Che differenza c’è tra darwinismo e la teoria di Darwin?

Eugenie Scott 
 
di Enzo Pennetta*
*docente di Scienze naturali

 

Eugenie Carol Scott è un nome che non è noto al grande pubblico, si tratta di un’antropologa che è direttore esecutivo del National Center for Science Education (NCSE), l’ente statunitense che dovrebbe promuovere l’educazione scientifica ma che sin dal suo logo si dichiara più che altro in difesa del darwinismo e della tesi del Global Warming Antropico.

E.C.Scott ha recentemente annunciato che entro la fine dell’anno si dimetterà da direttore esecutivo del NCSE, una posizione dalla quale ha promosso una visione dell’evoluzionismo che ha avuto, e ancora avrà, importanti ricadute in ambito scolastico negli USA. Se da un lato la Scott può essere annoverata tra i più decisi sostenitori della teoria darwiniana e una delle più accese nemiche del creazionismo, al tempo stesso la stessa può essere certamente presa come esempio di una presenza critica interna al darwinismo che recepisce una delle principali obiezioni che da sempre giungono dal versante antidarwinista.

Eugenie Scott ha infatti affermato che non si dovrebbe più chiamare la biologia evoluzionistica con il temine “darwinismo” in quanto ormai i cambiamenti sono stati così tanti rispetto alla teoria iniziale che l’utilizzo di tale termine ostacola la corretta comprensione dello stato attuale della materia. Ma non solo, la dott. Scott ha dichiarato che l’utilizzo del termine darwinismo per via di quella desinenza in “-ismo” diventa uno strumento in mano ai creazionisti che in questo modo rappresentano l’evoluzione come “una pericolosa ideologia, un -ismo, che non deve trovare posto in una aula di scienze“.

Su una cosa siamo d’accordo, la teoria dell’evoluzione è oggi così diversa da quella di Darwin che non ha più senso chiamarla “darwinismo”, ma su chi ne tragga vantaggio da tale situazione c’è qualcosa da dire. Il darwinismo inteso come ideologia non è un termine inventato dagli avversari della teoria, è un’importante realtà storica che andrebbe insegnata come tale e che non andrebbe confusa con la teoria dell’evoluzione di Darwin che ne è stata, e ne è tuttora, la “giustificazione” scientifica. A differenza di quanto sostiene E. Scott, il termine darwinismo non deve quindi essere eliminato, al contrario, dovrebbe essere mantenuto ma non per indicare la teoria dell’evoluzione, bensì quell’ideologia che interpreta la società umana in termini di “conservazione delle razze favorite nella lotta per la vita“, come recita il titolo dell’opera principale di Darwin.

Chiarito questo punto va detto che, a differenza di quanto sostenuto dalla Scott, non è ai creazionisti che fa comodo usare il termine “darwinismo” per fuorviare il dibattito, sono infatti i sostenitori della teoria neo-darwiniana che hanno tutto l’interesse a fuorviarlo cercando anche pretestuosamente lo scontro con i “creazionisti”. Riducendo infatti ogni critica alla teoria ad una posizione creazionista, e quindi antiscientifica, si mette in atto un espediente che ha come scopo quello di evitare di riconoscere come legittime le  critiche e quindi di dover dare delle risposte.

Eugenie C. Scott, nonostante il suo importante incarico,  con ogni probabilità resterà dunque inascoltata, il nome di Darwin e tutti i termini da esso derivati costituiscono di fatto un marchio internazionale, un vero e proprio “brand” sul quale da un secolo e mezzo si è investito facendone un prodotto di successo. E nessuno rinuncia ad un famoso marchio di successo. Neanche se ormai è una scatola vuota.

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Morto don Gallo, il “Fatto quotidiano” ricicla don Farinella

don Paolo FarinellaLa morte di don Andrea Gallo è stata una grandissima perdita per il mondo anticlericale che in lui poteva contare come super-ospite da invitare ai comizi “No Vaticano talebano”.

La presenza del Gallo alle loro manifestazioni era infatti un’ottima copertura per non passare da fondamentalisti: parlare del Papa come represso omosessuale, del Vaticano come simbolo del terrorismo occidentale o dire che tutti i preti sono peofili (come ha fatto un blogger di Peter Gomez sul “Fatto”) scatena ancora oggi in molti reazioni indignate, tuttavia se si poteva rivendicare l’amicizia con Don Gallo allora le critiche si smussavano. In fondo, si diceva, se invitano ed elogiano il “prete degli ultimi” allora non odiano proprio tutti i cattolici. E’ stato un giochino perfetto (fin troppo sopportato), durato fino a poco tempo fa, per questo Antonio Socci ha scritto che «i funerali di don Gallo segnano la fine simbolica di un mondo, quello del cattoprogressismo degli anni Settanta», che si è appunto prestato volentieri a questa strumentalizzazione.

Dopo la morte di don Gallo, “Il Fatto Quotidiano”, ha quindi dovuto correre ai ripari rispolverando don Paolo Farinella, prete genovese e nuovo ambìto ospite ai party anticlericali. «La Boldrini e la Idem fanno benissimo ad andare al Gay Pride. Ci andrei anch’io se potessi», ha affermato infatti alla recente festa del quotidiano di Padellaro. Ecco perché lo hanno invitato, ora possono citarlo dicendo che anche i preti cattolici vanno al Gay pride e sono contro alla fantomatica Chiesa-istituzione!

