La scienza non porta lontani da Dio, ecco gli studi

LaboratorioPer essere scienziati bisogna negare Dio? La maggioranza degli scienziati non crede in Dio? Queste e altre domande simili sono all’ordine del giorno per diverse persone che ritengono la risposta fondamentale per ridurre la fede in Dio a un comportamento per persone poco sapienti e prive di conoscenze scientifiche.

Per noi cattolici l’argomento è poco interessante per diversi motivi: Dio non fa parte dell’Universo e non lo si trova studiando nei laboratori, uno scienziato e un muratore sono perciò sulla stessa barca. Gli scienziati che hanno scritto la storia sono in gran parte credenti ma tanti sono e sono stati anche i non credenti, questo perché Dio non è oggetto di scienza, la quale può confermare, semmai, le proprie posizioni. Inoltre, se anche rimanessimo in dieci a credere in Dio non cambierebbe assolutamente nulla, saremmo addirittura certamente più motivati e meno tiepidi di quanto lo siamo oggi (come accade nelle piccole ma brillanti comunità del Vietnam o della Corea del Nord).

In ogni caso essendo un argomento molto diffuso vale la pena affrontarlo ogni tanto. Nel 2010 uno studio della Rice University ha rilevato che su 1.700 scienziati d’elite, il 70% credevano in Dio (di cui il 20% deisti) mentre gli atei o gli agnostici dichiarati arrivano al 30%. Nel 2009 un sondaggio tra i membri dell’American Association for the Advancement of Science ha invece rilevato che il 51% di questi scienziati credeva in Dio o in qualcosa al di là del naturale.

Da entrambi gli studi, i più recenti a nostra disposizione, si evince che la maggioranza degli scienziati crede in Dio, tuttavia il numero di scienziati non credenti supera effettivamente la media dei non credenti nella popolazione (secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 95% degli americani è credente). Sembrerebbe dunque che ancora abbiano in parte ragione coloro che sostengono che la formazione scientifica tenda a respingere la fede in Dio.

Ma le cose non stanno così. Innanzitutto occorre sottolineare che nonostante il progresso scientifico degli ultimi secoli, l’indagine del Pew Research Center ha mostrato che le percentuali di credenti/non credenti tra gli scienziati sono immutate da circa 100 anni. Ma sopratutto occorre riporta la conclusione della dott.ssa Elaine Ecklund (Rice University) al suo studio: «per la maggior parte degli scienziati che ho intervistato», ha spiegato, «non è l’impegno stesso con la scienza che li ha portati lontani dalla religione. Piuttosto, le loro ragioni per l’incredulità rispecchiano le circostanze in cui altri americani si ritrovano: non sono cresciuti in un ambiente di persone religiose, hanno avuto brutta esperienza con la religione o vedono Dio come troppo mutevole» (E. Ecklund, “Science vs. Religion : What Scientists Really Think: What Scientists Really”, Oxford University Press 2010, pag. 17).

Affermare dunque che la minoranza degli scienziati che non crede in Dio sia per motivi legati alla scienza è un errore logico post hoc propter hoc. La maggior parte degli scienziati non credenti, infatti, rifiuta Dio per motivi comuni ad altri non credenti che non sono scienziati. Il biologo George Klein lo ha spiegato sinteticamente: «Io sono un ateo. Il mio atteggiamento non si basa sulla scienza, ma piuttosto sulla fede. L’assenza di un Creatore, la non-esistenza di Dio è la mia fede infantile, la mia fede adulta, incrollabile e santa»(G. Klein, “The Atheist and the Holy City: Encounters and Reflections”, The MIT Press 1992, p. 203).

La redazione

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Ci vuole troppa fede per credere che tutto arrivi dal nulla

Peter Kreeft 

di Peter Kreeft*
*docente di filosofia al Boston College

 

da “www.catholiceducation.org”

 

È razionale credere in Dio? Molte persone pensano che fede e ragione sono opposti, che la fede in Dio e il tenace ragionamento logico sono come olio e acqua. Si sbagliano: la fede in Dio è molto più razionale dell’ateismo.

La logica può dimostrare che esiste un Dio, se si guarda l’universo con il buon senso e la mente aperta ci si accorge che è pieno di impronte digitali di Dio. Un buon punto di partenza è l’argomento di Tommaso d’Aquino, il grande filosofo e teologo del 13° secolo. Esso inizia con l’osservazione non molto sorprendente che le cose si muovono. Ma nulla si muove senza motivo. Qualcosa deve provocare quel movimento e questo porta a ritenere che il movimento deve essere causato da qualcosa d’altro, e così via. Ma questa catena causale non può andare avanti per sempre, deve avere un inizio. Ci deve essere un motore immobile per iniziare tutto il movimento dell’universo, un primo domino per avviare l’intero movimento della catena.

Una obiezione moderna a questo argomento è che alcuni movimenti in meccanica quantistica – il decadimento radioattivo, per esempio – non hanno una causa riconoscibile. Ma solo perché gli scienziati non vedono una causa questo non significa che non ce ne sia una, significa solo che la scienza non l’ha ancora trovata. Forse un giorno lo faranno. Ma poi ci dovrà essere una nuova causa per spiegare quella, e così via. Ma la scienza non potrà mai trovare la causa prima perché, semplicemente, una causa prima si trova al di fuori del regno della scienza.

Un altro modo per spiegare questo argomento è che tutto ciò che inizia deve avere una causa. Nulla può venire dal nulla. Quindi, se non c’è prima causa, non ci possono essere cause seconde. In altre parole, se non c’è un creatore, non ci può essere un universo.

Ma cosa succede se l’universo fosse infinitamente vecchio, ci si potrebbe chiedere. Beh, tutti gli scienziati concordano oggi sul fatto che l’universo non è infinitamente vecchio, ma ha avuto un inizio, nel Big Bang. Se l’universo ha avuto un inizio, allora non esisteva. E le cose che non esistono e poi esistono devono avere una causa. C’è la conferma di questa tesi dal Big-bang cosmologico. Ora sappiamo che tutta la materia, cioè l’intero universo, è entrato in essere circa 13,7 miliardi di anni fa e si è espanso e raffreddato da allora. Nessuno scienziato ne dubita che più, anche se prima che fosse scientificamente provato gli atei lo chiamavano “creazionismo mascherato”. Ora, aggiungiamo a questa premessa una seconda premessa molto logica, il principio di causalità e cioè che nulla inizia senza una causa adeguata: si arriva alla conclusione che, poiché c’è stato un Big bang, ci deve essere un “big banger”.

