Fallisce l’educazione sessuale inglese: crescono infezioni

Educazione sessualeIl Regno Unito ha alcune delle più aggressive e precoci educazioni sessuali di qualsiasi Paese occidentale, con corsi fin dalla scuola primaria. Eppure tutto questo sforzo non ha alcun effetto, anzi!

Il tasso di aborto rimane alto tanto che colui che lo ha legalizzato nel 1967, Lord David Steel, si è recentemente pentito: «Questo è un problema crescente e assolutamente indesiderabile. Non era questo l’obiettivo della mia riforma, non volevo che l’aborto diventasse un sistema contraccettivo». Gli ha risposto Josephine Quintavalle, la più nota esponente laica del movimento pro-life britannico: «Se nel 1967 davvero non pensava che sarebbe finita così, allora è davvero ingenuo».

Ma un altro gravissimo problema, come ha recentemente rilevato dalla “Public Health England” (PHE), è che le infezioni sessualmente trasmissibili (IST) sono alle stelle tra i giovani, in particolare per quanto riguarda la clamidia. Quasi mezzo milione di persone sono state diagnosticate affette da malattie sessualmente trasmissibili nel 2012, un aumento del cinque per cento rispetto al 2011, con tassi maggiori per le persone di età inferiore ai 25 anni, ovvero le più soggette agli invasivi corsi di educazione sessuale. Clamidia ma anche gonorrea, aumentata del 21 per cento.

Guardando per un momento fuori dal Regno Unito occorre anche sottolineare che le persone omosessuali rimangono il gruppo sociale più a rischio di infezioni sessuali: il Vancouver Coastal Health (VCH) e il British Columbia Centre for Disease Control (BCCDC) hanno pubblicato un rapporto avvisando che le infezioni da sifilide negli uomini omosessuali e bisessuali sono salite alle stelle con i livelli più alti degli ultimi 30 anni nella zona di Vancouver. Si parla di “proporzioni epidemiche”, in tutta la nazione si è registrato un aumento del 870% di sifilide negli omosessuali tra il 1999 e il 2008. Uno studio su Lancet ha invece rilevato che la maggior parte dei rapporti omosessuali è un significativo fattore di rischio per il cancro.

Tornando ai problemi dell’Inghilterra, la dott.ssa Gwenda Hughes ha affermato comunque che «il continuo investimento in programmi per aumentare la consapevolezza sanitaria-sessuale è di vitale importanza». Eppure sarebbe opportuno far notare che in Italia, che oltretutto ha 10 milioni di abitanti in più, non ci sono mai stati tassi di infezioni sessuali così consistenti ma nemmeno ci sono corsi di educazione sessuale nelle scuole.

Come sempre la Chiesa ha ragione. L’Osservatore Romano nell’agosto scorso ha pubblicato un articolo su questa tematica molto criticato dai media e su cui c’è stata tanta ironia sui social network. Eppure  diceva la verità, una verità scomoda che nessun altro ha avuto il coraggio di dire: «Non si capisce come mai le istituzioni pubbliche occidentali continuino a nutrire una fiducia magica nell’efficacia dell’educazione sessuale. Dopo anni di corsi, naturalmente centrati sui metodi contraccettivi, abbiamo visto come in molti Paesi – l’esempio più noto è il Regno Unito – i ragazzi continuino ad avere rapporti sessuali precoci senza alcuna protezione, e si moltiplichino le gravidanze fra le adolescenti e gli aborti. Ormai è chiaro che non basta assolutamente spiegare loro come possono usare i contraccettivi, e dove trovarli facilmente, per evitare queste tragedie, ma che il problema è più a monte, nell’educazione e quindi nella famiglia. In fondo l’Italia – dove non esiste educazione sessuale scolastica obbligatoria – è uno dei Paesi che se la cava meglio da questo punto di vista: qui i giovani rischiano di meno malattie e gravidanze precoci».

Questo avviene, continua l’editoriale firmato da Lucetta Scaraffia, «per merito della famiglia, del controllo affettuoso dei genitori sui figli adolescenti, del fatto che i ragazzi non sono abbandonati a se stessi con una scatoletta di anticoncezionali come unica difesa dalle loro passioni e dai loro errori. E, in parte, è merito anche della Chiesa cattolica, che continua a insegnare che i rapporti sessuali sono molto più di una ginnastica piacevole da praticare senza freni senza correre rischi. La Chiesa considera infatti la vita sessuale degli esseri umani come una delle prove più significative della loro maturità umana e spirituale, una prova da affrontare con preparazione e serietà, cioè da collegare a scelte di vita fondamentali come il matrimonio, e quindi alla fondazione di una famiglia in cui la procreazione costituisce uno dei fini principali. La Chiesa insegna rispetto per il proprio corpo, che significa dare importanza e peso agli atti che si compiono con esso, a non considerarli solo possibilità di divertimento o di appagamento narcisistico: e questo è proprio il contrario di quanto dicono i suoi critici. I cattolici quindi non possono accettare che la vita sessuale venga considerata materia di insegnamento come un’attività qualsiasi, la quale presenta dei pericoli che sarebbe meglio evitare; come ben si sa, poi, i giovani sono spesso attratti dai pericoli, e si impegnano a evitarli solo se vengono educati alle ragioni profonde di un diverso comportamento morale».

La redazione

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Gli studi sull’elettricità nati nell’alveo cattolico

Scienziati dunque credenti 
 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Nella storia della cultura, l’Italia, il paese cattolico per eccellenza, non è solo la patria dell’arte, delle cattedrali, la terra di Giotto, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Bernini eccetera, ma anche la culla della scienza.

Le università italiane infatti hanno un ruolo fondamentale, sin dal basso medioevo, nella creazione di una cultura scientifica in campo anatomico, astronomico, medico… Italiane sono anche le due prime accademie scientifiche, l’Accademia del Cimento di Firenze e l’Accademia dei Lincei di Roma. Nel nostro paese si formano personalità di spicco, sia italiane, che straniere. Sino al grande Galilei. La vulgata vorrebbe che proprio il processo allo scienziato pisano segni una frattura tra mondo della scienza e Italia cattolica e papalina. Non è così. Per altri centocinquant’anni circa, infatti, cioè sino alla grande crisi dovuta alle invasioni napoleoniche ed al cosiddetto Risorgimento (gli anni in cui perdiamo ogni primato culturale, medico, scientifico…), il nostro paese rimane al centro di grandi progressi e di grandi scoperte. Ad esempio nel campo dell’elettricità, in cui si segnalano gli immensi e imprescindibili contributi di Luigi Galvani ed Alessandro Volta.

La loro storia, poi, insieme a quella di molti altri pionieri nel campo dell’elettromagnetismo, ci riconduce ancora una volta al rapporto fecondo, e per nulla conflittuale, tra scienza e fede. «William Gilbert (1540-1603) osservò, in modo sistematico, che circa una ventina di corpi, oltre l’ambra, sono in grado di attrarre a se leggeri corpuscoli; tra questi, lo zolfo, il vetro, la gommalacca, le resine solide e molte pietre dure. Egli chiamò questi fenomeni elettrici dal nome greco dell’ambra (electron) e per misurare l’intensità delle forze attrattive utilizzò uno strumento, precedentemente descritto da Girolamo Fracastoro (1483-1553), costituito da un piccolissimo e leggerissimo ago (versorium non magneticum), girevole sopra un sostegno a punta. Successivamente Francesco Lana rese lo strumento più sensibile sospendendolo mediante un filo. Nel 1629 Nicola Cabeo (1585-1650) osservava il fenomeno della repulsione elettrica, notando come le pagliuzze, attratte dal corpo elettrizzato, vengono successivamente da questo respinte, dopo averlo toccato». Inizia così una breve storia degli studi sull’elettromagnetismo a cura del fisico G. Bonera, dell’Università di Pavia. A queste poche righe, visti gli interessi specifici di questa nostra ricerca si potrebbero fare alcune postille: prima di Gilbert, l’unico studio di un certo valore, anche sperimentale, sul magnetismo, era stato condotto nel XIII secolo dal frate Petrus Peregrinus; quanto a Francesco Lana, era un sacerdote gesuita; così pure Nicolò Cabeo. Come inizio, ai fini del presente capitolo, non è male.

Ma facciamo un salto in avanti, arriviamo ai due giganti in materia: Luigi Galvani (1737-1798) ed Alessandro Volta (1745-1827). Il primo, bolognese, medico, fisico, anatomista, professore universitario, è ricordato come lo scopritore dell’elettricità animale e per le svariate applicazioni dell’elettricità, come la cella elettrochimica, il galvanometro e la galvanizzazione.  Ebbene, Luigi Galvani era uomo di profonda fede cattolica, terziario francescano, che non ometteva mai di collegare la sua attività di scienziato, curioso e amante della realtà, con la sua religiosità e la sua convinzione che nella natura sia visibile il suo Creatore (C. Mesini, Luigi Galvani, terziario francescano, Vallecchi, Firenze 1938). Si può qui ricordare parte del sonetto scritto dal Galvani in occasione della morte della sua amatissima moglie: «Poiché tu mi lasciasti a pianger solo/Dolce Consorte, e del tuo fral disciolta/ alla Magion del Ciel ten gisti a volo/quai sien miei giorni per pietade ascolta./ Gemo e per volger d’ore non consolo/l’alma, che ho sempre al tuo partir rivolta/e pace ho sol allorchè sfogo il duolo/ quella tomba in baciar, che t’ha raccolta./Non però chieggio al mio penar s’accordi/ fine, ma sol che tu pietosa a Dio/l’offra, onde i falli miei più non ricordi/…».