Come don Gallo, se c’è una caratteristica che contraddistingue don Farinella è certamente il rispetto della laicità. Il prete genovese è talmente a favore della non invadenza dei confinti che pochi giorni fa ha invitato i romani, attraverso un violentissimo articolo, a votare per Ignazio Marino così da fermare Alemanno, definito «fascista verace e amico di personaggi equivoci come mons. Rino Fisichella», ovvero il presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione. Ha quindi ironizzato sul cardinale di Stato Vaticano, chiamandolo Tarcisio Berto/Burlone per poi insultare Benedetto XVI. Eppure don Paolo dovrebbe ricordarsi che due mesi fa è stato rinviato a giudizio per diffamazione verso Pierluigi Vinai, candidato sindaco a Genova, dopo che lo aveva gravemente e ripetutamente insultato. Altra cosa curiosa: ieri invitava a votare a Napoli Luigi De Magistris per una «svolta morale e politica», oggi tace sulle accuse a lui rivolte di parentopoli e del terremoto giudiziario abbattutosi su suo fratello e sul suo capo di gabinetto per turbativa d’asta.

Rispettoso della laicità dunque, ma anche grande testimone del messaggio evangelico che predica ogni domenica. Ecco un esempio: «Certo che darei l’estrema unzione a Berlusconi. Anche subito gli darei l’unzione degli infermi con un bulacco (secchio, ndr) d’olio fino ad annegarlo. Se Berlusconi morisse ci libererebbe da una bella palla di piombo ai piedi, da un bel rospo». La sua testimonianza cristiana la offre, per par condicio, anche a persone di sinistra, non fa certo discriminazioni lui: «Insultare Franceschini? Se gli avessero messo le mani addosso avrebbe capito qualcosa, questa gente se le attira». Durante la campagna elettorale del 2008, il sacerdote genovese è arrivato addirittura a scrivere che la Madonna di Lourdes invitava a votare per Walter Veltroni.

Il card. Bertone e il card. Bagnasco hanno più volte scritto a don Farinella, chiedendogli con grande benevolenza di cambiare atteggiamento, l’occasione era l’ennesimo insulto a Papa Ratzinger dal pulpito della sua chiesa. Nessuna risposta ricevuta, purtroppo, lui rende conto soltanto a Padellaro e Flores D’arcais. Per un approfondimento su questo bizzarro personaggio (nella foto in alto è proprio lui, non una parodia anticlericale) consigliamo questo articolo del blog “Papale Papale”.

La redazione

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La Corte Suprema: «l’essere umano non è brevettabile»

Aldo Vitale 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

La decisione risulta essere storica, soprattutto considerando quelle già registrate in passato: la Corte Suprema degli Stati Uniti, decidendo sul caso Association for molecular pathology et al. vs Myriad genetics Inc. et al., ha statuito che il Dna umano non è brevettabile.

Tutta la vicenda è legata alla attività della Myriad genetics Inc. svolta nella ricerca e individuazione di alcuni geni il Brca1 e Brca2 che sono legati alla probabilità di sviluppare masse tumorali al seno e alle ovaie. La Myriad Genetics Inc., dopo aver isolato i predetti geni, ha proceduto a registrare numerosi brevetti facendo sì che chiunque volesse effettuare una indagine genetica sui già citati geni dovesse pagare i diritti derivanti dalla tutela brevettale. La vicenda è stata altalenante tra le corti locali, fino a che non è approdata alla Corte Suprema. I problemi sono senza dubbio molteplici, implicando un intreccio complesso tra le diverse sfere della scienza, della tecnica, del diritto e della morale.

In primo luogo non si può fare a meno di notare che la problematica è stata originariamente affrontata in modo differente dalle due sponde dell’Atlantico, avendo già da anni l’Europa emanato precise regole per la cosiddetta “brevettabilità del vivente” grazie alla direttiva del Parlamento Europeo del 1998 n. 98/44/CE, la quale ha sancito i limiti della brevettabilità escludendo l’essere umano perfino dal suo stato embrionale. Già nel 1993, infatti, il CNB italiano, in veste sostanzialmente pionieristica, aveva problematizzato il tema, auspicando una disciplina a livello europeo. Risale oramai ad un paio di anni or sono la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Brustle vs Greeenpeace, con sui è stata negata la brevettabilità della vita ed in special modo quella delle cellule staminali embrionali.

La statuizione della US Supreme Court, quindi, si inserisce nell’ambito di una prospettiva critica della subordinabilità della vita in genere e di quella umana in particolare agli interessi del mercato, perseguiti e tutelati tramite l’utilizzo di strumenti giuridici quali il brevetto. Tuttavia, non correttamente sembra essere stata intesa l’importanza di tale decisione da parte di alcuni commentatori della prima ora che hanno trascurato la valenza etico-giuridica della stessa, per concentrarsi, commettendo il medesimo fatale errore di chi invece si batte per la brevettabilità del DNA umano, sui risvolti economico-industriali di una tale pronuncia giurisprudenziale.

Alexandra Sifferlin, infatti, sul Time, ha rinvenuto, tra i diversi motivi per cui si deve ritenere la predetta sentenza come “monumentale”, la possibilità di una migliore concorrenza nel testing genetico e una maggiore libertà di innovare messa adesso a disposizione delle imprese biotecnologiche. Occorre quindi mettere esattamente a fuoco l’intera questione. Con la altrettanto storica sentenza Diamond vs Chakrabarty la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva aperto la strada, negli anni ’80, alla brevettabilità del vivente, alla pari di qualunque manufatto, purché il vivente da brevettare fosse il risultato di una manipolazione da parte dell’uomo e non un qualcosa di già esistente in natura. Per la prima volta veniva timidamente ad affermarsi nell’ordinamento statunitense il sottile discrimine tra invenzione e scoperta, distinzione che invece in Europa ha sempre avuto ampio riconoscimento teoretico e giuridico.

