Le nozze gay sono anticostituzionali

Aldo Vitale 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

Plutarco riteneva che non vi fosse nulla di più degno per la bellezza dell’indagine filosofica, del matrimonio. Allo stato attuale, però, lo stesso Plutarco, pur con tutta la sua profondità, si troverebbe in difficoltà posto che oggi è il concetto stesso di matrimonio ad essere stato sballottato dalle correnti ideologiche fuori dalla sua secolare e sicura rotta di navigazione, fin sulle aride secche dell’anti-giuridicità.

Il problema del matrimonio deve necessariamente essere collegato con quello della famiglia ed entrambi esaminati sotto la luce più opportuna, cioè quella biogiuridica, ovvero dalla disciplina che nasce dall’incontro del diritto, della morale e della filosofia, cioè dal triplice uso della ragione. Si potrebbe occupare un vero e proprio spazio enciclopedico per esaminare adeguatamente i suddetti problemi, tuttavia si possono effettuare delle brevi, ma non per questo meno incisive, considerazioni su di essi, incentrando l’attenzione soprattutto intorno all’articolo 29 della Costituzione italiana.

Prima di esaminare il portato costituzionale, occorre fare mente locale e ricordare velocemente le due prospettive circa la famiglia e il matrimonio che, soprattutto negli ultimi due secoli, si sono fronteggiate, cioè da un lato l’idea che la famiglia sia un prodotto sociale, dall’altro, invece, la concezione della famiglia come società naturale intesa soprattutto come elemento costitutivo della socialità della società medesima in quanto essa stessa, la famiglia, ontologicamente sociale, relazionale. Come fondamento della prima prospettiva, cioè la famiglia come prodotto sociale, non può evitarsi la tradizione marxiana e marxista. Come è noto, infatti, per Marx il diritto, la morale, la religione sono delle sovrastrutture, degli orpelli dell’esistenza determinati sul piano storico-sociale soltanto dall’univa vera struttura, cioè i rapporti economici, ovvero il controllo dei fattori di produzione da parte di una classe sociale storicamente determinata.

Sull’esempio della dottrina marxiana, Alexandra Kollontaj, nota esponente del pensiero marxista novecentesco, scrive appunto che «la famiglia e il matrimonio sono categorie storiche, fenomeni che si sviluppano in parallelo con le relazioni economiche che esistono in un dato livello di produzione. La forma di matrimonio e di famiglia è determinata dal sistema economico di una data epoca, ed essa cambia come cambia la base economica della società. La famiglia come il governo, la religione, la scienza, la morale, la legge e i costumi, è parte della sovrastruttura che deriva dal sistema economico della società  ( Tesi sulla moralità comunista nella sfera delle relazioni matrimoniali, 1921 ). In quest’ottica, la famiglia e il matrimonio sono prodotti artificiali dipendenti dalla volontà del legislatore, legislatore che a sua volta traduce in forma legale le volontà, i sentimenti e i desideri della classe dominante, cioè, nella prospettiva marxista, ieri la borghesia, oggi il proletariato. Il matrimonio e la famiglia, dunque, sono soggetti al logorio del tempo, alla mutevolezza delle correnti della storia, ai capricci della classe dominante.

Nella prospettiva opposta, visione che del resto risale già al mondo classico e che si cristallizza con l’avvento dell’etica cristiana, la famiglia è una società naturale, fondamento costituivo per la società civile, per la polis, per lo Stato. Per Aristotele, infatti, «la comunità che si costituisce per la vita secondo natura è la famiglia». Occorre tuttavia intendere il senso di questa naturalità posto che proprio in natura, per esempio nelle altre specie, l’istituto familiare fondato sul matrimonio non esiste. L’antropologia filosofica in questo è stata di fondamentale importanza: gli studi di  Levi-Strauss, infatti, hanno constatato che l’istituto familiare rappresenta il punto d’incontro tra natura e cultura.

Un ulteriore sforzo filosofico, tuttavia, risulta indispensabile per comprendere in che senso la famiglia sia naturale: lo è in quanto in essa viene naturalmente in essere la socialità prima e fondante tipica dell’uomo. Essendo la famiglia fondata sul matrimonio un istituto aperto alla socialità mediante la procreazione, in essa prima e meglio che altrove viene ad essere sviluppata la natura dell’essere umano, cioè la sua relazionalità, quella caratteristica strutturale che contraddistingue maggiormente l’uomo dal resto del creato, quella che, per intendersi, Dante sintetizza nei nobili versi: «S’io m’intuassi, come tu t’inmii» ( Par. IX, vv. 81 ). Ecco allora in che senso leggere le disposizioni contenute nell’articolo 29 della Costituzione: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».

Il portato del suddetto articolo costituzionale è abbastanza evidente: lo Stato, nel suo ordinamento repubblicano, riconosce l’istituto della famiglia come pre-esistente all’ordinamento positivo stesso, cioè come società naturale – non positiva dunque, cioè non posta, non creata dal legislatore – fondata sul matrimonio, e ciò nonostante, o forse sarebbe più opportuno dire proprio per questo, riconosce e tutela i diritti della famiglia. Da questo dato normativo discendono varie conseguenze.

In primo luogo: in modo non poco esplicito il costituente ha riconosciuto l’esistenza di un diritto naturale pre-esistente all’ordinamento statuale, poiché avendo riconosciuto la famiglia come società naturale è consequenziale che tale società, in ossequio al brocardo latino per cui ubi societas ibi ius, ubi ius ibi societas, sia in quanto tale, disciplinata dal diritto naturale, cioè dalla legge naturale (quindi inaccessibile alle alchimie legislative dell’uomo, cioè universale ed indisponibile), quella legge, insomma, che è universale poiché «guida l’uomo secondo precetti generali, comuni sia ai perfetti che ai meno perfetti» (  Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 91, a.5, pag. 56 ).

In secondo luogo: il costituente avendo espressamente riconosciuto la famiglia come società naturale non ha potuto fare a meno di riconoscere anche che la famiglia come società naturale è soltanto quella fondata sul matrimonio, in quanto il matrimonio è razionalmente l’espressione della socialità naturale della famiglia, poiché nel matrimonio e dal matrimonio si instaurano i processi di socialità, cioè di interazione interpersonale, che sono disciplinati dal diritto naturale, cioè quel diritto che nella dimensione familiare regola i rapporti secondo l’ordine della ragione, facendo sì che ognuno abbia un determinato ruolo derivante dalla sua precisa essenza: cioè il ruolo di coniuge, di genitore o di figlio. Questo comporta che soltanto il matrimonio sancisce l’unione della famiglia come società naturale e che la famiglia come società naturale non è pensabile senza l’istituto ( naturale e razionale ) del matrimonio.

