L’esperienza del Trascendente alla luce della psicoterapia (1° parte)

Trascendenza 
di Alberto Carrara*
*biotecnologo e neurobioeticista, Ateneo Regina Apostolorum (Roma), Gruppo di Neurobioetica (GdN)

Alberto Passerini*
*Psichiatra, Psicoterapueta, S.I.S.P.I. – Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano-Roma

Alessandra Pandolfi*
*Anestesista, Psicoterapeuta, S.I.S.P.I. – Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano-Roma

 

Nota: una versione più estesa e articolata di questo lavoro verrà prossimamente pubblicata sulla Rivista scientifica Studia Bioethica.

Introduzione
L’interesse per la tendenza naturale che l’essere umano manifesta, ed ha da sempre espresso anche a livello culturale, nei confronti del “Trascendente” non è nuova, risale a tempi immemorabili, costituendo un “filo rosso” della riflessione che da sempre ci accompagna.

Non stupisce allora che un’inserto della sezione di Psicologia: Percezione della rivista Mente & Cervello dello scorso anno 2012 titoli così: Progettati per credere. Paranormale. Un cervello costruito per credere (Wiseman, 2012).  L’articolo è firmato da Richard Wiseman, professore di psicologia all’Università dello Hertfordshire, in Inghilterra. Wiseman nel sottotitolo afferma: «La tendenza a credere nel paranormale deriva dagli stessi meccanismi cerebrali da cui nasce buona parte del pensiero umano». Seppur interessante, l’articolo di Wiseman cela diverse fallacie logico-filosofiche che, spesso, possono venir date per scontate. Ad esempio, la tesi di fondo identifica la categoria “normale” con “razionale” e quest’ultima, viene fatta coincidere con la categoria “evidenza scientifica”, cioè empirica. L’equazione è la seguente: normale = razionale = empiricamente dimostrabile.

Questo modo di ragionare andava forse bene nell’epoca dell’Illuminismo o dello stretto empirismo Novecentesco. Nell’era contemporanea delle neuroscienze e della filosofia della mente, un’impostazione del genere risulta obsoleta ed “ingenua”. Come spiegare con l’empirismo stretto fenomeni quantici? Oppure la complessità delle reti neuronali e della plasticità cerebrale? E ancora, come si potrebbe parlare di potenziamento neuronale, di rimodellamento cerebrale come prassi terapeutica nei gravi disturbi da traumi (come il PTSD, Post Traumatic Stress Disorder), con uno schema mentale empirista-razionalista tout-court?

Oggigiorno, la capacità tecnologica di visualizzare, anche in vivo, zone dell’encefalo che si attivano in modo differenziale a seconda delle circostanze, ha prodotto un vero e proprio fiume di studi sperimentali. Lo sviluppo delle tecniche di neuro-immagine (neuroimaging), tra cui spicca la ormai famosa risonanza magnetica funzionale (fRMN), non ha potuto venir confinato alla mera, anche se utilissima, area clinica, utile alla diagnosi di patologie cerebrali. Gli studi si sono moltiplicati a seconda della fantasia e della genialità creatrice di ciascun scienziato. Dal voler comprendere i fondamenti neurofisiologici di attività umane come la memoria, il linguaggio, la visione, la personalità, etc., si è passati a ricercare «ciò che è più spiccatamente umano dell’uomo»: la sua esperienza religiosa e mistica (J. M. Gimenéz-Amaya, 2010). Ecco delinearsi, specie in ambito anglosassone, due nuove neuro-“discipline” all’interno della cosiddetta neuromania  (P. Legrenzi, C. Umiltà, 2009): la neuroteologia e la neuromistica.

Prendendo in considerazione i risultati della psicologia contemporanea, della psicoterapia, della prassi clinica e dei dati empirici che le moderne neuroscienze ci offrono circa l’esperienza umana del “Trascendente”, chiariremo, in questo contributo, se tali evidenze sperimentali pongano seriamente in discussione l’esistenza di tale caratteristica antropologica e, soprattutto, considereremo se sia giustificata razionalmente la riducibilità di tale peculiarità umana al mero ambito neurofisiologico, come sostengono alcuni autori contemporanei (F. J. Rubia, 2003), come di recente hanno esposto due intellettuali italiani (G. Vallortigara, V. Girotto, 2013). Per iniziare, chiariremo alcuni presupposti, cioè la cornice del nostro dibattito: la Neuroetica.

 

Cos’è la Neuroetica?
Come è stato recentemente spiegato, seppur brevemente, nell’editoriale della rivista Studia Bioethica (vol. 5, n. 3, 2012): «L’applicazione sempre più rapida ed immediata all’uomo delle scoperte neuroscientifiche, frutto dell’abbondante ricerca che mira a decifrare i misteri del cervello e della mente umana, ha fatto sorgere nell’opinione pubblica sentimenti spesso antitetici. In quasi tutti i contesti socio-culturali, il suffisso “neuro” sta trovando largo impiego e successo per le finalità più svariate: dal vendere al convincere. Si parla già di neuro-mania, neuro-fobia e di neuro-filia. Le immagini di risonanza magnetica fanno già parte della cultura d’ogni giorno: termini come PET (tomografia ad emissione di positroni) o risonanza magnetica funzionale (fRMN) sono parte integrante della nostra memoria, li abbiamo uditi ed ascoltati ripetutamente per radio, in televisione, li abbiamo letti su Internet nelle circostanze più disparate. In questo contesto è sorta la pseudo-disciplina denominata neuroetica o neurobioetica che ha “festeggiato” in quest’anno 2012, il suo decimo anniversario dalla “nascita”…  Nonostante il concetto neuroetica fosse già ventilato in diversi ambiti del sapere, la “paternità” del neologismo viene attribuita storicamente alla prima definizione “canonica” risalente al maggio 2002. In questa data, a San Francisco (USA), si tenne il primo congresso mondiale di esperti intitolato: “Neuroethics: mapping the field”. In tale contesto, William Safire, politologo del New York Times recentemente scomparso, suggerì la seguente definizione contemporanea di neuroetica definendola: quella parte della bioetica che si interessa di stabilire ciò che è lecito, cioè, ciò che si può fare, rispetto alla terapia e al miglioramento delle funzioni cerebrali, così come si interessa di valutare le diverse forme di interventi e manipolazioni, spesso preoccupanti, compiuti sul cervello umano» (A. Carrara, 2013).