Con la recente sentenza sulla Myriad la Corte Suprema statunitense ha sancito che il DNA umano non è brevettabile poiché è qualcosa che esiste in natura e che in quanto tale, sebbene oggetto di studio da parte dell’uomo, non costituisce il risultato di una manipolazione o creazione artificiale. Brevettare i geni, del resto, comporterebbe la possibilità di utilizzare in regime sostanzialmente monopolistico lo screening genetico e la terapia genica e farmacologica legata a quei geni che eventualmente fossero brevettati, con evidenti ricadute, più che economiche o industriali, più grevemente etiche e giuridiche. Sebbene già da tempo la brevettazione del mondo animale e vegetale sia considerata lecita, pur con diversi limiti che in questa sede non è possibile esaminare in dettaglio, è anche vero che il tentativo ripetuto nel corso degli ultimi decenni di brevettare il DNA umano indica la fase ultimale dia una errata idea dell’uomo che si è affermata nel mondo occidentale.

Pur non essendo l’essere umano riducibile al suo DNA, come a nessuno dei suoi organi, similmente alla circostanza per cui l’anima non risieda concretamente in nessuna parte specifica del corpo, occorre evidenziare quanto sia ugualmente contrario alla dignità umana il concreto sviluppo di tecniche scientifiche e istituti giuridici che consentano di utilizzare parti umane, o perfino l’uomo nella sua interezza, non tanto e non solo ai fini della mera ricerca, ma addirittura per scopi di carattere prettamente economico-industriale. Secondo la migliore dottrina giuridica (Vanzetti – Di Cataldo), il brevetto è un contratto tra l’inventore e la società, con cui il primo mette a disposizione i risultati del proprio lavoro (in termini di innovazione, potenziamento, sviluppo tecnologico ecc ) e la seconda, invece, garantisce che solo l’inventore potrà ricevere i benefici economici dello sfruttamento della propria invenzione. Il problema è proprio questo; per i principi generali del diritto un contratto per essere valido non può avere un oggetto illecito o contrario a norme imperative, ordine pubblico o buon costume. Come si evince, fare dell’essere umano o di sue parti ( si pensi alla compravendita di organi così come liberalizzata da qualche anno dal Parlamento di Singapore ) l’oggetto di un contratto significa contrastare tutti i requisiti presupposti per la validità del contratto stesso.

Del resto, proprio adottando un’etica fondata sulla ragione e sull’autonomia, cioè l’etica kantiana, si scopre che l’uomo in quanto tale ha una sua dignità e, kantianamente, ciò che ha una dignità non ha un prezzo. Nikolaj Berdjaev criticando sia l’individualismo capitalistico, sia il collettivismo socialista, ha ben ricordato che nel mondo contemporaneo, in cui la dimensione economicistica assurge a predominante chiave ermeneutica della realtà, «l’uomo è trasformato in una categoria economica […], diventa uno strumento della collettività sociale e del suo sviluppo». In quest’ottica anche l’uomo viene utilizzato quale risorsa economica da poter sfruttare. Accettando questa prospettiva, ovviamente, si comincerebbe a percorrere una strada, l’ennesima del mondo contemporaneo, in grado di mettere a rischio la “libertà genomica” delle generazioni future, come, tra i tanti, hanno osservato due ricercatori della Cornell University di New York.

Sarebbe, tuttavia, più opportuno riflettere più che sui rischi, comunque verosimili, a cui è esposta la libertà genomica dell’uomo, su quelli riguardanti la “genetica” libertà umana che per l’appunto assurge a criterio fondamentale di distinzione dell’uomo dal resto del creato animanto o inanimato. Infatti, la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di negare la brevettabilità del DNA umano ( ammettendo semmai solo quella del DNA artificiale ), non significa tanto ridurre la natura dell’uomo a quella del suo codice genetico, ma riaffermare proprio che la natura della persona, cominciando dal suo codice genetico, non può essere considerata alla stregua di quella di tutto il resto, che cioè, in conclusione, la persona in quanto tale, come precisa sempre Berdjaev, «non è una categoria biologica o psicologica, ma una categoria etica e spirituale».

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Le donne a cui è negato l’aborto? Vivono felici e contente

Donna incintaQualche giorno fa il New York Times” ha pubblicato un articolo dal titolo abbastanza inquietante: “Cosa succede alle donne a cui è negato l’aborto?”.

Si è cercato di rispondere alla domanda attraverso il “Turnaway Study”, uno studio realizzato da ricercatori dichiaratamente abortisti su 200 donne che hanno cercato l’aborto ma sono state respinte in quanto la gravidanza era troppo inoltrata per svolgere legalmente la procedura di uccisione del feto umano.

L’autore dell’articolo ha accompagnato il lettore attraverso la storia di S., una delle donne a cui è stata negata l’interruzione di gravidanza. Il lungo post parla di svariate tematiche arrivando poi a rivelare che oggi S. è una persona contenta e il suo bambino è «la cosa migliore che le sia mai accaduta. Lei dice: “è più che il mio migliore amico, più che l’amore della mia vita”. La donna ha realizzato quello che in termine tecnico si chiama “bonding”, ovvero il processo di formazione del legame tra i genitori e il loro bambino.

Quando l’autore dell’articolo ha raccontato questo a una delle autrici della ricerca, Diana Greene Foster, essa non si è affatto sorpresa. «Questo appare in linea con il nostro studio: circa il 5% delle donne a cui è stato rifiutato l’aborto, dopo aver avuto il bambino, ancora non desidera averlo. Mentre il resto di loro si assesta». Da questa sorprendente affermazione se ne ricava che il 95% delle donne a cui è stato negato l’aborto ha lo stesso futuro di S., ovvero contentezza e felicità materna.