Contemporaneo del Galvani fu Alessandro Volta, l’altro gigante degli studi sull’elettricità. Il conte Volta, vita dimessa, animo sereno e amichevole, carattere amabile, a dire di tutti, fu un grande scienziato sperimentale ed inventore. Fu ingegno così versatile da offrire contributi nel campo dell’elettrostatica, elettrometria, meteorologia, chimica, pneumatica e geologia, termologia… a lui dobbiamo sopratutto l’invenzione della pila, il primo generatore di corrente continua nella storia dell’umanità, con cui ebbe inizio la moderna era dell’elettricità e che Einstein definì “la base fondamentale di tutte le invenzioni moderne” (da Volta prende nome il “volt”, l’unità di misura della differenza di potenziale che Volta definiva come “tensione”). Ebbene, leggendo una biografia di Volta, si può scoprire che i suoi interessi nel campo dell’elettricità, nati senza dubbio anche grazie all’eccellenza della scuola dei Gesuiti in cui studiò, e al gabinetto privato di storia naturale che un amico, il sacerdote Giulio Cesare Gattoni, fisico per passione, gli mise a disposizione, sorsero già a diciassette anni, allorché «si diede a meditar profondamente le opere del padre Beccaria sull’elettricità naturale ed artificiale, l’opera di Nollet ed altre» (G. Dioguardi, La scienza come invenzione. Alessandro Volta, Sellerio, Palermo 2000, pp. 36 ss.).

Chi erano questi due personaggi, con cui Volta si sarebbe a lungo confrontato, con apprezzamenti e critiche (in particolare col primo, cui indirizzò persino la sua prima memoria, pubblicata nel 1769, De vi attractiva ignis electrici ac phoenomenis inde pendentibus)? Beccaria (1716-1781) era un sacerdote scolopio, allora celebre professore di matematica nella Regia Università di Torino, membro della Royal Society di Londra, definito “il più insigne fisico elettrizzante italiano dell’epoca”. Beccaria fu considerato in Europa come «l’uomo che seppe abbinare teoria e pratica. In particolare nel progetto e realizzazione della prima macchina basata sul nuovo fenomeno: il parafulmine. Protesse così San Marco a Venezia, il Palazzo del Quirinale a Roma, il duomo di Milano, polveriere e navi della repubblica di San Marco. Beccaria può essere a ragione considerato come il padre dell’Elettricismo italiano perché stimolò numerosi validi ricercatori, da Volta a Cigna, a operare nella nuova disciplina, con il consenso e molte volte con un dissenso che sapeva essere aspro – aveva infatti un carattere alquanto difficile-, ma sempre dando esempio di rigore e di un vero metodo galileiano».

Chi era invece Jean Antonie Nollet (1700-1770)? Sacerdote, professore di fisica a Parigi, Torino, Bordeaux, Bologna… Fu autore della scoperta del fenomeno dell’endosmosi, e di notevoli ricerche di elettrologia, che lo portarono, fra l’altro, a enunciare una teoria del “fluido elettrico”. Inventò il primo elettroscopio, poi messo a punto da Volta, nel 1747. E gli altri amici e corrispondenti di Volta? La seconda memoria del fisico comasco fu dedicata al sacerdote don Lazzaro Spallanzani, professore a Pavia (che tra le altre cose, per il suo studio del 1793 sul volo dei pipistrelli, grazie al “sesto senso” degli ultrasuoni, è il padre più remoto del radar e dell’ecografia). Fu invece a Joseph Priestly, nel 1775, che Volta annunciò la sua prima invenzione, l’elettroforo perpetuo. Priestly era un teologo e pastore protestante, che oltre ad aver isolato l’acido cloridrico e l’ammoniaca, ad aver scoperto un nuovo gas infiammabile, l’ossido di carbonio, e ad aver semplificato le tecniche per la preparazione e conservazione dei gas.

Chi fu, per concludere, il successore di Volta sulla cattedra di Fisica di Pavia, nel 1804? L’abate barnabita Pietro Configliachi, destinato a divenire rettore dell’intera università nel 1811. L’enciclopedia Treccani ricorda che “il Volta dimostrò la sua amicizia al Configliachi con incoraggiamenti e consigli, collaborando con lui in alcune esperienze e stimandolo tanto da indirizzargli la lettera sulle esperienze da intraprendersi sulle torpedini (Como, 15 luglio 1805), e da permettere che pubblicasse la sua memoria sull’identità del fluido elettrico col fluido galvanico”. Sarà un altro religioso, questa volta non più operativo a Pavia, l’abate veronese Giuseppe Zamboni, ad inventare, nel 1812, l’elettromotore perpetuo e la pila elettrica a secco (di lunga durata, risolve alcuni difetti delle pile voltiane), scoperta che l’autore comunicò per lettera ad Alessandro Volta, e che gli valse la fama in Europa, e la collaborazione con Ampère, Wollaston, Faraday, e Dalton.

Ma cosa pensava Volta in relazione alla fede? Sappiamo con certezza che era un credente esemplare: andava a messa tutti i giorni, recitava il Rosario quotidiano e nei pomeriggi festivi spesso spiegava il catechismo ai fanciulli nella sua chiesa parrocchiale di san Donnino di Como (vi è ancora oggi, nella chiesa, una lapide a ricordarlo). Il Vanzan ricorda due episodi significativi, entrambi del 1815, «che meglio illustrano non solo la coniugazione di fede e scienza in Volta, ma anche il suo zelo nell’aiutare quanti si trovavano in crisi di fede. Anzitutto c’è l’incontro con Silvio Pellico nella dimora estiva dei conti Porro, testimoniato nella lettera del Pellico al Porro (22 settembre 1815). Da una successiva lirica del Pellico (il carme “Alessandro Volta”, ndr) sappiamo che egli allora era praticamente ateo e che il Volta rispose con tali argomentazioni da mettergli in cuore quel germe di fede che poi maturerà nel carcere dello Spielberg. L’altro episodio riguarda la “professione di fede”, inviata al canonico G. Ciceri di Como (lettera n. 1.703), in cui testualmente scrive: “Ho mancato è vero nelle buone opere di Cristiano Cattolico e mi son fatto reo di molte colpe, ma per grazia speciale di Dio non mi pare d’aver mancato gravemente di fede, e certo sono di non averla mai abbandonata. Se quelle colpe e disordini miei han dato luogo a taluno di sospettare in me anche l’incredulità dichiaro apertamente a lui, e ad ogni altra persona, e son pronto a dichiarare in ogni incontro, ed a qualunque costo, che ho sempre tenuta e tengo per unica vera ed infallibile questa Santa Religione, ringraziando senza fine il buon Dio d’avermi infusa tal fede in cui mi propongo di vivere e morire con ferma speranza di conseguire la vita eterna» (S. Bergia at al., Dizionario Biografico degli Scienziati, Zanichelli, Bologna 1999, pp. 1496-1498 e P. Vanzan, Alessandro Volta: l’uomo, lo scienziato, il credente, in «Civiltà Cattolica», 150 (1999), q. 3577, 13-26)

Per concludere non si può non ricordare, almeno en passant, altri tre grandissimi protagonisti di questa storia, dell’elettricità e del magnetismo: Michael Faraday (1791-1867), membro della Sandemanian church (cristiana-protestante), cui si devono le “leggi di Faraday”, l’“effetto di Farady”, la “gabbia di Faraday” ecc.; il francese Andrè Marie Ampère (1775-1836), mentore ed amico di Cauchy, cui è dedicata l’unità di misura “ampére” e Guglielmo Marconi (1874-1937), inventore della radio e premio Nobel per la Fisica nel 1909. Tutti e tre professarono apertamente la loro fede in Dio e in Cristo.

Riguardo al primo, un suo biografo racconta che Faraday era «continuamente invitato ad essere ospite di potenti e nobili, ma egli avrebbe voluto, se possibile, declinare, preferendo visitare la sua povera sorella, assisterla, bere il the con lei e leggere la Bibbia e pregare» (J. Kendall, Michael Faraday: Man of Simplicity, Faber and Faber, London 1955, p. 171). Andrè Marie Ampère, di nobile famiglia francese, ricevette dai genitori una fede cattolica molto solida, che fu messa certamente alla prova, in svariate circostanze, sia dallo spirito dei tempi che da alcuni avvenimenti dolorosi della sua vita, quali la morte della moglie. Il pensiero delle “cose eterne” e la preghiera rimasero elementi costanti della sua vita intellettuale, come testimonia questa lettera da Bourg alla moglie malata (1803): «Le idee su Dio e sull’eternità sono dominanti tra tutte quelle che eccitano la mia immaginazione, ed a seguito di alcuni pensieri e riflessioni assai singolari, i dettagli dei quali sarebbero troppo lunghi da esporre, ho deciso di chiederti i Salmi di François de la Harpe che dovrebbe trovarsi in casa, rilegati – mi sembra – in verde, e un libro delle Ore a tua scelta».