Ma Dio è questo “big banger”? Perché non poteva essere solo un altro universo? Poiché la teoria generale della relatività di Einstein dice che tutto il tempo è relativo alla materia e dal momento che tutta la materia è iniziata 13,7 miliardi di anni fa, così è stato anche per il tempo: non esiste alcun tempo prima del Big Bang. Se non vi è tempo prima del Big Bang, anche se dovesse esserci un multiverso -cioè, molti universi con molti big bang, come la teoria delle stringhe dice che è matematicamente possibile-, anche tutto questo deve avere avuto un inizio.

Un inizio assoluto è quello che la maggior parte delle persone intende per “Dio”. Eppure alcuni atei trovano l’esistenza di un numero infinito di altri universi più razionale che l’esistenza di un creatore. Non importa che non vi sia alcuna evidenza empirica verso l’esistenza di qualcuno di questi universi sconosciuti, figuriamoci mille o un milione di universi! Fra quanto gli scienziati concluderanno che Dio ha creato l’universo? Ecco cosa dice il fisico di Stanford Leonard Susskind: «i veri scienziati resistono alla tentazione di spiegare la creazione tramite un intervento divino. Noi resisteremo fino alla morte a tutte le spiegazioni del mondo che non si basano sulle leggi della fisica». Eppure il padre della fisica moderna, Sir Isaac Newton, credeva in Dio con fervore. Non fu lui un vero scienziato?  Si può credere in Dio ed essere uno scienziato, senza che vi sia una frode? Secondo Susskind, a quanto pare no. Allora, chi sono esattamente le persone con mentalità chiusa in questo dibattito?

La conclusione che Dio esiste non richiede la fede. L’ateismo, invece richiede fede. Ci vuole fede per credere che tutto provenga dal nulla. Ci vuole la ragione per di credere che tutto viene da Dio.

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Il “caso Savita” e le balle degli abortisti

Savita HalappanavarLa liberalizzazione dell’aborto è sempre stata approvata tramite menzogne. In Italia, abbiamo ricostruito la vicenda, la tattica dei Radicali è stata quella di gonfiare il più possibile i numeri sull’aborto clandestino, violando platealmente le leggi statistiche, oltre che strumentalizzare i fatti della diossina di Seveso (MB).

In Irlanda l’aborto è un atto illegittimo e un reato penale punibile con la reclusione in quanto tramite l’interruzione di gravidanza avviene l’uccisione di un essere umano. Dal 1992 è consentito soltanto in determinate circostanze, ovvero quando “la vita di una donna è a rischio a causa della gravidanza, compreso il rischio di suicidio” (i dati indicano una media di un aborto ogni due o tre anni). Da tempo il mondo abortista cercava un espediente da usare come grimaldello per legittimare l’aborto libero, tuttavia il tasso di mortalità materna in Irlanda è tra i più bassi al mondo, ben al di sotto di tutti i Paesi in cui l’aborto è legale.

Nel 2012 si è improvvisamente presentato il “caso Savita” ed è stato immediatamente sfruttato. Secondo il racconto dei media, Savita Halappanavar si è presentata in stato di gravidanza (17° settimana) il 21 ottobre 2012 presso l’University Hospital di Galway, in Irlanda, accusando un forte mal di schiena e, si dice, chiedendo di abortire. L’ospedale tuttavia le avrebbe risposto che non era in pericolo di vita e non avrebbero agito come da lei richiesto perché “questo è un Paese cattolico”, inoltre il cuore del feto batteva ancora. Nel corso dei giorni, il feto è morto spontaneamente e l’utero è stato svuotato ma a Savita è stata diagnosticata una setticemia che l’ha portata a morire il 28 ottobre 2012. Ovviamente in tanti hanno sostenuto che la sua morte è stata causata dalla restrittiva legge sull’aborto e che Savita è una martire della crudeltà cattolica.

Chi è stato attento finora alla descrizione dei fatti ha già capito che il caso dovrebbe essere già chiuso: se davvero Savita fosse arrivata in ospedale col rischio di morire a causa della prosecuzione della gravidanza, i medici non avrebbero potuto rifiutarle l’aborto, dato che già la legge lo prevede. Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non che con il passare dei mesi quasi tutte le notizie iniziali sono state ritrattate e chiarite, anche grazie ai risultati di una apposita commissione che ha pubblicato i risultati nel Arulkumaran report del 13 giugno scorso.

Innanzitutto si è scoperto che la notizia della morte di Savita ha iniziato a circolare tra i pro-choice irlandesi prima ancora che diventasse di dominio pubblico così da preparasi a strumentalizzare il caso, in seguito c’è stata la ritrattazione della reporter Kitty Holland che ha annunciato per prima la vicenda. Ha affermato, infatti, di essere tutt’altro che certa del fatto che Savita avesse davvero chiesto di abortire (e che quindi ci fosse stato il rifiuto da parte dei medici di procedere all’interruzione della gravidanza). Durante le indagini, l’avvocato del marito della donna ha anche affermato che il proprio assistito voleva sapere perché per Savita non si optò per l’aborto, ma che non aveva mai detto che interrompendo la gravidanza la moglie avrebbe potuto salvarsi.

La dott.ssa Katherine Astbury, medico curante della signora Halappanavar, interrogata sui fatti ha testimoniato che mentre aveva inizialmente negato l’aborto a Savita il 22 ottobre 2012, in quanto non era medicalmente necessario, ha poi cambiato idea quando la sua condizione è peggiorata, ma a quel punto il bambino era già morto spontaneamente. La dottoressa ha anche spiegato che la questione dell’aborto è stata affrontata una sola volta con la signora Halappanavar, in quanto era evidente ad entrambe che non c’era al momento alcuna minaccia per la sua vita o la salute. Un’amica di Savita, Mrudula Vasealli, ha invece testimoniato di aver chiesto, assieme a Saviata, ad una ostetrica, Anna Maria Burke, se si “poteva fare qualcosa” per fermare il battito cardiaco del bambino, ma ella ha risposto: “Noi non lo facciamo qui. E’ un paese cattolico”. La donna si è in seguito scusata spiegando comunque che l’osservazione non aveva nulla a che fare con la prestazione di cure. Il personale medico della University Hospital di Galway ha fin da subito respinto l’accusa di dipendere da un “ethos cattolico” che influenzerebbe le decisioni dei trattamenti.

Savita è morta per una infezione fatale: il presunto aborto negato e l’ethos cattolico non hanno nulla a che vedere con la tragedia della giovane madre. Questo il verdetto unanime della giuria chiamata ad esprimersi, che ha anche fornito una serie di raccomandazioni affinché casi del genere non si ripetano, come ad esempio quello di chiarire esattamente quando una donna si trovi in pericolo di morte. Il rapporto Arulkumaran ha semplicemente dichiarato una negligenza medica e una non aderenza alle linee guida cliniche relative alla gestione rapida ed efficace della sepsi, senza imputare l’accaduto alla mancata interruzione di gravidanza. La terza inchiesta voluta dal ministero della sanità per appurare le cause della sua morte arriverà ad un verdetto definitivo non prima della fine dell’estate.