E’ evidente che il “New York Times” ha dovuto subito cercare di negare con varie teorie questa frase, dando la parola ad un bioeticista pro-choice, Katie Watson, il quale ha accusato queste donne di mentire a loro stesse e alla società: «psicologicamente è nel nostro interesse raccontare una storia positiva e andare avanti». Ecco che entra in campo l’ideologia: non si ascoltano le donne ma la teoria e se i fatti la negano, tanto peggio per i fatti. Eppure non erano proprio i pro-choice a sbandierare il loro attivismo come fosse a favore della donna?

La redazione

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Non si capisce Heidegger al di fuori del cattolicesimo

Martin HeideggerAnche un anno fa ci siamo occupati di Martin Heidegger, ritenuto tra i più grandi filosofi del XX secolo, sottolineando il suo background cattolico.

Diversi studiosi hanno infatti notato come il suo pensiero possa essere interpretato soltanto alla luce del cattolicesimo, anche se il filosofo stesso ha esplicitamente affermato di essersene allontanato (Lettera a Krebs, 1919). Il nipote di Heidegger, Heinrich, ha comunque chiarito questo aspetto: «pur essendosi allontanato dal “Sistema del cattolicesimo” non è mai fuoriuscito dalla Chiesa, come a torto è stato scritto. Ciò che lo ha mosso per tutta la vita è la domanda su Dio, anche se filosoficamente non l’ha mai esplicitata».

Torniamo a parlarne oggi grazie all’ultimo libro di Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari e tra i maggiori conoscitori italiani proprio del pensiero del filosofo tedesco. Il volume lo ha proprio dedicato a lui: “Heidegger” (il Mulino, 2013).

Nella sua bella intervista per IlSussidiario.net ha spiegato cosa lo abbia colpito di Heiddeger, ha approfondito il legame tra il filosofo e il nazionalsocialismo, spiegando che in esso vedeva «una sorta di kairòs, l’occasione favorevole in cui il popolo tedesco potesse riconquistare la sua grandezza “spirituale”, perduta nel prevalere della cultura cristiano-borghese. Ma la tragedia, prima ancora che nelle conseguenze politiche, era già nelle pieghe di questa decisione: voler essere lui, Heidegger, a guidare con la potenza della filosofia la rivoluzione nazionalsocialista: insomma essere il Führer del Führer. Ma gli stessi ideologi del Partito gli sbarrarono presto la strada accusandolo addirittura di attrarre con il suo pensiero le menti ebree!».

Infine ha anche accennato al rapporto con il cattolicesimo, spiegando: «La formazione heideggeriana, com’è noto, è avvenuta sotto l’ala della Chiesa cattolica e nel segno della teologia: una provenienza che, come lo stesso Heidegger dirà molti anni dopo, “resta sempre futuro”. Quello che comunque resta è il fatto che l’intera problematica di questo filosofo sorge – sebbene in maniera aspramente critica – all’interno della tradizione metafisica (cioè ontologica e insieme teologica) veicolata dal cattolicesimo. Solo che il suo tentativo è stato quello di ripensare alcuni concetti o fenomeni propri di questa tradizione (per esempio: la differenza tra l’ente e l’essere, il darsi delle cose come l’evento di una donazione, la salvezza come storia, il nesso tra la verità e la libertà ecc.) contro di essa, soprattutto contro l’idea di creazione, che resta il contributo fondamentale dato dal cristianesimo alla filosofia. Ad ogni buon conto, anche come “distruttore” Heidegger è difficilmente comprensibile al di fuori del cristianesimo (e del cattolicesimo): o meglio, va pensato come uno che ha tentato di oltrepassarlo, e che con ciò stesso ne ha riconosciuto il carattere imprescindibile».

La redazione

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Una Chiesa povera e gli errori populisti di Celentano

Mensa poveriPapa Francesco parla spesso di povertà, di una “Chiesa povera per i poveri”. Abbiamo già fatto notare come queste espressioni vanno lette alla luce dell’interpretazione cristiana e non con la lente della demagogia mediatica. La povertà cristiana infatti non coincide con la miseria economica, ma identifica la posizione morale dell’uomo verso la realtà, denaro compreso. Il povero nel cristianesimo è colui che non pone la speranza e la salvezza in quel che ha e in quel che potrebbe avere, è certamente in antitesi all’opulenza, e guarda ad un distacco dal denaro anche se questo non equivale necessariamente ad avere il portafoglio vuoto: «il denaro deve servire non governare», ha spiegato infatti il Pontefice.

Il paradosso cristiano è che un povero geloso e attaccato a quel poco che ha non sta vivendo la povertà evangelica, al contrario invece di una persona ricca libera dal denaro e che lo investe con intelligenza per l’aiuto dei fratelli. Certo, è doveroso evitare gli sprechi ed eliminare orpelli e argenteria varia, ma chi vuole una Chiesa priva di denaro è in fondo chi spera che scompaia dalla scena pubblica: sarebbe infatti incapace di aiutare i poveri, fallirebbero le opere di carità nazionali e internazionali, le missioni nel Terzo Mondo, le scuole cattoliche, le chiese da costruire, ristrutturare e mantenere. Nessun peso nell’ambito culturale, sanitario o formativo per la gioia della cultura laicista (e non laica!). Per questo il “Fatto Quotidiano” e altri autorevoli portavoce di questo movimento ideologico hanno interesse a strumentalizzare queste parole del Pontefice.

Per quanto detto appare dunque incredibile che una persona tanto colta ed intelligente come Vittorio Messori sia cascato nel tranello concedendo un’intervista al quotidiano di Padellaro, sopratutto a Carlo Tecce ingordo anticlericale. Messori è comunque riuscito ad esporre il suo pensiero: «Il Vaticano è uno speciale e piccolo Stato, ma è pur sempre una realtà burocratizzata che distribuisce appalti, commesse, denaro e non può farne a meno. Non può rinunciare a una struttura di governo, comunque funzionale per la diffusione evangelica. Un po’ di serietà. Gesù aveva una disponibilità economica, persino un tesoriere che poi l’ha tradito, Giuda Iscariota. Quando fu crocifisso, le guardie notarono che aveva un abito cucito con un solo pezzo di stoffa, un lusso raro, e se lo giocarono a dadi perché costava. Era di valore. Gesù vestiva Armani».

