Grazie all’UAAR l’ateismo diventa una religione

uaar religioneE finalmente l’UAAR ce l’ha fatta, dopo anni di tentativi per farsi riconoscere come una “confessione religiosa”, così come si sono autodefiniti loro, la goliardica associazione da 4000 atei italiani ha trasformato ufficialmente l’ateismo in una religione (lo era già, molti diranno).

La Cassazione ha infatti respinto il ricorso con il quale la Presidenza del Consiglio voleva escludere “l’ateismo organizzato” dal diritto alle intese con lo Stato, regolamentato dall’articolo 8 della Costituzione, previsto solo per le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Spetterà ora al Tar Lazio stabilire se l’ateismo è una religione e l’UAAR una confessione religiosa, come si autodefinisce. Il giurista Francesco Margiotta Broglio ha ironizzato: «comunque è tutto già pronto: una Dea, la “Ragione”, una festa nazionale, il XX settembre, un Santo, Giordano Bruno da Nola, da festeggiare il 17 febbraio. Piazza Campo de’ fiori attende!». Mentre Giuliano Amato, noto laico, ha chiaramente espresso la sua perplessità: «spero proprio che l’Uaar rappresenti- come mi pare- una minoranza davvero esigua dei non credenti in Italia».

Non capiamo però lo stupore, è da tempo che parliamo dei disperati tentativi dell’associazione ateista di accaparrarsi l’8×1000 (è sempre una questione di soldi, alla fine) e poter avere l’ora di ateismo nelle scuole, anche sacrificandosi ad equipararsi ad un gruppo di fedeli religiosi che fanno parte di una confessione religiosa. Lo dicono loro stessi: «l’UAAR si interpreta come religione» e «l’ateismo non potrebbe nemmeno essere distinto dalla religione». L’UAAR vorrebbe che anche si riconoscesse, da tale intesa con lo Stato, il «soddisfacimento del bisogno religioso dell’ateo», il quale «si manifesta nella critica alle religioni». Aspira dunque a «vantaggi non sol­tanto morali, ma anche concreti», ad esempio «vantaggi di tipo patrimoniale (attribuzione dell’otto per mille del gettito IRPEF, deducibilità del­le erogazione liberali dei fedeli) e non patrimoniali (ac­cesso al servizio radiotelevisivo pubblico e riserva di frequenze; insegnamento dottrinale su richiesta nelle scuo­le pubbliche)».

Un clamoroso autogol, l’ennesimo, perché introduce una ambiguità insanabile nei loro obiettivi: come possono combattere la presenza pubblica della religione se loro stessi, -confessione religiosa che pratica una religione-, si affannano per essere riconosciuti pubblicamente come tale (dopo circa 25 anni di militanza faticano ad essere perfino citati sui quotidiani!)? Se riusciranno nell’impresa sarà fin troppo facile mostrare la loro contraddizione strutturale. 

Volendo spezzare una lancia a favore di questi esalt-atei, occorre dire che dobbiamo essere veramente grati a loro. Se non era per loro, ci sarebbe stato un vuoto legislativo europeo circa la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche ed invece la Corte Europea ha chiaramente affermato che esso non lede la laicità creando un ottimo precedente (già sfruttato in altri Paesi) per la presenza pubblica di simboli religiosi. Sempre a causa di questa loro iniziativa, migliaia di crocifissi sono stati appesi anche nelle aule scolastiche che ne erano sprovviste, per una sorta di reazione popolare.

Ma non è finita, siamo anche debitori a loro per l’ispirazione di questo sito web e per il fatto che i rappresentanti religiosi possono finalmente visitare le scuole pubbliche senza che nessuno possa dire nulla. Infatti, avendo perso un ricorso contro il vescovo di Grosseto, il Consiglio di Stato ha deliberato che un vescovo ha tutto il diritto di incontrare i ragazzi in aula e questo non è «in contrasto con le garanzie di autonomia culturale e libertà di culto» sancite dalla Costituzione e che, anzi, è una «testimonianza sui valori» che fondano «l’esperienza religiosa e sociale di una comunità». Si è trattato del primo pronunciamento in tale direzione e dunque ha definito un orientamento preciso di cui si dovrà tenere conto in futuro.

La nostra gratitudine all’UAAR è giustificata anche dal fatto che senza il loro finanziamento alla “Seconda Sindone” realizzata da Luigi Garlaschelli del Cicap, con l’intento di dimostrare che quella autentica è in realtà un artefatto riproducibile utilizzando materiali a disposizione nel Medioevo, oggi qualcuno potrebbe avere ancora il dubbio che potesse essere così. Invece, il loro fallimento più totale ha dimostrato proprio l’esatto opposto, come ha affermato, proprio su questo sito web, il dott. Paolo Di Lazzaro, primo ricercatore dell’ENEA di Frascati che ha verificato l’impossibilità a riprodurre l’immagine sindonica usando i più potenti laser oggi a disposizione: «la mal riuscita copia di Garlaschelli, al contrario di quanto dichiarato dal Professore, è una ulteriore dimostrazione di quanto sia improbabile che un falsario del Medioevo abbia potuto realizzare la Sindone senza microscopio, senza conoscenze medico-legali, senza un laboratorio chimico attrezzato come quello del Prof. Garlaschelli».

Se l’UAAR riuscirà davvero a farsi riconoscere come gruppo di fedeli aderenti ad una confessione religiosa, gli atei, quelli seri e slegati ad associazioni folkloristiche, dovranno per forza riconoscere che chi voleva eliminare le religioni dallo spazio pubblico altro non ha fatto che rendere la società ancora più multireligiosa. Alla faccia del loro presidente onorario Piergiorgio Odifreddi (che si è guardato bene dal commentare la notizia).

La redazione

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La Germania investe nella natalità. E l’Italia?

famigliaMentre un team internazionale di scienziati ha sviluppato modelli di raccolta per una maggiore produzione di cibo, utile a far fronte al fabbisogno di una popolazione in crescita (raggiungeremo i 9 miliardi entro la metà del secolo), la cancelliera tedesca Angela Merkel ha attuato politiche sociali in favore della famiglia.

Il governo tedesco infatti ha stanziato 7.500 milioni di euro per assegni familiari per chi ha bambini e 20.000 milioni di euro di aiuti a coloro che scelgono di diventare madri. La Germania ha infatti subito una forte riduzione del numero di abitanti e un netto invecchiamento della popolazione: uno su cinque ha 65 anni o più.

In Lituania, invece, l’emergenza demografica ha indotto il governo a varare un disegno di legge contro l’aborto, limitandolo ai soli casi di gravidanza risultante da stupro o da incesto, e quando la salute della donna incinta è a rischio.