Nel frattempo in questi giorni il parlamento irlandese sta votando una proposta di legge che dichiarerebbe espressamente legale l’aborto nel caso di minacce di suicidio (fin’ora era a discrezione dei medici). Nel primo voto la misura è stata approvata, la decisione finale è attesa la prossima settimana. In ogni caso in molti vedono questo punto come fin troppo interpretabile e temono che gli abusi possano facilmente moltiplicarsi: chiunque infatti può minacciare di togliersi la vita solo per chiedere in realtà di interrompere la gravidanza. E la paura è che questo sia solo il primo step (“un cavallo di Troia”) di un nuovo corso legislativo sempre più favorevole all’aborto. In ogni caso il primo ministro, Enda Kenny ha più volte dichiarato che il ddl «non cambierà la legge irlandese sull’interruzione della gravidanza», che rimarrà illegale nella gran parte dei casi.

Rimane l’amarezza per come è stato strumentalizzato un fatto tragico come la morte di Savita. Come ha concluso lo storico Tim Stanley sul “Telegraph”: «il giornalismo applicato alla Chiesa è spesso irregolare. Possiamo perdonare un piccolo malinteso se si tratta di teologia. Ma quel che davvero si rileva spesso è l’odore l’odore sulfureo di una caccia alle streghe anticattolica»

La redazione

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Aldo Busi e le dichiarazioni sulla pedofilia (video)

Aldo BusiLo scrittore Aldo Busi non ha vinto la 67ma edizione del Premio Strega, ma ha racimolato soltanto 18 voti, reagendo in modo scomposto: «Lo Strega è un premio da analfabeti».

Il premio è stato vinto Walter Siti con il libro “Resistere non serve a niente” (Rizzoli 2013). Siti è uno scrittore affermato, accademico e critico letterario e omosessuale come Aldo Busi. Tuttavia ha sempre criticato la «gayzzazione dell’Occidente», come ha chiamato lui il «desiderio basato su rapporti veloci e intercambiabili fino alla promiscuità». L’omosessualità esiste da sempre, ha spiegato ma «allo stesso tempo che penso ci siano dei condizionamenti di tipo nevrotico […] Ho conosciuto diversi omosessuali che avevano quasi una impossibilità di fare l’amore con una donna, che di fronte alle donne avevano reazioni di spavento per non dire di panico. Allora è evidente che lì c’è uno sbarramento psicologico che io per semplicità ho chiamato nevrotico, qualcosa che somiglia a un blocco o a una censura. È un po’ ideologico dire: non importa, uomo o donna è la stessa cosa». Nel 2009 ha preso le difese del cantante Povia per la sua canzone “Luca era gay”, opponendosi al comportamento fascista dell’Arcigay che era pronta a bloccare Sanremo pur di impedire al cantante di esibirsi.

Quello che stupisce non è tanto il fallimento di Busi, piuttosto prevedibile per uno che ha definito Benedetto XVI un “omosessuale represso”, ma è la sua continua presenza pubblica sui media, i suoi frequenti inviti in diverse trasmissioni (nell’ultima ha rimediato una querela per aver insultato Laura Ravetto dicendole che va in giro senza mutande).

Aldo Busi si è infatti reso protagonista di numerose dichiarazioni sulla pedofilia che hanno portato L’Osservatorio sui Diritti dei Minori a protestare in più occasioni sulla permanenza dello scrittore omosessuale all’Isola dei Famosi (2010) e in altre trasmissioni. Durante una diretta del Costanzo show del 1996, infatti, Busi ha spiegato che «non vedo nulla di scandaloso se un ragazzino masturba una persona adulta». Alle ovvie polemiche nate il giorno dopo, ha risposto così in un’intervista: «Ipocriti. Siete i soliti cattolici che nascete e crescete con l’idea di sesso legata alla colpa e al peccato. Io faccio una fondamentale distinzione tra la criminalità legata alle pornocassette o al turismo sessuale e alla pratica di una pedofilia blanda, quella praticata dai bambini sugli adulti. I bambini sono in certi casi corruttori degli adulti». E ancora: « è arrivato il momento di capire che anche i bambini hanno la loro brava sessualità e che gli adulti non devono più reprimerla». Il commento del quotidiano “Repubblica” a queste parole di Busi è stato: «E c’era bisogno di legittimare i pedofili?».

Sulla rivista di cultura omosessuale “Babilonia”, ha invece scritto: «ci sono Paesi in cui le bambine e i bambini o vengono sfruttati nella prostituzione o vengono ammazzati (Brasile, Cina , India.). Allora, cos’è meglio per questi bambini, una scopata o una coltellata? E non mi si venga a dire che entrambe le soluzioni sono aberranti. E allora che sarà mai se un ragazzino di 5 o 10 o 12 anni fa una sega a uno più in là negli anni o se la fa fare? All’offerta sessuale del bambino bisogna che l’adulto responsabile dia una risposta sensuale e non una risposta astratta a base di rimproveri, ammonizioni e di sfiducia verso al propria sessualità e di orrore verso quella degli altri, tutti potenziali mostri dietro l’angolo. Se per fare questo gli si prende in mano il pisello o le si accarezza la passerina che sarà mai?».

 

Qui sotto le dichiarazioni di Aldo Busi del 1996

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Ma religione e scienza non nascono dalla paura della morte

Paura di perdertiSecondo alcuni teorici, sostenitori di una spiegazione naturalistica della religione, niente trasforma un ateo in un credente come la paura della morte. “Non ci sono atei in trincea”, dice il proverbio. Ma un nuovo studio suggerisce che le persone in situazioni di stress non sempre si rivolgono alla religione, ma spesso anche alla scienza.

Le cose diventano complicate dunque per quanti si dicono nemici della religione ma al contempo divinizzano la scienza come unica fonte di verità e gli scienziati come nuovi sacerdoti di questa religione secolarizzata. E’ infatti possibile che il loro argomento principale si trasformi in un boomerang per spiegare il loro comportamento.

Lo studio ha anche il merito di suggerire la fallacia argomentativa di chi parla “dell’invenzione di Dio” da parte dell’uomo con lo scopo di fuggire dall’idea della morte. La religione non nasce per consolazione davanti alla morte così come, evidentemente, la scienza non nasce per questo motivo anche se entrambe hanno come effetto quello di diminuire lo stress nei confronti del fine vita. Come abbiamo detto altre volte, si scambia erroneamente la causa con uno degli effetti: mentre la scienza nasce per rispondere al “come” delle cose, la fede nel Dio cristiano nasce grazie alla Sua rivelazione all’uomo e non come iniziativa di quest’ultimo, nasce come interesse alla sua felicità nel presente (“qui e ora”). Se poi entrambe, scienza e fede, aiutano anche a vivere meglio il momento della morte questo è un effetto secondario, non certo la causa della loro origine.