 

I dati della ricerca neuroscientifica sull’esperienza religiosa e mistica
Sulla scia dell’interessante e ben documentato libro del neuroscienziato spagnolo Rubia del 2003 intitolato: La conexión divina. La experiencia mística y la neurobiología (La connessione divina. L’esperienza mistica e la neurobiologia; F. J. Rubia, 2003), non dovrebbe destare clamore il recente articolo uscito sul quotidiano italiano Repubblica del 26 giugno scorso, firmato da due autorevoli professionisti: Giorgio Vallortigara e Vittorio Girotto, nel quale si afferma: «L’ipotesi che si è fatta strada in questi anni tra scienziati cognitivi e neuroscienziati è che l’architettura naturale della mente umana farebbe sì che nell’usuale ambiente in cui cresce un bambino, la credenza in un Dio creatore sia destinata a emergere in modo del tutto spontaneo, anche se le forme attraverso cui si manifesta possono variare con le circostanze socio-culturali. Gli esperimenti condotti dagli scienziati cognitivi suggeriscono che i bambini trovano del tutto naturale, indipendentemente dall’opinione degli adulti che stanno loro intorno, l’idea di un creatore non-umano del mondo, un creatore che possiederebbe super-poteri, super-conoscenza, super-percezione (Barrett, 2004). Le credenze religiose e nel sovrannaturale poggerebbero perciò su caratteristiche naturali della mente umana (Bering, 2011)» (G. Vallortigara, V. Girotto, 2013). Tutta l’argomentazione dell’articolo si basa su studi di psicologia cognitiva di una ben specifica tendenza. Si parla di “architettura cognitiva” senza specificare le aree o circuiti cerebrali sottostanti; si utilizzano termini abbastanza ambigui come “rappresentazione neurologicamente distinta”, etc., vengono omesse le più recenti acquisizioni di pscicologia e psicoterapia relative al “Trascendente”.

Gli studi sulla neurobiologia dell’esperienza religiosa e mistica partono da un presupposto antropologico e neuroscientifico abbastanza evidente per chi sostenga una posizione unitaria e unitiva (dal punto di vista ontologico-sostanziale) dell’essere umano e cioè: l’esperienza religiosa è supportata dal cervello, come tutte le esperienze umaneReligious experience is brain-based, like all human experience») (L. Saver, J. Rabin, 1997). “Supportata da” o più letteralmente “basata su” o “fondata su”, espressioni tutte che traducono l’inglese “brain-based”, non significano assolutamente un riduzionismo “stretto” come vorrebbero alcuni. Le evidenze del gruppo di ricerca del UCLA-Reed Neurologic Research Center (USA), ad esempio, riportarono, già sin dal 1997, un dato importante: dagli studi addotti, pare che le regioni temporo-limbiche costituiscano probabili sostrati neurali (neural substrates) dell’esperienza religiosa-numinosa (per intendersi, quella che Rudolf Otto definisce: l’esperienza del numinoso, del “tremendum et fascinans”); infatti, il sistema temporo-limbico è coinvolto nell’integrazione di stimoli tanto esterni, come interni, oltre che essere coinvolto nei cambiamenti dell’umore e, in sostanza, nell’attività emozionale (emotiva) umana (L. Saver, J. Rabin, 1997).

Nulla di strano, allora, se durante un’intensa preghiera o meditazione, che ovviamente coinvolge tutta la persona umana e, perciò, anche e, soprattutto, la sua emotività, le zone cerebrali limbiche si attivano e vengono coinvolte in modo preponderante. Ciò non significa, nel modo più categorico, che queste aree cerebrali siano la causa o siano le responsabili dell’insorgere dell’esperienza stessa. A gettare acqua sul fuoco sugli stessi studi neuroscientifici sull’esperienza mistica poc’anzi menzionati, fu Kozart che, in una lettera pubblicata su un volume successivo dello stesso Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neuroscience titolava: «L’esperienza religiosa non è stata correttamente definita» (M. Kozart, 1998).

 

Evidenze neuro-empiriche sull’esperienza religiosa e mistica
Già nel 2003 si rifletteva sulla direzione che stavano assumendo certi risultati delle neuroscienze relative all’esperienza religiosa e la “Neuroteologia” veniva introdotta a livello accademico (W. Whitfield, 2003). Nell’articolo di Repubblica  firmato da Vallortigara e Girotto emerge una deduzione per nulla dimostrata. Viene infatti sottolineata in maniera chiara un’identità stretta tra “mente umana” e “architettura cerebrale”, tesi filosofica appartenente alla cosiddetta corrente internalista del mentale che oggigiorno risulta abbastanza “ingenua” e obsoleta. Basti considerare il recente lavoro professionale e altamente scientifico della filosofa italiana Maria Cristina Amoretti sugli esternalismi del mentale (M. C. Amoretti, 2011). Interessante a questo riguardo l’approfondimento che Fingelkurts opera a partire dalla domanda caratteristica (the main empirical question) in quest’ambito della riflessione neuroetica: Is our brain hardwired to produce God, or is our brain hardwired to perceive God? (Il nostro cervello è cablato per produrre Dio, oppure il nostro cervello è cablato per percepire Dio?) (A. A. Fingelkurts, 2009).

Numerose monache di clausura e monaci buddisti furono reclutati come volontari a partire dagli anni ’90, all’interno di studi sperimentali neuroscientifici sull’esperienza religiosa e mistica (M. Beauregard, V. Paquette, 2006, 2008; A. Fenton, 2009). Considereremo brevemente alcuni degli esperimenti realizzati in quest’ambito per poter poi giudicare le conclusioni e le interpretazioni che portano avanti, spesso anche a livello mediatico, alcuni scienziati contemporanei.

Nel 2006, il dottor Mario Beauregard, pioniere negli studi neuroscientifici riguardanti l’esperienza religiosa e mistica (S. Lewis, 2009), del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Montreal in Canada, pubblicò, sul numero 405 di Neuroscience Letters, un articolo sui correlati neuronali dell’esperienza religiosa ottenuti studiando, attraverso l’elettroencefalografia, monache di clausura durante la loro meditazione quotidiana. Due anni dopo, nel 2008, lo stesso scienziato canadese pubblicò sulla stessa rivista, un lavoro che riassumeva nuovi dati di elettroencefalografia ottenuti durante l’esperienza mistica (M. Beauregard, V. Paquette, 2008). Le conclusioni di questi studi sperimentali (come di altri lavori che non è qui possibile menzionare nel dettaglio) portarono a concludere che durante l’esperienza religiosa numerose regioni cerebrali vengono attivate e coinvolte, particolarmente a livello della corteccia cerebrale. Ciò implica una rete neuronale complessa, cognitivamente strutturata, che coinvolge l’attivazione rilevante (in confronto con uno standard, cioè con i dati estrapolati da monache che non stavano ricordando le loro esperienze d’unione mistica) della famosa AAA (Attention Association Area), locus cerebrale associato alla concentrazione. Gli scienziati evidenziarono inoltre la riduzione dell’attività della OAA (Orientation Association Area) o zona dell’associazione e dell’orientamento spaziale. Già nel 2004 Olaf Blanke del Dipartimento di Neurologia di Ginevra (Svizzera), aveva pubblicato sulla rivista Brain, un interessante lavoro sull’implicazione di tale locus cerebrale e l’esperienza extracorporea detta anche out-of-body experience (O. Blanke et al., 2004).