In terzo luogo: a tutto ciò si aggiunga, a titolo di specificazione, che il costituente ha ribadito, per quanto non si sappia con che grado di consapevolezza, che soltanto l’unione di uomo è donna è pensabile all’interno di una prospettiva che delinei la famiglia come società naturale. Avendo il costituente, infatti, riconosciuto la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio ha posto l’accento su uno dei requisiti naturali, essenziali e logici della società naturale, cioè del matrimonio: ovvero l’unione di uomo e donna. E’ consequenziale, infatti, che in tanto si può concepire il matrimonio in quanto si può concepire la maternità ( ed ovviamente la paternità ); ma la maternità è concepibile soltanto in quanto esista un rapporto tra uomo e donna ( affermazioni senz’altro lapalissiane, ma che acquistano una singolare veste di novità in un periodo storico in cui tutto è dubbio, anche e soprattutto le verità più evidenti ).

E per quanto sia vero che storicamente «l’espressione matrimonio, pur usata in contesti culturali, sociali, giuridici notevolmente differenti, sembrava e sembra alludere ad una realtà da tutti immediatamente percepita nei tratti distintivi» ( Gaetano Lo Castro, Matrimonio, diritto e giustizia, Giuffrè, Milano, 2003 ), e per quanto sia altrettanto vero che non è lo stesso il matrimonio romano ed il matrimonio cristiano, v’è tuttavia una giuridicità intrinseca – o costitutiva – della famiglia e del matrimonio; una giuridicità che deriva in modo genetico ed istantaneo dal diritto naturale, palesemente esplicitante una serie di rapporti giuridici, cioè di diritti e di doveri reciproci all’interno della coppia, in primo luogo, e della famiglia in seconda battuta. E il primo dovere è quello ricadente in capo ai singoli, cioè l’unione tra uomo e donna.

La circostanza per cui solo la famiglia intesa come società naturale fondata sul matrimonio, implichi la necessità e la esclusività del rapporto tra uomo e donna, deriva proprio dalla logica del matrimonio, direttamente desumibile dalla sua etimologia come nota laicamente, cioè razionalmente, Karol Wojtyla: «La parola latina matrimonium mette l’accento sullo stato di madre, come se volesse sottolineare la responsabilità della maternità che pesa sulla donna che vive coniugalmente con un uomo. […] Si può facilmente arrivare a questa conclusione analizzando la parola matrimonium ( dal latino matris-munia, cioè doveri di madre )» ( Amore e responsabilità, Marietti, Milano, 1983 ). La naturalità della famiglia risiede, dunque, nella logica dei doveri più naturali e consequenziali, cioè quelli derivanti dal rapporto tra genitori e figli: e soltanto un tipo di unione fondata sul rapporto tra uomo e donna è definibile come unione naturale, poiché solo questa può condurre ad munia matris, cioè al matrimonio.

La crisi attuale è semmai riconducibile alla perdita di senso e alla rivolta contro la multisecolare tradizione giuridica e filosofica occidentale, a fronte di una crescente diffusione dell’idea per cui voluntas, non ratio facit legem. Ciò che semmai desta perplessità è la circostanza per cui coloro che reclamano la dilatazione del concetto e dell’istituto del matrimonio, sono gli stessi che discendono dalla cultura marxista, cioè quella cultura che tanto si è spesa in senso contrario nel corso del XX secolo, cioè per l’abolizione del matrimonio, interpretato quale ennesimo strumento di oppressione socio-politica.

Nel furore dei desideri, forse, ci si è dimenticati, oltre che del diritto, anche della storia, nonostante sia stato Jacques Derrida a ricordarlo con estrema chiarezza appena qualche anno or sono: «Se fossi un legislatore, proporrei semplicemente l’abolizione della parola “matrimonio” e del suo concetto dal codice civile e laico. Il “matrimonio”, valore religioso, sacrale, eterosessuale con voto di procreazione, eterna ecc -, è una concessione dello Stato laico alla Chiesa cristiana, in particolare al suo monogamismo che non è né ebreo – è stato imposto agli ebrei dagli europei solo nel secolo scorso e non costituiva un obbligo nel Maghreb ebreo fino a qualche generazione fa -, né, come ben si sa, musulmano. Sopprimendo la parola e il concetto di “matrimonio”, questo equivoco o questa ipocrisia religiosa e sacrale, che non ha alcun posto in una costituzione laica, verrebbero sostituiti da una “unione civile” contrattuale, una specie di patto civile generalizzato, migliorato, raffinato, flessibile e concordato tra partner di sesso o numero non imposti» ( Sono in guerra con me stesso ).

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Eugenio Scalfari vede sfumare il futuro da senatore

Eugenio ScalfariIl presidente Giorgio Napolitano ha recentemente nominato nuovi senatori a vita: Carlo Rubbia, Elena Cattaneo, Renzo Piano e Claudio Abbado. Per quattro che entrano, tanti necessariamente vedono falliti i loro obiettivi.

Uno di questi è il celebre Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica”, un quotidiano che ha la capacità di plasmare buona parte della cultura del paese, quasi sempre in chiave laicista. «Lo zerbinaggio spregiudicato di Scalfari» ha commentato satiricamente “Dagospia”, «ai limiti dello stalking, non è servito a nulla. Il povero Eugenio, dopo aver difeso strenuamente per mesi il suo unico padrone, re Giorgio, aveva messo un’ipoteca sulla nomina di senatore a vita». Francesco Borgonovo ha riassunto su “Libero” questi anni di zelante zerbinaggio di Scalfari, pur di accaparrarsi l’agognata poltrona.

Grazie ai quattro anni di “impegno” politico diretto nei socialisti, Scalfari si è garantito 2400 euro netti al mese di vitalizio dal 1984, cioè quasi 30mila euro l’anno che in 29 anni superano gli 850mila euro. Nel 1970, lo Scalfari parlamentare, si rivolse al vigile urbano Gianfranco Baroni di Milano che gli contestava una contravvenzione, così: «Sarebbe meglio che lei facesse una cura ricostituente anziché contravvenzioni, perché lei non sa chi sono io! Io sono l’onorevole Scalfari».

Fino a qualche anno prima, esattamente come Dario Fo (uno che «rovina la gente», secondo lui), Scalfari era un militante della gioventù fascista. Lo ha raccontato Giancarlo Perna nella sua biografia non autorizzata “Scalfari – Una vita per il potere” (Leonardo editore, 1990), parlando della sua attiva collaborazione a “Roma fascista”, il settimanale del movimento dove «si mette subito in luce. Per sei mesi la inonda di corsivi e articoli. Un paio di brani, tanto per capire. E’ il 16 Luglio del 1942. Gli piace Mussolini. Ma la guerra va male. Ci sono critiche. Il ragazzo insorge: “Noi vogliamo fare del Partito la corporazione dello Spirito, simile a quella ‘Decima Corporazione’ delineata da D’Annunzio.. Noi siamo pronti a marciare, a costo di qualsiasi sacrificio, contro tutti coloro che tentano di fare mercimonio della nostra passione e della nostra fede. E ancora oggi è la stessa voce del Capo che ci guida e ci addita le mete da attingere”. Titolo: “Aristocrazia”».