In Inghilterra un eminente economista come Stephen D King, responsabile economico dell’HSBC, uno dei più grandi gruppi bancari del mondo, nel suo nuovo libro ha affermato che l’assunzione che l’economia mondiale potrà sempre riprendersi è sbagliata, il fattore decisivo sono i dati demografici: abbiamo bisogno di più bambini per sostenere le nostre economie. «Da 50 anni a questa parte,», si legge sul “Guardian”, «nella cultura europea si è sviluppata l’idea che il problema sia la troppa gente. In termini culturali, la celebrazione della contraccezione, dell’omosessualità e dell’eutanasia rappresenta questo trend. In economia, l’idea di spendere piuttosto che risparmiare fa la stessa cosa. Così fanno i Verdi, che vedono le produzioni del genere umano come il nemico della terra, e attaccano la crescita economica senza rendersi conto di sostenere in tal modo l’impoverimento». La bufala della bomba demografica l’abbiamo fatta esplodere con questo dossier.

E in Italia? Nel 2012 l’Istat ha registrato un record negativo storico rispetto all’andamento demografico. Gian Carlo Blangiardo, demografo dell’Università Bicocca di Milano, ha spiegato che «anche chi si illudeva che bastasse il contributo delle famiglie immigrate per uscire dall’inverno demografico si è dovuto ricredere». E ancora: «Se dunque i dati ufficiali mettono chiaramente in luce come si sia davanti a un vero e proprio “record negativo” sul fronte della vitalità del Paese – mai a partire dall’Unità nazionale si è registrato un saldo naturale così basso – è ragionevole e realistico pretendere che l’emergenza demografica venga inclusa nell’agenda della politica tra i grandi temi da affrontare per il rilancio italiano».

Eppure per ora i nostri politici sembrano unicamente interessati alle unioni civili per gli omosessuali e a partecipare ai Gay Pride, oltre a garantire l’inviolabilità della legge 194. Ma di politiche a favore della famiglia naturale, così come la chiama la nostra Costituzione, non se ne parla (nota positiva per il il comune di Pavia e negativa per il Trentino Alto Agide). Nulla è stato fatto con il governo Prodi, nulla è stato fatto con il governo Berlusconi, nulla con Monti e ancora niente con il governo Letta.

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Omosessuali picchiano chi è contro al Gay Pride (video)

Omosessuale violenzaDue persone contrarie al Gay Pride sono state brutalmente picchiate con calci e pugni in faccia da un gruppo di omosessuali durante il Pridefest di domenica scorsa negli USA a Seattle. Tante volte si sono verificati questi episodi di intolleranza, accuratamente censurati dai media, ma raramente l’intera scena è stata catturata da una videocamera (il video è più sotto).

Nel video si vedono due cristiani protestanti (predicatori di strada, il nome tecnico) che legittimamente manifestano il loro dissenso, assolutamente pacifico, verso la sfilata gay. Una manifestazione criticata anche dagli omosessuali stessi, come Sandro Mangano, neo presidente nazionale di GayLib, che è contro alle «volgarità con travestimenti» che porta ad apparire «ridicoli e pagliacci».

Uno dei due contro-manifestanti tiene in mano un cartello con scritto “Gesù salva dal peccato” e invita a “convertirsi”, mentre l’altro tiene in mano una Bibbia. Nonostante siano fermi su un prato distante dalla strada, diversi omosessuali si avvicinano riempiendoli di insulti rabbiosi. Un ragazzo gay cerca furiosamente di impossessarsi del cartello, spingendo i due. Ad un certo punto, assieme ad altri omosessuali, l’uomo con il cartello viene aggredito, buttato per terra e massacrato con pungi e calci. In seguito è intervenuta la polizia che ha fermato e arrestato gli aggressori, tra cui Jason Queree, 36 anni.

 

Qui sotto il video dell’aggressione avvenuta a Seattle

 

La violenza contro gli omosessuali è purtroppo certamente un fenomeno reale, anche se non diffuso come viene fatto credere. Tuttavia l’aggressione di Seattle è solo uno dei tanti esempi di una perenne violenza e discriminazione da parte degli attivisti omosessuali contro chi è in disaccordo con loro. Lo scorso agosto, ad esempio, è stato solo grazie all’eroismo di una guardia di sicurezza che non si è verificata una strage, quando un attivista gay ha fatto irruzione con una pistola carica presso il Family Research Council di Washington, con l’intento di uccidere tutti gli attivisti per il matrimonio tradizionale. Lo scorso gennaio un gruppo di cattolici brasiliani, riunitisi a manifestare per le strade di Curitiba in difesa della vita e della famiglia tradizionale, sono stati molestati, riempiti di sputi e fisicamente aggrediti da una folla omosessualista.

Nel mese di aprile il capo della Chiesa cattolica in Belgio, monsignor André-Joseph Leonard, è stato aggredito da un gruppo di femministe che con urla e getti d’acqua in faccia gli hanno impedito di tenere un suo discorso presso l’università a cui era stato invitato. Sempre lo scorso aprile, il gruppo “Angry Queers” ha rivendicato la responsabilità del lancio di sassi contro una chiesa di Portland, nota per la sua presa di posizione a favore del matrimonio tradizionale.

Ricordiamo nel 2011 le minacce di morte a Melanie Phillips dopo che ha criticato la troppa presenza di riferimenti omosessuali nei programmi scolastici, le minacce di stupro verso la figlia del senatore democratico pro-family Ruben Diaz Sr, il violento agguato notturno alla famiglia del sindaco di Madrid Alberto Gallardon, per aver diminuito il volume della musica durante il “Gay Pride”, l’aggressione ai manifestanti della “American Society for the Defense of Tradition, Family and Property”, il danneggiamento del fast-food di Dan Cathy, imprenditore contrario ai matrimoni omosessuali, gli insulti e le minacce contro manifestanti pro-matrimonio tradizionale in Minnesota, gli insulti razzisti verso gli abitanti del North Carolina per aver votato in maggioranza un referendum contro le nozze gay, le minacce di morte all’omosessuale Rupert Everett, contrario all’adozione gay, ecc.

La redazione

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Discendente di Darwin diventa cattolica grazie a Richard Dawkins

Laura KeynesNon solo una diretta discendente del celebre naturalista Charles Darwin è diventata cattolica, ma si è convertita grazie alla militanza ateistica di Richard Dawkins basata  principalmente sulla strumentalizzazione del pensiero di Darwin.

Mai ci saremmo immaginati di riportare una vicenda del genere ma è accaduto con Laura Keynes, la quale oltretutto si è unita a “Catholic Voices”, un progetto online di divulgazione e apologetica cattolica.

Laura ha scritto di essere tornata alla fede cattolica dopo un periodo di agnosticismo. Figlia di un padre miscredente e una madre cattolica ma in seguito diventata buddista, fu battezzata cattolica ma scivolata nell’agnosticismo nei suoi anni dell’adolescenza e «lontana da ogni contatto con la Chiesa».

Tuttavia, mentre studiava per il dottorato in filosofia all’Università di Oxford ha iniziato a «rivalutare quei valori. Le relazioni, il femminismo, il relativismo morale, la santità e la dignità della vita umana». Ma in particolare è stato il dibattito suscitato dal libro di Richard Dawkins, “The God Delusion”, ad ispirarla ad un approfondimento concludendo che «il “nuovo ateismo” sembra portare un germe di intolleranza e di disprezzo per le persone che potrebbero soltanto minare le pretese umaniste secolari e il liberalismo». Ha quindi spiegato: «ho liberamente scelto di essere cattolica dopo lunghe riflessioni e analisi».