Come dati scientifici, questi ed altri lavori, ci rivelano che durante un’esperienza spirituale diverse e numerose aree del nostro cervello vengono modulate (si attivano o vengono inibite in rapporto ad un parametro standard). Così concludono i ricercatori nel lavoro citato in precedenza: These results indicate that mystical experiences are mediated by marked changes in EEG power and coherence. These changes implicate several cortical areas of the brain in both hemispheres (M. Beauregard, V. Paquette, 2008).

 

Interpretazione di questi dati sperimentali
Dal dato scientifico alcuni ricercatori passano alla sua interpretazione fino ad arrivare a vere e proprie manipolazioni. Così il dottor Andrew Newberg dell’Università della Pensilvania a Filadelfia (Stati Uniti), compiendo gli stessi esperimenti con monaci buddisti e francescani, giungendo agli stessi dati empirici, scrisse un libro intitolato Dio nel cervello (God in the brain, Why God Won’t Go Away), nel quale riduce l’esperienza religiosa a puro prodotto materiale del nostro cervello. Newberg e altri neuro-riduzionisti interpretano i dati sull’esperienza del Trascendente come se il cervello stesso ne fosse la causa diretta e ultima. Si potrebbe allora concludere come fa il “padre” della neuroscienza contemporanea, Michael S. Gazzaniga: se il nostro cervello produce l’esperienza religiosa, Dio sta nel cervello e, in fin dei conti, il cervello diventa Dio. Questa visione fu divulgata con successo dallo spagnolo E. Punset nel suo libro L’anima è nel cervello.

La verità è, sfortunatamente per questo tipo di scienziati (che rappresentano un’esigua minoranza che però fa clamore), che i dati neuroscientifici non ricercano direttamente l’esperienza umana di Dio, ma cercano di identificare le basi neurofisiologiche associate alla fenomenologia di qualsiasi esperienza religiosa. Ciò che viene misurato non è affatto l’esperienza mistica in sé, ma l’intensa attività intellettivo–volitiva che l’accompagna. La ricchezza dell’esperienza religiosa, naturale in tutti gli esseri umani, si manifesta nella nostra dimensione corporea a livello delle complesse reti neuronali in gioco.

 

Nella seconda parte, che sarà pubblicata domani, arriveremo alle conclusioni.

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Ecco le risposte di Papa Francesco a chi non crede

Papa francescoNel marzo scorso Papa Francesco ha invitato i vescovi argentini ad “uscire” per incontrare chi è lontano dalla Chiesa, anche se si rischiano incidenti. «Ma preferisco una Chiesa incidentata», aveva scritto allora Francesco, «piuttosto che chiusa e malata».

Con questo spirito il Pontefice ha risposto alle domande che Eugenio Scalfari ha posto su “Repubblica” ed è interessate sottolineare bene quanto ha scritto. «È venuto ormai il tempo e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione», ha affermato, «di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro». Perché il dialogo, per il credente, è «un’espressione intima e indispensabile».

 

LA FEDE NASCE DA UN INCONTRO GRAZIE ALLA CHIESA
Francesco ha spiegato fin da subito come è nata in lui la fede. Non in un modo isolato, una rivelazione personale dall’alto, un ragionamento o una dimostrazione scientifica di Dio, ma semplicemente vivendo la vita della sua comunità parrocchiale: «La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa – mi creda – non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità».

Senza la Chiesa non avrebbe potuto incontrare Gesù, dice il Papa, cioè non si può prescindere da essa per vivere il cristianesimo. Non esiste un cristianesimo personalizzato ed emancipato dalla Chiesa: sempre il Pontefice aveva detto in una recente udienza: «Ancora oggi qualcuno dice “Cristo sì, la chiesa no, io credo in Dio ma non nei preti”, si dice così? Ma è proprio la Chiesa che ci porta a Cristo e ci porta a Dio, è la grande famiglia della Chiesa, che ha anche aspetti umani, nei pastori e nei fedeli, ci sono difetti, imperfezioni, peccati»

 

L’ORIGINALITA’ DEL CRISTIANESIMO RISPETTO ALLE ALTRE RELIGIONI
Scalfari stesso chiede a Francesco come capire l’originalità della fede cristiana poiché essa fa perno sull’incarnazione del Figlio di Dio rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.

Il Papa risponde: «l’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione».

Da questo ne consegue «quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente».

 

LA FEDE NON E’ FUGA DAL MONDO MA SERVIZIO AGLI UOMINI
Sempre parlando della laicità, invenzione cristiana, il Pontefice ha spiegato i rispettivi compiti della Chiesa e dello Stato: «la Chiesa è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana».

Così, «per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là».

 

DIO PERDONA GLI UOMINI DI BUONA VOLONTA’
Un’altra domanda del fondatore di “Repubblica” verte sull’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù e se Dio perdona chi non crede e non cerca la fede. Francesco risponde: «Premesso che – ed è la cosa fondamentale – la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire». Come sempre spiegato dalla Chiesa, anche l’uomo di “buona volontà” che cerca di fare il bene così come la sua coscienza gli suggerisce, sarà salvato.

Il relativismo sbaglia, dunque, il bene e il male possono essere percepiti da ogni uomo che vive rettamente il rapporto con la sua ragione. Bisogna ascoltare la propria coscienza e arrivare alla verità, in quanto essa esiste ed è raggiungibile da ogni uomo. Per questo i non credenti possono essere sulla stessa strada dei credenti in quanto anche loro possono seguire la cosiddetta legge naturale, presente in tutti i figli di Dio.

 

LA VERITA’ E’ RELAZIONE CON DIO
Ma cos’è la verità? Hanno ragione i relativisti a dire che non esiste ed esistono solo opinioni soggettive? No, dice il Papa, «per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”?».

Recentemente lo abbiamo spiegato anche noi su UCCR, rispondendo ad Umberto Veronesi. Scrivevamo: «I principi morali non bastano, non spiegano perché, se esiste solo questa vita bisognerebbe essere coerenti con essi se si è più felici e ci si avvantaggia comportandosi in altro modo. Occorre andare oltre all’uomo, serve il rapporto affettivo con il Padre, al quale si obbedisce per propria convenienza o per semplice fiducia in Lui, così come il figlio fa con il proprio genitore. Solo in un rapporto ha senso l’obbedienza».

 

IL CRISTIANESIMO NON E’ UN’IDEA O UN’IDEOLOGIA
Secondo Scalfari, con la scomparsa dell’uomo sulla terra scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. «Certo», ha risposto Francesco, «la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio – questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! – non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Gesù ce lo rivela – e vive il rapporto con Lui – come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra – e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno – , l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui».

 

LO SCOPO DELLA CHIESA E’ TESTIMONIARE GESU’
Concludendo la sua lettera, il Pontefice ha scritto: «La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà “a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19)».