Quanto infine a Guglielmo Marconi, basti questa testimonianza postuma della figlia Maria Elettra, apparsa su «La Repubblica» del 10 febbraio 2011. Ella ricorda così l’amicizia tra suo padre a il papa Pio XI: «Fu Pio XI in persona a chiedere a mio padre di progettare la radio Vaticana verso la fine degli anni Venti. E mai invito fu accettato con più grande entusiasmo. Mio padre aderì sia come scienziato che come credente». Pio XI, continua la figlia di Marconi, «oltre ad essere un grande pontefice era un uomo di scienza, legato a mio padre da una profonda amicizia. Un Papa moderno che vedeva nella ricerca scientifica e nel progresso doni di Dio che ogni persona illuminata deve mettere a disposizione dell’umanità. Con questi sentimenti il Papa si rivolse a mio padre». Il quale lavorò alla radio Vaticana «per circa due anni con grande emozione, perché anche lui era affascinato dall’idea che la sua radio sarebbe stata un potente mezzo per far arrivare la voce del Papa in tutto il mondo. Una voce, mi ricordò spesso, che parlava di pace, amore e fratellanza». Quando terminò il progetto, Marconi era “emozionatissimo”, «specialmente quando invitò Pio XI a parlare al primo storico microfono da lui ideato e che ora è esposto nella sala di ingresso della Radio Vaticana. Mio padre era veramente felice per la riuscita di quell’impresa. Come pure papa Ratti che ci ha sempre invitato in Vaticano in lunghissime amichevoli udienze che duravano anche 2-3 ore. Io, pur essendo piccolina, ero sempre presente…».

Da Scienziati dunque credenti, Cantagalli, II edizione, 2013

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“Nessuno è mai stato ucciso in nome dell’ateismo”, davvero?

NoAtheismLa vulgata comune in certi ambienti molto secolarizzati è che la religione abbia ucciso miliardi e miliardi di persone, in nome della religione, mentre anche se i peggiori dittatori della storia furono tutti atei dichiarati e impostarono sempre l’ateismo di Stato (Albania, Cina, Corea del Nord, Unione Sovietica, Cambogia ecc.), “nessuno è mai stato ucciso in nome dell’ateismo”.

Certamente è vero che alcune religioni hanno fin nei propri semi la prevaricazione con la forza sugli “infedeli”, mentre altre -come il cristianesimo– hanno alla base un messaggio d’amore. Tanti cristiani e tanti uomini di Chiesa hanno commesso abomini e violenze, spesso convinti che fosse la volontà di Dio, ma sempre lo hanno fatto tradendo il Vangelo e gli stessi principi che avrebbero dovuto difendere.  Se dunque si devono condannare questi comportamenti e chiedere scusa per essi, occorre anche rispondere alle accuse generalizzate e storicamente infondate che arrivano dalla cultura laicista.

Innanzitutto, ne abbiamo già parlato, gli studi -come “Encyclopedia of Wars” di Charles Phillips e Alan Axelrod- evidenziano che nella lista delle principali 1763 guerre della storia, meno del 7% hanno avuto una causa religiosa e generato meno del 2% di tutte le persone uccise in guerra. I conflitti armati, anche se portati avanti da autorità religiose, sono sempre stati motivate da conquista territoriale, controllo delle frontiere per rendere sicure le rotte commerciali o rispondere a all’autorità politica.

Passando alla frase “nessuno è mai stato ucciso in nome dell’ateismo”, essa può essere pronunciata soltanto da chi non conosce il Novecento, il cosiddetto “secolo ateo” che vide per la prima volta nella storia l’esplosione del rifiuto pubblico di Dio e i primi tentativi di creare sistemi sociali e politici privi di religione e ostili ad essa, come l’illuminismo aveva soltanto teorizzato. Il ‘900 è stato il secolo ateo perché è stato il secolo marxista, e viceversa. Lo stesso Karl Marx ha detto: «la religione è l’oppio dei popoli», ma in Economic and Philosophic Manuscripts of 1844 ha anche aggiunto: «Il comunismo incomincia fin dall’inizio con l’ateismo. Anche se l’ateismo è diverso dal comunismo, l’ateismo è ancora per lo più un’astrazione».

Vladimir Lenin, il tremendo dittatore sovietico, ha invece affermato: «Un marxista deve essere un materialista, cioè, un nemico della religione, ma una dialettica materialista si basa non sulla lotta contro la religione in modo astratto, non sulla base della distanza puramente teorica, non variando la predicazione, ma attraverso un modo concreto, sulla base della lotta di classe, quello che sta avvenendo oggi, ed è educare le masse più e meglio di quanto possa fare ogni altra cosa». Ed ancora, Lenin spiegava: «La base filosofica del marxismo, come Marx ed Engels hanno più volte dichiarato, è il materialismo dialettico -che si è completamente ripreso dalle tradizioni storiche del materialismo del XVIII secolo in Francia e di Feuerbach (prima metà del XIX secolo) in Germania-, un materialismo che è assolutamente ateo e positivamente ostile a ogni religione». Non solo l’ateismo, ma anche il darwinismo influenzò il pensiero di Marx, Lenin e Stalin. «In queste ultime settimane ho letto un sacco di cose. Tra gli altri, il libro di Darwin “Natural Selection”. Anche se è sviluppato nel grezzo stile inglese, questo è il libro che contiene la base della storia naturale per la nostra visione», disse Marx nel 1860.

L’Unione Sovietica è stata ufficialmente atea dal 1917 al 1992, fino a quando salì al potere Gorbacev. Ed infatti la persecuzione dei cristiani in Unione Sovietica è stata violentissima: 28 vescovi e 1200 sacerdoti sono stati assassinati soltanto da Leon Trotsky. Dopo Lenin e Stalin oltre 50.000 sacerdoti sono stati uccisi, molti sono stati torturati, crocifissi e mandati nei lager. La maggior parte dei seminari sono stati chiusi, la pubblicazione della scrittura religiosa è stata vietata, abolito l’insegnamento religioso nelle scuole, nel 1922 messe fuori legge le canzoni e le celebrazioni religiose anche all’interno delle abitazioni private. «La Russia diventò rossa con il sangue dei martiri», ha detto padre Gleb Yakunin, militante dei diritti umani della Chiesa ortodossia. Secondo fonti della Chiesa russa, fino a cinquanta milioni di credenti ortodossi sono morti nel XX secolo a causa della persecuzione comunista.

L’ateismo (scientifico) divenne materia obbligatoria nelle università sovietiche, tanto che la poetessa russa Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, docente dal 1991 presso la Facoltà di Filologia dell’Università di Mosca e nominata cavaliere della Repubblica francese nel 2005, ha raccontato: «Nessuno dei progetti utopici del regime come l’ateismo di stato o l’arte e le scienze manipolate dall’ideologia riuscì a realizzarsi allo stato puro. Ma pur nella loro parziale attuazione hanno generato fiumi di sangue, degradazione e ignoranza in tutti i campi».  Ne ha parlato anche Andrey Kuraev, laureatosi in “Teoria e storia dell’ateismo scientifico”, oggi cristiano: «Noi, gli studenti, specializzandi in ateismo scientifico, venivamo contattati dal Comitato dei Giovani comunisti di Mosca per condurre una ricerca sociologica sulla religiosità dei giovani. Ci mandavano nelle chiesa di Mosca ogni domenica in osservazione, per poi farci compilare dei questionari nei quali indicare il nome del sacerdote, il contenuto del suo sermone (specificando se era indirizzato ai giovani, se ha solo citato la Bibbia e i Padri della Chiesa o anche la stampa e la letteratura contemporanea). Dovevamo indicare anche il numero di parrocchiani e se avevamo riconosciuto dei giovani che conoscevamo».

Questo solo per quanto riguarda l’Unione Sovietica, ma bisognerebbe affrontare le altre dittature ufficialmente atee. Ancora oggi ne rimangono due: la Cina e la Corea del Nord (considerato lo Stato più persguitatore dei cristiani nel 2013 dall’agenzia americana Open Doors) dove ancora oggi i cristiani vengono discriminati in quanto cristiani, ovviamente nel silenzio imbarazzato degli aggressori occidentali della religione in nome della superiorità morale dell’ateismo.

Il premio Nobel russo Aleksandr Solzhenitsyn, spiegando le grandi tragedie del regime comunista sovietico, ha scritto: «Oltre mezzo secolo fa, quando ero ancora un bambino, mi ricordo di aver sentito un certo numero di anziani spiegare così i grandi disastri che hanno colpito la Russia: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, ecco perché tutto questo è successo”. Da allora ho speso pressoché 50 anni di lavoro sulla storia della nostra rivoluzione, producendo centinaia di libri e raccogliendo centinaia di testimonianze personali. Ma se mi si chiedessero oggi di formulare nel modo più conciso possibile la causa principale della rivoluzione rovinosa che ha inghiottito circa 60 milioni della nostra gente, non potrei essere più rispettoso alla precisione se non ripetendo: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, ecco perché tutto questo è accaduto”».

