Tutto quello che non si dice sulla procreazione assistita

Fecondazione in vitroIn Italia purtroppo è permessa la fecondazione assistita, tramite la Legge 40, quando il seme e l’ovulo utilizzati nella fecondazione assistita appartengono alla coppia di genitori del nascituro. E’ invece vietata la fecondazione eterologa, cioè quando essi (o uno di essi) provengono da un soggetto esterno alla coppia e questo produce malumori in area femminista e Radicale (hanno recentemente perso una causa contro Carlo Giovanardi).

Un recente ricorso alla Consulta da parte di un giudice di Firenze è stato motivato sulla base di una presunta incostituzionalità del divieto di eterologa contenuto nella legge 40. Ma Paolo Maddalena, presidente emerito della Corte Costituzionale, ha replicato: «A mio parere è vero il contrario, ossia che l’eterologa viola la razionalità giuridica presente in tutto l’ordinamento». Ha quindi spiegato: «L’unica volta in cui la Costituzione fa riferimento al concetto di “natura” è nell’articolo 29 a proposito del matrimonio, definito appunto società naturale. Dobbiamo ricordare che quando parliamo di questi argomenti c’è un riferimento da cui non possiamo prescindere che riguarda la famiglia, dove i genitori sono appunto coloro che hanno generato i figli. Nell’eterologa questi concetti vengono alterati e ciò produce disuguaglianze perché il riconoscimento della famiglia come società naturale si applicherebbe solo in alcuni casi».

Oltre a questo, comunque, davvero non si riesce a capire l’attenzione spasmodica verso la fecondazione artificiale. Non solo l’infertilità si può prevenire, non solo l’infertilità si può curare, non solo la Fivet ha un basso tasso di successo, ma procura frequentemente danni pesanti al futuro bambino e alla madre, oltre ad uccidere (scartare) dieci embrioni umani per uno che viene impiantato.

L’infertilità si previene. Ormai è un dato certo, esistono opuscoli e documenti molto approfonditi per informarsi, segnaliamo in ogni caso il sito web www.informalatuafertilità.it per tutte le informazioni necessarie.

L’infertilità si cura. Questo argomento è completamente tabù perché mina al grande “business della provetta” (nelle strutture private i costi per la fecondazione vanno dalle 3000 alle 4000€). Eppure esistono due alternative alla Fivet: per il primo basta recarsi al Policlino Gemelli di Roma, precisamente all’Istituto scientifico internazionale Paolo VI di ricerca sulla fertilità e infertilità (ISI), guidato dal dott. Riccardo Marana. Ogni anno ci sono 500 nuove coppie che si fanno avanti, 1.200 quelle seguite in totale e il numero di gravidanze note ottenute è di oltre 700.

Il secondo metodo è la Naprotecnologia (“Natural Procreative Technology”) che si basa sul modello Creighton per valutare la diagnosi delle cause della infertilità, poi a seconda del verdetto saranno scelte cure farmacologiche o chirurgiche. Nonostante tutto questo le coppie con problemi di sterilità vengono comunque spinte a bypassare il problema ricorrendo alla provetta.

La Fivet ha un basso tasso di successo. Come ha spiegato Eleonora Porcu, responsabile del Centro di infertilità e fecondazione assistita dell’ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna, «con la procreazione assistita nelle trentenni la percentuale di gravidanza è del 60%, nelle over 40 si passa al 20% e in quelle di 45 si scende al 5%». E le percentuali diminuiscono ancora di più se si considerano i dati dei “bambini in braccio”, cioè realmente nati. Ma alle coppie non viene quasi mai ricordata la percentuale negativa rispetto a quella positiva. Proporre la fecondazione «in modo automatico nella maggior parte dei casi di sterilità, ma soprattutto senza un’indagine approfondita, è segno di un atteggiamento generale che è quello di sostituire i percorsi naturali con quelli di laboratorio», ha commentato la dott.ssa Porcu.

La Fivet procura danni al bambino e alla madre. Di questo ci siamo occupati tante volte su questo sito web, numerosi i nostri articoli sugli studi più recenti. Anche oggi vogliamo segnalarvi quelli usciti in questi ultimi due mesi: sull’“International Journal of Obstetrics and Gynaecology” una ricerca ha mostrato che le donne che concepiscono attraverso la riproduzione assistita hanno più probabilità di subire un forte impatto traumatico per un aborto spontaneo. Su Acta Paediatrica si è osservato che i bambini nati tramite fecondazione assistita hanno un maggior rischio di nascere prematuri, con anomalie congenite e mortalità perinatale. Il 2 luglio 2013 sul “Journal of American Medical Association” un altro studio ha rilevato che i trattamenti di fecondazione in vitro (nei casi di infertilità maschile) sono associati ad un aumentato rischio di ritardo mentale e autismo nei bambini sono associati. Ogni mese escono studi simili, completamente ignorati dai media.

Tornando alle parole del giurista Paolo Maddalena, egli ha anche smentito in modo ragionevole l’indebita pressione esercitata verso la politica italiana, con la richiesta di adeguarsi ai Paesi che hanno liberalizzato completamente la procreazione assistita: «Sinceramente, in questo periodo di crisi non solo economica ma anche valoriale e culturale, non sarei così certo che ciò che fanno gli altri Paesi europei su queste materie sia sempre la cosa giusta. Sarebbe più saggio, invece, pensare a cosa sono i diritti umani, fondati sul diritto naturale. Orazio afferma “vi è una misura nelle cose: alla fine vi sono dei confini certi rispetto ai quali ciò che è retto non può stare da una parte e dall’altra”».

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La violenza delle femministe italiane in due episodi

FemminismoHai voglia a lamentarsi che oggi il femminismo porta con sé un’aura di negatività e militanza sessantottina che puzza di muffa. Finché si continuano a portare avanti guerre ideologiche contro gli uomini o contro la visione cristiana della donna, la reputazione non cambierà.

Ne sa qualcosa Costanza Miriano (sito web e pagina Facebook), giornalista cattolica, madre di quattro bimbi e moglie “sottomessa” come ama descriversi, autrice di due bellissimi bestseller (Sposati e sii sottomessa e Sposala e muori per lei) che hanno fatto infuriare il moribondo mondo femminista. Nei suoi libri, sopratutto il primo, fotografa realisticamente la realtà odierna della donna e il fallimento della rivoluzione sessuale che l’ha resa forse più indipendente, ma certamente più triste e sola. La rincorsa ad assomigliare agli uomini, secondo i principi delle sessantottine, ha violentato la originale differenza e unicità della donna. Scrive Costanza: «L’uomo deve incarnare la guida, la regola e l’autorevolezza. La donna deve uscire dalla logica dell’emancipazione e riabbracciare con gioia il ruolo dell’accoglienza e del servizio». E ancora: «E’ ora di imparare l’obbedienza, leale e generosa, la sottomissione. E tra noi ce lo possiamo dire: sotto ci si mette chi è più solido e resistente, perché è chi sta sotto che regge il mondo».

«Le persone intelligenti farebbero meglio a non fare figli», dicono invece le femministe. La Miriano le critica direttamente: «E’ una forza potente l’istinto materno, quello che certo femminismo si è sforzato di negare. Le donne, quando arrivano alla maternità, magari anche non fisica, si trasfigurano di felicità. Molte altre donne, che continuano a rimandare, magari per bazzecole pratiche e organizzative, questo momento del tuffo coraggioso nella vita -diventare madri- soffrono spesso inconsapevolmente» (“Sposati e sii sottomessa”, Vallecchi 2011, p. 18). A darle ragione è proprio la leader del femminismo radicale, Emma Bonino, abortista, non sposata e non madre: praticamente il sogno di ogni femminista. Per quattro anni ha avuto in affido due bambine ma dopo: «Rimanere sola è stato un dolore immenso. Mi svegliavo al mattino senza che nessuno mi saltasse addosso, tornavo a casa la sera e c’era un silenzio orribile. All’improvviso più nessuno mi faceva sentire indispensabile, buona. Quando le due bambine in affido se ne sono andate, continuare a vivere lì dove ero stata con loro, per me, era uno strazio», ha detto in un’intervista del 2006. «Piango moltissimo, da sola. Mi appallottolo qui e piango. Poi dopo un po’ mi alzo e faccio qualcosa… Di colpo ho capito di non essere più di nessuno: non sono mai stata moglie, mai madre. Sono sempre stata solo una figlia e adesso…».