Una battuta quest’ultima che ha fatto rizzare i capelli ai finti moralisti come Adriano Celentano, lo stesso che ieri invitava a far chiudere il quotidiano “Avvenire” e “Famiglia Cristiana”. Il cantante ha infatti inviato una lettera a “Repubblica” pubblicata in prima pagina dove, da predicatore del politicamente corretto come è purtroppo diventato, ha contestato Messori affermando: «Pa’ Francesco vorrebbe una Chiesa povera, invece la vogliono ricca perché col denaro è più facile comprare il “BUIO” dove nascondere i “peccati”, tipo i gravi abusi sui minori e il silenzio di chi sa e tace e il più delle volte insabbia». Ha proseguito: «lo scrittore e storico Vittorio Messori, del quale leggo sempre con interesse gli editoriali», ha detto che Gesù vestiva Armani. «A mio parere è veramente una Cazzata», usando il linguaggio tipico degli intellettuali e degli studiosi. Ha quindi concluso con altre affermazioni retoriche, del tipo: «noi sappiamo quanto Gesù tenesse ai poveri, a differenza dello Ior». E’ curioso che proprio Celentano faccia discorsi di questo tipo: pochi anni fa, in una bella intervista in cui emergeva tutto il suo fervore cattolico (ancora non era girotondino noglobal), raccontava di sé: «Quando ero giovane non ero ricco e non potevo permettermi di realizzare alcuni sogni. Ora sono ricco e ho tutto ciò che desidero, però la gioia e le emozioni che ho provato nel visitare la Grotta di Lourdes non le avevo mai provate prima» (G. Mattei, “Anima mia”, Piemme 1998, p. 82). Se il denaro è un male in se stesso, secondo i suoi appelli alla Chiesa, come questo si concilia con i suoi racconti autobiografici?

Andando a dare un’occhiata alla storia del cristianesimo, il prestigioso sociologo Rodney Stark (capitolo 5 di Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012) ha spiegato -citando i maggiori storici del cristianesimo, come G.W. Bauchanan, Abraham J. Malherbe, Arthur Darby Nock, Harry Y. Gamble, Edmond Le Blant, Marta Sordi, Alan Millard ecc.- che il cristianesimo è iniziato come un movimento di privilegiati (smontando l’idea marxista che invece esso nasca dalle classi povere ed emarginate della società con lo scopo di lenire la loro miseria materiale). Molti membri del primo gruppo di cristiani appartenevano alla nobiltà, erano persone colte e istruite e tendevano a conquistare seguaci in quell’ambiente, anche se ovviamente tanti erano i convertiti anche dalle classi povere. La stessa famiglia di Gesù era decisamente benestante, Giuseppe era quel che oggi chiamiamo un imprenditore edile, avevano proprietà a Cafàrnao come a Nazareth, ogni anno si recavano a Gerusalemme per la Pasqua, cose che le maggior parte delle famiglie non potevano permettersi. Gesù stesso faceva costantemente esempi riferiti alla ricchezza, suggerendo un uditorio privilegiato: proprietà terriera, investimento, affitto, eredità e la parabola dei talenti rivela «una certa familiarità con le pratiche bancarie». Infine, ricordiamo che lui stesso era una persona benestante, molto istruita. Esiste tra gli studiosi oggi una “quasi certezza” che fosse un rabbino molto colto, aveva a disposizione del denaro, aveva un tesoriere, le sue missioni e dei suoi apostoli erano finanziate spesso da donne ricche convertite (come Maria di Magdala e, successivamente, la ricca commerciante Lidia, Fil 4,16), indossava una tunica inconsutile, cioè tessuta tutta di un pezzo come era solito usare il Sommo Sacerdote.

Roberto Rusconi, ordinario di Storia del Cristianesimo presso l’Università Roma Tre, ha confermato l’intera visione sulla questione e il giusto concetto di povertà cristiana: «Certamente Gesù non era un pezzente, e magari nemmeno Giuseppe. Da un certo punto di vista non è mai esistita una Chiesa povera, mentre la Chiesa ha sempre avuto – come istituzione – il problema di come gestire i beni che possedeva, che generavano ricchezza e soprattutto potere. In altri termini, può essere estremamente antistorico usare la categoria di povertà al di fuori del contesto. Il problema della Chiesa è costituito dai beni che generano la ricchezza e non vengono utilizzati per i poveri». La povertà cristiana identifica l’atteggiamento morale nell’amministrazione del denaro, ovvero senza farsene un idolo. Non dovrebbe oggi essere strumentalizzata per fini ideologici da personaggi che non comprendono come interpretare le parole di Papa Francesco.

La redazione

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Ad essere discriminata è la famiglia naturale

Forum famigliaPer far sentire la voce delle famiglie sul tema dei diritti delle persone omosessuali a seguito degli interventi tutti orientati in un’unica direzione di Stefania Prestigiacomo (9 giugno), di Barbara Pollastrini (10 giugno) e di Ivan Scalfarotto (11 giugno) e ospitati dal “Corriere della sera”, il Forum delle Associazioni Familiari ha inviato una lettera, a firma del presidente Francesco Belletti, al direttore Ferruccio De Bortoli. La lettera (che pubblichiamo qui sotto) è stata respinta.

 

da www.forumfamiglie.org

 

Gli interventi pubblicati dal Corriere erano tutti orientati a caldeggiare l’urgente riparazione di un ipotetico torto, subìto dalle persone omosessuali per i cosiddetti diritti civili negati.