La redazione

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La voce della Chiesa nella società laica

Benedetto XVi e Giorgio NapolitanoAnche quest’anno è partito il Meeting per l’amicizia tra i popoli, organizzato da Comunione e Liberazione a Rimini. Tantissimi gli appuntamenti interessanti, questo è il programma ufficiale, che seguiremo anche grazie al nostro sito web.

Il 19 agosto è stato presentato il libro La legge di re Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI nel quale Andrea Simoncini, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università di Firenze, e Marta Cartabia, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università di Milano-Bicocca, hanno raccolto cinque grandi discorsi del Papa emerito Benedetto XVI commentati dai più autorevoli esperti in campo giuridico del mondo. Non solo cattolici, ma ebrei, protestanti, agnostici ecc. La prefazione del libro è firmata da Giorgio Napolitano, il quale ha parlato del «dato peculiare, da lungo tempo consolidatosi in Italia: la non esclusione del fattore religioso dalla sfera pubblica, “la convinzione”, al contrario, che debba laicamente riconoscersi la dimensione sociale e pubblica del fatto religioso».

La presentazione del libro è stata affidata ad un confronto tra lo stesso prof. Simoncini, autore del libro, con Paolo Carozza, professore alla facoltà di Giurisprudenza e Direttore del Kellog Institute for International Studies all’Università di Notre Dame, L.M. Poiares Maduro, costituzionalista e Ministro per lo Sviluppo Regionale del governo portoghese e Joseph Weiler, celebre giurista dell’Università di New York.

 

Qui sotto è possibile vedere il dibatitto

 

I quattro studiosi hanno riflettuto sul diritto della Chiesa ad intervenire nel dibattito pubblico (da molti negato e definito “ingerenza” o “tentativo di condizionamento”), smontando lo stereotipo che sostiene che essa basi le sue ragioni sulla Rivelazione e dunque valide solo per chi crede, sostenendo per questo la sua esclusione dal dibattito pubblico. In realtà, ha spiegato Simoncini, «sul fondamento stesso dell’ordine giuridico non c’è nulla di più lontano dalla dottrina sociale della Chiesa che fare appello ad un principio di un’Autorità, quando interviene nel dibattito pubblico. Il cuore del pensiero di Benedetto XVI è: non la Rivelazione, ma la ragione e la natura nella loro correlazione costituiscono la fonte giuridica valida per tutti».

Il prof. Carozza ha riflettuto sul rapporto tra il pluralismo delle idee nella piazza pubblica e l’annuncio del Vangelo, spiegando che «Benedetto XVI dà un certo valore al pluralismo e al dialogo, ma offre inoltre un fondamento al perché di un pluralismo vero, cioè quando esso è capace di affermare la diversità umana, completa. Non mettere da parte le proprie convinzioni per dialogare con l’altro, questo non è pluralismo! Si pensa che lo Stato sia il garante del pluralismo e dell’ordine democratico, eppure vedo sempre più il potere di esso come tentativo di omologazione, di imporre un pensiero unico che priva la società di generare idee diverse».

Weiler, da parte sua, di religione ebraica, ha a sua volta riconosciuto che «quando i cristiani entrano nello spazio pubblico per portare la propria normativa, come gli altri, portano valori che non sono basati sulla Rivelazione ma sulla ragione umana comune. Per questo il contributo del Papa è fondamentale, anche per invitare i cristiani a non avere timore ad intervenire». Tuttavia ha però individuato tre rischi importanti che possono derivare dal pensiero di Ratzinger e a cui occorre fare attenzione, aggiungendo comunque che «i discorsi di Benedetto XVI sono veri atti di coraggio, la libertà religiosa ad esempio comprende anche la libertà di dire no alla religione». Nel finale, il giurista ebreo ha detto: «Pensate alla nostra civilizzazione senza una voce cristiana vibrante e potente, non è pensabile».

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La dignità della donna nella prospettiva cattolica

Bergoglio donneIl decreto sul femminicidio sta per essere approvato dal nostro governo, un fenomeno quello della violenza sulle donne che, come dimostra la letteratura scientifica abbiamo mostrato, amplificato dall’alto numero di convivenze e divorzi (o separazioni).

La donna oggetto è un prodotto diretto della rivoluzione sessuale, che ha voluto la sua emancipazione rendendola schiava dell’immagine, mercificando il suo corpo (pornografia) e allontanandola dalla sua dignità. Amore libero, sesso libero, divorzio facile ecc. avrebbero dovuto liberare l’umanità, ha commentato Francesco Agnoli. Accantonato il vecchio concetto di peccato, di concupiscenza, e di temperanza, e tutto il patrimonio rétro del cristianesimo, avremmo dovuto vivere in un mondo sessualmente soddisfatto e felice. Ma evidentemente non è andata così.

La storia insegna che solo nell’alveo cattolico la donna ha trovato la sua vera dignità: il cristianesimo, ad esempio, eliminò il concetto di proprietà: essendo innanzitutto figli di Dio, i bambini e la donna non potevano più essere trattati come una mero possedimento da parte del maschio. «Il rispetto della donna è una delle grandi innovazioni del cristianesimo», ha spiegato il laico Jacques Le Goff, celebre storico del medioevo. «Pensiamo alla riflessione che la Chiesa ha condotto sulla coppia e sul matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, un atto che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti. Il matrimonio diventa impossibile senza l’accordo dello sposo e della sposa, dell’uomo e della donna: la donna non può essere data in matrimonio senza il suo consenso, essa deve dire sì».

Tempo fa avevamo proposto un video realizzato da due fidanzati cattolici Jason & Crystalina nel quale esponevano agli studenti di una scuola americana le convincenti ragioni per la castità prematrimoniale. In questo secondo video, Jason Evert -che intanto è divenuto marito di Crystalina- ha voluto, da uomo, mandare un messaggio alla donna, invitandola a ribellarsi all’uomo violento, a chi la vede come oggetto sessuale, spronandola a ritrovare la sua vera dignità. Nel video emerge in modo chiaro l’altissima concezione della figura femminile insita nel cristianesimo.

 

Qui sotto il messaggio alla donna di Jason Evert

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Se il relativismo è vero, perché le leggi russe sarebbero sbagliate?

Leggi russiaLa domanda che ci facciamo è molto semplice: se il relativismo è vero, cioè se non esiste alcun Dio e dunque alcuna norma etica assoluta conoscibile dall’uomo, se non esistono un bene e un male oggettivi e definitivi a priori, se tutto dipende dal bias degli appartenenti ad una data società, se la morale è semplicemente il costume del proprio paese e l’attuale sensazione dei propri coetanei”, con quale autorità e su quali basi si afferma che la legge contro l’omosessualismo di un Paese estero come la Russia è sbagliata (ma anche Moldavia e Lituania, che hanno applicato la stessa legge anche nel loro territorio)?

In una civiltà secolarizzata, ci ripetono laici e omosessuali, non può esservi nulla di intrinsecamente sbagliato. Dunque perché una legge approvata in maggioranza dai rappresentanti dei cittadini di uno Stato sarebbe sbagliata? Sbagliata rispetto a cosa? E se il relativismo è il nostro approccio alla realtà, se la morale non si basa sul diritto naturale, chi decide che le leggi americane “pro-gay” sarebbero “migliori” o “superiori” o “più etiche” di quelle russe? Leggi giuste o sbagliate rispetto a cosa? Chi è il giudice e qual è il metro di confronto? Al massimo sarà un’opinione personale, ma di certo nessuno è autorizzato ad imporre la propria opinione, o quella di molte persone, ad uno Stato estero che in maggioranza ha approvato determinate leggi.

Secondo molti media occidentali, in Russia i gay sarebbero perseguiti per legge e fucilati, buttati nei gulag sovietici aperti ancora una volta appositamente per loro. La realtà è ben diversa. Il sociologo Massimo Introvigne ha spiegato che la legge firmata dal presidente Putin il 30 giugno 2013 ha modificato l’articolo 6 comma 21 del Codice Federale sulle Contravvenzioni Amministrative, che – come dice il nome – si occupa di reati minori puniti normalmente con un’ammenda anziché con una pena detentiva. Il nuovo comma 21 vieta la propaganda, rivolta a minorenni, di «relazioni sessuali non tradizionali», e recita quanto segue: «S’intende per propaganda l’atto di distribuire a minorenni informazioni che (1) hanno lo scopo di creare atteggiamenti sessuali non tradizionali; (2) rendono attraenti i rapporti sessuali non tradizionali; (3) sostengono che il valore sociale delle relazioni sessuali tradizionali e non tradizionali è lo stesso; e (4) creano un interesse per le relazioni sessuali non tradizionali». Chi si rende responsabile di questa propaganda presso i minori non viene torturato o messo in croce – come si potrebbe credere leggendo certa stampa – ma deve pagare una multa massima di cinquemila rubli (114 euro).