La redazione

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Il “caso D’Amico” e l’ombra inquietante del suicidio assistito

eutanasiaL’American Medical Association, che come tutte le altre principali associazioni mediche si oppone fortemente ad eutanasia e suicidio assistito, ritiene esplicitamente che il «suicidio assistito è fondamentalmente incompatibile con il ruolo del medico come guaritore, sarebbe difficile o impossibile da controllare e porrebbe seri rischi sociali. Invece di partecipare al suicidio assistito, i medici devono rispondere ai bisogni dei pazienti terminali».

Difficile o impossibile da controllare, anche perché l’errore medico e, sopratutto, l’interesse ideologico del medico non si può prevedere o monitorare. E’ il caso del magistrato Pietro D’Amico, suicidatosi ad aprile nella clinica della morte svizzera chiamata EXIT, ma che si è però scoperto oggi non essere affetto da alcuna incurabile patologia, come invece dichiarato da alcuni medici italiani e confermato da medici svizzeri. Si parla di “errore medico fatale” anche se sembra che D’Amico non sia stato visitato da almeno due medici svizzeri, come chiede la Legge, ma dalla stessa “dottoressa morte”, Erika Preisig, che lo ha poi aiutato ad uccidersi. Una donna glaciale, priva di umanità come la si descrive su “Il Fatto Quotidiano”. Ora ci saranno le indagini, intanto la figlia afferma: «“Papà non era affetto da alcuna malattia inguaribile, non era un malato terminale. È stato aiutato a suicidarsi e l’istigazione o l’aiuto al suicidio è un reato anche in Svizzera. Papà andava aiutato a vivere non a morire».

L’oncologa Melania Rizzoli, dopo aver spiegato come funziona la procedura di morte in questi centri, ha scritto: «tra i pazienti affetti da malattie inguaribili solo un numero irrilevante di loro desidera con forza porre fine alle proprie sofferenze, perché il desiderio di vita quando si è malati prevarica sulla morte pur se imminente». Per questo, un conto è inneggiare all’eutanasia stando seduti nei salotti televisivi (o nel salotto di casa giovani e sani, vedi il caso Englaro, sempre che i ricordi di Beppino siano veri), un altro «è affrontare concretamente l’argomento quando si è malati, distesi su un letto attaccati alle flebo e si avverte vicino il profumo della morte. Alleviare la sofferenza sempre, in ogni caso laddove sia possibile, rispettando la libera autodeterminazione della coscienza è il compito e il dovere di noi medici, che siamo addestrati e abilitati a custodire e proteggere la vita e non a sopprimerla a richiesta». Anche lei, come ha ammesso l’oncologo Umberto Veronesi, ha aggiunto: «ho lavorato per dieci anni in un dipartimento oncologico seguendo molti malati terminali e alleviando con ogni mezzo le loro sofferenze sempre fino alla fine. Non è mai successo che qualcuno di loro mi pregasse di aiutarlo a morire. Mai. Nemmeno quando erano divorati dal cancro e vicini alla fine. Anzi. In quei momenti, la cosa che mi colpiva di più era che da quei corpi devastati, piagati e piegati dalla malattia, si accendeva uno sguardo, usciva una flebile voce che manifestava un solo terribile desiderio: quello di vivere».

Un recente studio del Bmc Medical Ethics ha concluso che l’eutanasia è rifiutata da chi ha a che fare con persone che soffrono a lungo di malattie perché «una mente più aperta verso la sofferenza porta a una maggior predisposizione ad accudire il malato e a rifiutare l’eutanasia». Ma come?, si è domandato il bioeticista Carlo Bellieni, «proprio quelli che accudiscono direttamente i malati li vogliono curare, invece che lasciarli morire? Evidentemente chi conosce i malati sa che il loro desiderio vero non è la morte, richiesta più facilmente da chi si sente abbandonato. Dunque il problema semmai è non abbandonare».

Le cure palliative sono dunque l’antidoto all’eutanasia, come ha spiegato anche la bioeticista Marina Sozzi sempre sul “Fatto Quotidiano”, opponendosi alla iniziativa popolare dei Radicali: «Leggo che il 65% degli italiani è a favore dell’eutanasia legale: come è stato rilevato questo dato? Infatti, so che oltre il 50% dei nostri connazionali non conosce le cure palliative, ignora di aver diritto a esse, non sa cosa sia un hospice e confonde eutanasia e sedazione terminale. Mi chiedo quindi: che consenso è questo? […]. Chi garantisce che la depenalizzazione dell’eutanasia non finisca per essere una scorciatoia che rallenterà ulteriormente lo sviluppo delle cure palliative? Dove sono i finanziamenti per le cure palliative? Perché chi raccoglie le firme sull’eutanasia non pone anche questa domanda al nostro governo centrale e ai governi regionali?».

La Sozzi, tuttavia, propone il testamento biologico come soluzione di tutto. Una risposta a questo arriva da un altro studio recente sul “Journal of the American Medical Association”, il quale ha mostrato che i pazienti terminali che pensano al suicidio non solo sono pochi ma che nel tempo molti di questi cambiano idea, in particolare i depressi. Questo risponde a chi propone il testamento biologico -come fa Marina Sozzi- come soluzione di tutto. Tanti cambiano idea, ma se entrano nel frattempo in una fase della malattia per cui non sono più in grado di comunicare la loro nuova volontà? Lucien Israel, agnostico luminare francese dell’oncologia, lo ha spiegato con la sua esperienza: «se fossi stato autorizzato da un “testamento” scritto ad abbreviare attivamente la vita» di coloro che dal semi-come ne sono poi usciti, «avrei commesso un vero e proprio crimine, anche se fossi stato incoraggiato dalla famiglia e dalla legge!». Mauro Zampolini, direttore del Dipartimento di riabilitazione Asl 3 della Regione Umbria lo ha detto chiaramente: «Quando una persona entra davvero nella condizione di malattia grave, anche se prima aveva chiesto di morire alla fine sceglie di vivere».

Quel che è certo, come ha rilevato l’Associazione Scienza&Vita, è che «la vicenda del magistrato Pietro D’Amico getta l’ennesima ombra inquietante sulle pratiche eutanasiche condotte da medici che alla cura sostituiscono la morte. E’ necessario costruire una rete di prevenzione e di assistenza, potenziando gli strumenti a disposizione per aiutare chi soffre di questa patologia a recuperare il bene della salute psichica e quel gusto di vivere che è risorsa personale e sociale. L’eutanasia non è mai la soluzione e questo caso dimostra con chiarezza che, alla fine, è soltanto una sconfitta per tutti».

La redazione

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La genetica moderna ha smentito il darwinismo classico

Genetica 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

L’origine in Terra di tante forme di vita, diverse eppure simili, è un problema che ha interrogato l’uomo da sempre, dando luogo a miti e speculazioni. Nel 1837 Charles Darwin, alla fine di un “lungo ragionamento” iniziato col suo viaggio intorno al mondo – durante il quale aveva osservato ambienti diversissimi, dal Sud America all’Africa, dall’Australia all’Asia, raccogliendovi oltre 4.000 reperti di specie vegetali ed animali – credette di aver trovato la risposta nel binomio caso + selezione naturale.