La redazione

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Leggere la “Divina Commedia” per capire la vita (video)

Franco NembriniLeggere la Divina Commedia per capire la vita, per amare il cristianesimo. E’ questo che anima centinaia di universitari in tutta Italia che “studiano liberamente i versi di Dante, appassionandosi al mistero insito nella realtà.

L’associazione Centocanti, ad esempio, è nata nel 2005 (scioltasi nel 2012) ad opera di alcuni studenti dell’Università Cattolica di Milano, rigorosamente al di sotto dei 35 anni (perché per Dante quello era appunto «il mezzo del cammin di nostra vita») appassionati del padre della lingua italiana. Spiegano: «Vogliamo testimoniare che questa è un’opera viva, che continua a parlare con immutata freschezza e attualità al cuore di ogni uomo. Dante compie un viaggio dentro le dimensioni fondamentali dell’esistenza, ci parla del bene e del male, di amore e di perdono, e testimonia quanto il cristianesimo è capace di rispondere alla sete di felicità che abita nel cuore dell’uomo». Si dedicavano ad imparare alcuni canti a memoria e li recitavano nelle metropolitane e nelle piazze milanese, con grande seguito di pubblico. Sempre a Milano, all’Università Statale è attiva un’altra associazione chiamata “Esperimenti danteschi” che, per quattro mesi, ogni settimana, ascoltano attenti lezioni tenute da alcuni tra i più importanti studiosi della Commedia.

L’involontario ispiratore di questa passione che ha contagiato centinaia di giovani universitari milanesi si chiama Franco Nembrini, professore di italiano alle scuole superiori. Nembrini, cattolico bergamasco, gira l’Italia invitato dai centri culturali, parlando della Commedia” come un itinerario reale, personale, di salita al Paradiso. Autore di diversi libri, è stato contattato un giorno da Roberto Benigni, affascinato dal suo modo di confrontarsi con la Divina Commedia. Nel 2007 durante la prima romana dello spettacolo Tuttodante Benigni ha proprio citato Nembrini, invitato personalmente dall’attore toscano.

 

Qui sotto una lezione di Franco Nembrini sul Paradiso al Meeting di Rimini

 

Qui sotto Nembrini racconta la sua amicizia con Benigni al programmma “A sua immagine”

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Se Vito Mancuso tradisce perfino il card. Martini…

A18395.jpgDopo aver buttato la vocazione alle ortiche, essersi spretato e aver tradito l’insegnamento della Chiesa, Vito Mancuso è finito per rinnegare perfino il pensiero del suo sedicente “padre spirituale”, ovvero il compianto card. Carlo Maria Martini. L’argomento è centrale nel cristianesimo: la figura di Maria.

Mancuso gioisce recensendo l’ultimo libello di Marco Vannini, secondo Mancuso noto “studioso di mistica” (sic!) e del “giornalista dilettante romano” (cit. Costanzo Preve) Corrado Augias contro la Madre di Gesù. Mancuso gode quando qualsiasi aspetto del cristianesimo viene aggredito. Del libro non vale nemmeno la pena di parlare, conoscendo la faziosità e l’amatorialità dei due autori, molto più interessante invece concentrarsi sulla recensione fatta dal teologo: «La conclusione del libro? La demolizione della dottrina tradizionale», esulta Mancuso.

Secondo lui la devozione a Maria da parte dei cristiani sarebbe anti-evangelica, «utilizzata dal potere ecclesiastico per rafforzare se stesso». La Chiesa, secondo il ragionamento di Mancuso, darebbe tanti onori alla Madre di Cristo per non destare sospetti sul suo reale odio verso le donne, soggiogandole ed impedendo loro di diventare preti. Più si onora Maria e più si possono poi discriminare le donne senza destare sospetti: il popolo stupido e credulone e il Vaticano misogino e approfittatore. Questo è il panorama che ha in mente Mancuso quando parla del cattolicesimo.

Eppure il suo “padre spirituale” card. Carlo Maria Martini, che non veniva certo finanziato per insultare la Chiesa dall’orgoglioso pagatore di tangenti Carlo De Benedetti, come invece lo è Mancuso, ha spiegato: «Riconosco che le suore sono utilissime nell’ambito parrocchiale e meritano un maggior riconoscimento, ma ciò non vuol dire che esse possano sostituire in tutto i presbiteri. Nell’agire della Chiesa latina non v’è discriminazione, perché tutti i cristiani sono uguali e hanno gli stessi diritti, ma non esiste per nessuno il diritto a essere ordinato prete».

Rispetto alla devozione a Maria, proprio l’ex arcivescovo di Milano si lamentava che il Rosario e la devozione popolare alla Madonna erano contestati da alcuni credenti, come ha spiegato padre Piero Gheddo, direttore del “Pime”. Martini era particolarmente affezionato al Santuario di Santa Maria di Galloro in provincia di Roma. Un’affezione sbagliata, secondo Mancuso, che accusa la «proliferazione mariologica» di non essere ispirata dalla «Rivelazione». E lui lo sa, forse, per una rivelazione ricevuta nella redazione di “Repubblica”. A suo sostegno, evidentemente non ritenendo sufficiente la coppia Augias-Vannini, cita il teologo Karl Barth, che però è protestante e il teologo cattolico Yves Congar, che però contraddicendo Mancuso scriveva: «Maria rappresenta ed anticipa la cooperazione di tutta la Chiesa, che deve occupare il tempo intermedio fra le due venute del Cristo. Maria rappresenta, accanto a Redentore, l’insieme degli uomini e della Chiesa».

Nelle omelie e nelle preghiere (anche scritte da lui) del card. Martini non mancava mai un accenno alla Madonna, chiedendo una sua intercessione. Perché, come ricordava, «il carisma di Maria è lo sguardo confortante all’insieme del corpo ecclesiale, che la rende attenta per tutti i punti dolenti e pronta ad esprimerli, a provvedere avvisando chi di dovere, facendo intervenire altri». Se da una parte Mancuso ridicolizza la fede popolare e si compiace della demolizione della dottrina  cristiana, dall’altra il card. Martini spiegava che nei Vangeli «Maria è sempre presente e lo è pure nella Chiesa, in modo umile e semplice. Soprattutto nei momenti di dolore, di difficoltà possiamo sentire la vicinanza della Madonna. Per questo la devozione mariana ha presa nel cuore della gente e non si può parlare di lei a livello teorico. Ciò che conta è sapere che la Madre di Gesù è con noi in tutti i giorni della nostra vita, in particolare in quelli più oscuri, più faticosi e non abbiamo nemmeno bisogno di invocarla, dal momento che lei è già lì».

Ricordando la preghiera di Dante, ci auguriamo che la Madonna interceda per la conversione di Vito Mancuso: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, | umile e alta più che creatura, | termine fisso d’etterno consiglio, | tu se’ colei che l’umana natura | nobilitasti sì, che ‘l suo fattore | non disdegnò di farsi sua fattura».