 

1) Ma, nonostante l’evidenza, le femministe non si arrendono e continuano la guerra. Intellettualmente e fisicamente. Le intellettuali scrivono libri, l’ultimo uscito è “L’ho uccisa perché l’amavo” di Loredana Lipperini (“Radio Radicale”, “Repubblica”…quel mondo lì, insomma) e Michela Murgia (cattolica adulta che accusa Madre Teresa di Calcutta di aver «interferito con la libertà delle donne», tanto per intenderci). Un libro per sostenere e aggravare il fenomeno del femminicidio dando la colpa al matrimonio e alla visione cristiana della donna. Una tragica realtà, il femminicidio, di cui nessuno però conosce i numeri (ma comunque sembra sia in calo) e che, come dimostrano gli studi, è proprio favorito dal disgregarsi della famiglia mentre le donne sposate sono più protette.

Murgia e Lipperini prendono prevedibilmente di mira, anche loro, la Miriano, accusata di incolpare le donne stesse per le violenze che subiscono e altre nefandezze varie. Ma, ha spiegato la giornalista Raffaella Frullone, «basta aver letto mezza pagina della Miriano per capire che l’accusa è infondata. Irrigidite nel binario unico del dominio non possono o non vogliono comprendere la Chiesa scardina e sovverte la dinamica del potere e del comando per riscrivere la gerarchia in termini di servizio, il più grande non è chi domina ma chi serve, e uomo e donna non hanno ruoli prestabiliti e gerarchicamente differenti, ma due vocazioni che si compensano e si completano». La coppia femminista arriva a ridicolizzare la scrittrice perché ha proposto di intitolare una scuola ad una madre morta «per aver rifiutato di curarsi il cancro». Stanno parlando di Chiara Corbella, che alla terza gravidanza ha scelto di far nascere il suo bimbo prima di affrontare le terapie per curare il cancro di cui si era nel frattempo ammalata. «Non si è rifiutata di curarsi il cancro», ha replicato la Furlone, «ha lottato come una leonessa, è stata dai medici migliori, ha seguito tutte le terapie, ha fatto tutto quello che era umanamente possibile per guarire, tranne sacrificare la vita del suo bambino». «Liquidare la sua testimonianza in questo modo», ha concluso amareggiata, «per giunta in un libro che ha la presunzione di insegnare a trovare le parole giuste per raccontare le donne vittime di violenza, è quanto di più brutale si possa fare nei confronti di una donna che è già morta. Ed è quanto di più eloquente possa esprimere quel femminismo declinato in battaglie e diritti, che nella presunzione di rendere la donna libera vorrebbe impedirle di abbracciare la sua vocazione più autentica soltanto perché non ha nulla da rivendicare».

 

2) Se questa è dunque la violenza intellettuale delle femministe, non mancano episodi di violenza fisica di chi invece ha scelto la battaglia sul campo (quelle che accusano Wikipedia perché divide in maschie e femmine o bruciano le Barbie color rosa legate su un crocifisso).  Nel maggio scorso, mentre manifestava pacificamente (con canti e preghiere) contro l’aborto davanti alla clinica Mangiagalli di Milano, un gruppo di persone è stato aggredito da un manipolo di femministe che hanno cercato di boicottare l’iniziativa, spezzando i cartelli e le croci che i manifestanti tenevano in mano. Sono i membri del comitato nazionale “No194” e dell’associazione “Ora et labora in difesa della vita”, più altri cittadini che si sono uniti a loro. «Vi spacchiamo tutto, gridavano le donne, per continuare con insulti irripetibili e con bestemmie», ha raccontato Pietro Guerini, presidente nazionale del comitato “No194” (www.no194.org). Tutto è finito quando un medico si è affacciato e le ha sgridate per il baccano che stavano facendo: «L’intervento le ha zittite – continua Guerini – tanto è vero che dopo un quarto d’ora se ne sono andate: è bastato che si sentissero mollate dalla società civile su cui poggiano perché crollassero». Sono partite in ogni caso denunce per minacce e vilipendio. «Siamo presenti in ogni provincia italiana e molti di noi dicendo il rosario fuori dagli ospedali hanno incontrato donne che stavano andando ad abortire e che vedendoci hanno cambiato idea», spiega Guerino. Un fenomeno che in America ha già salvato migliaia di bambini.

 

«Ho conosciuto delle femministe vere, dure e pure, quelle della prima ora, le madrine della liberazione sessuale e dell’aborto», ha scritto Costanza Miriano. «Altro che donne liberate, emancipate, autonome. Non ho mai visto persone più fragili e spaventate dalla solitudine, soprattutto quando gli anni della giovinezza erano ormai lontani». E questi episodi lo dimostrano perfettamente.

La redazione

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Chi sostiene il gender ha paura della diversità

GenderLe leggi italiane parlano di uomo e donna, di sesso femminile e maschile, il termine “genere” deriva invece dalla Teoria del Gender che ha l’obiettivo di corrompere le menti, convincendo i più sprovveduti che la differenza “uomini” e “donne” è finta, è una costruzione sociale e non deriva affatto dall’essere nati come maschi e femmine.

Il “genere” è un termine appositamente aperto e fluido per farci rientrare tutto, il sesso stabile e quello mutevole, il sesso A e quello B, la transessualità, la bipolarità e i cambi di sesso a carico del SSN. Tra poco sostituirà il “sesso” anche sulle nostre carte d’identità e ognuno potrà scrivere quello che gli pare avendo a disposizione ben 11 scelte, anche se -secondo la Australian human rights commission– i generi sarebbero invece 23: uomini, donne, omosessuali, bisessuali, transgender, trans, transessuali, intersex, androgini, agender, crossdresser, drag king, drag queen, genderfluid, genderqueer, intergender, neutrois, pansessuali, pan gender, third gender, third sex, sistergirl e brotherboy.

La parola “genere” è stata pensata fin dall’inizio (anni ’80) come «negazione di ogni differenza tra gli uomini e le donne», c’è «la filosofia marxista alla base del loro pensiero: il perseguimento dell’uguaglianza di genere come forma della lotta di classe». Lo ha spiegato la scrittrice statunitense Dale O’Leary, la prima ad usare il concetto di “Agenda di genere” e tra le più grandi esperte del movimento femminista, aggiungendo che «l’obiettivo, dal punto di vista filosofico, è la rivoluzione sessuale come lotta di classe. Vi è poi il tentativo, spesso riuscito, di occupare posizioni di potere» (vedi amministrazione Obama) con lo scopo di «riscrivere le leggi sui diritti umani utilizzando un linguaggio che le renda funzionali alla promozione dell’agenda di genere: la separazione del genere come ruolo socialmente costruito dal sesso biologico; l’ampliamento dei diritti umani per includere i diritti sessuali e riproduttivi; l’eliminazione del disturbo dell’identità di genere dall’elenco dei disturbi psicologici; includere nelle leggi antidiscriminazione la tutela dell’orientamento sessuale e dell’identità e manifestazione di genere; favorire il ricorso alla chirurgia di “cambiamento di sesso”».