Per Darwin, dati uno o pochi organismi iniziali sulla cui origine egli non avanzò ipotesi, tutte le specie si sono sviluppate l’una dall’altra; e il motore dell’evoluzione (durata 4 miliardi di anni, come ora si ricava dalle età dei fossili) sta nella successione di piccole mutazioni casuali, i cui effetti cumulativi sulle prestazioni degli individui sono selezionati; con la sopravvivenza dei più efficaci a moltiplicarsi nel loro habitat. Come l’atleta mosso dalla competizione rafforza con l’allenamento i muscoli e progredisce nelle sue performance, così la lotta quotidiana per la ripartizione delle risorse adattò i becchi dei fringuelli alle specialità alimentari di ogni isola delle Galapagos moltiplicandone le varietà. Lo stesso accadde altrove per le altre specie, via via fino a coprire mare, terra e cielo delle più forti e più prolifiche in ogni nicchia. Fino all’uomo.

Secondo tale proposta, la selezione naturale non fa soltanto la spogliazione come una massaia agli scaffali del supermarket, così spiegando in maniera convincente la scomparsa accertata di molte specie, ma in cooperazione col caso creerebbe anche la novità – come al supermarket non fa la massaia, ma l’azione di rifornimento del commerciante –. Darwin era consapevole dell’importanza cruciale del meccanismo della selezione naturale nella sua teoria, perché sapeva che un monologo del caso avrebbe potuto svolgere solo ruoli comici nel teatro della scienza. Sicché nel suo capolavoro egli mise bene in evidenza fin dal titolo (“The origin of species by means of natural selection”) e nelle introduzioni a tutte le edizioni finché fu in vita, che la selezione naturale era per lui “la causa principale delle modificazioni” tra specie, ammettendo che una smentita di questa assunzione avrebbe invalidato la sua teoria.

Ebbene, “oggi” la creatività della selezione naturale, buona forse per le conoscenze fisiche e chimiche di metà ‘800, non sta più in piedi. Da allora è passato un tempo enorme per il progresso scientifico, un’epoca di scoperte rivoluzionarie superiori a quelle avvenute in tutti i secoli precedenti di storia umana: una biologia evolutiva che non tenesse conto di questa accelerazione sarebbe come una chimica ferma a Lavoisier, ignara della tavola di Mendeleev e del polimerismo del carbonio, ecc., o come una fisica ferma a Laplace, senza elettromagnetismo, relatività einsteiniana, meccanica quantistica, ecc. Ho scritto “oggi” tra virgolette, perché la congettura di Darwin è saltata invero da 60 anni, precisamente il 28 febbraio 1953, allorché Francis Crick e James Watson annunciarono la funzione genetica della doppia elica del DNA. Perché la genetica moderna contraddice la selezione naturale come causa dell’origine delle specie?

La molecola di DNA è presente in tutte le cellule degli organismi viventi, in quelle di un gambo o di una gamba, di una foglia o di un becco, di una radice o di un’unghia, ecc. Ogni individuo di ogni specie ha la sua molecola di DNA che lo caratterizza, replicata identicamente centinaia di migliaia di miliardi di volte nel suo organismo. Ma il DNA non è solo la carta d’identità dei viventi, è molto di più: è il programma che prima della nascita guida l’embrione a selezionare e ad assemblare dall’ambiente, particella dopo particella, la materia e l’energia necessarie allo sviluppo dell’organismo e poi in vita guida nelle cellule la produzione continua di proteine necessarie al suo metabolismo. Una cellula non è “uno schifo, una roba molle, fatta di cose spesso che non servono, messe lì, che uno si porta dietro dall’evoluzione”, come il Cicap indottrina gl’ingenui alla superstizione, ma è un’organizzazione olistica avente il DNA come super-programma delle routine proteinogenetiche eseguibili dagli organelli, infinitamente superiore al più avanzato sistema robotico industriale per complessità cibernetica e al www per complessità di grafo (“interattoma”).

Nell’information technology un programma è una sequenza di istruzioni e, in un dato linguaggio, coincide con una disposizione di un numero k di simboli, ripetuti N volte. Per es., il programma al distributore automatico di benzina più vicino a casa mia è scritto in lingua italiana ed è una disposizione di k = 33 simboli (le lettere dell’alfabeto italiano, più alcuni caratteri speciali e le cifre 1-6) ripetuti N = 324 volte. Nel termine “sequenza” è inteso che le istruzioni di un programma hanno un ordine: se non ci credete, provate a caricare il serbatoio della vostra auto scambiando l’ordine delle operazioni al distributore!

In un programma informatico il numero dei simboli può cambiare da un linguaggio all’altro, ma il minimo è di k = 2 simboli (codice binario). Il programma della vita, dal batterio all’uomo, usa un codice di k = 4 simboli (i 4 “nucleotidi” A, T, C, G), di cui non ci serve qui sapere il significato. Così la molecola di DNA del batterio Mycoplasma genitalium è una disposizione dei 4 nucleotidi ripetuti N = 580.000 volte, mentre nell’uomo i 4 nucleotidi sono ripetuti 3,2 miliardi di volte. E il fatto che sintassi, linguaggio, sistema operativo (RNA) e cibernetica siano uguali per tutte le specie vegetali e animali è per me una prova che la speciazione è stata causata dallo stesso meccanismo, come già per via puramente razionale aveva intuito Sant’Agostino: “In principio furono creati solamente i germi… delle forme di vita, che in seguito si sarebbero sviluppate gradualmente” (Confessioni). Per contro, il campo dell’informatica artificiale, dominato dall’anarchia di linguaggi, sistemi operativi e device non comunicanti, tutti allegramente in lotta contro l’interoperabilità reciproca, è il risultato delle logiche del mercato conteso tra le tante aziende dell’IC&T.

Qualcuno potrà stupirsi dell’esistenza di molecole composte di decine di miliardi di atomi; ma quando si dice che la vita sulla Terra è fondata sul carbonio, ci si riferisce proprio alla proprietà speciale che ha questo elemento chimico di “polimerizzare”, cioè di formare lunghe catene di molecole più piccole, tra loro unite attraverso “ganci” come i vagoni in un treno. Nel DNA i vagoni sono i nucleotidi e il gancio che li unisce è un legame chimico particolare (legame fosfodiesterico), che è asimmetrico, così da dare ordine alla stringa distinguendo il nucleotide che viene prima da quello che viene dopo.