Austin Ruse era in Russia poche settimane fa e ha spiegato: «ho visto alcuni travestiti in strada vicino al Cremlino, nessuno di essi veniva arrestato o picchiato. Cercando con Google “Gay Mosca” ho trovato discoteche, bar, stabilimenti balneari, e feste da ballo per soli omosessuali. I gay in Russia vivono nelle catacombe sempre timorosi della loro vita? Giudicate voi», ha scritto. La legge russa non c’entra nulla con le bande di teppisti neonazisti che ogni tanto picchiano gli omosessuali. Si tratta di violenze assolutamente deplorevoli e da condannare senza riserve e la legge russa le punisce. La chiave del comma 21 vieta la propaganda «rivolta a minorenni», non l’apologia dell’omosessualità rivolta a maggiorenni, in pubbliche conferenze o altrove, purché non vi partecipino minori. Una legge che evita ai minori di venire confusi da pratiche moralmente e sessualmente disordinate (non solo quelle omosessuali, ovviamente), come insegna anche la Chiesa cattolica, non è per nulla malvagia.

In risposta delle sciocche proteste occidentali contro la Vodka russa o le sterili polemiche di alcuni sportivi americani che partecipano ai Giochi olimpici (vietate ora dal comitato olimpico), la campionessa russa Yelena Isinbayeva ha semplicemente spiegato: «In Russia non abbiamo mai avuto questi problemi e non ne vogliamo avere nemmeno in futuro. Se si permette che vengano promosse e fatte certe cose per strada, è giusto avere molta paura per il futuro del nostro Paese. Noi ci consideriamo persone normali. Viviamo soltanto uomini con donne e donne con uomini. Certi atteggiamenti e certe parole sono irrispettosi verso il nostro Paese e per i nostri cittadini. Siamo russi e forse siamo differenti rispetto agli europei. Ma abbiamo la nostra casa e tutti devono rispettarla. Quando noi andiamo negli altri Paesi, cerchiamo di rispettare le loro regole senza interferire». Il “Fatto Quotidiano” non potendo augurarle di essere stuprata per queste parole, come invece ha fatto un dirigente del Partito Democratico (con delega ai diritti umani!), ha dovuto parlare di “scivolone”. Ma quale scivolone, la Isinbayeva sa benissimo quel che dice e lo ha ripetuto in diverse altre circostanze (nonostante i furbissimi quotidiani in questo caso abbiano parlato di “marcia indietro”)!

Se dunque la legge russa non è così terribile come la si descrive, la domanda provocatoria resta: se non esiste alcun criterio oggettivo in base a cui giudicare l’operato di un uomo o di uno Stato (tutto è relativo e soggettivo, ci viene detto), chi osa affermare che una legge di un Paese estero non è cosa buona e giusta? Su cosa si fonda questo bene e questo male? La risposta è una: se si vuole condannare una legge anti-gay occorre necessariamente abbandonare il relativismo e ammettere l’esistenza di qualcosa di sbagliato in modo assoluto -nel proprio Paese o in quello estero-, come la criminalizzazione degli omosessuali. Chi dice che tutto è relativo e nega un principio morale pre-esistente all’uomo sostiene che picchiare un’omosessuale non è sempre sbagliato ma dipende dall’opinione personale (è relativo!). Invece è sbagliato sempre, ed è una norma etica che ogni uomo trova dentro di sé e che che la tradizione cristiana chiama “diritto naturale”. Il secondo errore commesso dai critici delle leggi russe è non conoscere quel che criticano: queste leggi vietano la propaganda omosessuale verso i minori (pena un’ammenda di 114 euro), per la loro salvaguardia morale. Quanti genitori in Italia e in America sarebbero d’accordo che ai loro figli -di 8, 10, 15 o 16 anni- venisse proposto e apologizzato il comportamento omosessuale come atteggiamento normale e naturale da sperimentare il più possibile?

La redazione

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Il dolore e l’inganno del traffico di uteri e neonati

Utero in affitto 
 
di Costanza Miriano*
*giornalista e scrittrice
 
da “Avvenire”, 06/08/13
 
 

Caro bambino che per nove mesi hai ascoltato una voce che non sentirai mai più, che hai mischiato il tuo sangue con quello di una donna che non ti cambierà i pannolini né ti leggerà le storie né ti racconterà dei suoi nonni, di cui pure porterai memoria nelle tue cellule per tutta la vita; caro bambino che non hai succhiato il latte pronto nel seno per te, che hai dormito, scalciato, e vissuto per nove mesi sotto il cuore di una mamma che non ti accarezzerà mai, perché è stata pagata per sparire; caro bambino nato da un utero in affitto, ti chiedo perdono a nome dell’umanità.

Cara madre surrogata che per nove mesi hai sentito un bambino diventare grande tra le tue viscere, nutrirsi di te, del tuo sangue e del tuo liquido amniotico, del tuo respiro e della tua carne; cara madre che in un minuto sei stata separata da un bambino forse tuo anche geneticamente, di certo tuo per il sangue e per il cuore, chiedo anche a te perdono a nome dell’umanità, perché certo hai accettato di fare una cosa più grande di te per necessità, prendendo pochi spicci di quelli che tu e il tuo bambino avete messo in movimento. Se sei ancora in tempo, ti chiedo se davvero non puoi vivere senza quei soldi, se non c’è un altro modo per evitare tanto dolore.

Cari genitori che certo avete tanto sofferto per il fatto di non poter avere figli naturalmente, perché sterili o perché omosessuali, credo di poter solo immaginare il vostro dolore per il vuoto della mancanza di un figlio, la gioia più immensa che si possa avere. Ma proprio per il dolore che avete vissuto dovreste soccorrere il dolore altrui, e non moltiplicarlo. Vi prego, fermatevi: i figli non sono un diritto, e anche se il vostro dolore è grande, un vuoto accolto può diventare apertura ai bisogni degli altri in molti altri modi, per esempio l’affido e l’adozione.

Cari medici che vi rendete complici di questa barbarie, che trattate le donne come scatole incubatrici e i bambini come grumi di cellule, pronti a scegliere gli embrioni come se sfogliaste un campionario di stoffe, che maneggiate la vita e la morte come se vi appartenessero, vi auguro di capire un giorno tutto il male che state facendo, tutta la morte che avete seminato, tutto il dolore, la tristezza, l’errore, la confusione. Vi auguro di capirlo in tempo prima che la morte che portate dentro e che vi ha avvelenati abbia su di voi l’ultima parola, per sempre.

Care femministe che vi battete giustamente contro ogni forma di violenza e sfruttamento delle donne, vi chiedo di prendervi a cuore anche questa battaglia, perché non esistono una violenza e uno sfruttamento più grandi da infliggere a una donna, che quello di portarle via dal grembo il suo bambino. La nostra natura, la nostra grandezza di donne sta nell’essere a custodia e difesa della vita quando è più debole, e nessuna donna che abbia generato un figlio può non saperlo. Anche se dovesse averlo abortito, magari perché sola, in difficoltà, ingannata, non potrà un giorno evitarsi il terribile dolore di capire che ha ucciso quanto di più prezioso le era stato donato. Ogni donna sa, anche quando è troppo doloroso ammetterlo, che uccidendo suo figlio uccide se stessa.

Caro Occidente che dovevi essere un faro per l’umanità tutta, e portare progresso e benessere a tutti gli uomini, ti prego, fermati, smetti di sfruttare i poveri per i tuoi desideri. Un figlio non è solo un irresistibile fagottino che sorride e ciuccia il latte e riempie di gioia la casa (almeno fino a che i genitori riescono a proiettarsi su di lui). Un figlio è una persona, che ha il diritto di avere un padre, maschio, e una madre, femmina, possibilmente stabili, e conoscibili. O, se adottato, ha il diritto comunque di sapere la sua storia, e di farci i conti. Non vediamo quanta infelicità e tristezza continuiamo a spargere dicendo di difendere i nostri diritti? Non capiamo che quando vogliamo essere noi a dettare le regole – la vita, la morte, la paternità e la maternità tanto per cominciare – finiamo solo per soffrire noi e far soffrire gli altri?

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Odifreddi e Vattimo aizzano e giustificano la violenza

Vattimo e OdifreddiProprio in queste settimane la Procura di Roma ha chiesto il giudizio immediato per Luigi Preiti, l’uomo che il 28 aprile scorso, giorno di insediamento del governo Letta, si recò davanti a Palazzo Chigi per uccidere qualsiasi politico capitasse a tiro ma trovandosi davanti ai carabinieri decise di sparare a loro ferendone due. Nel frattempo  il capo della Digos torinese Giuseppe Petronzi ha commentato così l’ultimo attacco di 350 No Tav al cantiere di Chiomonte: «un atto di violenza allo stato puro».

Preiti e i No Tav, estremisti che si battono per motivazioni teoricamente nobili (buona politica e salvaguardia del territorio) ma che giungono alla violenza condizionati dagli urlatori, da chi ogni giorno minaccia la guerra civile contro la Casta o contro lo Stato, da chi non è capace di battersi per la sua legittima opinione in modo civile e democratico.

Questi urlatori, aizzatori e giustificatori della violenza, vivacchiano nei salotti televisivi e dei quotidiani, sono pseudo-intellettuali sessantottini, quasi sempre di estrazione comunista. Due di questi sono Piergiorgio Odiferddi e Gianni Vattimo. Il primo, notoriamente incapace ad esprimersi in un linguaggio diverso dal trogloditese, pochi giorni fa ha scritto un ennesimo post sul suo blog che aveva deciso pubblicamente di chiudere perché i responsabili di “Repubblica” gli avevano giustamente censurato il suo articolo su “Israele nazista”, ma che poi ha riaperto non sapendo affrontare il buio del dimenticatoio in cui sarebbe caduto.