Marcello Tempesta, docente di Pedagogia generale nell’Università del Salento, ha affermato: «nel processo di crescita armonica della persona un rilievo decisivo ha (sempre, ma soprattutto nel nostro tempo) quella componente del nostro essere in cui si rivela il suo strutturale essere in relazione: l’identità-differenza sessuale. Si tratta di una realtà oggi “terremotata”, messa pesantemente in discussione da un mainstream sempre più diffuso, che sta facendo artatamente diventare sensibilità corrente e senso comune ufficiale (come dimostrano fiction e canzoni, dichiarazioni di star hollywoodiane e di celebrati maîtres à penser) la filosofia del Gender: l’identità sessuale non sarebbe una datità originaria ma una mera costruzione socio-culturale e soprattutto una scelta individuale, aperta al passing identitario tra le cinque configurazioni sessuali che, secondo alcuni documenti di altissime istituzioni sovranazionali, avrebbero oramai sostituito le tradizionali due, retaggio di un remoto passato. Una certa esaltazione della differenza non pratica e promuove piuttosto l’in-differenza, alludendo ad un umano androgino oppure opponendo radicalmente il maschile e il femminile? Mentre si esalta la differenza, in fondo la si teme e la si nega».

Claudio Gentili, ordinario presso l’Università degli studi di Firenze, ha spiegato: «La bussola si è completamente smarrita. La distinzione tra diritti e capricci è diventata sempre più labile. Oltre alla negazione della differenza sessuale come generativa di una nuova famiglia, la diffusione della cultura gender nel dibattito politico e sociale sta portando ad una vera e propria moltiplicazione dei generi». Sono i risultati della modernità liquida che ha abbattuto il maschile e il femminile, ha abbattuto la solidità della trasmissione della vita: «si tratta di una grande opera di inquinamento, mascherata con la difesa dei diritti e la lotta contro le discriminazioni. Con la scusa dell’allargamento delle garanzie per prevenire il pericolo omofobia, ci si dirige verso una destrutturazione delle fondamenta su cui è costruita la famiglia umana. L’indifferenza di genere vista come nuova frontiera della colonizzazione consumistica».

La prestigiosa filosofa francese Sylviane Agacinski, fondatrice del Collège international de philosophie e docente presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ha scritto un memorabile saggio, “La metamorfosi della differenza sessuale”, in cui ha evidenziato addirittura che oggi diversi esponenti della cultura transessuale stanno cominciando a mettere in dubbio anche la differenza sessuale maschio/femmina, accusando anch’essa di essere una creazione della società.

Giuseppe Bonvegna, ricercatore in Storia della filosofia nell’Università Cattolica di Milano, è a sua volta intervenuto recentemente accusando «il bigottismo fintamente moderno dei cantori dell’ideologia del gender» di «considerare l’attività sessuale come un qualcosa di non umano, paradossalmente proprio per un eccesso di arbitrio “umano”: sostenere, infatti, (come fa la “gender theory”) una non dipendenza dell’elaborazione dell’identità sessuale dal possesso reale di determinati organi sessuali significa sostenere che il corpo non è più un riferimento e una “pietra d’inciampo” reale da cui dipende la complessa “sessuazione” degli individui, e si può pensare di trattarlo in modo del tutto arbitrario come un mero oggetto di consumo». Si tratta, ha continuato Bonvegna, «di un materialismo finto e contraddittorio, portato avanti con le armi mediatiche di una posizione culturale (il relativismo) che si propone come tollerante, ma la cui origine è tutt’altro che “di larghe vedute”, in quanto, come quella dello stesso materialismo, risiede nella pretesa di certa ragione moderna di stabilire cosa è reale e cosa non lo è». Il riduzionismo materialista (è reale solo la materia) e poi quello idealista (è reale solo il pensiero), «nati entrambi da un’idea di libertà ridotta ad arbitrio assoluto, rappresentato il presupposto affinché quel riduzionismo potesse dar vita all’ideologia del gender, la quale, non a caso, condivide con materialismo e idealismo l’incapacità di tenere conto della vera natura del corpo umano vivente».

Come ha spiegato infine su “Le Monde” Michel Raymond, direttore di ricerca al CNRS e specializzato in biologia evolutiva presso l’Istituto di Scienze dell’evoluzione di Montpellier, «nel mondo vivente, maschi e femmine differiscono sempre biologicamente, tra cui alcuni dei loro comportamenti, perché ognuno ha un modo specifico di comportarsi. Quale forza misteriosa avrebbe cancellato le differenze nelle nostre specie? Infatti, quando cerchiamo di studiarli, ci dimostrano che già al momento della nascita – e quindi prima di qualsiasi influenza sociale – ragazze e ragazzi non hanno lo stesso comportamento». Per questo «la fiction attualmente di moda che vuole le differenze genetiche tra gruppi umani prossime allo zero è scientificamente infondata, come lo è il concetto di razza. L’antagonismo tra natura e cultura, è insostenibile».

La redazione

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Resistenze in Curia? Francesco demolisce i vaticanisti

Francesco su aereoOffre tantissimi spunti il dialogo che Papa Francesco ha avuto con i giornalisti sul recente volo dal Brasile a Roma, durante il quale il Pontefice ha risposto a decine di domande, da quelle personali a quelle sui casi più delicati e scottanti.

Una delle impressioni che si ha leggendo le risposte che ha dato è che la maggioranza dei vaticanisti italiani, appollaiati nelle redazioni dei quotidiani, dovrebbe licenziarsi. Perché solo i politici che sbagliano o raccontano menzogne dovrebbero lasciare la poltrona? Durante il Conclave del marzo scorso hanno scritto di tutto per settimane e settimane: previsioni, papabili, quote, cordate di potere, coalizioni per eleggere il tal cardinale ecc. Ce ne fosse stato uno che abbia anche solo citato il card. Bergoglio. Evidentemente gli alti prelati, molto più furbi di loro, non hanno lasciato trapelare nulla, proteggendo così la nomina di Papa Francesco.

Che le fonti da cui traggono le notizie i vari Politi, Rodari, Tecce, Ansaldo, Franco ecc. -rigorosamente anonime- non esistano o non sappiano nulla è sotto gli occhi di tutti. Un esempio è il grande ritornello della “resistenza della Curia romana” ai cambiamenti di Francesco. I vaticanisti si sono accordati per descrivere la Curia di Roma come un nido di vipere, di malaffare e di potere, guidata da uomini ignavi e assetati di sangue e di denaro.

Il leader di questa cordata è ovviamente Marco Politi, sedicente vaticanista de “Il Fatto Quotidiano” (sedicente perché un vaticanista dovrebbe riportare tutte le notizie e non solo quelle che ritiene imbarazzanti per il Vaticano, come invece fa lui). Il 12 giugno 2013 parlava delle «fortissime resistenze con cui il pontefice argentino deve misurarsi per riportare trasparenza della Curia». Un ambiente che secondo Politi è un «microtessuto di interessi e di potere». Il giorno dopo, non ancora sazio, scriveva dello «zoccolo conservatore della Curia che resiste» e profetizza il successore di Bertone, ovviamente sbagliato come erano sbagliati i suoi papabili durante il Conclave. Pochi giorni dopo la sua macchina del fango si concentra sulla «palude conservatrice annidata in Vaticano e nella Chiesa universale, seppure provvisoriamente azzittita dal fallimento del pontificato ratzingeriano».

Carlo Tecce, aggressivo laicista sempre de “Il Fatto” si inventa una particolare situazione in cui starebbe il Vaticano e parla di «governo iperterreno che resiste in Curia». Paolo Rodari, che da quando è passato a “Repubblica” ha capito che per portare a casa la pagnotta deve aggredire anche lui la Chiesa, ha definito la Curia come «potente e litigiosa» descrivendo i movimenti all’interno e i rapporti tra i vari cardinali come si fa in un thriller giallo di spie e contro-spie. Massimo Franco de “Il Corriere”, che continua a pubblicare libri scandalistici anticlericali che ben pochi si filano (più oratori che uditori nell’ultima presentazione), non si discosta dalla linea guida e scrive di «Curia inquieta» e «”partito della Curia” umiliato in Conclave». Hans Küng, l’ormai fallito teologo anti-Ratzinger dimenticato anche dai media dopo l’elezione di Bergoglio, descrive dall’estero la Curia romana in questo modo: «nepotismo e favoreggiamento dei parenti, avidità, corruzione e affari finanziari dubbi», difficile da riformare a causa delle «potenti controforze alle quali sarà necessario far fronte».