«Passa l’estate», prosegue Perna, «e gli viene il pallino dell’impero e della razza italiana. Il 24 Settembre esce l’articolo: “Volontà di potenza”. “Gli imperi quali noi li concepiamo” scrive Scalfari con un sussiego che sopravviverà al crollo del regime “sono basati sul cardine di razza escludendo perciò l’estensione della cittadinanza da parte dello Stato Nucleo alle altre genti”». Il 10 dicembre 1942 Scalfari pubblica un nuovo editoriale intitolato “L’ora del Partito – Clima nuovo”: «Il Partito Nazionale Fascista», scrive, «deve oggi soprattutto essere in linea per la resistenza e la vittoria, fra questi noi vogliamo essere in prima linea». Nel libro di Giancarlo Perna si legge anche che «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema massonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte (…). Con la caduta del fascismo (…) Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale». Un legame con la massoneria è stato svelato anche per il padrone di “Repubblica”, Carlo De Benedetti, da parte di Ferruccio Pinotti in “Fratelli d’Italia” (Edizioni Bur): «De Benedetti risulta essere entrato nella massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia (GOI), “regolarizzato col grado di Maestro il 18 marzo 1975 con brevetto n.21272” (Ansa, 5 novembre 1993)». L’informazione è accertata in quanto proviene direttamente dal Gran Maestro del Goi Gustavo Raffi, che lo ha dichiarato pubblicamente nel 1993.

Scalfari, detto Barbapapà dai suoi giornalisti, non è più direttore di “Repubblica” ma da buon moralista continua a regalare le sue domenicali omelie, interessato da sempre a contrastare la «questione cattolica che affligge il nostro paese». Lui che ritiene «immaturi» coloro che pensano «ad una causa prima» (cfr. “In cosa crede chi non crede”, Liberal 1996), che nella sua autobiografia ha raccontato che «le prime esperienze vennero l’anno dopo, passarono attraverso il noviziato dell’epoca che si faceva al bordello. Noviziato che fu all’inzio disastroso, ma ci tolse almeno un po’ della timidezza» (“L’uomo che non credeva in Dio”, Einaudi, p. 28) e che stoicamente ha confessato «la dura fatica della bigamia» (e sopratutto del rispetto delle donne!), proprio non la sopporta l’etica cattolica.

Pazienza, forse sarà contento però del fatto che un saggista affermato come Francesco Bucci ancora non è riuscito a far pubblicare un libro di critica al suo pensiero filosofico (non politico): “Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante” è il nome del libro che nessun editore ha avuto il coraggio di pubblicare per non infastidire il gruppo Espresso-Repubblica. L’autore, dopo vari tentativi, si è rivolto ad un’agenzia letteraria di medie dimensioni chiamata “Bottega editoriale” per agevolare la pubblicazione. Ma anche in questo caso non c’è stato nulla da fare, tanto che l’agenzia stessa ha deciso di diffondere un comunicato stampa: «Ci siamo trovati dinanzi ad una situazione del tutto nuova: diversi editori ci hanno risposto dicendo che il testo era valido, ma non volevano pubblicarlo. Perché? Qualcuno ce l’ha detto direttamente (ma solo rigorosamente a voce…); qualcun altro ce l’ha fatto capire, guardandosi bene però dal dichiararlo. La sostanza, comunque, era uguale: perché mettersi contro il “Partito di Repubblica”? Eppure, il testo, lo ribadiamo, veniva nella gran parte dei casi giudicato valido. Poniamo questo quesito sull’“intoccabilità” di Scalfari, proprio alla vigilia del “Salone Internazionale del Libro di Torino” nella speranza di un ripensamento da parte di qualche coraggioso editore italiano».

Eppure qualcuno, oltre a Perna, è comunque riuscito a scrivere qualcosa su Barbapapà. E’ un suo amico, uno che ha lavorato per anni a stretto contatto con lui, vicedirettore di “Repubblica” per 14 anni: Giampaolo Pansa. «Per Scalfari», ha scritto, «avevo provato, e provavo ancora, una grande ammirazione. Un tempo anche come uomo. Oggi soltanto come insuperabile professionista […]. La sua figura si è allontanata molto dalla mia vita. Non leggo i lunghi editoriali della domenica, però non ne avverto la mancanza. Li trovo inutili perché sempre ispirati a un partito preso. Temo, per lui, che a contare sia soprattutto il giornale che le stampa: lo strapotente foglio repubblicano guidato da Mauro. Ma è possibile che a Eugenio non importi nulla. Come tutti i signori anziani, me compreso, lui è sensibile soltanto agli omaggi. Specialmente se gli vengono dalle signore dei talk show, come Lilli Gruber e Serena Dandini. Oppure dagli articoli enfatici di Barbara Spinelli, esempio di adulazione concettosa e sempre eccessiva. Spero che Scalfari, arrivato alla gloriosa età di 88 anni, non si adonti se lo colloco nel girone dei bolliti».

La redazione

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Conseguenze fisiche e psichiche dell’aborto: stato delle ricerche

Sindrome post aborto bambiniMolti sono gli studi scientifici che analizzano l’eventuale correlazione tra aborto procurato e cancro al seno, senza che ancora si siano tratte conclusioni definitive: il Breast Cancer Prevention Institute ha compilato al proposito una lista di 68 diversi studi effettuati in tutto il mondo a partire dal 1957, di cui 53 hanno mostrato qualche associazione.

Il risultato più netto l’ha ottenuto una ricerca sulle donne del Bengala, una zona dove il cancro al seno ha un’incidenza ridottissima e il procurato aborto ne aumenta il rischio di ben il 20%. 

Molti studi sono stati anche effettuati sulle eventuali conseguenze psicologiche dell’aborto e su questo punto particolarmente c’è un acceso dibattito. La rivista scientifica Psychiatry and Clinical Neurosciences ha pubblicato nel luglio 2013 una sintesi delle ricerche sulle conseguenze psichiatriche e psicologiche dell’aborto sulle donne: su 36 studi esaminati, 13 indicano che le donne che hanno abortito volontariamente hanno un più alto rischio di depressione, ansia o abuso di sostanze; probabilità aumentata del 30% circa.

Le conclusioni dunque non possono ancora essere tratte; infatti molti ricercatori affermano che ulteriori ricerche devono essere effettuate e che nel frattempo sarebbe opportuno, soprattutto da parte delle associazioni professionali, sospendere le dichiarazioni, particolarmente quelle a carattere politico, su questa delicata materia.

Linda Gridelli

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Vivere in sofferenza e amare Dio: il cristiano può farlo

Francesca PedrazziniIl problema del male e della sofferenza è un argomento molto serio, una grande tentazione di incredulità nei confronti di Dio per alcuni.

Esistono due tipi di sofferenza: quella provocata e quella innocente. La sofferenza provocata è quella che l’uomo genera a causa dell’errato uso del libero arbitrio. Non solo i comportamenti sbagliati che provocano danni agli altri, ma anche un certo modo di rapportarsi all’ambiente naturale causando frane, valanghe e vari disastri naturali. Anche per quanto riguarda l’esistenza di molte malattie la causa è dovuta all’agire dell’uomo, come l’inquinamento, l’alimentazione ecc. Non si può imputare a Dio la colpa di questa sofferenza, l’uomo è stato creato come essere libero, capace di fare il bene ma scegliere anche il male. Può essere che Dio intervenga per evitare una degenerazione di questo male, noi non possiamo saperlo, tuttavia rispetta la libertà dell’uomo, anche di sbagliare, così come di rifiutare il Suo amore.