Ora, veniamo al punto. Come si può trasformare un treno merci in un altro, con una disposizione dei vagoni diversa ed eventualmente più lunga? La risposta è ovvia: 1) spezzando i ganci, 2) riordinando i vagoni e riattaccandoli e 3) aggiungendo altri vagoni nell’ordine desiderato. Allo stesso modo, per la trasformazione del DNA d’una specie in quello d’un’altra (da un “cariotipo” ad un altro) servono meccanismi capaci di spezzare i legami fosfodiesterici, scambiare alcuni nucleotidi di posto, ed aggiungerne o toglierne altri in un certo ordine. Ma se la quotidiana lotta per la sopravvivenza può con l’esercizio far saltare più in alto o più in lungo un canguro vivo e vegeto, o farlo correre più veloce e per più tempo, essa non può spezzarne i legami fosfodiesterici, né riordinarne i nucleotidi, né sintetizzarne di nuovi così da fargli cambiar specie, per il semplice motivo che essa agisce solo dopo l’esecuzione del programma nei fenotipi già sintetizzati: qui, nell’insieme dei caratteri osservabili di un individuo già sviluppato, essa può solo eliminare quegli organismi che, meno adatti all’habitat, così perdono la battaglia con i condòmini per la ripartizione delle risorse. Mentre a livello di genotipo (il corredo genico di un individuo), la selezione naturale può solo impedire ad un organismo di nascere o di svilupparsi ogniqualvolta una modifica genetica, per qualsiasi ragione intervenuta, provochi un crash del programma.

Insomma la selezione naturale nell’evoluzione biologica agisce come la scelta del consumatore nelle evoluzioni economica o tecnologica: interviene dopo che forme coerenti con il mercato sono apparse per scartare le meno gradite. La selezione naturale spiega la scomparsa di alcune forme, ma non spiega la genesi di nessuna, né più né meno della massaia che alleggerendo gli scaffali del supermercato non li arricchisce solo per questo di nuovi prodotti. La selezione naturale ha ruolo esclusivamente nell’eliminazione di individui e specie già esistenti e nella prevenzione di nuove specie, mai nella loro creazione. Ma questo non l’aveva già insegnato Thomas R. Malthus per le classi sociali della specie umana nel suo “Essay of the principle of the population” (1798)?

Certo, da Gregor Mendel in poi le leggi della genetica spiegano il differenziarsi di varietà e razze all’interno delle specie; ma nessuna risposta scientifica esse danno all’evoluzione interspecifica, che è ben altro. Qui la variazione della razza inciampa sull’invalicabile confine della specie: “Ogni specie vera presenta una barriera genetica, possiede un cariotipo originale. Ad ogni specie corrisponde un cariotipo; e poiché i cromosomi contengono migliaia di geni, si evidenzia chiaramente che ciò che separa la specie è qualcosa di ordine di grandezza assai diverso da una mutazione genetica” (Jérôme Lejeune).

La genetica moderna ha smentito il darwinismo classico e la Sintesi moderna, in quanto fusione di genetica e darwinismo, è auto-contraddittoria. Se nel XX secolo la formulazione riduzionistica della biologia, dipendente da una fisica obsoleta (perché superata dalla meccanica quantistica) è arrivata ad un vicolo cieco, lasciandoci “senza una visione del futuro e solo con il ronzio d’una gigantesca macchina biotecnologica” (Carl Woese), oggi la biologia deve liberarsi dal meccanicismo e dall’imperialismo farmaceutico, per rifondarsi come scienza fondamentale alla guida dell’interdisciplinarità scientifica, con focus sulla fenomenologia emergente, non lineare, olistica della forma biologica. Deve assumere la missione di capire il mondo e la vita, oltre che di servire l’industria.

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Nuovo studio: l’aborto legalizzato aumenta mortalità materna

Gravidanza Secondo un recente studio, realizzato da ricercatori della West Virginia University-Charleston e della University of North Carolina e pubblicato sul “Journal of American Physicians and Surgeons”, in Irlanda, dove l’aborto è illegale, c’è una minore mortalità materna rispetto all’Inghilterra, dove l’aborto è invece ampiamente liberalizzato.

Analizzando i dati sanitari degli ultimi 40 anni in Inghilterra e Irlanda, gli studiosi hanno infatti rilevato che la mortalità materna per le donne inglesi è doppia rispetto a quella delle irlandesi: in Inghilterra, dove le regole sull’aborto sono tra le più blande al mondo, negli ultimi dieci anni il tasso medio di mortalità materna è stato di 6 su 100 mila, in Irlanda di 3 su 100 mila. In Irlanda l’aborto è illegale, a meno che la donna non sia in pericolo di vita. E’ dunque evidente la definitiva caduta del principale argomento a favore dell’aborto, il quale sostiene che essa debba essere legale per proteggere la salute materna.

Un altro dato interessante rilevato dalla ricerca è quello circa il rischio di parti prematuri (con relativo pericolo di paralisi cerebrali): anche questo è maggiore nei paesi che hanno “liberalizzato” l’aborto. In Irlanda, invece, il numero dei neonati in salute è più alto: «Negli ultimi quarant’anni di aborto legale nel Regno Unito l’interruzione di gravidanza è cresciuta parallelamente alle morti al parto, ai parti prematuri, ai nati sottopeso e alle paralisi cerebrali». Lo studio quindi si colloca in coerenza con la letteratura scientifica che mostra come l’aborto sia direttamente collegato al rischio di nascita prematura.

«L’aborto legalizzato è associato a più alti tassi di mortalità materna, tassi di mortalità neonatale e di nascita pre-termine» hanno concluso i ricercatori americani. Chi ha davvero a cuore la salute della donna, la salute del neonato ed è contrario alla soppressione di un essere vivente, deve necessariamente essere contrario alla legalizzazione dell’aborto.

La redazione

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Lo psicologo Cummings e le terapie riparative

Nicholas CummingsIl tema sulle terapie riparative rivolte agli omosessuali che ne fanno richiesta e che provano attrazioni omosessuali indesiderate si è riaperto con l’annuncio della chiusura dell’ente di cristiani protestanti Exodus, da anni impegnato in questa attività, anche se in un’intervista il direttore Alan Chambers ha spiegato di avere in progetto un altro istituto per fornire identici servizi.

L’efficacia di queste terapie è molto controversa, la maggior parte delle associazioni scientifiche -come l’American Psychological Association (APA)– hanno assunto una posizione scettica affermando che non vi sono prove a supporto. Tuttavia l’APA ha comunque riconosciuto pubblicamente che 11 donne hanno intrapreso e mantenuto per oltre 30 anni relazioni normali con uomini, dopo essere state omosessuali per oltre 10 anni. Nel 2011 sul “Journal of Sex and Marital Therapy” uno studio peer-review ha stabilito che la terapia di cambiamento è possibile, funzionante e non pericolosa. Nel 2010 sul “Journal of Human Sexuality” una seconda indagine ha affermato che «sono possibili cambiamenti significativi, che diventano poi cambiamenti reali a lungo termine». Esistono inoltre organizzazioni serie gestite da validi scienziati e psicologi, come NARTH, che portano avanti queste terapie in ambito clinico. Diversi studi, al contrario, hanno rilevato la non efficacia delle cosiddette terapie riparative.

La questione è dunque complessa e poco chiara, tuttavia per mostrare che la sessualità non sia immutabile non servono gli studi scientifici, che comunque ci sono in abbondanza (sopratutto realizzati su gemelli omozigoti), basta la biografia di tanti omosessuali che prima di esserlo o sentirsi tali amavano una donna. Un esempio è Alessandro Cecchi Paone che è diventato omosessuale ad una certa età e lui stesso spiega che «la sessualità è dinamica e nel corso della vita può cambiare». D’altra parte uno dei suoi partner è diventato/tornato eterosessuale.