La redazione

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La Chiesa e la pace nel Medioevo

Francesco Solimena 
 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

I secoli in cui il cristianesimo si afferma nell’area del decadente impero romano sono segnati dalle continue e devastanti invasioni degli Unni, dei musulmani, degli ungari e dei popoli germanici in particolare (Goti, Visigoti, Longobardi, Sassoni, Vichinghi…). Sono, questi ultimi, popoli che vivono di guerra, le cui divinità sono guerresche, i cui valori sono valori guerreschi. Popoli che non è eccessivo definire selvaggi, violenti, brutali. “La civiltà sorta dalle grandi migrazioni”, ha scritto G. Duby, “era una civiltà di guerra e di aggressione”.

In questa situazione sempre in fermento, in cui le guerre si alternano alle carestie, ai saccheggi, alla paura e alla violenza, lungo tutto l’Alto Medioevo (476-1000), uomini di Chiesa si trovano spesso a scongiurare conflitti inutili e terribili, cercando di promuovere una visione pacifica del rapporto tra i popoli.

“Uno degli effetti più vistosi delle migrazioni germaniche e della conseguente disintegrazione delle strutture dell’Impero nelle province occidentali”, scrive il Moisset, “è la crescita dell’importanza del vescovo, che diventa figura di primo piano sulla scena politica. Spesso discendente da nobile famiglia, egli possiede uno status sociale che gli permette di dirigere la resistenza o di intavolare negoziati con gli invasori; il vescovo è il defensor civitatis, l’ultimo baluardo a difesa delle popolazioni e del diritto. Nel 451 Aniano difende Orléans (Aurelianum) contro gli unni; vent’anni dopo, Paziente di Lione distribuisce a sue spese viveri alla popolazione affamata dopo le distruzioni apportate dai Visigoti” (J.P. Moisset, Storia del cattolicesimo, Lindau 2008, p. 107). 

Analogamente papa Leone I (440-461), appartenente ad una famiglia aristocratica di origini etrusche, viene mandato nel 452 dall’imperatore Valentiniano incontro ad Attila, il re degli Unni che ha già devastato le regioni a Nord Est della penisola: “L’incontro avvenne a Mantova e, per motivi non del tutto chiari, Attila rinunciò a proseguire la sua marcia verso Roma”. Tre anni dopo, “nel 455, avvenne il secondo saccheggio di Roma per opera dei Vandali giunti per mare dall’Africa”, dove avevano devastato il paese e perseguitato i cattolici. “Nessun funzionario civile o militare affrontò i Vandali: solo il papa Leone andò loro incontro alle porte di Roma, ottenendo almeno che fosse salva la vita dei romani” (A. Torresani, Storia della Chiesa. Dalla comunità di Gerusalemme al giubileo 2000, Ares 1999, p. 151).

Una simile funzione di supplenza rispetto alla mancanza o alla debolezza del potere laico, inevitabilmente rafforzò la devozione dei romani verso il papato. Anche all’epoca dell’invasione longobarda, che ebbe conseguenze piuttosto pesanti per il paese, fu papa Benedetto I (575-579) a far “giungere a Roma alcune navi cariche di grano, unico soccorso contro la carestia. Il successore, Pelagio II (579-590), fu oppresso dagli stessi problemi, tanto da dover supplicare un vescovo della Gallia di inviargli grano” (A. Torresani, Storia della Chiesa. Dalla comunità di Gerusalemme al giubileo 2000, Ares 1999, p. , op. cit., p.158). Nonostante alcuni periodi bui, dovuti anche alle ingerenze politiche, la Chiesa prosegue sempre, con alterne fortune e impegno, senza mai concepire l’utopia di un mondo senza peccato e conflitti, la battaglia per una società più pacifica: sia attraverso la promozione del diritto romano, molto più civile e meno crudele di quello germanico, che contemplava la faida, cioè la girandola infinita delle vendette tra clan familiari, sia attraverso la cristianizzazione dello stesso diritto romano.

Ricorda Giacomo Balmes: “Le inimicizie particolari avevano in quei tempi un carattere violento: il diritto era costituito dai fatti, e il mondo rischiava di diventare il patrimonio del più forte. Il potere pubblico non esisteva, o era come stordito nel turbinio delle violenze e dei disastri che non riusciva ad impedire o a reprimere a causa della sua debolezza. Esso era impotente a incanalare i costumi su una direzione pacifica e far sì che gli uomini si sottomettessero alla ragione e alla giustizia. Così vediamo che la Chiesa…adottava in quell’epoca certe misure concrete per opporsi al torrente devastatore della violenza che tutto tormentava e distruggeva. Il Concilio di Arles, celebrato circa nella metà del secolo quinto e precisamente tra il 443 e il 452, dispone nel canone 50 che non si debba permettere l’accesso alla chiesa a coloro che mantengono pubbliche inimicizie, fin tanto che non si siano riconciliati con i loro nemici. Il Concilio d’Angers celebrato nell’anno 453, proibisce nel canone 3 le violenze e le mutilazioni. Il Concilio di Agde in Linguadoca tenuto nel 506, ordina nel canone 31 che i nemici che non vogliono riconciliarsi, siano immediatamente ammoniti dai sacerdoti, e se non vogliono seguirne le ammonizioni, siano scomunicati. In quell’epoca i Galli avevano per costume di andare sempre armati, e con le armi entravano in chiesa. Si capì come un tale costume era destinato a produrre gravi inconvenienti e trasformare la casa di preghiera in un’arena di vendetta e di sangue. E allora verso la metà del settimo secolo vediamo che il Concilio di Chalons-sur-Saòne nel canone 17 stabilisce la scomunica per tutti coloro che procurano tumulti o sfoderano la spada per ferire qualcuno nelle chiese o nei loro recinti. Questo ci mostra la prudenza e l’intuizione con cui era stato dettato il canone 29 del terzo Concilio d’Orleans celebrato nel 538, dove si dispone che nessuno assista armato alla Messa e ai Vespri. È curioso osservare l’uniformità dei mezzi e l’identità di vedute con cui procedeva la Chiesa. In paesi molto distanti, tra i quali la possibilità di comunicare non poteva esser tanto frequente, troviamo disposizioni analoghe a quelle che abbiamo indicato. Il Concilio di Lerida del 546 dispone nel canone 7 che chi giura di non riconciliarsi col suo nemico sia privato della Comunione del Corpo e Sangue di Gesù Cristo finché non abbia fatto penitenza del giuramento, e si sia riconciliato. Passavano i secoli, continuavano le violenze, e il precetto di carità fraterna, che ci obbliga ad amare i nostri stessi nemici, incontrava ancora un’aperta resistenza dovuta al carattere violento e alle passioni feroci dei discendenti dei barbari; ma la Chiesa non si stancava d’insistere nella predicazione del comando divino, ribadendolo in ogni circostanza e provvedendo a renderlo efficace per mezzo di castighi spirituali. Erano trascorsi più di quattrocento anni dalla celebrazione del Concilio di Arles nel quale fu proibito di entrare in chiesa a coloro che avevano pubbliche inimicizie, e troviamo che il Concilio di Worms celebrato nell’anno 868 prescrive ancora, nel canone 4, che siano scomunicati coloro che non vogliono riconciliarsi con i nemici” (G. Balmes, Il protestantismo comparato al cattolicismo nelle sue relazioni colla civiltà europea, cap. XXXIII).