Nel nuovo articolo ha raccontato ai suoi devoti la vita da pensionato torinese, tra raccomandate da ritirare alle Poste e litigio con gli impiegati chiacchieroni e poco attenti. Sul finale del noioso post, al posto degli esponenti della Chiesa, questa volta ha minacciato i politici ricordando con nostalgia i “bei” tempi della ghigliottina illuminista, patria secondo lui di diritti umani e “liberté, égalité, fraternité: «I nostri governanti, pensando a coloro che non hanno da mangiare, propongono soluzioni alla Maria Antonietta: “Che mangino soldi”. E poiché nessuno fa più ghigliottine, ci toccherà soffocarli riempendogli la gola di banconote, invece di tagliar loro la testa». Minacciare di morte i politici, dicono, è satira legittima mentre farlo con un’altra categoria di persone, gli omosessuali, è istigazione alla violenza (e per i politici gay come Scalfarotto?). Il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha messo in guardia per primo sul rischio che la violenza verbale degeneri in comportamenti eversivi, ora sapremo chi incolpare per il prossimo Luigi Preiti.

Per quanto riguarda Vattimo, poco più capace di confrontarsi in un Paese civile, si è recato in carcere a visitare Davide Giacobbe, aggressore di un poliziotto nel 2012 (il senatore Pd Stefano Esposito ha chiesto l’apertura di un’inchiesta per questo) e in una intervista ha affermato: «La vera violenza è quella dello Stato che militarizza il territorio per realizzare un’opera inutile. Ci può essere forse un po’ di illegalità, ma non è violenza. Definire sovversivi i No Tav è sicuramente un eccesso. Quella dei No Tav è una forma di pressione che ci vuole, perché la questione è stata sempre trattata senza consultare il territorio».

Eppure sappiamo bene che, oltre ad alcuni abitanti locali, la sigla No Tav è un conglomerato di anarchici insurrezionalisti, militanti dei centri sociali, black bloc, movimenti radicali fra i più vari e disparati. Difficile che gli abitanti della Val di Susa usino sassi e bombe molotov contro operai e agenti di polizia. Lo ha detto anche il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: «Non si può tollerare che a legittime manifestazioni di dissenso cui partecipino pacificamente cittadini e famiglie si sovrappongano, provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per condurre inaudite azioni aggressive contro i reparti di polizia chiamati a far rispettare la legge. Esprimo plauso e solidarietà alle forze dell’ordine che hanno subito un pesante numero di feriti, e confido che si accresca in Val di Susa, con chiari comportamenti da parte di tutti, l’impegno a isolare sempre di più i professionisti della violenza». Davvero difficile che un attento europarlamentare dell’Italia dei Valori, come Gianni Vattimo, non lo sappia.

Se la violenza è l’espressione dei deboli, la giustificazione della violenza è l’espressione degli intellettuali razionalmente deboli.

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Ciò che il buon senso già sa, la scienza conferma

Feto umano 
 
di Stefano Bruni*
*pediatra
 
 

Tanto per cominciare, sgombriamo subito il campo da possibili equivoci. La vita umana è tale, e come tale va rispettata, dal momento del concepimento al momento del suo termine ultimo.

Ciò che viene a determinarsi a seguito dell’unione di uno spermatozoo e di una cellula uovo umani è un nuovo essere umano vivente, unico ed irripetibile che, in un susseguirsi progressivo di quotidiani e meravigliosi eventi maturativi arriva ad essere, in condizioni fisiologiche in un periodo di nove mesi, quella meravigliosa creatura che è il neonato. Il quale, a sua volta, è solo uno stadio intermedio, ma non per questo meno perfetto o meno umano, di ciò che progressivamente diventerà un bambino, poi un adolescente, quindi un giovane uomo e un adulto e infine un anziano.

In questo continuo processo di sviluppo, lo zigote unicellulare di 0,1 mm di diametro circa (concepito nell’utero materno in maniera naturale ma anche prodotto in laboratorio e poi congelato), il feto in ogni stadio della sua progressiva maturazione, il neonato medio di 3,500 kg di peso per 50 cm di lunghezza, l’adulto di 70 kg e 175 cm e persino il malato terminale sceso a 35 kg di peso, tutto pelle e ossa e sofferenza, tutti sono espressione dello stesso essere umano la cui vita NON è nella disponibilità degli altri esseri umani, nemmeno in quella dei suoi cari, in primis della sua mamma.

La dignità dell’essere umano è indipendente dal numero di cellule da cui è composto il suo corpo o dal grado di maturazione dei suoi organi ed apparati, ivi incluso il sistema nervoso centrale (che, lo ricordo, non è completamente maturo fino all’età adulta, come, tra gli altri e solo a mero scopo esemplificativo, gli studi della dottoressa Sarah-Jayne Blakemore, dell’University College di Londra, hanno ampiamente dimostrato). Così come è indipendente dalle sue competenze, dalla sua coscienza di se stesso, dalla sua abilità a sopravvivere autonomamente, dalle sue capacità di rapportarsi con l’ambiente e gli altri esseri umani, dal suo stato di salute.

Dunque sopprimere la vita di un essere umano, anche se ancora in sviluppo nel grembo materno, magari da alcuni anni non è più considerato un omicidio grazie ad una legge che lo permette e lo rende “legale”, ma resta un assassinio intollerabile, tanto più perché atto violento compiuto contro un essere umano indifeso e per di più proprio da coloro (genitori e medici) che della vita umana dovrebbero maggiormente avere cura. E lo stesso vale per l’uccisione di un bambino nei primi mesi di vita, da alcuni teorizzato sulla base delle supposte “incompetenze” di quest’ultimo, sano o malato che sia (personaggi come Singer o la Warren o Tooley, sono arrivati a teorizzare l’eticità dell’uccisione di bambini dopo la nascita così come quella dei feti prima della nascita e le loro teorie hanno portato, tra l’altro, ad aberrazioni come il Protocollo di Groningen proposto da Eduard Verhagen nel 2005).

Date le suddette premesse trovo comunque molto interessanti i risultati dei nuovi studi scientifici che, in maniera assolutamente rigorosa, ogni giorno vengono pubblicati e ci spiegano come il bambino piccolo o il feto abbiano, a dispetto di quanto qualche loro detrattore si ostina a voler far credere, competenze assolutamente meravigliose se contestualizzate alle loro “proporzioni”, piccole se paragonate a quelle di un essere umano adulto. Semplicemente, oggi chi sostiene che un feto o un neonato o un bambino piccolo possono essere ammazzati in quanto non hanno competenze che si vorrebbero appannaggio solo dell’età adulta, deve prendere atto che le basi su cui poggia il proprio ragionamento non sussistono più (sempre che siano mai state una giustificazione accettabile, il che non è). Ogni giorno, nuove acquisizioni scientifiche ci dicono che l’essere umano è uno solo in tutte le fasi del suo sviluppo che sono un continuum e non c’è un dopo senza un prima; dunque non si può stabilire una “gradazione” di dignità o personalità o diritto alla vita. Almeno non se si è in buona fede.

Lo scorso Aprile, su Science (credo di non dover specificare che si tratta di una rivista scientifica peer reviewed  tra le più prestigiose) un gruppo europeo di esperti nel campo delle neuroscienze ha pubblicato i risultati di un interessante studio effettuato su un gruppo di bambini di 5, 12 e 15 mesi di vita, volto all’individuazione di un marker neurologico di coscienza percettiva. L’articolo è un po’ complesso per i non esperti ma in estrema sintesi proverò in modo semplice a spiegare cos’hanno fatto gli autori e quali sono stati i loro risultati.

Come nell’introduzione al loro lavoro dicono gli autori stessi, oggi sappiamo bene che i bambini, già dai primi mesi di vita, hanno un sofisticato repertorio comportamentale e cognitivo suggestivo della loro abilità a presentare riflessi coscienti. Tuttavia nel bimbo, che non può ancora parlare e manifestare chiaramente i propri pensieri, la dimostrazione di ciò è complicata. Questi ricercatori dunque hanno pensato di applicare ai bambini una tecnica già consolidata negli adulti per dimostrare la presenza della coscienza attraverso l’evidenza di uno specifico dato elettrofisiologico; nello specifico questa “firma” elettrofisiologica corrisponde ad una risposta corticale tardiva non lineare che viene attivata dalla visualizzazione di immagini mostrate al soggetto in studio per un breve periodo.

Nel soggetto adulto la risposta del cervello ad uno stimolo visivo (registrabile con opportuni strumenti non invasivi) si caratterizza per una prima fase (entro i primi 200-300 ms dallo stimolo) in cui l’attivazione della corteccia procede linearmente con l’intensità dello stimolo e in una seconda fase ( dopo i primi 300 ms, nei soggetti con coscienza intatta) con una nuova risposta più complessa, non lineare, appunto, espressione dell’attivazione di più aree cerebrali. Questa seconda fase permette il mantenimento della rappresentazione percettiva anche molto tempo dopo che la somministrazione dello  stimolo è cessata e corrisponde ai report soggettivi di visione. In altre parole solo la presenza della seconda fase descritta abilita l’individuo all’esperienza visiva cosciente.