Il male innocente, invece, è quel tipo di sofferenza apparentemente gratuita, come la malattia di un bambino. L’uomo non ha colpa di questo, dunque la colpa è di Dio? Si, a meno che esista un disegno di bene più grande di quanto l’uomo possa capire. Questa non è un’astrazione ma è un’intuizione a cui solo i cristiani possono approdare, perché solo essi possono stare di fronte al male innocente senza scandalizzarsene, anche se non lo capiscono fino in fondo. Nessun’altra religione (ammesso che il cristianesimo sia una religione), infatti, è capace di questo, addirittura il Buddhismo ha come suo centro un “metodo” per evitare di confrontarsi con il male: non sa spiegarlo e dunque cerca di elevarsi al fine di ignorarlo (nirvana). L’ateismo, al contrario, amplifica il dolore del male innocente perché cancella ogni sua possibilità di senso ultimo.

Solo nel cristianesimo Dio non ha vergogna, attraverso Gesù Cristo, di immergersi nel dolore umano, di farsi compagno dell’uomo e di soffrire ingiustamente un dolore straziante ed innocente. Eppure da questo male ne è emerso un bene più grande: solo potendo morire Cristo ha potuto risorgere, dimostrare all’uomo che la morte (il male più ingiusto di tutti!) può essere vinta. Alla luce della Resurrezione il dolore innocente subìto da Cristo acquista un significato, non scandalizza più. La croce è un mezzo per un bene più grande, così come è stato per Cristo. Egli non ha tolto il male dal mondo, non ha guarito tutti i malati che ha incontrato, ma ha dato all’uomo la possibilità di stare di fronte al dolore da uomo. La chiave è guardare Lui stesso: «Se uno vuol venire dietro me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16:24). «Dio non ci ha tirati fuori dai guai, Dio è il gancio per tirarci fuori da essi. Questo gancio è il crocifisso», ha spiegato il filosofo Peter Kreeft. La rivelazione cristiana ha dato un senso vero alla vita e dunque anche alla morte e al dolore, molto più decisivo e importante che aver tolto il male dal mondo: si può essere sani fisicamente ed essere disperati (senza speranza) e si può essere malati e sofferenti nel corpo ma essere lieti nel cuore, affidati a Dio.

Un esempio di tutto questo è stato il modo con cui ha vissuto Francesca Pedrazzini, morta il 23 agosto 2012 a 38 anni a causa di un cancro. Cristiana, cattolica, la sua agonia lieta tra chemioterapie e ricoveri in ospedale, ha convertito molti, ha toccato i cuori. Era lei a rassicurare gli amici dicendo: «Sono in pace perché Gesù mantiene la promessa di renderci felici. Fai con me questa strada e lo vedremo. Ne sono certa. Ti abbraccio». Nel cammino supportata dagli amici e da un sacerdote, don Julian Carrón (leader di Comunione e Liberazione, movimento a cui Francesca apparteneva), il quale le diceva con tenerezza: «Vedi, Francesca, siamo tutti malati cronici. Ma tu hai un’occasione in più per la tua maturazione. Non devi perderla». Era lei a rassicurare il marito: «Guarda, devi stare tranquillo. Io sono contenta. Sono in pace. Sono certa di Gesù. Non ho paura, va bene così. Anzi, sono curiosa di quello che mi sta preparando il Signore. Mi spiace solo per te, perché la tua prova è più pesante della mia, sarebbe stato meglio il contrario».

 

Qui sotto il video in cui il marito di Francesca racconta della sua morte

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Il laicismo non prevale sulla laicità: continuano le sconfitte

CroceIl più noto tentativo recente di imporre il laicismo sulla laicità è stato quello italiano di strappare i crocifissi dai muri (“quei muri appesi ai crocifissi”, canta Gianna Nannini) delle scuole in nome del rispetto delle altre religioni. Peccato che i rappresentanti delle altre religioni abbiano risposto ai fondamentalisti laici che non si sentivano affatto discriminati dal crocifisso, è stato proprio un ebreo, Joseph Weiler, docente di diritto europeo alla New York University, a difendere l’Italia davanti alla Corte Europea, vincendo.

Sono tanti altri gli episodi in cui vince il buon senso e viene respinto l’assalto laicista al fondamento delle società occidentali, il cristianesimo. Ogni tanto diamo qualche aggiornamento, ed è quello che faremo in questo articolo.

In Texas, i bambini di quinta elementare hanno riottenuto la possibilità di svolgere la versione originale di un musical, dal titolo “In God We Trust”. Erano stati costretti ad eseguire una versione alterata a seguito di una denuncia presentata dall’associazione laicista “Freedom From Religion Foundation”. Il permesso sarebbe in violazione con il Primo emendamento della Costituzione, ma i genitori hanno protestato spiegando che «gli estensori della Costituzione non avrebbero avuto alcun problema ad acconsentire agli studenti di esprimere i valori comuni della comunità in cui vivono». Tutta la comunità si è stretta attorno alla scuola, che riproporrà il musical in versione originaria.

Un’altra vittoria, anch’essa creatrice di un precedente importante, è stata ottenuta in Quebec (Canada). Il sindaco di Saguenay, Jean Tremblay ha vinto una causa ribaltando in Corte d’appello una precedente sentenza del Tribunale dei Diritti umani e potrà continuare a pregare all’inizio delle riunioni del consiglio comunale. La sentenza infatti ha decretato che recitare una preghiera e la presenza di simboli religiosi in municipio, non viola la neutralità religiosa del governo. Essa, infatti, non necessita «che la società si ripulisca di tutta la realtà confessionale, tra cui quella che rientra nella sua storia culturale».

Tornando negli USA, un giudice del Montana ha decretato nel giugno scorso che statua raffigurante Gesù Cristo installata sul terreno federale del Big Mountain” quasi 60 anni fa, può rimanere. La causa era stata intentata sempre dall’attivissima Freedom From Religion, che si starà svenando economicamente con tutti questi processi persi (ricordiamo una sua pesante sconfitta, ad esempio, contro la Croce di Ground Zero, quando si inimicò il 72% degli americani).

La House of Representatives americana ha votato il 23 luglio contro la proposta di “cappellani atei” nelle forze armate degli Stati Uniti. Gli atei hanno infatti cercato di dimostrare che l’ateismo è una religione a cui necessitasse un cappellano, esattamente come sta facendo in Italia l’UAAR per accamparrarsi l’8×1000. Per ora in America non ci sono riusciti.