In ogni caso, uno studio pubblicato nel 2012 ha proprio evidenziato che pensare alla morte rende soltanto i cristiani e i musulmani più vicini a Dio, ma non gli atei. «La nuova ricerca suggerisce che il vecchio detto “niente atei in trincea” non regge», si commenta. Questo evidenzia che la presenza della morte rafforza soltanto la propria fede in Dio e il motivo è molto semplice: proprio la morte paradossalmente è lo stimolo più efficace a pensare alla vita, cioè al suo Senso ultimo.

La redazione

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Gianni Vattimo indipendente da ogni verità? E il comunismo?

Gianni VattimoGianni Vattimo è un filosofo ex cattolico, cresciuto negli ambienti intellettuali cattolici, oggi è un paladino del postmodernismo con approccio debole alla verità. Respinge la teologia in quanto pensiero forte, autoritario.

E’ uscito dal cattolicesimo a causa della sua omosessualità ed è fidanzato con un ventenne cubista (almeno fino al 2007). Preferisce autodefinirsi “frocio” che omosessuale, forse non avrebbe approvato allora la censura da parte di Facebook del recente editoriale de Il Foglio scritto da Giuliano Ferrara.

L’europdeputato dell’Italia dei Valori nel 2009 si dichiarava “cattolico praticante”, pochi giorni fa ha scritto: «Io ritengo che Gesù venga da Dio perché le cose che dice sono davvero di origine divina. Io credo nella divinità di Gesù Cristo soprattutto per ciò che lui mi ha detto; anzi, posso persino ammettere che egli sia resuscitato sulla base del fatto che tutte le altre cose che mi dice sono così attraenti che non posso non credergli». Il 23 giugno 2013 ha affermato in un’intervista: «Sarebbe un’affermazione azzardata dire di credere nell’aldilà. Credo di più nella speranza di una giustizia divina senza la quale non muoveremmo neanche un dito nella storia. Le confesso però che la sera, prima di dormire, recito delle parti del breviario. La religione è un’abitudine infantile che ti porti dietro». Il 18 ottobre 2011 ha scritto invece: «Grazie a Dio sono incerto, o anche ateo -non idolatra, non verità-dipendente…e poi, una esistenza tutta certezza, sai che barba».

La sua posizione esistenziale è dunque assai enigmatica, complessa e certamente messa in confusione da un’altra forma religiosa che alberga in lui: il comunismo. Il suo pensiero filosofico è certamente contraddistinto dalla respinta di ogni verità in nome del relativismo (anche questa però è una forma di verità!), eppure dovrebbe spiegarci come può conciliare questa posizione con la “fede” marxista. “Addio alla verità”, è titolato un suo libro di successo, perché la verità è prodotto del potere e dunque non è la verità, secondo il suo pensiero.

Il 22 aprile 2011 ha definito papa Wojtyla un grande reazionario perché ha «distrutto la teologia della Liberazione», ovvero il mischione tra teologia e analisi marxista, legittimando la lotta di classe, armata e quindi inevitabilmente violenta. Pochi giorni fa ha ricordato un giorno mentre viaggiava in auto e ascoltando una canzone in cui si citava Fidel Castro si è messo a piangere. Il 3 luglio 2013 quando i deputati dell’europarlamento hanno consegnato all’attivista cubano Guillermo Fariñas il Premio Sakharov, per la libertà di pensiero (protagonista di 23 scioperi della fame in nome dei diritti fondamentali contro il regime castrista), Vattimo è uscito dall’aula gridando «viva Castro!» e salutando con il pugno chiuso in segno di protesta, perché Cuba non sarebbe uno stato dittatoriale. “Dal pensiero debole alla mente indebolita” è stato il commento sul Secolo d’Italia. Giovanni Sallusti ne ha chiesto le dimissioni «per i torinesi, i piemontesi, gli italiani e i cubani. In alternativa, “L’Intraprendente” è pronto a pagargli un biglietto di sola andata per Cuba».

L’amore verso la “revolución” e Che Guevara vince sempre, la dipendenza dalla “verità” del comunismo, come mostra la sua storia, confuta ogni pretesa relativista del nostro Vattimo. Il celebre filosofo francesce René Girard, nel libro scritto assieme a lui, ha scritto: «Personalmente, concordo con Vattimo quando dice che il Cristianesimo è una rivelazione dell’amore, ma non escludo che sia anche una rivelazione di verità. Perché nel Cristianesimo, verità e amore coincidono, sono la stessa cosa» (R. Girard – G. Vattimo, “Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo”. Transeuropa 2006, p. 27)

La redazione

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Le scuole paritarie non offrono meno qualità di quelle statali

Studenti scuola privataLa cultura post-comunista ma ancora fortemente statalista, fortunatamente una piccola anche se potente minoranza, usa sostanzialmente due argomenti principali per opporsi alla libertà di educazione e alla sussidiarietà verso le scuole nate dalla società: il “diplomificio” e la scarsa qualità formativa offerta. Ovviamente sono accuse infondate, come mostreremo in questo articolo.

 

DIPLOMIFICI?
Le scuole paritarie sono accusate, in toto, di “regalare” i diplomi agli studenti. L’imputazione è ovviamente insostenibile in quanto generalizza facendo di tutta l’erba un fascio, basta un po’ di onestà intellettuale per capire che tale accusa non può corrispondere alla realtà. Per quanto riguarda gli istituti cattolici, come ha spiegato padre Dante Toia, presidente Fidae Campania, i diplomifici «non hanno niente da spartire» con essi. Nella sua scuola, ad esempio, il Denza di Napoli, sono stati bocciati agli ultimi scrutini 14 ragazzi e nella cerimonia di fine anno è premiato solo chi supera la media del 7 con il 9 in condotta. «Il progetto educativo cattolico si pone in un servizio pubblico. Noi siamo all’interno di un servizio pubblico che siamo tenuti e vogliamo fare. Chi entra nelle nostre scuole sa e deve capire che ha un servizio dallo Stato».

 

MENO QUALITA’?
Molto più complessa l’accusa alle scuole paritarie di offrire una performance inferiore rispetto alle scuole statali. Solitamente gli articoli su alcuni quotidiani, come “Repubblica”, citano a supporto uno studio della Fondazione Agnelli del 2012, ricerca certamente seria che tuttavia occorre visionare attentamente, come ha spiegato e ha fatto il sociologo Massimo Introvigne.