Ma è soprattutto nel basso medioevo, che le cose cambiano più velocemente ed efficacemente. Intorno al Mille, infatti, nel sud della Francia, nasce un movimento per la pace “inaugurato da varie autorità ecclesiastiche allo scopo di porre un freno alle croniche violenze che caratterizzavano la società feudale e che il potere reale o comitale non riesce a tenere sotto controllo. La Chiesa è a maggior ragione preoccupata dal momento che tra le vittime di queste violenze si annoverano non pochi religiosi. Per designare la duplice reazione pacificatrice si parla di ‘pace di Dio’ e di ‘tregua di Dio’. La prima sottrae alcune persone e alcuni luoghi alla violenza guerresca; la seconda proibisce di combattere in determinati periodi (secondo il Concilio di Arles, 1037-1041, la proibizione di combattere va dalla sera del mercoledì alla mattina del lunedì). Il movimento della pace di Dio ha inizio nel 987 su iniziativa del vescovo di Le Puy, che raduna i suoi cavalieri e impone loro un giuramento di pace. Due anni dopo, nel 989, esso è già notevolmente cresciuto: in occasione del Concilio di Chartroux non un vescovo isolato, ma tutti i vescovi della provincia ecclesiastica di Bordeaux e il vescovo di Limoges pronunciano l’anatema contro chiunque abbia rubato i beni a un contadino o usato violenza a un religioso disarmato. Negli anni seguenti altre assemblee si riuniscono in Aquitania e in Borgogna per ottenere dagli aristocratici e dai cavalieri la promessa di rispettare la pace voluta da Dio. Nel 1016, i vescovi riuniti in concilio a Verdun-sur-le-Doubs fanno giurare ai cavalieri borgognoni, sulle reliquie dei santi, di rispettare le popolazioni disarmate, i luoghi di culto e i terreni contigui come luoghi d’asilo…” (R. Pernoud, Luce nel Medioevo, Roma, 1978, pp.102-103).

Accanto alla pace di Dio (pactum pacis, restauratio pacis…), viene istituita la tregua di Dio (tregua Dei), che “obbliga a sospendere l’uso delle armi in occasione di numerose ricorrenze del calendario liturgico, nonché durante certi giorni della settimana…In memoria del ciclo della Passione e della Risurrezione del Cristo non è permesso battersi dal giovedì alla domenica, ovvero dalla sera del mercoledì al mattino del lunedì. Inoltre, è proibito il ricorso alle armi durante i periodi dell’Avvento e della Quaresima, di Pasqua, dell’Ascensione, della Pentecoste e nei giorni consacrati alla Vergine e a certi santi” (J.P. Moisset, Storia del cattolicesimo, Lindau 2008, p.182). Ovviamente tutte queste regole non vengono sempre rispettate, ma certamente servono ad educare ad un’idea di pace e di rispetto, a limitare il più possibile la violenza dell’età feudale e soprattutto a trasformare la figura del cavaliere, sino ad ora un brigante senza scrupoli, nel cavaliere onorato e difensore dei deboli, almeno nella teoria, ma sovente anche nella pratica, seguente all’anno Mille . Soprattutto, la pace di Dio contribuisce “in modo eccezionale ad affermare l’idea di una immunità naturale di cui godono i non combattenti e i loro beni. Conseguenza diretta della Pace di Dio è l’enumerazione di coloro che, in tempo di guerra, godono di un ‘salvacondotto generale’: gli ecclesiastici, dai prelati sino ai pellegrini, passando per i cappellani, i conversi e gli eremiti, ‘i bifolchi e tutti i lavoratori dei campi’, i mercanti, i vecchi, i bambini e le donne” (P. Contamine, La guerra nel medioevo, Il Mulino 1986, p.360).

L’effetto generale fu che il Medioevo non conobbe né le guerre servili, né “le guerre egemoniche, aventi come fine la dominazione di un popolo o di una dinastia su un immenso territorio”; non ebbe il sistema di coscrizione di massa proprio dell’età imperiale romana e poi degli stati contemporanei, ma “una minoranza di professionisti della guerra”; inoltre la “massa della popolazione”, definita inermis, fu molto raramente coinvolta nella partecipazione alle ostilità. Ciò significa che in non poche regioni “i secoli centrali del Medioevo beneficiarono così, se non proprio di una totale scomparsa, almeno di una durevole marginalizzazione della guerra; e quand’anche essa aveva luogo, i suoi effetti erano più ‘canalizzati’ (P. Contamine, La guerra nel medioevo, Il Mulino 1986, p. 411-416 e 13). Anche così si spiega come mai dopo l’anno Mille, soprattutto in Italia, patria del cattolicesimo, e poi in Europa, abbiano potuto nascere, le stupende opere del Medioevo cristiano: le cattedrali, le università, le confraternite, gli ospedali…ciò che di buono e di bello quell’epoca difficile, ma ricca di luci, ha lasciato sino a noi

Da: F. Agnoli, Indagine sul cristianesimoPiemme 2010

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Il matematico Olivier Rey: «la scienza è un modo di amare Dio»

Olivier ReyAl recente Meeting di Rimini ha partecipato anche Olivier Rey, docente di matematica per quindici anni e oggi dedicato alla filosofia al Centro Nazionale della ricerca Scientifica (CNRS) di Parigi e insegna all’Università Panthéon-Sorbonne.

Cresciuto in una famiglia lontana da Dio, esperienze e incontri l’hanno condotto alla fede. Come ha spiegato: «È stato un lungo cammino. Ma resto sempre meravigliato quando penso all’infinita dolcezza con cui Dio ha saputo prendermi», ha commentato. Alla kermesse riminese ha presentato il suo ultimo lavoro, Itinerari dello smarrimento. E se la scienza fosse una grande impresa metafisica? (Ares 2013), nel quale critica l’approccio epistemologico della scienza moderna che, tradendo il metodo e le finalità originari della scienza classica, scivola spesso in un pericoloso scientismo.