In California la Sonoma State University ha ufficialmente chiesto scusa ad uno studente, Junior Audrey Jarvis, a cui è stato chiesto da un suo supervisore di togliere una catenina con un croce che portava al collo, in quanto avrebbe offeso le persone. «E’ stata una richiesta stupida, fuori luogo e priva di fondamento e la persona che l’ha fatta lo ha ammesso», è stato scritto in un comunicato dell’ateneo. La notizia ha fatto il giro d’America raccogliendo numerose proteste perché «la gente è arrabbiata in tutto il paese sapendo che l’università è discriminante nei confronti di uno studente a causa della sua religione».

La redazione

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Evoluzione, finalismo e casualità nel libro del prof. Facchini

Evoluzione FacchiniDurante l’edizione scorsa (2012) del “Meeting per l’Amicizia tra i Popoli”, organizzato dal movimento di Comunione e Liberazione” a Rimini, è stato presentato l’ultimo libro di Fiorenzo Facchini, Professore Emerito di Antropologia presso l’Università degli Studi di Bologna, dove è anche responsabile del Museo di Antropologia, intitolato Evoluzione. Cinque questioni nel dibattito attuale (Jaca Book 2012).

A presentare il volume, oltre all’autore, erano presenti Carlo Cirotto, Docente di Citologia e Biologia Teorica all’Università degli Studi di Perugia ed Elio Sindoni, Docente di Fisica Generale all’Università degli Studi di MilanoBicocca. Il libro di Facchini si divide in cinque capitoli che poi sono il cuore del dibattito: 1) Evoluzione e creazione; 2) Crescita della complessità ed evoluzione; 3) Caso, finalità e finalismo; 4) Le specie nell’evoluzione umana; 5) Identità dell’uomo.

 

Qui sotto il video dell’incontro scientifico

 

Il prof. Cirotto ha elogiato il lavoro di Facchini parlando di «impostazione sobria, seria e consequenziale dello scienziato. Ne è una riprova l’abbondante e circostanziata bibliografia, indiscutibile indice di serietà scientifica, ma anche il taglio dell’esperto divulgatore, capace di comunicare in modo incisivo i fatti e le considerazioni della scienza anche a lettori poco attrezzati». Il tutto «evitando sempre e comunque qualsiasi confusione di campo, giudicando, a ragione, ingiustificabile l’attitudine a cercare risposte in campi del sapere diversi dai quali sono emerse le domande. E così prende in modo fermo le distanze dai tentativi di fornire risposte teologiche a problemi scientifici e viceversa». Opponendosi alle diverse versioni dell’Intelligent design, così come al Creazionismo, il prof. Facchini ha parlato dei due magisteri di Scienza e Fede come  «non ermeticamente chiusi»“> come quelli di Gould, ma attraversati da «cancelli di comunicazione, cioè quegli strumenti della logica che permettono di passare correttamente da un campo del sapere all’altro». Quest’apertura reciproca «è giustificata dalla stessa unità dell’oggetto studiato, che è l’Universo nel quale viviamo. E’ superfluo, credo, che debba sottolineare il mio completo accordo con tale posizione». Il biologo ha quindi contestato «l’ideologia del caso, promossa a spiegazione universale», spiegando che è «avvenuto qualcosa in quei nostri antichissimo progenitori, non la comparsa di una caratteristica nuova allo stesso livello delle altre, ma una caratteristica nuova in grado di riorganizzare in modo nuovo tutte le preesistenti, una caratteristica spirituale, la stessa che farà fiorire l’arte, il sentimento religioso, la filosofia, la teologia e anche la scienza».

Fiorenzo Facchini ha brevemente parlato del suo libro, sottolineando una certa «presunzione di avere chiaro tutto, di spiegare tutto. Il darwinismo, che certamente è la teoria scientifica più diffusa, viene presentato a volte come una teoria che spiega tutto, per cui la mia sensazione è che anche nella divulgazione ci sia una eccessiva semplificazione del problema». Proprio le cinque questioni citate (titolo dei cinque capitoli) rimangono tuttora «aperte». Riconoscere il finalismo in natura, ha commentato, è «un’operazione che posso fare dal punto di vista scientifico; dedurre però da questo un finalismo come concezione generale della realtà, che acquista un senso nel suo insieme, questo mi porta già su un piano che è un piano filosofico». Rispetto alla casualità, invece, essa «non è affatto da escludersi anche in un universo ordinato, anche in un’armonia della natura. Anzi direi che la storia della vita è segnata da questa combinazione curiosa fra le finalità che si riconoscono e la casualità di molti eventi».

Spostandosi sul piano dell’evoluzione dell’Universo, il fisico Sindoni ha concluso l’evento spiegando: «Se c’è una cosa che veramente è stupefacente è come – tra l’altro lo diceva già Galileo – l’Universo segua delle leggi geometrico-fisiche molto, molto precise. In natura c’è questa enorme precisione e pare che il Creatore conoscesse bene anche la geometria, perché ha utilizzato la sezione aurea in tantissimi casi: la stessa forma dell’uomo segue in qualche modo la sezione aurea. Quindi parlare di caso, per me, è un pochino complicato. Trattare il caso in Fisica è una cosa molto, molto delicata e direi che è un pochino fuori uso, era un pochino più in uso un po’ di anni fa». Ha quindi proseguito: «grazie al fatto che conosciamo queste leggi, cioè conosciamo esattamente l’orbita di tutti i pianeti, conosciamo esattamente l’influenza del sole, eccetera, capiamo che queste leggi non sono casuali, queste leggi dicono qualcosa di estremamente preciso e questa cosa estremamente precisa, a mio parere, vale anche per la nascita della vita. Quindi parlare di caso, sia in fisica che in evoluzione, secondo me è un problema molto, molto discutibile. Questo cosa porta a dire? Porta a dire che sono abbastanza convinto – e troverete parecchi esempi in questo libro – che dietro di noi o davanti a noi o sopra di noi c’è un finalismo, un finalismo che attraverso questi processi evolutivi doveva portare all’essere autocosciente».

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Anche Chiara Lalli a favore del “regalo di neonati”

Utero in affittoQualche settimana fa la presidente dell’associazione omosessuale “Famiglie Arcobaleno”, Giuseppina La Delfa ha affermato che la sua associazione sostiene e promuove la pratica (illegale in Italia) che definisce “gestazione per altri” (gpa), che altro non sarebbe il regalo di neonati a coppie omosessuali da parte di “madri generose”.

Una violazione palese dei diritti umani che arriva a mercificare la vita umana, definendo il neonato come oggetto da produrre per regalarlo agli amici più cari. I militanti dei diritti umani ovviamente approvano, probabilmente perché hanno paura che alzando la voce contro questa violenza verrebbero accusati di omofobia.

Stranamente al “Corriere della Sera” questa volta qualcuno non ha chiuso gli occhi. E’ stata Marina Terragni che però ha dovuto premettere di avere tanti «amici e amiche gay, e pure trans, e voglio per tutte e tutti una vita più semplice e più giusta». E’ la frase che ormai è obbligatorio dire prima di osare criticare la cultura LGBT, sperando di salvarsi dall’inquisizione rosa. La Terragni ha raccontato di aver rotto l’amicizia con un suo amico gay perché ha “comprato” una donna perché essa producesse un bambino. «Un uomo, di qualunque orientamento sessuale», ha scritto, «etero o gay, non ha il diritto di portare via un bambino alla madre, di recidere quel legame (anche se la madre è d’accordo: ma il bambino no). Non sto parlando di genitorialità gay: sto parlando di uomini che si fanno fare bambini dalle donne e glieli portano via».