Ebbene, applicando la stessa tecnica a bambini di 5, 12 e 15 mesi di età i ricercatori hanno trovato le stesse dinamiche note per l’adulto. Unica differenza: tempi di latenza (un po’ più lunghi), picchi di voltaggio e “forma” delle componenti del riflesso sono quantitativamente un po’ diverse rispetto a quanto evidenziato nei bimbi di 12-15 mesi che hanno caratteristiche più vicine a quelle dell’adulto. Ciò è evidentemente da mettere in relazione con lo stato maturativo (progressivo) delle strutture cerebrali e in particolare con la mielinizzazione di strutture che sappiamo bene comunque essere già presenti nel lattante e, prima ancora, nel feto, e con lo sviluppo dei dendriti e la sinaptogenesi che, iniziate ben prima della nascita, presentano un particolare incremento alla fine del primo anno di vita (per poi continuare per molto tempo successivamente). Questo studio dimostra quindi come anche i bambini molto piccoli sono dotati degli stessi meccanismi cerebrali responsabili della percezione cosciente la quale dunque è già presente in epoche molto precoci dello sviluppo e continua ed accelera durante lo sviluppo postnatale.

In un mio articolo precedente avevo riferito di analoghe prove, dirette e indirette, che ci permettono di affermare scientificamente che anche nel feto questa percezione cosciente è evidenziabile in epoche molto precoci dello sviluppo. Certo le suddette informazioni non possono e non devono costituire il presupposto per la scelta di un termine, del tutto arbitrario e pretestuoso, prima del quale si possa considerare lecito sopprimere una vita umana: mai è lecito sopprimere una vita umana, come già sottolineato in precedenza, perché (e questo è il valore degli studi che ho riportato) ogni momento del suo sviluppo chiaramente e inconfutabilmente rappresenta una tappa di un continuum che è la vita umana.

Non è certo perché lo dice la scienza che io credo che l’embrione, il feto, il bambino piccolo non possono essere uccisi. È semplicemente il buon senso che mi dice che io sono stato un embrione e che quell’embrione era semplicemente e meravigliosamente il primo stadio del mio sviluppo; e poi sono stato un neonato, incapace di compiere calcoli matematici o imparare poesie a memoria o guadagnarmi da vivere, dipendente com’ero per la mia stessa sopravvivenza dalla mia mamma; e poi sono stato un adolescente brufoloso, spesso più istintivo che razionale, ombroso; ed ora sono un adulto (nemmeno più troppo giovane, ahimè!). Sono stato tutto questo e tanto altro ancora dovrò essere: in altre parole sono stato, sono e sempre sarò uomo. E mi seccherebbe parecchio, ora, se qualcuno, ormai diversi anni fa, avesse deciso che non ero degno di vivere perché “incompetente”.

Il buon senso mi convince già abbastanza, dunque. Però la scienza, che alcuni vorrebbero usare per sostenere la liceità di aborto e infanticidio, al contrario mi sembra chiaro che contribuisce a rafforzare l’idea opposta.

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Stepinac, il vescovo coraggioso contro i regimi

StepinacQuando Giovanni Paolo II portò agli altari l’arcivescovo di Zagabria  Alojzije Stepinac, si levarono parecchie proteste dagli ambienti anticlericali che accusarono il papa d’aver beatificato un criminale di guerra. Alcuna pubblicistica accusa infatti il prelato d’esser stato un fiero sostenitore della politica degli ustascia e di aver taciuto o persino benedetto la loro pulizia etnica (si veda a tal proposito il libro di Marco Aurelio Rivelli “L’arcivescovo del genocidio”). Qui, come in altri casi, una mezza verità viene mischiata ad un cumulo di menzogne.

Quando nel 1941 le forze dell’Asse invasero il regno di Jugoslavia, Hitler decise che per aumentare l’instabilità della regione si sarebbero dovute dare garanzie politiche ai croati. Non appena terminata la conquista si costituì difatti uno stato croato sotto “protezione” dei tedeschi e degli italiani. A capo di questa struttura s’impose il leader degli ustascia Ante Pavelic, rifugiatosi fino a quel momento in Italia. L’arcivescovo di Zagabria accolse con favore la separazione dal regno di Jugoslavia, come fecero anche molti suoi concittadini. I croati infatti mal sopportavano quella che nei fatti era un’egemonia serba che li aveva esclusi dalle alte cariche e che discriminava i cattolici in favore degli ortodossi.

Gli ustascia iniziarono tuttavia un vero e proprio genocidio nei confronti degli ebrei e degli zingari e anche dei serbi ortodossi. Informato dei massacri, il Vaticano decise d’agire tramite pressioni diplomatiche piuttosto che con una denuncia pubblica, la scelta fu dovuta alle esigenze di equilibrio e imparzialità che la guerra imponeva, evitando prese di posizione e pronunciamenti che avrebbero potuto essere sfruttati dagli avversari, si lasciò ai vescovi locali la responsabilità di intervenire nelle questioni interne del Paese. La Santa Sede era anche cosciente del fatto che il partito ustascia era diviso fra i favorevoli all’influenza tedesca e quanti preferivano un’influenza italiana, dunque ogni intervento esplicito nelle vicende croate avrebbe rischiato di rafforzare le tendenze filonaziste, pregiudicando così la posizione della Chiesa all’interno del paese (G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano 2000 pp. 82-83, lo storico pur critico verso la Chiesa e Stepinac non condivide il giudizio di Rivelli al punto da giudicare la sua opera “non priva di forzature, palesi fin dal titolo scandalistico” ).

L’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac, dovette constatare che, nonostante fosse stato scelto dalla Santa Sede per guidare la Chiesa in Croazia, alcuni vescovi e sacerdoti non rispettavano la sua autorità. L’atteggiamento dell’episcopato fu vario: ci fu chi approvò le persecuzioni etniche, come il vescovo Ivan Saric (e anche chi vi partecipò come il frate Miroslav Flipovic, sospeso a divinis dalla Chiesa ed espulso dall’ordine dei francescani) e chi invece condannò decisamente i massacri come ad esempio il vescovo di Mostar, Alojizie Misic. Lo stesso Stepinac è stato accusato da taluni d’essere un antisemita favorevole all’Olocausto. Pur avendo espresso in alcune occasioni delle frasi antigiudaiche (pare che una volta abbia sostenuto che gli ebrei erano “i più grandi difensori e i più frequenti esecutori” del crimine dell’aborto), bisogna aggiungere che fu un tenace oppositore delle persecuzioni commesse dai nazisti. 

 

Già prima della guerra Stepinac si occupò della sorte dei rifugiati ebrei in Jugoslavia, favorendo la nascita di un comitato per la loro assistenza. Iniziative che non piacquero ad alcuni cattolici croati estremisti, che si lamentarono dell’aiuto dato agli ebrei (si sparse persino la voce che Stepinac indossasse sotto l’abito talare un distintivo ebraico), e allo stesso governo jugoslavo, che non vide di buon occhio queste iniziative (cfr. Matteo Luigi Napolitano, “Pio XII tra guerra e pace”, Roma 2002 pp. 317-330). Già nel maggio del 1941 l’arcivescovo attaccò le leggi razziali deplorando il fatto che i convertiti fossero costretti a indossare la stella di David ed estese le sue preoccupazioni anche agli altri ebrei. Dopo che ebbero inizio le prime deportazioni di ebrei e serbi, si batté invece affinché ai deportati fosse concessa un’adeguata assistenza medica e potessero tenere i contatti con i famigliari. Vedendo inoltre che la conversione poteva significare per molti serbi ed ebrei la salvezza, diede disposizioni al clero di battezzare chiunque su richiesta senza il consueto periodo di prova e di preparazione: «Quando persone di confessione ebraica o ortodossa in pericolo di vita, desiderosi di convertirsi al cattolicesimo, si presentano davanti a voi, accoglietele allo scopo di salvare loro la vita (…) Quando questi tempi barbari e tristi saranno passati coloro che si sono convertiti per fede resteranno nella nostra Chiesa, mentre gli altri ritorneranno alla loro quando sarà passato il pericolo».