«Il mio libro non è contro la scienza», ha spiegato il professore, «piuttosto vuole criticare il posto che la scienza ha occupato nella società moderna. Lo smarrimento di cui io parlo viene dal fatto che la scienza quando la si considera come fonte principale ed unica della verità arriva ad annientare la distinzione degli ordini ed in particolare a marginalizzare l’ordine della carità». E ancora: «quando Cristo dice “io sono la verità” si vede bene che la verità ha un senso che ha poco a che vedere con la scienza come viene intesa oggi. Il problema non è la scienza in se stessa ma il ruolo che si fa giocare alla scienza». E’ evidente che «mettere la scienza al giusto posto non vuol dire imporle dei limiti ma permetterle, magari a lungo termine, di esprimersi al meglio

Se la scienza classica cercava la verità, quella moderna si preoccupa soltanto dell’esattezza delle proprie acquisizioni. Così essa non è più «un modo per rendere grazie a Dio». Ecco perché, citando Pascal, «quando la scienza esce dal suo ordine, non è il suo trionfo, ma il suo naufragio». «La scienza è un modo di amare Dio», ha concluso, «per questo motivo lo smarrimento di cui parlo nel libro è precisamente il fatto che invece la scienza è diventata un modo per detestare Dio».

 

Qui sotto Oliver Rey presenta il suo ultimo libro parlando di scienza e fede

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L’amore non basta mai perché va vissuto come segno di Dio

amoreNon c’è niente come il fenomeno dell’innamoramento per riconoscere quanto l’uomo non basti a sé stesso. «Noi desideriamo tante cose diverse, alcune di meno e altre di più. Più intensamente desideriamo una cosa, più grande la soddisfazione che ci aspettiamo da essa. Ma ditemi, quale oggetto del desiderio, una volta ottenuto, è riuscito a soddisfarvi in maniera totale e definitiva? In altri termini, quale oggetto vi ha reso definitivamente felici? Nessuno, vero?», con queste parole inizia un bell’articolo su “Pepe. Il giornale delle grandi domande”, scritto da Giovanna Jacob.

La quale continua: «Se ponete attenzione a questa vostra fatale incontentabilità, potrete prendere coscienza del fatto che tutti i vostri desideri, uniti insieme, formano un unico desiderio infinito. Prenderete coscienza che noi non desideriamo questa o quella cosa, ma l’infinito stesso». L’uomo come strutturalmente teso all’infinito e, come dicevamo, proprio il fenomeno misterioso denominato innamoramento ci fa sperimentare l’ampiezza del nostro desiderio. Anche se, quando finalmente “otteniamo” l’oggetto del nostro amore, ci accorgiamo che l’agognata felicità si è spostata più avanti, come un cielo che tanto più si allontana quanto più è avvicinato. Neanche lei/lui ha soddisfatto davvero l’insopprimibile desiderio di felicità.

L’amore non soddisfa l’esigenza umana di compimento, di soddisfazione e di felicità perché è un segno, un segno e una freccia che «allude ad un significato più grande del segno stesso». Un mazzo di fiori trovato sul tavolo di cucina non si giustifica da sé ma è segno di qualcun altro che lì lo ha messo. Rimanda ad altro da sé, così è l’amore. Tuttavia, anche se il segno non è capace di rispondere totalmente all’uomo, l’amore «ha in sé stesso un anticipo del significato cui allude. Amare non significa soltanto aspettare l’infinito ma, in un certo senso, goderne un piccolo anticipo». Una piccola caparra di gioia, che non spegne il desiderio ma anzi, lo amplifica, spingendolo oltre l’oggetto d’amore, verso Colui che lo ha creato e gliel’ha donato.

Ma non sempre accade così, l’inganno è dietro l’angolo. Si può infatti credere di essere «completamente appagati da siffatta caparra e dimenticarsi di risalire dal segno al significato. In altri termini, per quanto possa sembrare paradossale, ci si può inchinare al segno come ad un idolo». L’amore diventa idolo, chiusura, così come lo è «nella maggior parte dei romanzi, dei film, delle canzoni. Te lo riducono ad un sentimentalismo zuccheroso dalle proprietà afrodisiache e te lo vendono come il paradiso in terra».”Tu sei tutto ciò di cui ho bisogno”, si dicono gli innamorati: è un bugia. Vissuto così l’amore «non dura a lungo» perché appena la persona amata sembra non suscitare più quella mescolanza inesplicabile di emozioni spirituali e desiderio sessuale, non si trova più nessuna ragione per stare con lei, bisogna cambiarla.

Eppure la soluzione c’è per non cadere nell’idolo, per non illudersi che l’eros sia tutto ciò che abbiamo bisogno. Bisogna continuare a vivere l’amore sessuale come segno di Altro, così come è stato per l’innamoramento. Perché viverlo come segno del Mistero significa godere dell’anticipo di felicità, che cristianamente è chiamato “centuplo”: «Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù» (Mt 19,29), ovvero amerà cento volte tanto. E goderlo cento volte tanto significa capire che, in fondo al volto della persona amata, ad aspettarci c’è proprio Lui.

La redazione

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Le Femen sottomesse ad un uomo, lo rivela un documentario

FemenLe femministe ucraine Femen sono diventate universalmente note in particolare per aver recentemente segato e abbattuto una croce cristiana nel centro di Kiev dedicata alle vittime dello stalinismo. Il gesto, compiuto dalla fondatrice Inna Shevchenko, riassume tutto il loro programma e per questo è stata premiata dal governo francese di Hollande mettendo il suo volto su tutti i nuovi francobolli.

In seguito a tale dimostrazione anticristiana, le abbiamo viste -rigorosamente in topless, confermando il pregiudizio sulla donna come oggetto sessuale-, in Piazza San Pietro ad insultare Benedetto XVI e aggredire pubblicamente l’arcivescovo belga Andre-Joseph Leonard, capo della Chiesa Cattolica del Belgio. Tuttavia una giornalista ucraina è riuscita ad infiltrarsi tra di loro scoprendo che tutte le azioni di protesta delle Femen vengono generosamente pagate con una quota di circa 1.000 euro al giorno, comprensive di albergo, cibo, taxi e biglietti. Un’inchiesta francese ha invece, rivelato che alcune di loro, come la portavoce francese (Eloise Bouton) sono prostitute rinomate negli ambienti parigini. Un’altra rivelazione, questa volta diffusa dal “Bild.de” ha scoperto che le Femen hanno un atteggiamento razzista e discriminatorio nei confronti delle donne che vorrebbero aderire, scegliendo soltanto quelle con l’aspetto più “gradevole” e più “efficace” per sfondare lo schermo televisivo.

Ma chi ha messo davvero a nudo le Femen è il documentario “Ukraine is not a brothel” (“L’Ucraina non è un bordello”), presentato fuori concorso al Festival di Venezia, il quale ha rivelato come le scalmanate attiviste nude dell’Est non siano in realtà quelle guerriere del femminismo che dicono di essere, ma piuttosto delle vittime di quello stesso maschilismo che giurano di combattere. La scomoda verità sulle Femen, si legge su Repubblica, è un fiume carsico che emerge lentamente nel film di Kitty Green, 28 anni, che ha condiviso per un anno con alcune di loro un appartamento di Kiev. Le ha seguite nelle proteste generosamente pagate, finendo lei stessa più volte in manette, anche a Roma.