In base a tali illuminati interventi, l’Italia, in quanto cattolica, impedirebbe l’avanzare della civiltà dominante del nord Europa, che ha concesso la gioia del matrimonio alle coppie omosessuali. Quasi che il nostro Paese sia una landa incivile e arretrata perché gli omosessuali non possono sposarsi. Anche la citazione del card. Martini appare strumentalizzata, per convertire alla più moderna fede omosessualista quella “parte reazionaria del popolo cattolico” che non l’ha ancora abbracciata.

Ma sono davvero negati, questi diritti? E quali? Il diritto ad amarsi? Il diritto a convivere? Il diritto a non avere i propri redditi assommati nel computo delle imposte? Il diritto a nessun obbligo giuridico di mantenimento verso alcuno? Sarebbe invece più serio evidenziare che oggi le coppie omosessuali hanno molti meno obblighi rispetto alle coppie sposate: possono avere due prime case senza problemi fiscali, sono trattate con inusuale riguardo da fisco, pubbliche amministrazioni, aziende, mass media, istituzioni. Anche la richiesta di estensione di strumenti come la reversibilità delle pensioni o la quota di “legittima”, in termini di eredità, sono connessi, nelle proposte in discussione oggi, come nuovi diritti, totalmente scollegati da quei doveri di reciprocità, di stabilità, di fedeltà, di assistenza e cura, che la famiglia invece esige. Il progetto di legge Galan per le “unioni omoaffettive”, per esempio, chiede tutto ciò, ma consente di sciogliere tale unione dopo soli tre mesi di separazione. Bell’impegno, per chi poi pretende reversibilità permanente della pensione!

Stupisce che questi “paladini” dei cosiddetti diritti civili siano gli stessi che rimangono drammaticamente e costantemente silenziosi di fronte all’urgenza di dare finalmente una mano alle famiglie che ogni giorno costruiscono l’Italia, curano i propri figli, li preparano ad essere cittadini di domani, assistono i propri anziani e disabili, garantiscono la coesione sociale, subiscono sistematicamente un fisco che penalizza i carichi familiari, mentre sono abbandonate nei loro bisogni, senza nulla in cambio che una quotidiana diffamazione, perché la famiglia pare solo il luogo della violenza.

È invece evidente a tutti che l’Italia ha retto alla crisi soprattutto grazie alle famiglie, che hanno saputo gestire di generazione in generazione i propri risparmi a beneficio dei figli e dei nipoti, sostenere i propri giovani disoccupati, accudire i propri figli disabili e genitori anziani. Altro che Italia arretrata, reazionaria, etc., Proprio sulla centralità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna si fonda questa meravigliosa rete di solidarietà che tiene insieme il Paese.

Come opportunamente ricordava Francesco D’Agostino (Avvenire, 8 giugno) “il matrimonio non esiste per garantire la sensibilità dei coniugi, ma per consentire la costruzione di comunità familiari, alle quali la società (per mezzo dello Stato) affida i progetti intergenerazionali di convivenza”. Custodire i diritti individuali delle persone si può e si deve, con gli strumenti giuridici necessari. Attaccare la famiglia eterosessuale e genitoriale per questo è invece pessima scelta, che i movimenti di persone omosessuali per primi dovrebbero riconoscere come perdente. E anche il prezioso tema della lotta all’omofobia e a ogni discriminazione non deve essere brandito come un’arma per gli interessi di pochi, ma diventare terreno di confronto e di condivisione per il bene di tutti.

 

AGGIORNAMENTO 21/06/13
Il Corriere della Sera ha cambiato idea e ha pubblicato questa lettera a pag. 48 dell’edizione odierna.

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Legge 194: la grande menzogna degli aborti clandestini

Emma BoninoIl 22 maggio scorso è stato l’anniversario della Legge 194 che dal 1978 regolamenta l’interruzione di gravidanza in Italia. Come ha giustamente sottolineato Massimo Pandolfi, caporedattore de “Il Resto del Carlino”, «passano gli anni, ma le bugie ideologiche che circondano l’argomento aborto continuano, imperterrite». La menzogna più grande che ancora oggi si ripete è la stessa usata dai Radicali di Emma Bonino nei confronti degli italiani: la legge servirebbe per ridurre o eliminare gli aborti clandestini che sarebbero stati un milione all’anno prima del 1978.

Basterebbe una persona di buon senso, dunque non un Radicale, per capire che se sono aborti clandestini è impossibile fornire un numero preciso o una variazione nel tempo. In ogni caso basta un piccolo ragionamento, come ha fatto Antonio Socci nel 2008: se si ipotizza un milione di aborti clandestini all’anno ne deriva un tasso medio di abortività (rapporto tra il numero delle IVG effettuate ogni 1000 donne in età fertile, tra i 15 e i 49 anni) in base al quale – alla fine – tutte le donne italiane avrebbero praticato nella loro vita almeno 2,8 aborti procurati clandestini. E’ ovviamente impossibile.

«L’aborto clandestino – dicevano – provocava ogni anno in Italia la morte di 25 mila donne. Per questo fu reso legale e assistito» scrive Socci. Il dato era ovviamente falso, dall’Annuario Statistico del 1974 risulta infatti che le donne in età feconda (cioè dai 15 ai 45 anni) decedute nell’anno 1972, cioè prima della legge 194, furono in tutto 15.116. Anche ipotizzando che fossero morte tutte a causa di un aborto clandestino, chiaramente è un’ipotesi assurda, non sarebbero comunque 25.000! In realtà erano 409 le donne morte per gravidanza o parto, certamente molte meno (qualche decina) a causa di aborto clandestino. La conclusione è una sola: «le cifre sparate dalla propaganda abortista (25 mila donne morte) che hanno portato alla legalizzazione dell’aborto erano del tutto infondate. Erano balle. Lo conferma il fatto che dall’entrata in vigore della legge 194 la mortalità delle donne in età feconda, non ha avuto alcuna significativa diminuzione statistica improvvisa, quindi la 194 non ha modificato alcunché».