L’indagine si è basata sul risultato universitario del primo anno, espresso in voti e in velocità di percorso accademico, conseguito dagli studenti provenienti da un determinato istituto. Sono stati forniti due tipi di classifiche diverse, una per “effetto scuola” e una “finale”. In molti hanno dato attenzione quasi esclusivamente alla classifica “finale”, anche se nella relazione stessa si dice che il ranking più significativo è quello “effetto scuola”. Il “ranking finale”, infatti, è poco interessante in quanto fotografa non le capacità della scuola ma l’ambiente complessivo in cui essa opera (posizionamento geografico ecc.), che non ha nulla a che fare con l’offerta formativa o la qualità degli insegnanti. Ma anche la classifica per “effetto scuola” ha qualche lacuna, ad esempio non tiene conto del fatto che ci sono sia università sia facoltà più facili e più difficili, dato non certo secondario rispetto all’eventuale successo nel primo anno di università.

Al di là di queste osservazioni, il grande limite dell’indagine -come è stato evidenziato dagli stessi ricercatori della Fondazione Agnelli- è l’aver penalizzato le scuole da cui un numero superiore di allievi passa all’università. Ed è più che possibile che fra queste ci siano le scuole cattoliche, perché se i genitori sono motivati a investire nei figli sostenendoli nella scelta della scuola superiore cattolica – che comporta notevoli costi per colpa di un sistema politico iniquo nei confronti della libertà di educazione – saranno più propensi a sostenerli anche nell’ingresso all’università. E’ un dato fondamentale perché per un istituto che manda 5 studenti all’università ci sono ovviamente meno probabilità che essi “falliscano” rispetto ad un istituto che manda 30 studenti. Ed infatti, i ricercatori stessi hanno rilevato che i licei cattolici hanno mandato all’università il massimo degli studenti (guardare tabella con stelle a fianco ogni scuola).

I dati della ricerca sono comunque indicativi ma è infondato considerarla una “prova” della complessiva qualità peggiore della scuola paritaria rispetto a quella statale. Anche perché nel 2010 i dati dell’INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, edizione 2009), su incarico del ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, hanno rilevato che  per ogni materia e per ogni area del Paese italiano, i punteggi medi delle scuole paritarie sono superiori a quelli delle scuole statali. Esattamente il contrario, dunque.

Proprio in questi giorni è da segnalare una svolta super-paritaria del Corriere della Sera che ha pubblicato un ebook intitolato “Liberiamo la scuola” scritto da Andrea Ichino (Università di Bologna) e Guido Tabellini (Università Bocconi di Milano). I ricercatori hanno criticato «un sistema scolastico dirigistico e centralizzato» e il «paternalismo di uno Stato che deve sapere meglio dei singoli che cosa per loro sia preferibile» auspicando «una scuola autogestita da comitati di genitori, docenti o enti no profit, che contrattano con l’autorità scolastica gli obiettivi del progetto educativo». «Bisognerebbe accettare anche in Italia», si commenta infine, «che il ruolo dello Stato sia limitato a finanziare e regolare l’istruzione scolastica (pubblica o privata che sia), lasciando ad altri il compito di gestirla e di fornire il servizio alle famiglie», con buona pace di Rodotà e amici statalisti.

 

Oltre al ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, anche Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione, ha spiegato che «la visione moderna è quella di uno Stato inclusivo che si apre in maniera sussidiaria a chi dal basso cerca di dare risposte. La scuola è tutta pubblica e non esistono due pesi e due misure. Le scuole paritarie ricevono 500 milioni, pari all’1,2% della spesa relativa alle scuole statali, e offrono servizio pubblico al 12% della popolazione scolastica. Le 13.657 scuole con le migliaia di insegnanti e oltre un milione di iscritti rappresentano una realtà pubblica che chiede attenzione e valorizzazione e non battaglie ideologiche». Nel frattempo l’Ocse ha appena confermato che le scuole paritarie sono un risparmio di oltre 6 miliardi per lo Stato. Il costo medio di uno studente delle scuole statali è di 6.882,78 euro l’anno, mentre uno studente di scuola paritaria costa allo Stato 500 euro l’anno.

La redazione

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Soltanto i medici obiettori rispettano l’etica della medicina

MedicoNel 165 d.C. quando l’epidemia della peste raggiunse Roma, mentre i medici pagani scappavano dalla città -come Galeno-, i cristiani affrontarono il pericolo e salvarono migliaia di persone. «Il cristianesimo creò un’isola di misericordia e sicurezza oltre i confini della famiglia, nel mondo pagano la misericordia era considerata un difetto» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012 pp. 150-159).

Se fu il cristianesimo a diffondere il concetto di misericordia e di carità, l’origine della medicina “colta occidentale” è da individuarsi nell’antica Grecia ed è indissolubilmente legata al nome di Ippocrate (460 – 377 a.C. circa). A lui dobbiamo il celebre Giuramento, punto di riferimento dei principi etici normativi. In esso sono contenute frasi precise, come questa: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se sarà richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un simile consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo». Su queste parole si è basata l’etica medica degli antichi Greci (anche se «lo status oggi attribuito a quel testo è stato possibile soltanto in epoca cristiana», ha commentato Armando Torno), e sul quale ancora oggi prestano giuramento i nostri medici ad inizio carriera (il testo è leggermente modificato rispetto all’originale, ma contiene ugualmente il principio di «perseguire la difesa della vita» e di «non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona»).

Possiamo dunque dire che soltanto i medici obiettori continuano a rispettare l’etica medica, restando coerenti con il loro giuramento. Sia l’aborto che l’eutanasia sono infatti atti contrari alla pratica medica perché entrambi uccidono qualcuno senza apportare alcuna guarigione (grazie allo sviluppo della medicina, infatti, l’aborto terapeutico non trova più alcuna applicazione, come è stato annunciato al Simposio Internazionale sulla Salute materna di Dublino).

Coloro che in Italia intendono combattere l’autodeterminazione dei medici ad agire secondo coscienza in caso di aborto (circa l’80% dei medici!), come l’Associazione Luca Coscioni, hanno interesse a far credere che questo sia un ampio fenomeno soltanto in Italia. Eppure uno studio pubblicato nel 2011 su “Obstetrics & Gynecology” ha rivelato che negli Stati Uniti se il 97% dei ginecologi e ostetrici ha incontrato donne in cerca di aborto, soltanto il 14,4% non si è rifiutato di sopprimere il bambino non ancora nato. Dunque ne consegue che l’83% dei ginecologi e ostetrici americani è obiettore di coscienza (anche se la percentuale è probabilmente anche più alta, come viene spiegato su questo sito web).