Alcuni sostengono di sapere che esiste un “gene gay” è che dunque “omosessuali si nasce”, altri vorrebbero invece far credere che si può diventare omosessuali, ma non eterosessuali. Ovviamente non sono persone da prendere sul serio, la discriminazione verso gli ex gay è una vera forma di fobia come giustamente viene spiegato su questo sito web: «Oggi, la museruola imposta dal potere vuole che questi casi non esistano, perché vanno contro un’idea intoccabile». «Sono più discriminato oggi di quando ero omosessuale», ha spiegato l’ex-gay Greg Quinlan, Fortunatamente in America, per ovviare a questo silenzio imposto, da quest’anno il mese di Luglio sarà dedicato all’Ex-Gay Pride Month, il primo Pride per gli ex omosessuali, ma non sarà una fiera dell’infanzia come quelle che conosciamo. «Essere gay non è mettersi in mostra per divenire ridicoli e pagliacci», ha affermato Sandro Mangano, neo presidente nazionale di GayLib, criticando i Gay Pride.

Da prendere sul serio è invece Nicholas Cummings, tra i maggiori psicologi americani ed ex presidente dell’American Psychological Association (APA). In una recente dichiarazione giurata presso la Corte Superiore del New Jersey ha osservato che «solo una piccola minoranza di pazienti» vogliono cambiare il loro orientamento sessuale. Si tratta di una «terapia difficile», e il cambiamento non «non è facilmente realizzabile», ma è possibile. In realtà, ha affermato, il tasso di successo è elevato «se i pazienti sono altamente motivati» prima dell’inizio della terapia. Questo fattore, confermato dagli studi, spiega perché molti omosessuali scelgono di uscire dalla loro condizione in seguito o grazie ad una conversione religiosa ovvero dopo aver fatto propria una forte motivazione morale per cambiare il destino della loro vita. Un esempio recente è l’ex gay James Parker o anche la storia di Sheldon Bruck, oggi lui stesso attivista nell’aiuto degli ex-gay.

Come psicologo principale del “Kaiser Permanente health system” dal 1959 al 1979, Cummings ha spiegato: «ho visitato personalmente più di 2.000 pazienti con attrazione per lo stesso sesso, e il mio staff ne ha visti altri 16.000» notando che le persone che si identificano come omosessuali «cadono lungo un ampio spettro di personalità e sostenere che l’attrazione per lo stesso sesso è una condizione immutabile è una distorsione della realtà». In un’intervista successiva ha spiegato che l’American Psychological Association (APA) non ha mai dichiarato che «la terapia riparativa dovrebbe essere illegale». In ogni caso, ha spiegato l’ex vicepresidente, l’organizzazione scientifica «è stata totalmente dirottata» dalla lobby omosessuale. «E’ incredibile».

Il suo intervento è inteso a difendere un’organizzazione che pratica terapie di aiuto agli omosessuali che ne fanno richiesta, spiegando che «il tentativo di caratterizzare tutta la terapia di riorientamento sessuale come “immorale” viola la scelta del paziente. Tale tattica serve solo a stigmatizzare il professionista e la vergogna del paziente. Un programma politico non dovrebbe vietare ai gay e alle lesbiche che desiderano intraprendere sforzi di cambiamento di orientamento sessuale di esercitare il loro diritto all’autodeterminazione».

Informiamo infine l’uscita dell’ultimo libro di Giancarlo Ricci, psicologo e psicoterapeuta, membro Analista dell’Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi, tra i più esperti in Italia della terapia di riorientamento omosessuale, intitolato “Il padre dov’era” (Sugarco 2013).

La redazione

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“Eutanasia legale”: le cinque menzogne dei Radicali

Eutanasia legaleCondensare tante bugie ed imprecisioni in poche righe è impresa difficile. Occorrono abilità, determinazione e soprattutto esperienza di propaganda; tutte qualità di cui i Radicali sono maestri indiscussi, a partire da quando, decenni fa, non si fecero problemi a divulgare cifre del tutto surreali a proposito degli aborti clandestini e del numero di donne morte per mano delle mammane.

Per questo non stupiscono i molti errori presenti nel testo della “Proposta di legge di iniziativa popolare su: Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”, per la quale è avviata, a livello nazionale, una raccolta firme. Errori che, per comodità di chi legge, ci permettiamo di sintetizzare e presentare in cinque punti, iniziando dalla relazione introduttiva.

 

1) «Ben oltre la metà degli italiani, secondo ogni rilevazione statistica, è a favore dell’eutanasia legale».
FALSO: nessuna «rilevazione statistica» dice che «ben oltre la metà degli italiani» vuole l’eutanasia legale. Semmai anni fa delle rilevazioni riscontrarono come, per esempio, il 64% degli italiani fosse favorevole all’eutanasia per Piergiorgio Welby (1945-2006): ma si trattava di rilevazioni effettuate in giorni di forte condizionamento mediatico determinato proprio dal dibattito sul cosiddetto “caso Welby” e per di più commissionate dal quotidiano Repubblica, che non può certo considerarsi fonte di massimo equilibrio. Lo stesso, citatissimo studio Eurispes del 2007 – che rilevò come il 68% degli Italiani sarebbe favorevole all’eutanasia – è da considerarsi scarsamente attendibile, non foss’altro per la definizione, a dir poco imprecisa ed edulcorata, che alle persone consultate si diede dell’eutanasia, vale a dire «la possibilità di concludere la vita di un’altra persona, dietro sua richiesta, allo scopo di diminuire le sofferenze»: imprecisa perché non contempla affatto tutte le varianti pratiche dell’eutanasia, che sono molteplici, come i bioeticisti sanno bene -, edulcorata perché «concludere la vita di un’altra persona» è espressione volutamente zuccherosa rispetto alla gravità di quello che il nostro Codice penale, ex art. 579, chiama omicidio del consenziente, prevedendo la detenzione fino a 15 anni.

 

2) Sempre stando alla relazione della proposta dagli amici della “dolce morte”, si presenta poi l’eutanasia legale come «morte opportuna invece che imposta nella sofferenza».
FALSO: nessuno, ma proprio nessuno chiede o peggio ancora augura una morte «imposta nella sofferenza»; di certo non la vogliono i cattolici, che invece auspicano che a ciascun malato sia assicurata piena assistenza farmacologica ed umana e, se afflitto da sofferenze, il massimo alleviamento del dolore attraverso la somministrazione di opportune cure. Ne parlava già Papa Pacelli (1876-1958), il quale nel lontano 1957 si spinse a precisare che se anche se «la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita» essa è da ritenersi «lecita». Analogamente il Catechismo spiega che «l’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile». Nessuna morte «imposta nella sofferenza», dunque. La morte «imposta nella sofferenza» esiste solo nella mente dei fautori dell’eutanasia legale, che la utilizzano come pretesto per la loro campagna.