Effettivamente la legge 194 è stata anche inefficace rispetto alla diminuzione di aborti. I dati mostrano che le interruzioni di gravidanza sono cresciute notevolmente già subito dopo il 1978: 68.000 aborti nel 1978; 187.752 nel 1979; 220.263 nel 1980, 224.377 nel 1981; 234.377 nel 1982. Poi c’è stata una diminuzione del numero ma non è pensabile che sia merito della Legge 194 dato che, proprio tale legge, è stata la causa di un progressivo aumento subito dopo la sua emanazione. A limitare il numero di aborti, così come in altri Stati, sono stati diversi fattori, su tutti la maggior consapevolezza della drammaticità dell’aborto, permessa dal progresso della medicina, dalla maggior conoscenza dello sviluppo fetale e dagli studi sul trauma post aborto. Inoltre è diminuita la fertilità generale, è aumentato il ricorso alle pillole abortive e il volontariato pro-life che ha salvato centinaia di bambini.

Della grande menzogna sull’aborto clandestino si è occupato anche Francesco Agnoli in un lungo articolo, spiegando che i Radicali impararono questa tecnica propagandistica dagli americani. Lo ha mostrato Bernard Nathanson, direttore nel 1968 della più grande clinica per aborti del mondo poi passato dalla parte dei pro-life, rivelando le strategie di comunicazione indirizzate a capovolgere l’opinione pubblica. Ad esempio si fornivano “sondaggi fittizi”, nei quali il numero dei favorevoli all’aborto veniva volutamente gonfiato, allo scopo di rendere “normale”, accettabile, l’idea stessa dell’aborto. Bastava inoltre urlare ai quattro venti che le donne, anche senza legalizzazione dell’aborto, abortivano ugualmente, in modo clandestino, senza alcuna sicurezza per la loro salute, col rischio addirittura della vita. In tal modo poteva sembrare che la legalizzazione fosse in qualche modo un male minore, il tentativo di rendere almeno controllabile e più “sicuro”, per le donne, un fenomeno già esistente e, anzi, vastissimo. Le cifre venivano gonfiate e si parlava di un milione di aborti clandestini l’anno, conclude Nathanson, quando ve ne erano, forse, 100.000 (in America).

Guarda caso nel 1971 il Psi ha presentato una proposta per l’introduzione dell’aborto legale, libero, e gratuito, affermando che vi erano tra i 2 e i 3 milioni di aborti annui, e che circa 20.000 donne all’anno muorivano causa di questi interventi. Successivamente, il 15/10/71, in un secondo ddl, il numero degli aborti annui rimaneva stabile ma magicamente era cresciuto a 25mila quello delle donne morte per pratiche abortive clandestine. Nel libro “Da Erode a Pilato” (Marsilio, 1973), di Giuliana Beltrami e Sergio Veneziani, si sostiene anche che prima della 194, vi sono donne “che hanno abortito già dieci, venti volte”, in modo clandestino e che vi siano nientemeno che “quattro aborti per ogni nascita”. A pagina 33 si arriva addirittura ad affermare che vi sono donne “che compiono, nel corso della loro esistenza, fino a trenta e più atti abortivi”. In “L’aborto, un dilemma del nostro tempo” (Etas Kompass, 1970), si apprende invece che il numero di aborti clandestini in Italia, attestandosi tra l’uno e i due milioni, sarebbe di gran lunga superiore a quello degli aborti in America, pur essendo gli Usa quattro volte più popolati!

Si sparavano cifre per legittimare la legalizzazione dell’aborto come evento inevitabile. Tuttavia l’unico studio serio in quegli anni fu quello dei prof. Bernardo Colombo, Franco Bonarini e Fiorenzo Rossi, demografi e statistici dell’Università di Padova, intitolato: “La diffusione degli aborti illegali in Italia” (1977), con il quale si mostrò l’infondatezza di tali cifre sottolineando come per mantenere la media di 1 milione di aborti clandestini annui era necessario che almeno il 50% di tutte le donne italiane in età feconda avesse abortito esattamente 5,3 volte nell’arco della propria vita riproduttiva. Ritennero che la cifra attendibile di aborti clandestini si aggirava sui 100.000 tra il 1970 e il 1975. L’aborto divenne comunque legale nel 1978 e l’anno successivo, 1979, le interruzioni di gravidanza legali furono ufficialmente 187.752. E’ possibile che oltre un milione di aborti clandestini e illegali, con punizioni penali per il medico e la donna, possano scendere tanto proprio quando diventano legali e gratuiti? Ovviamente no, questa è un’altra prova di quanto sono stati presi in giro gli italiani.

Oggi il nemico degli abortisti è l’obiezione di coscienza e per tentare di abolire tale diritto si sta tornando alla stessa grande menzogna: “Repubblica” ha infatti recentemente informato che gli aborti illegali sarebbero in aumento perché l’elevato numero degli obiettori renderebbe difficoltoso l’accesso al “servizio”. Assuntina Morresi, docente di Chimica fisica all’Università di Perugia e membro del Comitato nazionale di bioetica, ha tuttavia risposto facendo notare che dalle relazioni annuali (pag. 35) sull’applicazione della legge 194 presentate al Parlamento dal ministro della Salute emerge che non esiste alcuna correlazione fra il numero di obiettori di coscienza e il tempo di attesa delle donne, ovvero quanto passa fra il rilascio del certificato da parte del medico e l’intervento vero e proprio. Anzi è evidenziata addirittura una diminuzione dei tempi di attesa (quindi un andamento opposto a quello prospettato nei giornali). Quindi, «il ricorso massiccio all’obiezione di coscienza non ha impedito l’applicazione della legge 194».