Lo stesso Stepinac sospese a divinis alcuni preti della sua diocesi che si macchiarono di atrocità e si attivò non appena ebbe sentore delle voci che gli ebrei sarebbero stati deportati dai tedeschi: scrisse una lettera al ministro dell’interno Andrija Artuković per dire che: «Se effettivamente questa iniziativa è stata concepita mi prendo la libertà di rivolgermi a te per prevenire, grazie alla tua autorità, un attacco illegale a cittadini che non sono responsabili di nulla». Stepinac non si limitò solo a proteste e reclami privati, ma agì a più riprese in loro favore: prese sotto la sua protezione degli ebrei  nascondendoli nella tenuta vescovile di Brezovica, organizzò il trasporto di decine di bambini verso la Turchia, procurò cibo, vestiario, passaporti ad altri e tentò di convincere il ministro d’Italia in Croazia, Raffaele Casertano, ad accogliere dei giovani ebrei. Stepinac giunse persino a denunciare pubblicamente l’Olocausto: «Tutte le razze e tutte le nazioni sono state create a immagine di Dio (…) Non è lecito sterminare zingari ed ebrei perché apparterebbero a razze inferiori. Se si accettassero i principi nazisti, che sono senza fondamento, ci sarebbe ancora qualche sicurezza per un qualche popolo della terra?» come dichiarò il 25 ottobre 1942 nella cattedrale di Zagabria. Gli interventi della Chiesa per salvare gli ebrei croati ottennero però infine pochi risultati, ma furono più che sufficienti per fare infuriare i nazisti (“Se un vescovo parlasse così in Germania non scenderebbe vivo dall’altare” dichiarò il generale Edmond Glaise Von Hosternau> riferendosi a Stepinac). I tedeschi non esitarono anche a compiere delle rappresaglie nei confronti dell’arcivescovo per le sue dichiarazioni a favore degli ebrei come nel 1943, dove in seguito a dei sermoni contro il razzismo e l’uccisione di ostaggi, i nazisti arrestarono più di trenta sacerdoti. 

 

Il vescovo di Zagabria, come si è visto poco sopra, intervenne spesso anche in favore dei serbi, le principali vittime della pulizia etnica dei fascisti croati, sebbene giudicasse che le atrocità ustascia fossero dovute alla reazione dei croati contro le vessazioni subite dai serbi durante il regno di Jugoslavia. Per esempio, il 14 maggio 1941 Stepinac protestò contro l’eccidio di 260 serbi a Glina scrivendo a Pavelic: «Io so bene che i serbi hanno commesso gravi misfatti in questi venti anni di governo. Credo però mio dovere di vescovo di alzare la voce e dichiarare che questo non è ammissibile secondo la morale cattolica; quindi, vi prego di prendere le misure più urgenti in tutto il territorio dello stato croato indipendente, affinché non venga ucciso nemmeno un serbo se non sia dimostrato il delitto per il quale merita la morte”. L’arcivescovo si batté anche contro le intromissioni del governo ustascia circa le conversioni cattoliche forzate dei serbi, ciò fu evidente nel Sinodo che Stepinac convocò dal 17 al 20 novembre 1941. In esso i vescovi espressero la propria disapprovazione a Pavelic nella quale, pur dissociando la sua responsabilità dai suoi sottoposti “irresponsabili”, condannarono le conversioni forzate dei serbi e le atrocità degli ustascia chiedendo inoltre che i diritti della Chiesa Ortodossa andassero rispettati e che gli ebrei fossero trattati nel modo “più umanamente possibile, considerata la presenza delle truppe tedesche”. Pio XII informato sulle decisioni del Sinodo lo trovò soddisfacente e lodò il “coraggio e la decisione” dei vescovi nell’opporsi agli ustascia per il trattamento contro i serbi (cfr. M. Phayer, “Il papa e il diavolo”, Roma 2008 pp. 51-57, studioso critico verso Pio XII ma benevolo verso Stepinac).

Innumerevoli furono gli interventi di Stepinac a favore dei perseguitati: condannò i pogrom antiserbi, protestò contro la distruzione delle chiese ortodosse, intervenne per liberare il vescovo ortodosso Dositej Vasich, protestò con la deportazione della popolazione serba di Kordun, s’interessò della sorte dei deportati nel distretto di Sisak, riuscì a salvare nel luglio del ’41 300 donne serbe destinate a morte, ecc. (per alcuni suoi sforzi a favore dei serbi cfr. E. Mischia, “Il card. Stepinac, eroe della Croazia“, Studi Cattolici n. 531 pp. 364-369). Stepinac protestò anche contro il campo di concentramento di Jasenovac (che qualcuno ha, con molta fantasia, definito la “Auschwitz del Vaticano”) definendolo, in una lettera di protesta a Pavelic del 24 febbraio del ’43 contro l’uccisione di alcuni sacerdoti cattolici, “una vergognosa macchia per lo stato croato”.

 

L’atteggiamento di Stepinac verso gli ustascia è ancora oggetto di discussioni: da un lato pare che abbia posto ingenuamente fiducia in uno stato che si rilevò invece essere criminale, anche se confidò nel 1942 al tenente Stanislav Rapotec, emissario del regno di Jugoslavia in esilio, che non aveva rotto pubblicamente con il regime perché riteneva che avrebbe aiutato più facilmente i perseguitati restando al suo posto. Gli stessi ustascia paiono avere avuto verso l’arcivescovo un atteggiamento ambivalente tentando di mostrare ufficialmente dei buoni rapporti per sfruttare l’ascendete del futuro cardinale sulla popolazione, ma per contro si mostrarono talmente critici verso le continue proteste e interventi del prelato di Zagabria al punto da richiederne alla Santa Sede l’allontanamento. Le critiche di Stepinac si fecero a tal punto taglienti che il regime vietò di pubblicare le sue omelie, ma queste riuscirono ad essere ugualmente diffuse dai partigiani e da Radio Londra. Forse è per questo motivo che gli ustascia e i tedeschi lo accusarono d’essere un collaboratore dei comunisti anche se Stepinac, in una protesta contro i nazionalisti, fece notare che: “Il governo croato dovrà assumersi la piena responsabilità per la crescita dei partigiani comunisti a causa delle misure inaccettabili nei confronti dei serbo ortodossi, degli ebrei e degli zingari a imitazione di quanto fanno i tedeschi”.

Per le sue attività di salvataggio il vescovo riceverà molti e lodi e ringraziamenti al punto che il segretario del rabbino di Zagabria, Amiel Shomrony, sopravvissuto alla guerra, giungerà a chiedere che il suo nome fosse inserito tra i Giusti d’Israele. Dopo la guerra, però, il maresciallo Josip Broz Tito cominciò a colpire la Chiesa Cattolica croata sia per l’appoggio di alcuni suoi settori alle politiche ustascia, sia per diffondere il materialismo comunista. Oltre ad una feroce persecuzione, tentò anche di separare i contatti con Roma proponendo a Stepinac di fondare una chiesa nazionale croata (salvo poi richiederne l’allontanamento alla Santa Sede dopo il rifiuto dell’arcivescovo). I vescovi croati denunciarono pubblicamente la persecuzione antireligiosa in una lettera pastorale nel settembre 1945 dove si parlava di 243 sacerdoti uccisi, 169 imprigionati e 89 scomparsi.

Il regime comunista decise di processare l’arcivescovo Stepinac, unico modo per sbarazzarsene, condannandolo l’11 ottobre 1946 a sedici anni di lavori forzati con l’accusa di complicità alla politica criminale degli ustascia. Il processo fu una vera e propria farsa: molte “prove” furono fabbricate e all’avvocato difensore fu proibito d’interpellare vari testimoni e di contro-interrogare i testimoni-chiave dell’accusa. Anche molti esponenti di primo piano del regime ammetteranno in seguito la falsità del processo come il pubblico ministero, Jakov Blazevic che ammise che se l’arcivescovo fosse stato “un po’ più flessibile politicamente” non sarebbe stato processato. Pio XII difese a spada tratta l’arcivescovo di Zagabria scomunicando tutti quelli che erano implicati nel processo. Anche molti non cattolici presero le difese di Stepinac, come il presidente della comunità ebraica degli USA, Louis Breier, che dichiarò all’indomani del processo: “Questo grande uomo di Chiesa è stato accusato d’essere un collaboratore nazista. Noi ebrei lo neghiamo. È uno di quei rari uomini che si sono levati contro la tirannia nazista proprio nel momento in cui era più pericoloso farlo”. Le polemiche contro la condanna di Stepinac furono così elevate che il presidente della Croazia, Vladimir Bakaric, cercò di convincerlo a chiedere la grazia, ma il vescovo rifiutò pretendendo anzi una revisione del processo di fronte ad un tribunale indipendente. Nel 1992 uno dei primi atti del nuovo governo croato fu una dichiarazione di condanna al processo intentato dal regime comunista al prelato cattolico (G. Mattei, “Il cardinale Alojzije Stepinac”, Città del Vaticano 1999 pp. 46-50).

Nel 1951, sotto le pressioni americane, Tito trasferirà l’arcivescovo dalle carceri di Lepoglava al domicilio coatto presso la sua parrocchia di origine di di Krasich, impedendogli comunque di riprendere possesso della sua diocesi. Quando Pio XII lo nominerà cardinale, Tito romperà le relazioni con la Santa Sede. Stepinac morirà nel 1960 a causa di una malattia contratta in carcere, ma esiste la testimonianza di un carceriere che afferma d’averlo avvelenato (cfr. Giovani Sale, “Il cardinale Stepinac, un sostenitore dei «Diritti di Dio» e dell’uomo”, La Civiltà Cattolica 5 dicembre 1998).

 

L’arcivescovo Stepinac non fu un criminale di guerra, ma una persona che si operò per salvare delle vite umane. Se di lui si ha un’immagine diversa forse ciò è dovuto in buona parte, come ha ipotizzato lo storico Sergio Romano, alla persistenza della vulgata comunista negli studi storici italiani.

Mattia Ferrari

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