Ed ecco che emerge l’ombra ingombrante di un uomo nelle vite delle Femen, si chiama Viktor e impartisce ordini alle donne-zerbino via Skype. «Dite ad Alexandra che non avrà i suoi 200 dollari se non farà bene la performance», minaccia. Poi questo Viktor Svyatskiy appare davanti alla telecamera di Kitty Green rivelando di essere il vero ideologo, padre-padrone delle femministe ucraine: «Gli uomini fanno di tutto per il sesso: io ho creato il gruppo per avere delle donne. Spero che grazie al mio comportamento patriarcale loro rifiutino quel sistema che rappresento». Ecco a chi obbediscono queste povere ragazze, vittime del sistema che dicono di voler combattere distruggendo le croci cristiane. «Sceglie le ragazze più belle perché messe in prima pagina attirano più curiosi, è lui padrone della loro immagine, così come si vende un marchio», racconta Kitty. «Lui è molto violento con loro, urla molto e le chiama “troie”». Lo stesso Viktor dice di loro davanti alla telecamera: «Queste ragazze sono deboli, non hanno la forza nel carattere. Loro non hanno nemmeno il desiderio di essere forte. Al contrario, mostrano sottomissione, ignavia, mancanza di puntualità e molti altri fattori che impediscono loro di diventare attivisti politici».

Una Femen, riporta l’“Independent”, parla del rapporto tra le donne e il patriarca del movimento femminista come molto simile alla “sindrome di Stoccolma”, in cui gli ostaggi provano simpatia per i loro rapitori. «Siamo psicologicamente dipendenti da lui», confessa la povera ragazza. «Paradossi di un femminismo nato da un copyright sbagliato, stramberia di un movimento incapace di liberarsi della cultura machista in cui è cresciuto», il commento del quotidiano “Repubblica” che fino a ieri le aveva difese. Intanto Inna Shevchenko, rifugiatasi in Francia, dovrà prendersi carico di rispondere dell’accusa subita da alcune attiviste da parte della polizia francese di possesso di armi illegali. Il gioco evidentemente comincia a farsi pesante.

La redazione

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“Radicali succhia-soldi”, ma non ditelo a Massimo Teodori

RadicaliI ricavi complessivi del 2012 per “Radio Radicale” hanno raggiunto i 12,9 milioni, di cui 8,4 milioni versati dai cittadini per la trasmissione delle sedute parlamentari, già trasmesse da “Radio parlamento” e a cui si accede attraverso internet e il satellite, e altri 4,5 milioni versati sempre dai cittadini come contributi dai fondi dell’editoria, ai quali la Radio accede quale organo della Lista Marco Pannella, e che non intende rifiutare.

Dei radicali è stato fondatore e militante per anni anche Massimo Teodori, sempre affaticato nelle sue inchieste sul “Vaticano rapace” e sempre altrettanto attento a non parlare mai del “sistema succhia-soldi radicale”, un partito che ha campato di denaro pubblico elargito alla sua radio senza concorsi né appalti, pur essendo da sempre contrario al finanziamento pubblico ai partiti. Men che mai si è sentita un’obiezione di Mario Staderini o Marco Cappato alla nuova iniziativa di Marco Pannella di sedurre perfino l’amato e condannato Silvio Berlusconi sperando di dare finalmente qualche visibilità ai suoi cari referendum, tra cui quello pro-cannabis e anti-8×1000 (“Più canne meno tasse” è la sintesi del duo Pannella-Berlusconi).

Nonostante lo 0.19% dei loro consensi, ha spiegato il loro ex-tesoriere Danilo Quinto, i Radicali sono riusciti ad approdare al Governo tramite Emma Bonino, la quale si è già fatta ampiamente notare per scarsa capacità di difesa dei diritti umani in pochi mesi di governo.

“Italia Oggi” informa comunque che “Radio Radicale” è in crisi, gli ascolti sono in netto calo, risultato «di un palinsesto sempre uguale a sé stesso da troppo tempo, e, più in generale, della crisi del movimento di Marco Pannella che ormai, anche nelle urne, raccoglie spiccioli di voti». Eppure il contributo pubblico rimane invariato da anni, anzi aumenta sempre più. Ci auguriamo che Massimo Teodori spieghi questo mistero nel suo prossimo best-seller.

La redazione

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Domenico Quirico: «la fede mi ha aiutato a resistere»

Domenico QuirìcoDomenico Quirico de “La Stampa” e il rapimento. E’ stato rilasciato dopo oltre cinque mesi ed il racconto di quanto gli è accaduto.

 

Dopo 152 giorni è stato finalmente liberato Domenico Quirico, l’inviato de La Stampa rapito in Siria lo scorso aprile. La Farnesina ha fatto sapere che «è provato, ma in buona salute» ed ha già abbracciato la sua famiglia.

Davvero significativa la lettera che ha inviato a “La Stampa”, una sorta di diario di questi mesi di prigionia, rinchiuso dentro «piccole camere buie», soffrendo «le umiliazioni, la fame, la mancanza di pietà, due false esecuzioni, due evasioni fallite».

Un soldato gli ha prestato un telefonino, «è stato l’unico gesto di pietà umana che ho ricevuto nei 152 giorni», ha scritto Quirico. «Nessuno ha avuto verso di me una manifestazione di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Persino i vecchi e i bambini hanno cercato di farci del male. Lo dico forse in termini un po’ troppo etici, ma veramente in Siria io ho incontrato il paese del Male. Sono riuscito a chiamare a casa solamente per 20 secondi, dopo quell’urlo disperato che ho sentito dall’altra parte, la linea è caduta».

Per il resto «ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel mondo occidentale, non ho mai provato cos’è l’umiliazione quotidiana nelle cose semplici come il non poter andare alla toilette, il dover chiedere tutto e sentirsi sempre dire no. Credo che c’era una soddisfazione evidente in loro nel vedere l’occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero». Racconta ancora: «sono stato cinque mesi senza scarpe, camminando a piedi nudi. Per cinque mesi il mio ritmo di vita è diventato il sole che spunta e il sole che tramonta».

E poi la conclusione: «In tutta questa esperienza c’è molto Dio. La mia è una fede molto semplice, la fede delle preghiere di quando ero bambino, dei preti che quando andavo a trovare mia nonna in campagna incrociavo mentre raggiungevano in bicicletta delle piccole parrocchie con gli scarponi da operaio e la borsa attaccata alla canna della bici, e portavano estreme unzioni, benedivano le case, con la fede dei preti di Bernanos, semplice ma profonda. La mia fede è darsi, io non credo che Dio sia un supermercato, non vai al discount a chiedere la grazia, il perdono, il favore. Questa fede mi ha aiutato a resistere». La sua e quella dell’altro giornalista rapito, Pierre Piccinin, «è la storia di due cristiani nel mondo di Maometto e del confronto di due diverse fedi: la mia fede semplice, che è darsi, è amore, e la loro fede che è rito».

La redazione

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