Benissimo, questa è la descrizione della Curia dei nostri vaticanisti preferiti. Sono però bastate poche parole di Bergoglio per demolire tutto il castello di fantasia che hanno costruito in questi mesi: «I cambiamenti [della Curia, nda] sono stati chiesti dai cardinali prima del conclave, e poi c’è ciò che viene dalla mia personalità. Ci sono santi in Curia, vescovi, preti e laici, gente che lavora. Tanti che vanno dai poveri di nascosto o che nel tempo libero vanno in qualche chiesa e esercitare il ministero. Poi c’è anche qualcuno che non è tanto santo e questi casi fanno rumore perché, come sapete, fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. A me provoca dolore quando accadono queste cose. Credo che la Curia è un po’ calata rispetto al livello che aveva un tempo, quando c’erano alcuni vecchi curiali fedeli che facevano il loro lavoro. Abbiamo bisogno del profilo dei vecchi curiali. Se c’è resistenza, ancora non l’ho vista. È vero che non ho fatto tante cose, ma ho trovato aiuto, gente leale. A me piace la gente che mi dice: “Io non sono d’accordo”. Questi sono i collaboratori leali. Poi ci sono quelli che davanti a te dicono su tutto “che bello”, e poi magari quando escono dicono il contrario. Ma di questi non ne ho ancora trovati». Ecco dunque come stanno le cose. Nessuna resistenza, nessun malaffare, un calo di efficacia ma tanta santità e tanta lealtà. E anche qualcuno, come negarlo, che santo non è…ma d’altra parte accade anche in qualsiasi contesto lavorativo dove c’è di mezzo il potere, comprese le redazioni dei quotidiani.

Tanti hanno detto che quando Francesco si definisce “solo” come vescovo di Roma è perché intende desacralizzare il papato, secolarizzarlo. Il solito Politi ci spiega ad esempio: «si presenta solo come “vescovo di Roma” e archivia l’aura onnipotente di Pontefice Massimo. Bergoglio non è il primo papa globale – Wojtyla ha segnato il salto di qualità – ma è il primo papa che scarta l’ideologia dell’onnipotenza». Francesco smentisce puntualmente questa ricostruzione: ««Non si deve leggere al di là delle parole. Il Papa è vescovo, è vescovo di Roma e da lì viene tutto. È il primo titolo, poi vengono gli altri titoli. Ma pensare che questo voglia dire che il successore di Pietro è un “primus inter pares” significa andare oltre. Sottolineare il primo titolo, quello di vescovo di Roma, può favorire un po’ l’ecumenismo».

Come non parlare, infine, dell’appartamento papale rifiutato da Francesco, a cui ha preferito il residence a Santa Marta? Un cavallo di battaglia dei nostri vaticanisti: secondo Politi è una «suprema stanza dei bottoni, accessibile solo a pochi eletti», più avanti usando tutta la sua sterminata fantasia lo definirà come «centro di un potere di impronta divina» che permette «alla burocrazia vaticana di ammantarsi di pretese di infallibilità». Tanti altri quotidiani parlano del “lussuoso appartamento papale” rifiutato in nome dell’austerità. Anche in questo caso Papa Francesco ha smentito tutti: «non potrei vivere da solo nel palazzo. L’appartamento papale è grande ma non è lussuoso. Ma io non posso vivere da solo con un piccolo gruppetto di persone. Ho bisogno di vivere con gente, di trovare gente. Per questo ho detto che sono motivi “psichiatrici”: psicologicamente non potevo e ognuno deve partire dal suo modo di essere. Comunque anche gli appartamenti dei cardinali sono austeri, quelli che conosco».

Tutto qui. Le fantasie anticlericali di Politi, Rodari, Tecce, Franco e amici vari, sgretolate in pochi secondi. Ma siamo certi che faranno finta di nulla e andranno avanti per la loro strada: se i fatti negano la teoria, tanto peggio per i fatti.

La redazione

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La fede come espressione di una mente adulta e razionale

Micromega 

di Maria Beatrice Toro
*docente di Psicoterapia e Psicologia presso La Sapienza di Roma

Una delle questioni che si presenta sempre più frequentemente alla psicologia della religione è il tema delle basi biologiche ed evolutive della fede, dati i contributi provenienti dalle neuroscienze  e, altresì, dalle scienze cognitive, che stanno fornendo nuove informazioni sul funzionamento del cervello e della mente.

Oggi, in particolare, prendo spunto dall’articolo di Vallortigara e Girotto (la Repubblica 26-06-2013), che anticipa un loro saggio, contenuto nell’ultimo numero della rivista “Micromega” dedicato al tema dell’ateismo.

Gli autori mettono insieme, per dar forma a un ragionamento sull’origine naturale della fede, i risultati di una serie di ricerche svolte nell’ultimo decennio sulle modalità attributive della mente infantile e adulta. Come siamo ormai abituati a leggere, il punto di partenza di molte interpretazioni (a mio avviso errate) di tali ricerche è l’idea che la fede scaturisca dalla naturale tendenza del bambino ad attribuire impropriamente relazioni causali tra i fenomeni. Anche senza il contributo dell’educazione religiosa, poiché l’attribuzione causale impropria è una delle basi naturali del ragionare infantile, la fede tenderebbe a manifestarsi, anzitutto, come risposta a domande sui fenomeni del mondo naturale che non si spiegano in altro modo (“Perché c’è il mondo? Perché sono nato? Cosa c’era all’inizio del tempo?”).

Una simile interpretazione dell’origine naturale del credere in Dio non basta, tuttavia, spiegano gli autori, a dare conto della fede come percezione di un qualche significato e finalità dell’esistere. Gli autori aggiungono, allora, un secondo elemento: i bambini sono particolarmente orientati a distinguere le attività proprie di un oggetto inerte da quelle di un agente soggettivo e sono molto orientati alla ricerca di agenti soggettivi.  Gli oggetti inerti mostrano delle caratteristiche spazio temporali precise e si comportano in base a delle regole che i bambini intuiscono e sulla cui base formano le loro aspettative a proposito degli oggetti stessi. I bambini sanno che se si spinge un oggetto, ad esempio un pallone da calcio, questo si muove, così come imparano presto che la sua massa non può passare attraverso altri oggetti, e che il pallone da calcio cade verso il basso se lo si lascia andare. Il pallone, dunque, non si muove da solo, non va da qualche parte “perché lo vuole”, non essendo dotato di intenzionalità e capacità di agire, ma va dove viene spedito. I soggetti animati, invece, non si limitano a reagire, ma agiscono intenzionalmente e hanno degli scopi: fanno cose che hanno un senso per loro, finalizzano le loro azioni per realizzare progetti significativi. Allora, se qualcuno ha creato il mondo, poiché questo qualcuno viene pensato come un soggetto agente, lo ha fatto per uno scopo. E, ora, si aggiunga un terzo elemento: la tendenza umana a vedere nelle cose l’intenzionalità di un artefice, connaturata tanto alla mente infantile che a quella adulta, che porta l’uomo a vedere in troppe cose uno scopo.

Il cocktail ateistico, a questo punto, è pronto.  Mescolando i tre elementi si otterrebbe la base naturale della fede in Dio: che ha creato il mondo, lo ha creato con una finalità, e con l’intenzionalità propria di un artefice. Suppongo, basandomi su vari scritti in merito, che il ragionamento potrebbe proseguire così: “le persone razionali, giunte alla maturità, si volgeranno finalmente al pensiero scientifico e si ergeranno contro tali aporie della mente. Qualcuno continuerà a definirsi credente: non ci si può fare nulla, ma, in compenso sono stati scovati i presupposti cognitivi della credulità umana”Ma è davvero così?