 

3) La citata relazione continua dicendo che «i vertici dei partiti e la stampa nazionale» preferiscono non parlare di eutanasia. Questa poi.
FALSO: di eutanasia si parla, invece. E se ne parla pure molto, senz’altro molto di più di altri pur urgentissimi temi di rilevanza sociale. Consultando l’archivio on line del primo quotidiano d’Italia, il Corriere della Sera, scopriamo per esempio che dal 2000 al 2012 sono disponibili 317 risposte alla ricerca per la voce «eutanasia». 317 risposte che, per la cronaca, sono più di quattro volte le risposte riguardanti un problema di estrema gravità sociale come la «tossicodipendenza» (77) e più di tredici volte quelle di un altro gravissimo versante, quello della «pedopornografia» (24). Insomma, dire che di eutanasia si parla poco è, ancora una volta, una bufala. A questo punto ci si potrebbe chiedere come mai i radicali, se davvero e coerentemente aspirano a battersi per temi scomodi o comunque di cui la «stampa nazionale» preferisce non parlare, anziché per l’eutanasia legale non s’impegnino per la lotta alla tossicodipendenza o alla pedopornografia, ma la risposta, ahinoi, sembra fin troppo ovvia.

 

4) La relazione alla proposta di legge per l’eutanasia legale mente pure laddove allude al «rafforzamento della piaga tanto dell’eutanasia clandestina che dell’accanimento terapeutico».
FALSO: non c’è alcun rafforzamento dell’eutanasia clandestina. A meno che, naturalmente, non si dimostri il contrario. Nel frattempo, attendendoci a riscontri e non già ad opinioni, possiamo ricordare come uno dei pochi studi seri effettuati sull’argomento affermi che il 13% dei medici italiani di rianimazione abbia somministrato sostanze col deliberato intento di accelerare il processo di morte. Il che, se corrisponde al vero, vuol dire che quasi il 90% dei medici non ha mai effettuato nessuna operazione con fini eutanasici, e che non può essere certo il 10% o poco più di loro, vale a dire un’esigua minoranza, a determinare lo stravolgimento della normativa vigente. Viceversa, se pensiamo che basti la condotta di una minoranza a giustificare il cambiamento di approccio di un intero ordinamento su un tema, allora dovremmo fare lo stesso anche per l’evasione fiscale, dato che almeno una famiglia italiana su cinque evade il fisco. Eppure su questo versante – come su molti altri – l’attenzione dei radicali per la clandestinità dei fenomeni, stranamente, non si fa sentire. Chissà perché.

 

5) Passiamo infine all’articolo della proposta di legge, che si propone di tutelare l’autodeterminazione del paziente o comunque del cittadino sul versante del cosiddetto “fine vita”.
FALSO: le disposizioni della proposta di legge non vanno in questo senso. Anzi. Per esempio si prevede la possibilità di nomina di un fiduciario che, allorquando fossimo in condizioni di non poterci esprimere, dovrebbe far valere le nostre volontà terapeutiche (art. 1 comma 3). Peccato che sia dimostrato da accurati studi che un fiduciario, ancorché in buona fede, nel 50% dei casi – una percentuale notevole – male interpreti le volontà della persona che l’ha scelto quale garante delle stesse. Ma anche su questo, naturalmente, gli astutissimi paladini della libertà ad ogni costo tacciono. Esattamente come, allorquando alludono al fatto che un paziente possa essere «congruamente ed adeguatamente informato delle sue condizioni e di tutte le possibili alternative terapeutiche e prevedibili sviluppi clinici», sorvolano su tutte le criticità emerse dall’esperienza. Criticità che riguardano, per esempio, la notevole variabilità delle preferenze terapeutiche legate al mutare delle circostanze e delle condizioni di salute di chi le esprime. Senza considerare che non è la «sofferenza» a determinare richieste di morte, bensì la depressione e la disperazione, dato che, per esempio, il tasso di suicidi tra malati di cancro, alla luce di più evidenze, non supera la bassissima percentuale dello 0,3% (cfr. Di Mola G. Suicidio e richiesta di eutanasia nella popolazione di malati sofferenti, in AA.VV. Questioni di vita o di morte, Guerini studio, Milano 2004, p. 142)

 

Riassumendo: non è vero – o comunque non è affatto dimostrato – che la maggior parte degli italiani sia favorevole all’eutanasia legale; non è vero che l’alternativa all’eutanasia legale è la morte «imposta nella sofferenza»; non è vero che di eutanasia si parla poco, anzi; non esiste alcuna evidenza su una grande diffusione dell’eutanasia clandestina e meno ancora circa un suo presunto «rafforzamento»; non è vero che la Proposta di legge di iniziativa popolare su: Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia tutela l’autodeterminazione e le volontà terapeutiche del paziente, mentre invece è evidente che getta le basi per la sua negazione, specie con la previsione della nomina di un fiduciario. Insomma, per farla breve quella dell’eutanasia legale come soluzione per venire incontro alle esigenze o ai diritti dei cittadini è solo una grande, grandissima bufala. Il solo modo «per vivere liberi fino alla fine» non è firmare per l’eutanasia legale, bensì tenersi alla larga da simili iniziative. Il più possibile.

Giuliano Guzzo

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Le radici cristiane sono un’evidenza laica per gli storici

CroceTutti coloro che hanno a cuore l’autentico umanesimo e il futuro dell’Europa sappiano riscoprire, apprezzare e difendere il ricco patrimonio culturale e religioso di questi secoli”. Con queste parole Benedetto XVI ha concluso un’udienza generale nel 2009, richiamando il desiderio di Giovanni Paolo II di veder ricordato nel Trattato costituzionale dell’Unione Europea un riferimento alle radici cristiane, patrimonio comune dell’Oriente e dell’Occidente.

Molti storici, credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, presero posizione sostenendo la richiesta di Giovanni Paolo II e tra questi anche l’italiano Sergio Romano, laico e anticlericale. Nel 2002 scrisse sul “Corriere della Sera”: «Dovrebbe dunque la Costituzione europea, come chiede ora implicitamente Giovanni Paolo II, menzionare le religioni e riconoscere, come suggerisce Francesco Cossiga, le radici cristiane dell’ Europa? Se accettassimo questi suggerimenti renderemmo onore alla verità. La storia politica dell’Europa è cristiana». Tuttavia, spiegò, c’è la possibilità che «in epoca di ecumenismo e multiculturalismo» in futuro anche gli islamici chiederanno di riconoscere «le radici giudeo-cristiano-islamiche dell’ Europa». Per questo, scrisse, «le costituzioni non dovrebbero essere documenti filosofici. Le migliori sono quelle che definiscono con la massima precisione possibile la struttura dello Stato, i compiti delle istituzioni, le regole da adottare per il trasferimento dei poteri da un governo all’altro e qualche indispensabile principio generale». I suoi timori tuttavia non sono per nulla giustificati: se occorre riconoscere le radici cristiane in quanto evidenza storica, come ha scritto ad inizio articolo, lo stesso non si può dire per le radici islamiche e per lo stesso motivo non potranno mai essere riconosciute. Indipendentemente dal multiculturalismo.