Immediata la replica della tuttologa Chiara Lalli, già nota per aver a) negato l’esistenza dell’anima; b) discriminato gli ex omosessuali; c) scritto un libro facendo credere che “abortire è bello”.

Il suo articolo comincia già male sostenendo che non si può dimostrare che il neonato non voglia essere strappato da sua madre, che ha creato con lui uno strettissimo legame portandolo in grembo per nove mesi. «Come può un bambino manifestare accordo o disaccordo, come può avere un parere tanto complesso?», si è domandata la Lalli. Questo è il livello. Al bambino si può fare qualsiasi cosa, tanto come può esprimere un’opinione? Inoltre ha paragonato la “gestazione per altri” all’adozione, chiedendosi perché se è legittima la seconda non dovrebbe esserlo la prima. Eppure, chiunque capisce la differenza: nel primo caso il bambino viene appositamente “prodotto” per essere regalato, nel secondo caso il motivo per cui si cercano genitori adottivi è dettato da un’emergenza: l’abbandono del figlio da parte della madre, la perdita dei genitori ecc. Se fosse identica all’adozione non ci sarebbe bisogno di chiamarla in altro modo e sarebbe legale ovunque, come è legale l’adozione.

Liquidata la “questione bambino”, la scrittrice continua con un’altra perla: «l’istinto materno non esiste», citando la filosofa francese anti maternità Elisabeth Badinter, la quale è nota per negare la natura della donna perché essa le impedirebbe di comportarsi esattamente come gli uomini. E’ il femminismo affetto dalla patologia chiamata sindrome di inferiorità che cerca in tutti i modi di assomigliare il più possibile all’uomo per sentirsi più donna. Non sapendo come chiudere l’articolo, la Lalli ha optato per ispirarsi alla filosofia buddhista: le donne che regalano i bambini «credono in una specie di karma, per cui dare qualcosa di tanto prezioso significava ricevere qualcosa di altrettanto raro».

Questo oggetto tanto prezioso, però, non è un diamante, non è uno smartphone ma è un bambino. Ti produco un pargolo da regalarti, così faccio del bene al mondo: queste sarebbero le mamme-coraggio legittimate a comportarsi così perché, come ci insegna la Lalli, tanto il bambino non ha un’opinione su quanto gli sta accadendo. Il bambino regalato come oggetto per soddisfare il desiderio di maternità di coloro a cui la natura ha impedito di essere fertili. Ma come, le donne non avrebbero l’istinto di maternità e gli uomini gay si?

La redazione

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Il Nobel per la pace Obama prende lezioni dalla Santa Sede

COMBO Barack Obama - Papa FrancescoE’ arrivata la giornata in cui Papa Francesco, nell’Angelus di domenica scorsa, ha chiesto di digiunare e di pregare in particolare modo «per la pace in Siria, in Medio Oriente, e nel mondo intero». Invitiamo tutti, cattolici e non, a seguire questa proposta che culminerà in una veglia in piazza San Pietro dalle 19 alle 23, presieduta dal Santo Padre (si potrà seguire in televisione grazie alla diretta di TV2000).

Per chi non abita a Roma sarà possibile partecipare alla veglia tramite le iniziative delle varie diocesi organizzate dai vari vescovi. Un’iniziativa, quella di Papa Bergoglio, non di discontinuità con i pontefici precedenti ma di perfetta continuità come ha spiegato Alberto Melloni, riprendendo i Papi che hanno puntualmente alzato la voce in difesa della pace.

A seguire la richiesta di Papa Francesco non solo fedeli cattolici, centinaia di associazioni e movimenti ecclesiali ma anche tantissimi agnostici e non credenti di tutto il mondo, in Italia i più noti come Emma Bonino, Marco Pannella, Umberto Veronsi, Renzo Piano, l’associazione Articolo 21 ecc. Condivideranno questo gesto anche i leader di altre religioni, come il gran mufti di Siria, Ahmad Badreddin Hassou, che ha manifestato alla Santa sede il desiderio di essere in San Pietro, e ancora le le chiese evangeliche, i buddisti, gli ortodossi, i musulmani dell’Ucoii. Si parla di milioni di persone, tutti tranne il successore mediatico di don Gallo, don Paolo Farinella, il quale come al solito ha sbraitato: «Il digiuno lo fanno cani e porci. Io no».

Occorre subito capire il senso di questo digiuno, anche per rispondere a chi lo banalizza come ha fatto Vittorio Feltri. Non c’è nulla di simbolico e a nulla c’entra con quello in mente da Veronesi&Pannella. Che senso ha digiunare e pregare per la pace? Come può influire su chi ha la responsabilità politica? Come spiegato da Tommaso Scandroglio, una nota della CEI del 1994 intitolata “Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza”, si spiega che il digiuno è uno strumento potente di “implorazione dell’aiuto divino”, strumento che lo stesso Gesù ha adottato nel deserto per lottare contro il maligno. Papa Francesco ha ricordato con questo invito che la storia non è fatta solo dagli uomini, ma anche da Dio, se il digiuno è compiuto con il giusto spirito di contrizione, di carità e di abbandono a Dio, se esprime davvero un gesto di amore e di richiesta di aiuto, ecco che acquista efficacia, non solo simbolica – come lo sciopero della fame di Pannella – ma effettiva. Il digiuno vissuto così come la Chiesa insegna realmente acquista un valore spirituale così pregnante che può orientare le coscienze dei governanti. Il digiuno fatto dagli uomini e offerto a Dio, nella mani di Quest’ultimo diviene realmente un condizionamento verso il bene.

Mons. Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, ha aggiunto: «Il digiuno aggiunge alla preghiera una particolare sottolineatura di sacrificio: dà densità esistenziale ed etica a una preghiera che altrimenti potrebbe essere un po’ verbalistica e un po’ pietistica. La preghiera è una delle cose più impegnative, ma può essere vissuta in modo del tutto astratto se non ci si sacrifica in qualche cosa. Tutte le cose, anche le più grandi, possono essere affermate, ma in modo irrelato alla vita». Il fatto che tale invito venga rivolto anche a chi non è credente è «un’occasione fondamentale di ripensamento sulla propria identità di uomo, sulle esigenze che costituiscono il cuore umano, tra le quali una delle più fondamentali è certamente la pace, ma la pace non disgiunta dalla verità».

Oltre al digiuno e alla preghiera, la Santa Sede si è attivata anche in modo politico, non temendo nemmeno questa volta di essere accusata di ingerenza. Ha infatti mobilitato i nunzi in ogni parte del mondo e mons. Mamberti (neo ministro degli esteri vaticano) ha convocato gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede per favorire una soluzione diplomatica, ma anche per esprimere la più netta condanna delle armi chimiche e chiedere conto del loro uso agli eventuali responsabili.