La Morresi ha concluso con un’osservazione molto importante: in caso di sciopero l’efficacia della protesta si misura solitamente dalla numerosità dell’adesione all’interno della categoria professionale coinvolta, e questo vale per tutti i lavoratori. Se la percentuale è oltre all’80%, come quella degli obiettori di coscienza, le proteste non possono essere ignorate: le parti sociali e la politica sarebbero obbligate, giustamente, a intervenire, e non certo per obbligare chi protesta a fare quel che si rifiuta di fare. Per questo occorre interrogarsi seriamente sulle motivazioni di un ricorso così importante all’obiezione di coscienza, un diritto che coinvolge «così profondamente i convincimenti personali dei singoli, come nel caso dell’aborto, che comunque la nostra legge non prevede come diritto della donna, ma come estrema ratio».

La redazione

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Il neuroscienziato Newsome e il rapporto tra scienza e fede

NewsomeWilliam T. Newsome, PhD, professore di neurobiologia presso la Stanford University e leader internazionale nei settori delle neuroscienze cognitive e sensoriali, che sta attualmente cercando di svelare i meccanismi neurali alla base dei processi decisionali, in un articolo pubblicato per la prestigiosa rivista scientifica “Stanford Medicine Magazine” ha parlato del suo rapporto ambivalente con scienza e fede, e di come i due domini possano coesistere senza forti conflitti nella coscienza di ciascuno.

“La mia risposta – afferma Newsome – è che i modi di pensare possono essere molto diversi nei due domini. Tuttavia, a mio parere, il modo che predomina nella vita religiosa è la normale modalità di valutazione e di decisione nel contesto globale dell’esperienza umana. La modalità scientifica, al contrario, è molto particolare. È applicabile a un numero piuttosto ristretto di esperienza ed è generalmente praticata da un piccolo sottoinsieme della popolazione – scienziati professionisti. La mia tesi centrale è semplice: le domande più importanti le persone devono affrontare nella loro vita non sono suscettibili di soluzione con il metodo scientifico.”

Soggiunge poi: “Credo che la ricerca religiosa comporti esattamente lo stesso modo di pensare (“parte del cervello”), che è coinvolto nel prendere decisioni di vita. Essa fa perno sulle nostre azioni, le nostre speranze e le nostre aspirazioni, ecco la mia esperienza primaria in rapporto con Dio (adorazione, preghiera), si basa sulla mia esperienza nella mia comunità religiosa, sulla testimonianza degli autori biblici, nonché sulle riflessioni critiche di altri pellegrini che incontro lungo il cammino. Ciò mi permette di entrare in contatto con la realtà centrale del nostro universo, che credo sia più bello di quello che di solito osiamo sognare.”

Giovanni Balducci

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Esorcismi, il video di un confronto tra esorcista e psichiatra

Anneliese MichelIl giorno dopo l'”esorcismo” di Papa Francesco in diretta televisiva si è svolto un dialogo tra don Gianni Sini, esorcista e Luigi Janiri, ordinario di Psichiatria. Presente anche una vittima di possessione. Ecco il video.

 
 
 

Molta curiosità e scalpore ha destato la preghiera che Papa Francesco ha pronunciato toccando la fronte di una persona in diretta a piazza San Pietro durante l’incontro con i movimenti ecclesiali di domenica 19 maggio 2013.

Inizialmente si è parlato di un esorcismo, ma il Pontefice lo ha definito «uno speciale gesto di attenzione e benedizione particolare».

Durante il video si nota chiaramente una reazione non ordinaria dell’uomo appena le mani di Francesco hanno toccato il suo volto. Nel nostro articolo abbiamo pubblicato un video in cui ci si focalizza proprio su questo.

 

Il dialogo tra un esorcista ed uno psichiatra.

Già allora abbiamo parlato della stretta collaborazione tra gli esorcisti e i medici psichiatrici, in nome del legame e del reciproco rispetto tra scienza e fede cattolica.

Grazie al sito web Aleteia è disponibile un video di un dialogo realizzato il giorno dopo in cui è stato chiesto ad alcuni esperti di prendere posizione e affrontare pubblicamente questa misteriosa tematica.

Ospiti di questa breve conversazione sono stati don Gianni Sini, esorcista, autore di Quando parlo con il diavolo (Sugarco Edizioni); il prof. Luigi Janiri, ordinario di Psichiatria all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma nonché responsabile di molte attività ambulatoriali del Policlinico Gemelli di Roma; Francesco Vaiasuso, per molti anni vittima di possessione e co-autore del volume La mia possessione (Piemme). Ha condotto il giornalista di Radio Vaticana Fabio Colagrande.

 

Lo psichiatra Janiri: «Rari i casi di reale possessione».

Riportiamo in particolare alcune parole dello psichiatra Janiri, che ha anche partecipato a degli esorcismi: «I fenomeni di esorcismo sono molto interessanti per lo psichiatra. Devo convenire sul fatto che solo una minoranza delle persone che dicono di essere impossessato lo sono poi realmente. Nella grande maggioranza di casi si parla invece di casi psichiatrici, e questo è confermato da tutti gli esorcisti».

Lo psichiatra italiano ha quindi continuato: «Ritengo ci debba essere una formazione specifica da ambo le parti: per gli psichiatri sapere quali sono i casi e i criteri secondo i quali ci si trova di fronte a dei casi di competenza dell’esorcista, dall’altra parte è molto giusto che ci sia una formazione di tipo psicopatologico anche degli esorcisti per sapere quali casi vanno mandati dallo psichiatra».

 

Qui sotto il video del dibattito

 
La redazione

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