In ogni caso questa più o meno è rimasta la sua posizione nel tempo. Il dibattito si è riaperto in questi giorni nelle lettere a cui risponde sul quotidiano di via Solferino. Il 13 giugno 2013 Romano ha scritto: «Europa e cristianesimo sono due termini indissociabili di una lunga storia comune, ed è impossibile scrivere la storia dell’uno senza scrivere la storia dell’altro. Ma un testo costituzionale non è un trattato storico-filosofico, e uno Stato non è meglio governato se la sua Carta è preceduta da un breve manifesto ricco di buoni propositi e ampollosi luoghi comuni». Il 19 giugno 2013, dopo un’accozzaglia di luoghi comuni sul presunto potere ricattatorio della Chiesa, ha comunque affermato ancora: «pur riconoscendo il ruolo fondante del cristianesimo nella storia d’Europa, continuo a pensare che sia stato opportuno omettere le “radici cristiane” dal testo della Trattato costituzionale».

Nel 2005 è arrivato a contraddirsi giustificando l’omissione delle radici cristiane perché « l’Europa è stata spesso sanguinosamente divisa dalle sue interpretazioni» sul cristianesimo, e perché «dovremmo forse cancellare dalla storia d’Europa tutto ciò che è stato fatto contro la Chiesa o a dispetto della sua volontà?». Eppure soltanto tre anni prima, riconoscendo l’origine cristiana dell’Europa, si era già risposto: «La libertà è il frutto di lotte religiose: fra il papa e l’imperatore, fra l’ortodossia e il dissenso, fra i cristiani e i musulmani, fra i cattolici e i protestanti, fra i luterani e gli anabattisti, fra la Chiesa di Stato (come nel Regno Unito) e le piccole Chiese “non conformiste”. I grandi liberali dell’Ottocento sono cattolici, anglicani o protestanti. La democrazia americana, nasce da una emigrazione religiosa, crede in Dio e ripone in lui la sua fiducia (“in God we trust”). Per lungo tempo il Parlamento britannico comincia i suoi lavori con un atto di devozione collettiva ed esige dai membri della Camera dei Comuni un certificato di battesimo. Persino la rivoluzione francese è “deista” e finisce per scimmiottare le grandi cerimonie religiose. Provatevi a togliere il cristianesimo dalla storia d’Europa e vi rimarrà tra le mani, alla fine, un povero manuale marxista, arido e insignificante».

Dunque per Sergio Romano l’Europa ha quelle “radici”, è evidenza storica. Ma è meglio non dirlo, troppo politicamente scorretto. Pier Giorgio Liverani ha risposto affermando invece che «se un preambolo parla di radici, porta linfa vitale e orienta i principi e le norme che seguono. A una società di Paesi con storie, lingue, costumi, politiche, economie e istituzioni differenti, un richiamo a ideali e radici comuni farebbe assai più bene che la sola comunità della moneta». La pensa allo stesso modo Hans-Gert Pöttering professore onorario di Giurisprudenza presso l’Università di Osnabrück ed ex presidente del Parlamento europeo, che nel 2007 al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli di Rimini ha affermato: «come Presidente di gruppo parlamentare, mi sono sempre impegnato affinché il riferimento a Dio venga inserito nella Costituzione e, se possibile, anche questa citazione delle radici cristiano-giudaiche». L’ebreo Joseph Weiler, prestigioso docente di diritto europeo alla New York University ha spiegato nel 2012: «Quello che è strano è che ci sia qualcuno che resiste, che vuole negare, che trova scandaloso il menzionare questo. Se per esempio qualcuno avesse detto che le radici dell’Europa sono greco-romane, nessuno avrebbe fatto obbiezione perché è chiaro che è così».

Preambolo si, preambolo no, la cosa interessante è che per lo meno non si evita di riconoscere l’evidenza storica. Una laica evidenza storica come ha scritto Claudio Magris qualche anno fa: «Le radici dell’Europa sono in buona parte ebraico-cristiane, grazie alle quali nel nostro Dna sono entrate pure molte linfe della civiltà medio-orientale; riconoscerlo non è una professione di fede ma una constatazione storica e negarlo è un’automutilazione». Se Francesco Margiotta Broglio Massucci, ordinario di Storia e sistemi dei rapporti tra Stato e Chiesa all’Università di Firenze parla di «inestirpabili radici giudeocristiane» dell’Europa il filosofo Massimo Cacciari ha affermato: «come facciamo a non appartenere ad un evo che è marcato dal segno della croce? Solo uno stolto può ritenere che questo non è, per ciascuno di noi, credente o non credente, un problema, forse il problema e cioè quello della propria tradizione, delle proprie radici, del proprio linguaggio e della propria cultura».

Un’evidenza storica per credenti e non credenti, dicevamo. Il cristiano Roger Scruton, tra i più brillanti filosofi inglesi in attività, ha affermato nel 2012: «Penso che tutte le Chiese europee debbano trasmettere il messaggio che, senza di loro, l’Europa non esiste. Le nostre società sono creazioni cristiane, che dipendono su ogni singolo punto da una rivelazione che è stata mediata dalle Chiese e che ha assunto una dimensione sacramentale. Negare questo vuol dire eliminare ogni barriera rispetto a quell’entropia globale che minaccia anche l’Europa. Affermarlo, vuol dire iniziare a riscoprire le cose per cui dobbiamo lottare e che dobbiamo difendere dalla corruzione». Sulla stessa riga il filosofo non credente André Comte-Sponville, già docente della Sorbona di Parigi, ha detto a sua volta: «L’origine cristiana dell’Europa è una evidenza storica. Se l’Europa ignora le sue radici cristiane cesserà di essere una civiltà e di essere solo un mercato».

L’agnostico Jacques Le Goff, docente nelle Università di Lille e Parigi, tra i più autorevoli storici del Medioevo viventi, ha parlato di “radici medioevali dell’Europa”, così come ripreso dalle’Enciclopedia Treccani. Rémi Brague, professore di Filosofia araba alla Sorbona e anche all’Università Ludwig-Maximilian di Monaco ha sottolineato che «le due religioni che hanno segnato l’Europa sono l’ebraismo e il cristianesimo, e nessun’altra. Perché limitarsi a parlare di eredità religiosa e umanista? Un professore di storia non si accontenterebbe di tale definizione e scriverebbe in rosso, sul margine: “Troppo vago, precisate!”. Ciò che mi dà fastidio è lo stato d’animo che in questo si manifesta, e cioè l’impulso tipicamente ideologico di negare la realtà e riscrivere il passato. E negare la realtà porta necessariamente a distruggerla. La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo. Quella che si chiama “civiltà cristiana” non è nient’altro che l’insieme degli effetti collaterali che la fede in Cristo ha prodotto sulle civiltà che si trovavano sul suo cammino. Quando si crede alla Sua resurrezione, e alla possibilità della resurrezione di ogni uomo in Lui, si vede tutto in maniera diversa e si agisce di conseguenza, in tutti i campi. Ma serve molto tempo per rendersene conto e per realizzare questo nei fatti. Per questo, forse, noi siamo solo all’inizio del cristianesimo».

Davanti a Gesù Cristo non ci sono molte opzioni: dicendo di essere quel che disse di essere, o era un pazzo scatenato oppure aveva ragione. Ma può un pazzo scatenato essere all’origine della civiltà occidentale e orientale, come oggi insegnano gli storici?

La redazione

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