Occorre ora riflettere sul concetto di “guerra giusta”, cioè legittima, che non è contraddetta da questa posizione della Chiesa. Giovanni Paolo II si pronunciò a favore di interventi di polizia umanitaria «nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e di interi gruppi etnici», un «dovere per le nazioni e la comunità internazionale». La Chiesa non ha rivisto questa posizione anche se i suoi insegnamenti tendono a sottolineare che oggi le condizioni per una “guerra giusta” sono molto limitate, semplicemente come ha spiegato il vaticanista John Thavis, «per il Vaticano la situazione in Siria non pone le condizioni per giustificare un tale intervento. Anche perché un intervento militare contro il regime di Bashar el Assad sarebbe programmato come punizione o deterrente, ma non come l’avvio di un piano capace di porre fine alla sofferenza della popolazione civile». Mons. Mario Toso, segretario del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, ha infatti detto: «La via di soluzione dei problemi della Siria non può essere quella dell’intervento armato. La situazione di violenza non ne verrebbe diminuita. C’è, anzi, il rischio che deflagri e si estenda ad altri Paesi. Il conflitto in Siria contiene tutti gli ingredienti per esplodere in una guerra di dimensioni mondiali».

Mentre anche il “Time” si è schierato contro Barack Obama, da Premio Nobel per la Pace a guerriero infelice, il comitato norvegese per l’assegnazione dei Premi Nobel sta pensando di ritirarglielo. Imbarazzanti le foto del Segretario di stato americano, John Kerry, fotografato a cena con con Bashar al Assad a Damasco. Perfino “Il Fatto Quotidiano” ha voltato le spalle ad Obama, quando fino a ieri lo elogiava come paladino dei diritti umani per essersi schierato per la distruzione antropologica del matrimonio, aprendolo alle coppie omosex. Bisognerebbe riflettere anche sulla posizione di Emma Bonino, sedicente militante per la pace ma poi troppo timida quando c’è da schierarsi contro la guerra, nascondendosi dietro all’Onu.

Tutte le grandi religioni sono fondamentali nel quadro dei rapporti internazionali e non sarà possibile nessuna pace senza il contributo delle varie chiese. Tuttavia, come è stato osservato, nonostante l’era della globalizzazione, il vero riferimento morale rimane per tutti la Chiesa cattolica e il Pontefice come capo della cristianità. Papa Francesco sa che il suo dovere è, grazie al potere spirituale a lui conferito come successore di Pietro,  di parlare al mondo intero come autorità morale, rivolgendosi alle coscienze di tutti i credenti e i non credenti.

 

Qui sotto l’Angelus di Francesco di domenica scorsa

La redazione

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Nasce la Manif Pour Tous Italia: in difesa della libertà

Manif pour tous italia“Manif Pour Tous” significa, letteralmente, “Manifestazione per tutti”. I loro membri, i “Veilleurs debout”, sono le “Sentinelle in piedi”. Nati in Francia nel 2012, lo scorso luglio hanno trovato in Italia una seconda casa, fratelli e sorelle alleati nella loro iniziativa di difesa pubblica del matrimonio tra uomo e donna.

In Italia si è iniziato a mobilitarsi in primo luogo per contrastare il noto disegno di legge sul contrasto all’omofobia e transfobia, che nel nostro Paese sta accendendo infuocati dibattiti in quanto rischia di impedire anche il libero pensiero e il diritto d’opinione. Ma andiamo con ordine.

Il ddl sul contrasto all’omofobia e alla transfobia, di Ivan Scalfarotto (Pd) e Antonio Leone (Pdl), è, in qualche modo, un’integrazione della legge Reale-Mancino del 1993, che condanna ogni forma di discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi e nazionali che richiami vecchi spettri nazifascisti. Inizialmente doveva essere in quattro punti che comprendevano anche definizioni di genere e orientamento sessuale, ridotti ora solo a uno: la condanna di ogni forma di omofobia e transfobia, per tutelare coloro che oggi molti pensatori definiscono i queer, ossia tutti i diversi dal “tipico eterosessuale”, cioè omosessuali, transessuali e transgender.

Perché contrastare qualcosa che giustamente lotta contro discriminazioni verso omosessuali, transessuali e transgender? Il problema, è questo. Cos’è l’omofobia? Ciò che porta un quattordicenne appena affacciatosi alla vita a uccidersi, certamente. Ciò che impedisce a valenti professionisti di esercitare bene nel proprio àmbito a causa del loro orientamento sessuale, sicuro. Ma, a quanto pare, secondo i Paladini del Giusto Pensiero, “omofobia” (qui è il caso di metterci virgolette) non è solo questo. Secondo essi “omofobia” è anche non essere d’accordo con i cosiddetti “matrimoni gay” e le adozioni gay. Opporsi alle nozze omosessuali, dicono, è discriminazione e dunque omofobia, sostenere che un bambino può crescere in modo equilibrato solo con genitori di sesso opposto, uomo e donna, mamma e papà compio reato di propaganda di idee omofobe. Si vuole introdurre, dunque, il reato d’opinione mascherandolo dietro alla lotta (sacrosanta) contro la violenza verso le persone dello stesso sesso.

Ecco i motivi per cui è nata la Manif pour tous italia 2Manif pour tous Italia, per manifestare in difesa della libertà delle idee, non solo per i cristiani, i musulmani, gli ebrei e tutti coloro che seguono una confessione religiosa che non contempla matrimoni e adozioni da parte di individui dello stesso sesso, ma per tutti coloro che semplicemente, al di là di partiti e confessioni, non sono d’accordo. Bisogna difendere l’Articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di pensiero e di opinione.

In contemporanea alla prima, partecipata, manifestazione del 25 luglio davanti a Montecitorio con la presenza di ben 500 persone, i Veilleurs francesi per solidarietà presiedevano davanti l’ambasciata italiana di Parigi. Il 5 agosto dalle ore 19 alle 21 si sono invece ritrovati presso Piazza di Pietra, sempre a Roma, manifestando in silenzio e rispetto, accettando tutti ma vietando ogni simbolo religioso e partitico, per dimostrare il suo essere aconfessionale, apolitico e apartitico. Infiammati da questo desiderio di esprimere liberamente il proprio pensiero e difendere i valori ritenuti fondamentali, il sito web Sine-Timore (“Senza Paura”) ha creato delle belle magliette a sostegno della famiglia acquistabili da chiunque sul loro portale.

Invitiamo tutti a sostenere su Facebook la “Manif pour tous” italiana, tenendosi aggiornati sulle prossime iniziative pubbliche.

 

Qui sotto un video delle prime manifestazioni di Manif Pour Tous Italia

La redazione

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Quel genio mancato di Odifreddi

RazionalitàNel suo ultimo articolo di agosto, Piergiorgio Odifreddi ha sfruttato l’apertura del “Meeting” di Rimini, organizzato dal movimento di Comunione e Liberazione, per citare un simpatico, e sopratutto molto utile al mondo, studio scientifico sull’intelligenza degli atei e dei credenti. Odifreddi, eccitato per il risultato della ricerca, ha titolato il suo post “I geni di Rimini”.