Occorre affrontare un ultimo concetto: l’aborto non è un diritto sancito dalla legge 194! Come ha spiegato Tommaso Scandroglio, dottorando di ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Padova e assistente di Filosofia del Diritto e Filosofia Teoretica presso l’Università Europea di Roma, «obbligare una struttura a fornire l’aborto è anticostituzionale. Senza scomodare la morale naturale, lo dice il diritto positivo del nostro ordinamento: nell’articolo 2 della Costituzione la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra cui c’è quello alla vita. Significa che la legge 194 è una deroga al diritto e che l’obiezione di coscienza non è un boicottaggio, bensì il tentativo di riaffermare l’ordinamento. Esattamente il contrario di quanto sostiene chi dice che l’aborto è un diritto leso dall’obiezione di coscienza. La legge prevede l’obiezione di coscienza proprio perché accetta un’ingiustizia: se da una parte si permette di compierla a chi vuole, dall’altra non si può obbligare nessuno a eseguirla». Ricordiamo anche che il diritto all’obiezione non mette in discussione l’applicazione della legge 194, come invece qualcuno sostiene.

L’unico diritto in gioco è quello, semmai, della salute della donna, ma rimane un diritto minore rispetto a quello alla vita del concepito. Ovviamente se ci fosse in gioco la vita della madre allora le cose cambierebbero e la Chiesa non ha mai fatto prevalere la vita del bambino a quella della donna, come è stato più volte chiarito. In ogni caso, lo dicevamo già sopra, fortunatamente oggi la medicina è completamente in grado di evitare l’aborto e garantire la salute materna, non a caso i Paesi in cui l’aborto è illegale -come Cile e Irlandasono anche quelli in cui il tasso di salute materna è più elevato.

La redazione

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Ecco come le varie lobby stanno rosolando gli italiani

Lobby gay 

di Gian Luigi Gigli*
*neurologo e deputato di Scelta Civica

 

da “Avvenire”, 2/06/13

 

Caro direttore,
esiste in medicina un termine – mitridatismo – che indica il lento processo di assuefazione che può determinarsi in un organismo verso un veleno, quando esso venga somministrato ogni giorno a dosi non letali.

Questo processo di assuefazione si verifica purtroppo anche per gli organismi sociali a proposito delle ideologie del ‘politicamente corretto’. Basta proporre le idee controverse a piccole ma continue dosi, per evitare che esse vengano rigettate dal corpo sociale. Avendo questa accortezza, la società finisce per considerare anche i temi più controversi come qualcosa di normale, addirittura di già coralmente accettato e quindi, poco a poco, di indiscutibile, perdendo ogni capacità di opporsi, quasi fosse anestetizzata.

È quanto sta avvenendo per l’ideologia del ‘gender’ che le lobby Lgbt stanno instancabilmente promuovendo anche in Italia con la loro politica dei piccoli passi. Qualunque occasione è propizia, anche in Parlamento, per muoversi in questa direzione, dalla celebrazione della Giornata contro l’omofobia (evitando, ovvio, di celebrare la Giornata internazionale per la famiglia), all’assistenza integrativa per i deputati omosessuali, all’approvazione della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, nella quale si annida – per fortuna almeno individuato ed enucleato – il rifiuto del genere biologicamente inteso, a favore appunto di un ‘gender’ fondato sulla scelta dell’individuo.

Lo stesso discorso potremmo farlo per altri grandi temi. Basti pensare all’aborto, passato in 40 anni da crimine a dramma sociale di cui prendere atto, a scelta dolorosa cui prestare assistenza, a ‘diritto’, fino a incominciare a ipotizzare persino sanzioni verso chi – come i medici obiettori di coscienza – crei ‘ostacoli’ all’aborto on demand. Anche per l’eutanasia si è scelta la via del mitridatismo. Dalla saggia opposizione a ogni accanimento terapeutico, si è passati alla rivendicazione della possibilità di sospendere la ventilazione assistita (caso Welby), poi alla sospensione di nutrizione e idratazione a una disabile (caso Englaro), quindi a mascherare l’eutanasia omissiva come ‘desistenza’ terapeutica. E ora si intensifica il pressing radicale per l’eutanasia attiva e il suicidio assistito come diritto dell’individuo.

Il filo conduttore è sempre quello del primato dell’autodeterminazione sul riconoscimento di un valore sociale per la vita dei nostri simili e sul conseguente interesse comunitario a tutelarla. Il mitridatismo del politically correct ha da tempo penetrato ciò che resta della tradizione socialista che, sconfitta dalla logica del mercato, ha preferito ritirarsi dal fronte della giustizia sociale e attestarsi sulla linea dei cosiddetti diritti civili.

Al radicalismo manca ora solo la capitolazione dell’ultima roccaforte che ancora le si oppone, quella della cultura cattolica. E anche in questa cittadella c’è chi si fa intimorire dal preteso e intollerante pensiero unico – Marcello Veneziani ha parlato recentemente di «razzismo etico») – e rinuncia a opporsi culturalmente alla marea montante. Altri all’inverso sembrano preferire un’opposizione improduttiva, convinti che lo scontro fine a se stesso abbia una sua intrinseca bellezza, dimentichi che le battaglie vanno fatte per guadagnare posizioni o, quantomeno, per non perderne altre.

A questi ultimi, impegnati talvolta più sul versante della critica agli amici che in quello dell’agone culturale con gli avversari, vorrei solo ricordare sommessamente che occorre abituarsi «a rendere ragione della speranza» che è in noi, cercando alleati preziosi sul piano della ragionevolezza, pregando ogni giorno con san Tommaso Moro: «Signore, dammi il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, la forza per accettare quelle che non posso cambiare e la saggezza per distinguere le une dalle altre». È quanto con altri colleghi cerchiamo di fare ogni giorno in Parlamento, nella convinzione che in politica non basti la proclamazione dei princìpi, ma occorra piuttosto la ricerca del consenso sulla nostra agenda. È quanto abbiamo fatto sul tema del ‘gender’, facendo accogliere dal Governo un ordine del giorno con cui lo si impegna, nell’applicare la Convenzione di Istanbul, al rispetto della nostra Costituzione in tema di identità di genere.

Sarà tanto più facile costruire tale consenso anche in altre occasioni, quanto più invece di sparare sui parlamentari cattolici ci si indirizzerà invece a far crescere una nuova cultura nella società, capace di premere sulle istituzioni. I radicali questo fanno, da decenni. E noi?

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Ecco cosa pensano i veri teologi di Vito Mancuso

Vito MancusoIl teologo del politicamente corretto, Vito Mancuso, ha recentemente offerto ai lettori di “Repubblica” un’altra perla new age pescata dal suo repertorio.