Se il cocktail fosse davvero questo, dovremmo aspettarci che i credenti basino la loro fede e l’esperienza spirituale sui presupposti di questi tre ingredienti, magari estendendo le zone erronee dell’infanzia anche nell’età adulta.  Se, invece,  i credenti utilizzassero (come utilizzano), altri ragionamenti,  o si basassero su altre percezioni,  esperienze, sentimenti,  il discorso, logicamente, non si applicherebbe.  Come si sono abbandonate tante altre modalità infantili (come credere che se un liquido è versato in un bicchiere più stretto esso sia di più della stessa quantità versata in un bicchiere più largo…), si abbandonerebbero anche queste e ci sarebbero altri processi alla base della fede, certamente meno banali. Tali processi esistono e appartengono, a mio avviso, a una sfera peculiare della vita umana, che ricorda ciò che Kant chiamò “ragion pratica”, attribuendole non meno rilevanza che alla “ragion pura”. Non è, infatti, difficile scoprire che i credenti non si relazionano al trascendente perché, diversamente, non si spiegano  le cose, ma, piuttosto, vivono la fede in relazione ad un senso di finitudine esistenziale, per il quale la fede apre la possibilità di dare una risposta, che non è, tuttavia, necessaria, ma libera.

Non a caso, i credenti definiscono la fede come un dono, ovvero qualcosa di totalmente gratuito. Vi è, nell’esperienza spirituale, l’entrare in contatto con un senso di profonda interconnessione tra le cose, che collega il Sé a Dio, al mondo e agli altri. Se fosse solo un problema di sopravvivenza di antiche “vestigia cognitive”  non si capirebbe perché, oggi, in un mondo che non favorisce certo la visione di insieme, ma incoraggia la iper specializzazione e la velocità nel reagire, si senta, sempre più prepotentemente, il bisogno di fermarsi ad approfondire la propria vita, fino alle porte della fede.  Non si capirebbe come mai fioriscano tante scuole che insegnano a dare attenzione al presente, seguendo pratiche di preghiera cristiana, pratiche meditative, o, anche, pratiche di consapevolezza non agganciate a una fede in particolare.

Si sa che le attività di preghiera silenziosa e di meditazione sono esperienze specifiche, che si abbinano a correlati neuropsicologici tipici, con alterazioni del quadro elettroencefalografico e diversa percezione del dolore fisico e mentale (Coromaldi e Stadler, 2004, Kakigi et al., 2005, cit. in Chiesa A. 2011). La ricerca di tali dimensioni dell’esperienza, come la consapevolezza, può essere ritrovata in tanta psicologia contemporanea. Mi riferisco, in particolare, a tutti gli studi nati a partire dal lavoro di Kabat Zinn sulla pratica di consapevolezza (tanto per dare un riferimento a uno studioso che si muove all’interno dell’orizzonte della psicologia scientifica, che, mi auguro, appagherà la sete scientista di leggere cose che vengono pubblicate su riviste rigorosamente peer revieweed…). L’apertura al momento presente è il fulcro di molte attività e pratiche di meditazione, che oggi vengono copiosamente riscoperte come strumento fondamentale per preservare noi stessi dalla reattività del vivere di corsa, producendo, consumando e consumandoci.

E poi, vorrei porre all’attenzione una domanda importante, che rappresenta una delle cifre della ricerca di significato cui l’essere umano aspira e che fa da motore alla sua ricerca incessante di senso: perché quando ci si apre al momento presente, anche se non ci si concentra su un oggetto religioso, esperienze di senso di interconnessione emergono? È come se,  quando si scegliesse di fare un passo indietro  rispetto all’attività della mente nel pensare, si potesse scoprire un “luogo”, da cui guardare al proprio pensiero. E in quel “luogo” è possibile sperimentare un senso di unità, prima ancora di avergli dato un nome. So che è scandaloso, ma non posso non notare la risonanza tra il concetto di “luogo da cui osservare i pensieri”, proposto nei training di consapevolezza, e quello di “anima”, che osserva la mente, proprio delle tradizioni religiose.

Vale la pena, allora, riprendere la definizione di sacro come “riflesso dell’impotenza umana dinnanzi all’eternità del tempo e all’infinito dell’universo” (Zas Fris De Col, 2011) e cercare di comprendere davvero perché, comunque, anche nel pieno della secolarizzazione, lo ricerchiamo. Al fenomeno della fede, come libera scelta (o, se si preferisce, dono), di abitare nel sacro o di rifiutarlo, del credere o non credere, di essere o non essere religiosi mi sembra che si sia ancora ben lontani dal dare una spiegazione scientifica: anzi, forse è per ragioni strutturali che non ci può essere una risposta univoca; mi  limito a citare nuovamente il concetto kantiano di “ragion pratica” e a ricordare che, per quanto riguarda la psicologia,  il costrutto di trascendenza ha un lungo “pedigree” teoretico (Piedmont R., 1999), davvero sorprendente per qualcosa che dovrebbe essere residuale. Nell’ambito della letteratura psicologica, la religiosità rappresenta un dominio di studi molto ampio, è un elemento importante, laddove la presenza della tendenza ad auto trascendersi, nella persona, è un elemento confrontabile con gli altri fattori fondamentali della personalità, tanto da poter essere considerato una delle maggiori dimensioni della vita psicologica. Normale, razionale e adulta, aggiungerei.

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Sciacallaggio della lobby gay sull’adolescente suicida

Bandiera omosexIn Italia, secondo gli specialisti, il suicidio rappresenta la seconda causa di morte per i giovani sotto i 21 anni e i suicidi adolescenziali costituiscono il 10% dei 4000 suicidi che avvengono ogni anno.

Le cause sono tante e diversificate perché l’adolescenza è caratterizzata dalla crisi puberale, un vero e proprio travaglio fisiologico-maturativo. Frequentemente, purtroppo, si leggono sui quotidiani suicidi di adolescenti per motivi sentimentali, per motivi scolastici, per bullismo sui social network ecc.

Ma se il suicida non è omosessuale che ha scelto la morte per colpa dell’omofobia, allora non fa notizia, il dramma non merita l’attenzione dei nostri intellettuali e dei nostri politici. Se dovessimo dare ascolto ai media sembra che a suicidarsi siano solo gli omosessuali, lo si è verificato nelle reazioni al drammatico suicidio di un adolescente romano di 14 anni, omosessuale, quando sono partite immediate le voci -come quella del presidente della Camera Laura Boldrini– per una legge contro l’omofobia, con le immancabili interviste ai maître à penser omosessuali, ognuno presidente delle migliaia di associazioni gay italiane (Gaynet Italia, Gay Center, Arcigay, Arcilesbica, Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, Famiglie Arcobaleno, Agapo, Agedo ecc.), ed è vietato escluderne o dimenticarne qualcuna perché altrimenti si verrebbe tacciati di discriminazione e omofobia. Piatto ricco mi ci ficco.

Nessuno ha ancora stabilito i motivi del suicidio e se sia legato all’omofobia: «Ancora tutte da accertare le motivazioni alla base del gesto. Ma c’è già chi strumentalizza la vicenda», commenta “Avvenire”. Fortunatamente qualche quotidiano si è premurato di inserire nel titolo la frase “ombra di omofobia”. Nessuno invece ama ricordare che il nostro Codice Penale (art. 580), già persegue l’istigazione al suicidio, anche se questo non dovesse avvenire, con pene fino a cinque anni di reclusione. Per ora l’amica del cuore del ragazzino suicida ha spiegato che nessuno sapeva della sua omosessualità e che non era discriminato a scuola, ipotizzando qualche atto di bullismo alla fermata dell’autobus.

Per rimarcare l’urgenza di una legge sull’omofobia si citano altri tre casi recenti, che però nulla c’entrano con l’omofobia: il caso del giovane Andrea (gennaio 2013) che però non era omosessuale, il tentato suicidio del sedicenne di Roma (maggio 2013) che però lui stesso ha spiegato non essere motivato dall’omofobia ed infine il recente attentato al liceo Socrate, rivelatosi invece una vendetta per una bocciatura.