La ricerca in questione è stata pubblicata sulla prestigiosa “Personality and Social Psychology Review” e ha analizzato 63 studi scientifici, concludendo che per 53 di essi gli atei tendono ad essere più intelligenti rispetto ai loro omologhi religiosi, mentre 10 studi arrivano a conclusioni opposte. Per intelligenza si intende “la capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare astrattamente, comprendere idee complesse e imparare velocemente”.

L’argomento è il cavallo di battaglia degli odifreddini vari: finalmente uno studio scientifico ha sostenuto la superiorità evolutiva degli atei, belli, muscolosi e ariani! Odifreddi era al settimo cielo, ma non solo lui. «La reazione è stata prevedibile», ha commentato Jason Richwine, «se le persone più intelligenti tendono ad essere atee, allora l’ateismo è la religione corretta, giusto?».

Per chi è interessato capire cosa dice lo studio, sottolineiamo innanzitutto, il commento di Miron Zuckerman, autore della ricerca: «è veramente un messaggio sbagliato se si rileva dal nostro studio che se credo in Dio devo essere stupido. Piuttosto, noi sottolineiamo che le persone più intelligenti possono avere meno bisogno della religione perché una maggior intelligenza offre maggior auto-controllo, senso della comunità e maggior autostima, benefici offerti anche dalla religione. Noi diciamo che è possibile che avere un alto livello di intelligenza possa fornire funzioni simili a quello che la religione fornisce. In tutte queste cose, ci sono comunque vantaggi ad essere religiosi». Bene, rimane però strana la riduzione del contributo della religione alle mere conseguenze psico-fisiche.

Il secondo messaggio comunicato dalla ricerca riguarda specificamente il QI (quoziente intellettivo): le persone più intelligenti sono meno propense a credere in Dio perché sono più propense a sfidare le norme stabilite. Esse hanno anche più probabilità di avere stili di pensiero analitico, che altri studi hanno dimostrato minare la fede religiosa. Come ha spiegato Jason Richwine citando una sua analisi precedente, le cose vanno capite: tra le persone, quelle con la metà inferiore della distribuzione del QI, non mettono mai in discussione la religione della loro educazione, mentre la metà superiore è scettica. Tuttavia, tra coloro che sono nella metà superiore, l’80% finisce per ri-affermare la sua fede e rimane religiosa, mentre il resto la rifiuta (dimostrato dal fatto che anche nelle società più avanzate e istruite i credenti sono comunque la maggioranza). La correlazione positiva tra il QI e l’ateismo esiste non perché le persone intelligenti hanno necessariamente rifiutato la religione, ma perché la religione è la posizione predefinita per la maggior parte delle persone della nostra società. Questo stesso principio funziona anche in luoghi come il Giappone, per esempio, dove non esiste la tradizione di una religione monoteista ma i pochi cristiani giapponesi tendono ad essere molto più istruiti dei non cristiani. Anche Cuba, Vietnam e Repubblica Ceca hanno tassi altissimi di ateismo ma allo stesso tempo si registra un basso QI rispetto alla media degli americani, i quali per il 92% si dichiarano teisti.

La vera questione, allora, è quella già nota ai sociologi: chi appartiene ad una minoranza è mediamente più intelligente (è questione di percentuali!), come conferma anche uno degli autori dello studio stesso, Jordan Silberman: «I risultati riguardano l’intelligenza media delle persone religiose e non religiose, ma non sono necessariamente applicabili a ogni singola persona». Rispetto, invece, allo stile di pensiero analitico preferito dalla maggioranza dei non credenti, rispetto al pensiero intuitivo dei credenti, occorre capire che «sia il ragionamento analitico che intuitivo sono strumenti utili. Ognuno può pensare in modo intuitivo e analitico e nessuno dice che il sistema intuitivo è sbagliato e quello analitico è giusto», come è stato spiegato su “Live Science”. Lo statistico William M. Briggs ha infine citato i limiti di questo studio, primo fra tutti l’aver parlato di “intelligenza” in modo ristretto (escludendo l’intelligenza creativa ed emotiva), aver parlato di “religiosità” in modo troppo aperto, non aver considerato che il meccanismo per misurare il QI era diverso in luoghi diversi, non aver considerato la differenza di istruzione dei diversi paesi (come paragonare i credenti congolesi con gli atei statunitensi?) e anche le religioni sono estremamente diverse (è la stessa cosa credere nell’animismo rispetto al cristianesimo?).

Lo scrittore Sean Thomas ha ironizzato su “The Telegraph” sottolineando che in realtà «i credenti stanno vivendo in modo più intelligente: un vasto corpo di ricerca, accumulato negli ultimi decenni, mostra che la fede religiosa è fisicamente e psicologicamente benefica ad un livello notevole». Ha citato infatti i numerosi studi che rilevano nei credenti maggior salute mentale, una vita più lunga e di benessere psico-fisico, meno malattie, degenze ospedaliere e meno depressione, più alti livelli di felicità, più bassi tassi di suicidio e di consumo di stupefacenti, maggiori tassi educazione civica e generosità ecc. Ha quindi concluso ironicamente, facendo il verso a Odifreddi e agli odifreddini che pensano di strumentalizzare il recente studio sull’intelligenza degli atei: «Allora, chi è il partito più intelligente, ora? Sono gli atei che vivono brevi, egoiste, e rachitici vite, spesso senza figli, che si avvicinano prima alla morte senza speranza vivendo nella disperazione? O forse i credenti, che vivono più a lungo, più felici, una vita più sana e generosa, che hanno più figli e che vivono la vita con dignità in attesa di essere accolti da un Dio sorridente e benevolo? Ovviamente, sono i credenti ad essere più intelligenti. Chi pensa la diversamente è malato di mente».

Il commento più interessante è comunque risultato essere quello del non credente marxista Frank Furedi, sociologo presso l’University of Kent e membro della British Humanist Association, pubblicato sull'”Independent”. «Come sociologo la domanda che mi interessa è perché le persone si impegnino in un progetto che cerca di determinare la relazione tra intelligenza e fede religiosa. Non è che questi ricercatori sono disonesti, ma che come tutti gli altri soffrono di una tendenza a scoprire quello che già sospettano. L’uso polemico della scienza – chiamato scientismo- non ha niente a che fare con la vera scienza, che è la ricerca disinteressata della verità. Lo scientismo utilizza l’autorità della scienza per invalidare lo status morale di gruppi e individui e le loro pratiche a causa della loro inferiorità naturale. E’ lo stesso che si faceva con la craniologia nel 19° secolo. La svalutazione dell’intelligenza dei vostri avversari è quello che fanno i bambini quando si chiamano l’un l’altro stupido. Da ateo mi prendo una eccezione alla pretesa che le mie opinioni sono il prodotto della mia intelligenza, l’esperienza di vita dimostra che le fila degli atei hanno la loro giusta quota di idioti».

La redazione

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