Il noto teologo mediatico -temendo di parlare di Dio, di Gesù Cristo e del suo messaggio evangelico-, ha infatti spiegato che l’uomo dovrebbe scegliere il bene al posto del male, anche se quest’ultimo talora risulta più conveniente, semplicemente in nome dell’etica (laica), cioè «la logica della relazione armoniosa che abita l’organismo a livello fisico e che lo fa essere in salute, l’armonia tra le componenti subatomiche che compongono gli atomi, tra gli atomi che compongono le molecole, e così sempre più su, passando per cellule, tessuti, organi, sistemi, fino all’insieme dell’organismo», secondo la sua definizione.

E qualunque cosa ciò voglia dire, la conseguenza è che «il segreto della vita in tutte le sue dimensioni è l’equilibrio, e l’etica non è altro che l’equilibrio esercitato tra persone responsabili». Basta rispettate delle regole sociali per essere felici e trovare il segreto della vita, altro che i comandamenti di quel Messia mediorientale! In un altro suo scritto recente spiegava con un ennesimo abuso teo-panteista che il senso della vita, la meta è «fare di noi stessi un giardino». Sarà contento il WWF!

La domanda sorge spontanea: se l’autorità e la reputazione di un intellettuale la si valuta anche nella stima che i diretti colleghi provano nei suoi confronti, cosa ne pensano i teologi, quelli veri e autorevoli, di Vito Mancuso? Ecco qui una bella carrellata di opinioni:

 

Mons. Piero Coda, presidente dell’Associazione Teologica Italiana, docente di teologia dogmatica alla Pontificia Università Lateranense, membro del Consiglio Scientifico dell’Enciclopedia Italiana nonché professore e primo relatore della tesi di Vito Mancuso, ha preso le distanze dal suo ex allievo nel libro “Dio crede in te” (Rizzoli 2009): «Mancuso tende a sottovalutare la portata universale dell’evento di Gesù. Dice di rifarsi alla tradizione metafisica dell’evento cristologico e parla di una teologia universale: ma l’universalità, dal punto di vista della fede, è radicata nella singolarità dell’evento di Gesù Cristo. In sostanza, il progetto di Mancuso di una rifondazione metafisica della fede consentanea alla ragione contro le timidezze e i formalismi della teologia postconciliare è più un’intenzione che un risultato». Rispetto alla coesistenza del male e di Dio, di cui parla in alcuni libri, «Mancuso non riesce a cogliere la logica, senz’altro profonda e persino misteriosa», che lega i due assunti. «D’altra parte, ciò che gli manca è guardare al focus che li illumina: Gesù Crocifisso e Risorto».

 

Il teologo Bruno Forte, anche lui professore di Mancuso presso la Facoltà Teologica “San Tommaso d’Aquino”, ha scritto un articolo su “L’Osservatore Romano” nel febbraio 2008 dopo aver letto un suo libro, dicendo: «ha suscitato in me un senso di profondo disagio e alcune forti obiezioni, che avanzo nello spirito di quel servizio alla Verità, cui tutti siamo chiamati». Il suo pensiero è «una “gnosi” di ritorno, presentata nella forma di un linguaggio rassicurante e consolatorio, da cui molti oggi si sentono attratti».

 

Il teologo e filosofo Antonio Livi, docente di Filosofia della conscenza all’università Gregoriana e professore emerito della Pontificia Università Lateranense, nonché allievo del filosofo Étienne Gilson, ha questa opinione di Vito Mancuso: «Premetto una cosa: rispetto Giuliano Ferrara, che è un “ateo devoto”, Marcello Pera che è ateo ma rispetta il cristianesimo. Rispetto Paolo Flores D’Arcais, che è un anticattolico viscerale, e anche l’antireligioso Piergiorgio Odifreddi. Ma se uno si presenta come teologo cattolico deve stare a certe regole, logiche ed epistemolgiche». Mancuso «è considerato un teologo, ma il contenuto e l’impianto del suo testo contraddicono la natura della teologia. Tratta con scandalosa superficialità temi che meriterebbero ben altro rispetto, commettendo diversi notevoli svarioni», ha scritto. Nell’articolo “Mancuso, il falso teologo”, del novembre 2011, ha scritto inoltre: «Mancuso parla e scrive di teologia, e i suoi libri hanno avuto in Italia una vasta e chiaramente interessata eco nei mass media di orientamento laicistico: evidentemente, alla cultura anti-cattolica non può che far piacere che un autore che si proclama cattolico e teologo demolisca uno per uno tutti i dogmi della fede cattolica (era già successo anni or sono con i libri di Hans Küng) […]. E’ questo modo di affrontare gli argomenti della fede cristiana che non consente di considerare Mancuso un teologo», non accorgendosi che «la sua teoria ripropone, senza sostanziali novità speculative, la vecchia eresia pelagiana […]. Quello di Mancuso è genuino panteismo (anche se teoreticamente inconsistente)». E in conclusione: «Insomma, la pseudo-teologia di Mancuso piace ai miscredenti perché porta acqua al mulino della polemica contro la Chiesa e ripropone (proprio come aveva fatto in precedenza Hans Küng con la sua Welthetik) il progetto massonico di una religione universale “laica” senza gerarchia e senza dogmi, quella religione che alla fine del Settecento era stata teorizzata dal massone Gotthold Ephraim Lessing con Nathan der Weise».

 

Un altro suo collega, Angelo Busetto teologo presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, nell’aprile 2013 ha spiegato che Mancuso è «un autore che si definisce e si fa definire ‘teologo’ […]. Qualche tempo fa avevo letto con una certa simpatia qualche suo intervento, nel tentativo di riconoscergli lo sforzo di avvicinare la teologia ai problemi dell’uomo d’oggi. Ormai però mi sembra di vederlo imbarcato con l’equipaggio di chi si fa servo dei luoghi comuni ampiamente propagandati sui mass-media».

 

Padre Gian Paolo Salvini, gesuita e direttore della prestigiosa “La Civiltà Cattolica”, ha esposto brevemente il suo pensiero su Mancuso nel gennaio 2008: «stiamo preparando un articolo sul libro di Mancuso. Un articolo per la verità molto critico, credo che su molti punti quanto egli scrive non sia compatibile con la fede cattolica. Ma il libro e il linguaggio sono seducenti anche perché parlano di cose che interessano alla gente. Lui poi è molto amabile e cortese, anche personalmente. Il suo linguaggio è molto evanescente e immaginifico, per cui spesso non si capisce che cosa voglia dire».

 

Un altro suo collega, il famoso teologo Enzo Bianchi, amareggiato nel vedersi citato a sproposito nel libro scritto con Corrado Augias, ha commentato: «le risoluzioni che propone Mancuso si collocano nello spazio della gnosi in cui la storia è di per sé storia di salvezza e in cui non c’è da parte di Dio né rivelazione né grazia».