La strumentalizzazione di alcune tragedie per fini ideologici è puro sciacallaggio. «Si gettano sulle spoglie di un 14enne per piantarci sopra la bandiera arcobaleno», ha commentato Luigi Amicone, direttore di “Tempi”. Del «giovane non si sa nulla perché è solo un pre-testo per la battaglia omosessualista», osserva Luisella Saro. «Tanta politica, poca pietà. Così usano un ragazzo per invocare le leggi sui gay» scrive Luca Doninelli su “Il Giornale”. Secondo il “Pew Research Center” l’Italia è l‘ottavo Paese al mondo per rispetto alle persone omosessuali, lo ha confermato uno studente gay intervistato sull’adolescente romano suicidatosi: «Se lo avessi conosciuto gli avrei detto di non preoccuparsi, presto gli altri lo avrebbero giudicato solo per la persona che era», ha detto prima di raccontare l’accoglienza rispettosa di compagni e professori nei suoi confronti. Vittorio Feltri, da destra, rinsavisce e prendendo per buono che il suicidio del giovane sia da attribuire all’omofobia (un giornalista serio non lo farebbe in assenza di prove) spiega che chiedere una legge sfruttando questo caso è sbagliato, anche perché «i motivi che inducono gli adolescenti a darsi la morte sono molteplici, incluso lo scarso rendimento negli studi: c’è chi si toglie la vita per un 5 in pagella, ma nessuno ha mai proposto di eliminare per decreto le pagelle». E anche da sinistra arriva un po’ di luce: «Ma che c’entra la legge contro l’omofobia con il suicidio di un quattordicenne che si sente solo, deriso, umiliato dai suoi compagni di classe?», ci si domanda su “Europa” criticando la Boldrini. «Come se veramente una disposizione pubblicata sulla Gazzetta ufficiale avesse il potere di salvare la vita a un ragazzo»

Mentre l’avvocato Giancarlo Cerrelli accusa chi «usa la morte per fini ideologici»Gianluigi De Palo, consigliere comunale di Roma, dimostra che si rispettano davvero le persone discriminate quando non le si usa per per fini politici: «tutte le persone meritano rispetto in quanto tali. Per me un disabile, un omosessuale, un immigrato e un padre di famiglia devono essere ugualmente tutelati dalla legge, senza iniziative che hanno puramente sapore ideologico». Il suicidio di un giovane gay per motivi di omofobia (sempre che sia vero, sarà accertato) non è né più né meno grave del suicidio di un giovane per motivi scolastici o affettivi. Il direttore Luigi Amicone ha concluso così il suo articolo: «Ribellatevi persone omosessuali a questa falsa canea di militanti, giornalisti, presidenti della Camera che si pretendono vostri rappresentanti e invece usano di voi come esche, carni e anime per saziare la loro ansia di potere e di consenso. Non c’è verità sulla loro bocca e il loro cuore è pieno non di compassione, ma di perfidia e di vendetta».

La redazione

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Bonino non difende i diritti umani, Pannella continua a mangiare

Emma BoninoTutti coloro che volevano Emma Bonino come Presidente della Repubblica alle scorse elezioni, sono ancora sicuri di essere di quest’idea dopo la totale incompetenza mostrata dalla leader radicale nella vicenda Ablyazov?

Si tratta dell’espulsione dall’Italia di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov e di sua figlia Alua, avvenuta il mese scorso, all’oscuro del Ministro degli Interni, Angelino Alfano, e di quello degli esteri Bonino. La stampa ha giustamente bacchettato Alfano ma pochi hanno voluto toccare l’intoccabile Bonino.

Enzo Pennetta ha fatto notare che prendendo in esame gli articoli pubblicati sulla vicenda dal “Corriere della Sera” e da “Repubblica”, si nota che quando si parla delle responsabilità del Ministero degli esteri il nome della Bonino non si cita mai ma si preferisce parlare di “Farnesina”, come se la Farnesina fosse una persona o non facesse capo ad un responsabile. «Bonino l’intoccabile è adesso anche diventata “innominabile”»«Alfano è del Pdl», ha commentato perfino Massimo D’Alema, «alla Bonino invece le vogliamo bene ma mi domando in quale letargo si trovasse la Farnesina».

L’ex sottosegretario agli Esteri, Gianni Vernetti, ha spiegato che «Bonino era nelle condizioni per denunciare quanto avvenuto. Invece ci sono state settimane di silenzio», sperando di «passare la nottata». L’ex tesoriere dei Radicali, Danilo Quinto, si è domandato: «perché non ha convocato una conferenza stampa per difendere i diritti umani di “quella signora” o, ancora, perché non ha chiesto – neanche questo, risulta – formalmente a Letta d’intervenire?». Da numerose parti stanno arrivando accuse all’Italia di grave violazione dei diritti umani, proprio quando abbiamo come ministro degli Esteri una sedicente paladina in difesa di essi.

Non solo il caso kazako, in pochi mesi la Bonino ha collezionato una serie di figuracce che avrebbero portato alle dimissioni qualunque politico. Ricordiamo, ad esempio, l’erogazione di 1,4 milioni di euro a una lunga lista di enti, fra cui l’Istituto affari internazionali e l’Aspen institute, di cui anche lei fa parte e come non citare la violazione al diritto internazionale compiuta nei confronti del Presidente della Bolivia, definito atto di “pirateria” dal Guardian e che ha spinto il suo amico Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista, a chiederne le dimissioni. Onore in questo caso al “Fatto Quotidiano” che più volte ha individuato le responsabilità della Bonino, invitandola a sua volta alle dimissioni.

Dagospia ha scritto: «Emma Bonino ha mostrato il suo vero volto di donna del potere disposta a passare sopra ogni principio pur di piacere ai potenti che la potrebbero incoronare Presidente della Repubblica alla scadenza di Napolitano». Una donna di potere, la leader radicale, che percepisce ben 178mila euro all’anno. Ovviamente difesa dal suo amico Marco Pannella: «non arrivano notizie di imminenti digiuni o piagnistei di Marco Pannella per la libertà di Alma e di Aluà, la moglie e la figlia del dissidente Albyazov» ironizza Pino Corrias . Nessuna protesta di Pannella mentre la Bonino testimoniava «quanto sia conveniente e triste sottomettersi al potere che ti ha appena incoronato. E dopo un trentennio passato a difendere i perseguitati di tutti i mondi lontani, farsi sfuggire l’unica coppia di perseguitati che proprio sotto casa Bonino avrebbe potuto difendere senza alzare un grammo di polvere, né una lacrima, né un digiuno. Ma solo facendo il suo dovere».

Finiamo con l’ultima chicca della leader radicale. Dopo che la sua collega della Sanità, Beatrice Lorenzin, ha illustrato i nuovi divieti antifumo contenuti nel suo disegno di legge, estendendolo agli spazi scolastici e alle auto private in presenza di donne incinte o minori, la tabagista Bonino ha sbraitato: «Ma siamo matti? Vietare il fumo anche in auto? Minori o donne incinte non mi interessa, questa è una roba proibizionista, non la sottoscriverò mai». Poco interessata alla salute di minori o donne incinte?

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Eutanasia, ennesima vittima (involontaria)

http://www.independent.co.uk/incoming/article8707179.ece/ALTERNATES/w460/Hospital.jpgCade nuovamente nell’occhio del ciclone il protocollo inglese per il fine-vita, il Liverpool Care Pathway for the Dying Patient (Lcp), dopo l’ennesimo caso di malsanità, nel quale, lo scorso marzo, ha perso la vita Jean Tulloch. All’anziana signora, ricoverata senza riportare condizioni critiche è stata applicata -accidentalmente, nella migliore delle ipotesi- la procedura riservata ai pazienti terminali, Lcp – metodo che prevede la sedazione e la sospensione di medicine, alimentazione e idratazione, con la morte che sopraggiunge nelle 30 ore successive. Ad aumentare ulteriormente la polemica contro la cosiddetta “lista della morte” inglese, hanno concorso, oltre alle numerose denunce, il fatto che il trattamento non abbia ottenuto il Gold Standard – tutte cose che ora hanno spinto il governo a prendere provvedimenti.

