradevole. Forse preferiva stare con me perché non ero una rompiscatole, non parlavo mai, lo lasciavo sempre libero di fare quello che voleva. Mi sentivo schiacciata dalla sua personalità. Era come avere sempre un coperchio sulla testa che mi impediva di sollevarla. Non gli chiesi più informazioni sulle partenze, sui ritardi, sulle uscite serali per evitargli la fatica di inventare bugie. Trascorsero i mesi. Un pomeriggio prima di Natale chiesi ad Umberto di accompagnarmi a cercare i regali per i nostri figli. Mi rispose che era impossibilitato, aveva molto da lavorare in ospedale. Mi avvia da sola in giro per i negozi. A un tratto in piazza San Babila lo vidi ridente sotto braccio alla sua compagna, che andavano assieme a far compere per il loro bambino…mi sentii raggelare e mi vennero le lacrime agli occhi. In tanti anni di matrimonio non aveva mai voluto accompagnarmi a fare acquisti. Era un atteggiamento “piccolo borghese”, come affermava spesso. Avevo sempre dovuto provvedere da sola al vestiario dei figli, del marito, agli oggetti per la casa, ai regali per gli ospiti, per i matrimoni, per ogni incombenza relativa alla famiglia. Girai l’angolo per non farmi vedere».

Non siamo certo ipocriti: l’umiliazione di questa donna, ci teniamo a dirlo, è la stessa sperimentata purtroppo da tantissime mogli di mariti pii, religiosissimi e cattolicissimi. Ma che, per lo meno, non vengono visti come riferimenti (bio)etico-morali ed evitano di andare sulle pagine dei principali quotidiani a far gareggiare l’etica laica contro quella religiosa, nonché -probabilmente per coerenza interiore- si risparmiano di predicare laicissimi sermoni sul rispetto degli altri.

La redazione

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