 

Padre Giovanni Cavalcoli, docente emerito della Facoltà Teologica di Bologna, ha spiegato nel marzo 2013 che «Mancuso rappresenta l’ala secolarista tendenzialmente atea del modernismo, di carattere popolare e sovversivo, che, come sappiamo, si affianca all’altra ala più intellettuale e legata agli ambienti della cultura e della gerarchia cattolica, la quale affetta una forma di spiritualismo raffinato che in fondo non è che riesumazione della tradizione gnostico-idealistica tedesca». Nel 2010 ha invece smontato punto per punto il libro di Mancuso intitolato “L’origine e l’immortalità dell’anima”.

 

Il suo vecchio amico e collega, l’affermato teologo Gianni Baget Bozzo, gli ha domandato nel 2008: «Caro Vito, che senso ha chiamarsi ancora teologo, se non per pura commercializzazione del prodotto, quando si ha una così bassa concezione della teologia?».

 

Il teologo gesuita Giovanni Cucci, docente di Filosofia e Psicologia all’Istituto “Aloisianum” di Padova e presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, ha scritto di Mancuso nel 2010 stroncando il libro “La vita autentica”: «Mettendo a confronto le varie parti del libro, il meno che si possa dire è che la conduzione del discorso risulta molto ambigua ed equivoca, per non dire contraddittoria. In fin dei conti, per Mancuso, Dio è necessario o no ai fini del discorso sull’autenticità? Le risposte che giungono dal libro non consentono di stabilirlo, poiché si afferma in una pagina quanto viene negato alla pagina successiva. La prospettiva di un orizzonte impersonale non risulta soltanto insostenibile in sede filosofica. Resterebbe da chiedersi come Mancuso, escludendo dal suo discorso la possibilità di Dio, possa ancora presentarsi come un teologo cristiano, e su che cosa verta a questo punto l’indagine della sua disciplina, ammesso che le parole conservino ancora un senso».

 

Pietro De Marco, sociologo della religione presso l’Istituto Superiore di scienze Religiose e di Storia della Chiesa presso la Facoltà di Lettere di Firenze, nel febbraio 2010 ha scritto: «il linguaggio di Mancuso è disarmante, non lo accetterei nella tesina di uno studente». Il suo «monismo energetico, disperante nella sua dogmaticità, può certamente apparire frutto di un tardo, sfilacciato New Age». «Da anni, leggendo Mancuso», ha continuato De Petro, «sono diviso tra lo stupore per una cultura, filosofica e teologica, approssimativa ed esibita, e la riflessione sul suo successo. Che Augias abbia catturato Mancuso in un libro a due, che si vende molto, e che se lo porti dietro in un inesausto calendario di incontri, ha una sua logica. Mancuso produce, infatti, più danni nella religiosità comune e cattolica che la cultura ottocentesca del giornalista de “la Repubblica”. Dopo Adriano Prosperi, e altri, la coppia Mancuso-Augias garantisce una solida continuità di polemica anticattolica».

 

Don Agostino Clerici, sacerdote, giornalista ed editorialista del “Corriere di Como”, ha sottolineato nel maggio 2012 che nei libri di Mancuso, nel «modo di procedere che vorrebbe essere logico e quasi sistematico si insinuano frequentemente degli scivoloni clamorosi, quasi del lapsus che sembrano dettati solo da un’acredine, da una polemica, non di rado astiosa, nei confronti della struttura ecclesiastica». Dopo aver segnalato alcuni di questi errori, ha concluso: «il successo dei libri di Mancuso si basa sull’attacco alla Chiesa autoritaria e dogmatica suffragato da incursioni nell’attualità. Troppo poco. Io continuo a nutrire simpatia nelle forza emotiva che lo spinge a scrivere, ma mi attendo che il nuovo linguaggio serva a dire le verità della fede cristiana, non a smantellarle».

 

Il teologo Stefano Biavaschi, docente e collaboratore con la Cattedra di Teologia dell’Università Cattolica, nel gennaio 2013 ha commentato: «Che un uomo, ordinatosi sacerdote, possa gettare la tonaca alle ortiche solo un anno dopo, sono fatti suoi (per modo di dire, perché ogni fatto è di tutti, specie se sei un uomo di chiesa). Ma che poi lo stesso uomo pretenda di dare lezioni al Papa, appare un po’ eccessivo. Eppure è quello che Vito Mancuso fa tutti i giorni con i suoi scritti». E, dopo aver sottolineato numerosi errori nei libri di Mancuso, ha affermato: «rimane dunque l’amara impressione che si voglia generare confusione tra i credenti. Tesi che ingannano molti, perché poi sono pochi quelli che vanno a verificare davvero le fonti».

 

Il gesuita Corrado Marucci, professore di esegesi biblica al Pontificio Istituto Orientale, ha scritto su “La Civiltà Cattolica”: «Mancuso dice di voler essere un pensatore cattolico, un figlio della Chiesa. È perciò assai strano che egli non faccia alcun riferimento alla metodologia dell’esegesi biblica e a quella propria della teologia cattolica. L’assenza quasi totale di una teologia biblica e della recente letteratura teologica non italiana, oltre all’assunzione più o meno esplicita di numerose premesse filosoficamente erronee o perlomeno fantasiose, conduce Mancuso a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica. A fronte di una relativa povertà di dati autenticamente teologici, la tecnica di accumulare citazioni da tutto lo scibile umano, oltre al rischio di distorcerne il senso reale ai propri fini poiché esse fanno parte di assetti logici a volte del tutto diversi, non corrisponde affatto alla metodologia teologica tradizionale. Non è facile elencare tutte le matrici che Mancuso alterna e assomma nel corso dell’esposizione (platonismo, razionalismo gnostico, scientismo, eclettismo e così via): quello che comunque domina è il razionalismo convinto che di realtà di cui non si ha alcuna percezione sensibile o decisamente soprannaturali si possa discettare in analogia con le scienze fisico-biologiche. Nel contesto di notevolissima confusione sulla religione e la Chiesa tipica della cultura mediatica contemporanea, ci sembra che contribuisca ad aumentare tale confusione. L’Autore dichiara la sua disponibilità ad essere corretto: ma ciò, dato lo stile non sistematico e velleitario delle sue affermazioni, non è facile, poiché si può confutare soltanto ciò che è organicamente formulato al di dentro di un preciso assetto epistemologico».

 

Segnaliamo infine altre stroncature del pensiero mancusiano arrivate da intellettuali, scrittori e filosofi come  Costanzo PreveAlfonso Berardinelli, Marcello Veneziani, Fabio Luppino, Francesco Lamendola, Antonio Socci, Francesco Agnoli ecc.

La redazione

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