Non si tratterebbe dunque di un caso isolato. Già nel 2012, riportava ilDaily Mail, fino a 60mila pazienti, ogni anno, venivano (e vengono) messi in lista per il Lcp, senza esserne informati e con un terzo delle rispettive famiglie all’oscuro di tutto. Un caso identico era emerso già qualche tempo fa, quando la medesima sorte toccò a Robert Goold, 69enne affetto da demenza, messo nella “death list” e lasciato morire per più di una settimana, senza che la famiglia ne fosse informata e senza nemmeno che ne fosse fatta menzione nella sua cartella clinica. In entrambi i casi, allo scandalo è seguita l’apertura di un’inchiesta.

Dubbi sull’accidentalità di tali circostanze sono stati sollevati da più parti. Peter Tulloch, il figlio dell’anziana signora, ha dichiarato che, «fondamentalmente, volevano il letto di mia madre». Non a caso, un mese dopo, una visita degli ispettori della Healthcare Improvement Scotland ha poi rilevato una carenza di posti letto nell’ospedale. Ad avanzare dubbi simili sono stati anche medici ed esperti. La British Medical Association, ha sostenuto che i pazienti potrebbero essere stati messi in lista per la Lcp, anche quando non sarebbe stato il caso, in quanto, «agli ospedali sarebbero stati offerti incentivi economici» per l’utilizzo di tale protocollo. Un sistema pensato per dare ai malati terminali «una morte pacifica e dignitosa», riporta il Guardian‘, è accusato d’essere diventato invece un sistema per «velocizzare i decessi, liberare letti e risparmiare», tanto da far partire, su commissione del ministro della salute Norman Lamb, un rapporto indipendente che si prevede manderà a brevissimo in pensione anticipata l’attuale ‘Liverpool Care Pathway’, solo per sostituirlo però, con una sua versione migliorata. Per più di qualcuno però, è ormai troppo tardi.

Nicola Z.

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Le Famiglie Arcobaleno promuovono il “regalo di neonati”

Giuseppina La DelfaLa presidente dell’associazione omosessuale “Famiglie Arcobaleno”, Giuseppina La Delfa, ha espresso la sua approvazione per la pratica del regalo di neonati (gestazione per altri, gpa) a coppie omosessuali da parte di “madri generose”. C’è a chi sembra giusto e lecito, per noi la vita umana di un bambino non va ridotta a bene da regalare agli amici più cari o alle minoranze discriminate.

In un articolo, pieno di anatemi e strali contro il quotidiano “Avvenire”, la giornalista Costanza Miriano e la bioeticista Assuntina Morresi, La Delfa si è lanciata a sostegno della maternità surrogata (che lei chiama, cercando subdolamente di addolcirne il termine, “gestazione per altri”). Il post è pubblicato dall’“Huffington Post”, dove è ospite fissa forse perché la direttrice, Lucia Annunziata, sa che deve farsi perdonare la sua uscita di qualche tempo fa: «Difenderei Celentano anche se dicesse di mandare i gay ai campi di sterminio».

La Delfa è inviperita con il quotidiano cattolico perché lascerebbe «intendere al pubblico, poco informato sull’argomento, che i gay vanno in India a sfruttare le pance di povere disgraziate per il loro futile capriccio di diventare padri ad ogni costo». In realtà è proprio quello che fanno in tanti Paesi e fino a poco tempo fa anche in India, lei stessa lo ha riconosciuto poco sotto: «l’India non permette più alle coppie gay, e nemmeno ai single maschi o femmine, di accedere alle tecniche di Pma entro i suoi confini». Se oggi non lo permette più è perché fino al 2012 funzionava così e allo stesso modo altri omosessuali (oltre che numerosi eterosessuali) continuano ad affittare il corpo di povere donne in altri Paesi, come l'”omofoba” Russia, la Grecia, il Sudafrica o l’Ucraina. Poco importa dove viene fatto.

In ogni caso La Delfa non si è dissociata da questa ignobile pratica di sfruttamento e moderno schiavismo, liquidandolo con una veloce frase: «non parlo dell’India, proprio perché è un mondo che non conosco». Eppure un quotidiano che certamente le è simpatico, “Il Fatto Quotidiano”, fin nei titoli ha spiegato come stiano le cose in India: “Donne sfruttate e non informate su rischi”. Ma non è solo in India: la rivista “Tempi” parla giustamente di “compravendita dei bambini” citando il caso francese di Aurore (34 anni), che in difficoltà economiche si è fatta pagare da una coppia gay per sfornare un bambino da consegnare dopo il parto ai due uomini e che poi ha finto la morte del nascituro per venderlo a un’altra coppia per un prezzo maggiore. E se il prodotto esce “difettoso” (magari affetto da Sindrome di Down)? Si spinge la madre ad abortire ricevendo però spesso un secco rifiuto da parte della “madre affittata”, come successo nel 2010 in Canada e nel 2013 in America.

La leader delle Famiglie Arcobaleno ha voluto parlare solo della «della maternità per altri come viene praticata in Canada o negli Stati Uniti quella che noi di Famiglie Arcobaleno conosciamo bene e promuoviamo». Le Famiglie Arcobaleno promuovono la pratica per cui una madre generosa regala il suo neonato appena concepito ad una coppia omosessuale? Come è possibile approvare e promuovere la mercificazione della vita umana, la banalizzazione dell’essere umano come oggetto da produrre con l’obiettivo di commerciarlo al miglior acquirente o regalarlo agli amici più cari?

Il suo articolo intende primariamente valorizzare quelle donne generose e non interessate al denaro che mettono a disposizione la loro pancia per sfornare bambini che cresceranno -senza averlo scelto- con coppie omosessuali. Bambini però resi fin dalla nascita orfani di madre o padre e soggetti a numerosi e gravi rischi riscontrati dalla letteratura scientifica. La Delfa esalta queste donne perché si tratta della «libertà delle donne di fare quel che pare loro del loro corpo, anche lo scegliere, consapevolmente e liberamente, di portare in grembo i figli di altri». Anche senza profitto da parte della madre generosa, si tratta della promozione della concezione del neonato concepito come bene da regalare, nella più totale violazione dei diritti umani, come spiegato da Alana S. Newman. Inoltre è vero e proprio egoismo da entrambe le parti, come ha osservato Annamaria Bernardini De Pace: «una mamma che non accoglie dentro di sé, l’altra che abbandona, il padre complice di entrambe. L’attenuante specifica di ciascuno è nella seduzione morbosa della scienza, che permette agli umani di travalicare i confini della finitezza naturale, fino a raggiungere, nel delirio di onnipotenza, il governo prepotente del mistero della vita». Una donna è anche libera di chiedere aiuto ad uno specialista per uscire dall’omosessualità, chissà se le Famiglie Arcobaleno sarebbero in quel caso d’accordo nel lasciarla libera di autodeterminarsi.

Ma quel che rende davvero ignobile questa pratica è l’assoluto disinteresse per l’altra vita umana in gioco, cioè il figlio mercificato o regalato come un oggetto, nemmeno considerato nell’articolo di La Delfa, violando i suoi diritti umani e privandolo del diritto di crescere con la sua madre (e il suo padre) naturale, con la quale ha stipulato nei nove mesi di gestazione una perfetta simbiosi, comunicando con essa tanto che, appena nato, saprà riconoscerla tra centinaia di donne.

Esiste una fitta relazione tra la madre e il feto umano nell’utero, fondamentale per determinare la sua salute futura. «La salute dell’individuo inizia nel grembo materno» dice Michel Odent, noto ginecologo francese pioniere della psicologia prenatale. E’ fondamentale far nascere il proprio figlio in un’atmosfera di amore, di attesa e di attenta partecipazione alla sua formazione, in modo da dargli da subito le basi per una vita sana e serena. Le sensazioni e gli stati d’animo materni sono legati ad ormoni e neurotrasmettitori che viaggiano attraverso il flusso sanguigno e la placenta verso il cervello del nascituro. Ma quale attesa, quale messaggio e quale amore potrà mai arrivare al nascituro da parte di una madre che è pronta a disfarsi di lui, come uno zainetto, per rifilarlo o regalarlo ad una coppia che ne è priva (omo o etero che sia)?

Come è possibile questa gaia approvazione e sostegno da parte della presidente dell’associazione omosessuale Famiglie Arcobaleno a tutto questo? Per noi è mercificazione di esseri umani, pratica lesiva della dignità femminile, dei diritti e della salute dei neonati.

La redazione

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Cristianesimo: baluardo in difesa della dignità umana

Cina cristiani 2 
di Bruno Forte*
*arcivescovo di Chieti-Vasto

 
dall’editoriale de Il Sole 24 Ore, 14/07/13
 

È stato Hans Blumenberg a scegliere la metafora del naufragio come strumento interpretativo dell’epoca moderna e della sua crisi (Naufragio con spettatore, Il Mulino, 1985). Perdute le certezze che il positivismo e le ideologie avevano offerto, siamo diventati tutti dei naufraghi, spettatori al tempo stesso del nostro naufragio. Sta qui la differenza fra la crisi del 1929 e l’attuale: allora il mondo delle certezze ideologiche si presentava come la possibilità alternativa alla crisi, una terra ferma da cui guardare l’altrui naufragio.

Oggi, dopo la fine delle ideologie e il crollo del sistema dei blocchi contrapposti, non è più così. La sola possibilità di salvezza sta nel farsi una zattera con i resti della nave naufragata. Proprio così, l’immagine del Pensatore tedesco si schiude sull’orizzonte di un’attesa, che richiama l’affacciarsi di un bisogno collettivo di senso, di etica e di spiritualità. La risposta a questo bisogno è, però, tutt’altro che univoca nel “villaggio globale”: l’immagine del mare mobile, incostante, richiama anzi un’altra metafora, non meno importante per capire dove siamo, quella della liquidità.

A servirsene con singolare flessibilità è il sociologo britannico, di origini ebraico-polacche, Zygmunt Bauman. Nel nostro tempo – egli afferma – “modelli e configurazioni non sono più ‘dati’, e tanto meno ‘assiomatici’; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione… Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il profondo mutamento che l’avvento della modernità fluida ha introdotto nella condizione umana” (Modernità liquida, Laterza, 2002, XIII). Mancando punti di riferimento certi, tutto appare giustificabile in rapporto all’onda del momento.

Gli stessi parametri etici che il “grande Codice” della Bibbia aveva affidato all’umanità, sembrano diluiti, poco reperibili ed evidenti. Si parla di “relativismo”, di “nichilismo”, di “pensiero debole”, di “ontologia del declino”. Mancando un sogno che accomuni tutti, l’individuo annega nella folla delle solitudini, incapaci di comunicare fra loro, e l’ambizione dell’emancipazione cede il posto alla rinuncia al senso del vivere. Questo volto fluido della post-modernità si manifesta in particolare nella volatilità delle sicurezze promesse dall’“economia virtuale” della finanza internazionale, sempre più separata dall’economia reale. Crollata la maschera del massimo vantaggio al minimo rischio, restano le macerie di una situazione fluida su tutti i livelli. Trovare punti di riferimento, indicare linee-guida affidabili è la sfida titanica per governanti e amministratori. Anche l’economia rivela un bisogno urgente di etica.

Nei segnali d’attesa, che vanno profilandosi nella vasta crisi del senso, non mi sembra infondato vedere una sfida e una promessa rivolte alle diverse credenze religiose. Anche le religioni vengono convocate al capezzale dell’“homo oeconomicus”. A loro volta, sfidati dal contesto della globalizzazione, i mondi religiosi avvertono un bisogno nuovo di incontrarsi, di lavorare insieme. Samuel P. Huntington individua la sfida dell’immediato futuro nel volto conflittuale di questo incontro (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1997): dopo le guerre fra le nazioni tipiche del XIX secolo e quelle fra le ideologie proprie del XX secolo, il XXI secolo sarà caratterizzato a suo avviso dal conflitto delle civiltà, identificate con i mondi religiosi che le ispirano. Ciò che occorre verificare, allora, è se e in che misura le religioni potranno giocare un ruolo in vista del superamento del conflitto e per la costruzione di un nuovo ordine internazionale.

Al centro di questa verifica si pongono in particolare il Cristianesimo e l’Islam, non solo per il loro rapporto rispettivamente alla cultura dell’Occidente e a quella dei Paesi arabi, ma anche per la minaccia costituita dall’alleanza fra alcuni ambiti antioccidentali e alcune espressioni integraliste che pretendono di fondarsi sulla fede islamica. Non meno importante per la causa della pace è il ruolo che al suo servizio potranno svolgere l’Ebraismo e le grandi religioni dell’Asia. La sfida è fra due modelli: lo “scontro” o l’“alleanza” delle civiltà e delle religioni. Certo, l’incontro non potrà avvenire per semplice giustapposizione. Alternativa alla barbarie dello scontro totale appare la possibilità del “meticciato”: la confluenza di identità molteplici, dovuta ai flussi migratori in atto, è non meno legata al ravvicinarsi delle lontananze grazie alla comunicazione della rete. È l’esperienza, inedita per i più, dell’incontro fra identità diversissime, fino al configurarsi di identità plurali, nomadi, al tempo stesso assertive e flessibili, meticce.

Il succedersi degli eventi – dal fatidico 1989 all’11 Settembre 2001 e a quel che ne è seguito – mostra il volto drammatico di questa sfida. S’impone una scelta di fondo, a partire dalla consapevolezza che il meticciato è stato sempre presente nella storia dei popoli e delle culture. L’illusione di una purezza dell’identità o della razza è pura follia. Se una cultura è viva e vitale, essa è anche in grado di avviare un processo di mutuo scambio e di reciproca comprensione con l’identità altrui, che venga ad abitarla. Anche a questo ci ha richiamato il viaggio-segno di Papa Francesco a Lampedusa. Certamente, quest’“assemblaggio” non è facile né esente da rischi: ciò che risulta decisivo è che fra persone e culture si riconosca un codice di valori comuni, capace di fondare relazioni di reciproco rispetto, di riconoscimento dell’altro e di dialogo. A quali fonti potrà attingere un simile codice? Su quale rotta potrà procedere la barca assemblata sui mari del grande villaggio? Si profila l’urgenza di un orizzonte etico, che sia riconoscibile da tutti. Ed è qui che la rivelazione biblica mi sembra offra una possibilità decisiva, una sorgente di senso per indicare la rotta.

Nella prospettiva dell’alleanza d’amore promossa dall’iniziativa divina agli abitatori del tempo, essa riconosce la centralità della persona umana davanti al mistero divino come riferimento fondante. Oltre il naufragio, sulle onde della modernità liquida, la barca va costruita insieme, consentendo tutti a regole comuni, certe e affidabili, radicate nella dignità dell’essere personale, nelle esigenze dell’imperativo morale, per navigare insieme sul vasto mare da percorrere verso il porto – intravisto nella speranza e mai pienamente posseduto nella realtà – della pace universale e della giustizia per tutti.

L’idea dell’assoluta singolarità dell’essere personale di fronte al Dio personale – contributo decisivo della rivelazione biblica alle culture dell’umanità – è il baluardo contro ogni possibile manipolazione dell’essere umano, la sorgente di ogni riconoscimento della sua dignità. Sta qui la riserva di senso e di speranza che la proposta della fede biblica ha da offrire alla storia, la ragione profonda della fecondità della presenza dell’identità cristiana nel pluralismo delle opzioni e nel meticciato delle identità.

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