Convivenza, matrimonio, castità: ragioni di una scelta

FidanzatiIn un articolo pubblicato a giugno sul sito americano Crisis magazine, l’autore Ryan Topping affronta con toni molto simpatici alcuni fra i temi più delicati della nostra epoca: la convivenza, la castità ed il matrimonio.

L’autore si sofferma solo brevemente sulle implicazioni logistiche dei preparativi al matrimonio (lista di nozze, elenco degli invitati, organizzazione della cerimonia, ecc.), per passare subito ad una serie di domande e risposte da lui raccolte negli anni in cui, insieme alla moglie, ha preparato molte coppie alle nozze. Proprio la convivenza è il tema centrale della prima domanda: “Giacché molte coppie sembrino essere felici di vivere insieme, cosa aggiungerebbe il matrimonio ad una gioia già condivisa?” A questo punto l’autore elenca una serie di statistiche (le fonti sull’articolo originale) che suggeriscono gli evidenti vantaggi del matrimonio.

Le donne sposate, innanzitutto, riferirebbero con maggiore probabilità di essere felici più di quanto non lo siano quelle divorziate o single. Secondo un recente studio, infatti, il 50% delle mogli descrive il proprio status emotivo come “molto buono o eccellente”; lo stesso dato si riscontra solo nel 27% delle donne single. Il matrimonio, inoltre, diminuirebbe la probabilità per una donna di subire abusi domestici: solo il 5 % delle donne sposate, infatti, segnala episodi di violenza rispetto al 14 % di quelle che convivono.

Un numero sempre maggiore di persone crede, tuttavia, che la convivenza abbia anche un vantaggio economico. A questo riguardo non è un caso se, negli Stati Uniti, dal 1970 ad oggi il numero dei conviventi sia salito da mezzo milione a 5 milioni di americani. Spiega l’autore: “Lungi dal rafforzare il vostro rapporto, se si va a convivere prima del matrimonio si avranno più probabilità di rompere la relazione. Una coppia di conviventi ha, infatti, il doppio delle possibilità di separarsi rispetto ad una sposata. Uno studio recente ha inoltre rivelato che il 50% dei figli con genitori conviventi ha visto la fine della relazione tra i due partner rispetto al 15% dei bambini nati da una coppia di coniugi. La verità è semplice: vivere insieme è difficile, soprattutto durante i primi anni. Senza un impegno preso in pubblico, permanente ed esclusivo, si hanno meno probabilità di farcela”.

Quest’ultima affermazione ci rimanda ad un recente articolo apparso sul sito della Nuova Bussola Quotidiana. In poche righe l’autore orienta il nostro sguardo sulle fondamenta della società italiana, spiegando perché l’unica forma legittima di unione contemplata dalla Costituzione sia quella matrimoniale.  Ma perché la convivenza intaccherebbe il bene comune? Scrive Tommaso Scandroglio: “Prima di tutto perché la convivenza per sua natura è un legame precario: metà di loro finirà entro un anno dalla nascita (Demography, 2006). Ciò non deve stupire dato che le coppie di fatto fanno della “prova” il cuore pulsante della convivenza e infatti escludono l’indissolubilità e l’esclusività del rapporto, le due proprietà che invece appartengono all’istituto del matrimonio. Se non le escludessero si sposerebbero, pare cosa evidente. Quindi le convivenze instaurano relazioni precarie e da ciò consegue che tutti i rapporti sociali, giuridici ed economici che derivano dalla convivenza sono anch’essi a rischio: contratti di locazione, mutui a due, cointestazione conti correnti, etc. Pensiamo anche al caso di un convivente che abbandona la partner e quest’ultima dipendeva economicamente dal suo compagno (nel matrimonio ha rilievo giuridico l’ingiusto abbandono del tetto coniugale, cioè è un dovere la co-abitazione tra coniugi, non così per i conviventi): ciò provocherà danni sociali ed economici che si rifletteranno anche sulla collettività. Lo Stato esige solidità dei rapporti tra i consociati perché questa solidità si riverbera su tutto il consesso sociale: la convivenza non garantisce per nulla questa stabilità di rapporti ed è quindi da scoraggiare”.

Secondo l’autore, inoltre, la convivenza non offrirebbe alcuna garanzia sull’educazione degli eventuali figli nati in seno a tale rapporto: “Tre bambini su quattro sperimentano la rottura della relazione prima di arrivare ai 16 anni di età (National Marriage Project – Rutgers University, New Jersey). Lo studio inoltre ci informa che questi bambini soffrono di seri disordini psicologici: asocialità, depressione, ansia, difficoltà di concentrazione, meno bravi a scuola (abbandono scolastico, anni ripetuti), attività sessuale precoce. E tutto ciò non è un buon guadagno per la società, soprattutto quando questi ragazzi fragili diventeranno un giorno adulti fragili, cioè cittadini-professionisti fragili. Quindi è per questo motivo che il nostro diritto di famiglia – eccetto alcuni diritti a cui abbiamo fatto cenno – rimane matrimonio-centrico. Perché solo la relazione coniugale fa bene alla persona – coniugi e figli – e fa bene alla società. Il nostro ordinamento cioè spinge verso il matrimonio e scoraggia altri tipi di unioni perché perniciose per la società. Riconoscere, non diciamo le unioni di fatto, ma anche solo i diritti dei conviventi è già erroneo perché favorisce le unioni di fatto e quindi favorisce la precarietà sociale”.

Ritornando al primo articolo preso in esame, credo sia interessante soffermarsi su altre questioni (troppo spesso taciute) sollevate dall’autore. In un’altra domanda una coppia chiedeva: “In gioventù frequentavamo l’ambiente parrocchiale, ma negli anni dell’università non abbiamo più praticato. Ci chiediamo se da sposati dovremmo ricominciare a seguire le funzioni liturgiche”. Per rispondere viene citata un’indagine condotta in America nel biennio 2010-2011. Secondo lo studio le coppie sposate con figli in cui entrambi i genitori concordano sul fatto che Dio è al centro del loro matrimonio hanno almeno il 26% in più di probabilità di sperimentare un rapporto molto sereno rispetto alle coppie che non condividono questo valore.

E per quanto riguarda il divorzio, l’autore tiene a precisare che farlo “per il bene dei figli” non è altro che una sciocca scusa. Secondo un’indagine retrospettiva condotta da Scientific American, le persone i cui genitori si sono separati quando erano giovani hanno più difficoltà a formare e mantenere relazioni affettive, una maggiore insoddisfazione matrimoniale ed un tasso più elevato di divorzio. Un bambino cresciuto da una madre non sposata ha inoltre un rischio sette volte maggiore di essere povero: in altre parole i bambini che non hanno genitori coniugati rappresentano il 27% di tutti i bambini degli Stati Uniti ed il 62% di tutti i bambini in stato di povertà. Continua Topping: “I figli di una mamma single sono meno sicuri rispetto agli altri bambini: un bambino che vive solo con sua madre ha una probabilità 14 volte maggiore di subire abusi rispetto ad un bambino che vive con genitori sposati, mentre un bambino la cui madre convive con un uomo che non è il suo padre biologico ha un rischio 33 volte più alto di soffrire per gravi violenze fisiche”.

Un altro tema su cui l’autore si sofferma è quello della sessualità, in particolare il controllo delle nascite. Chiede una coppia: “Vorremmo aspettare uno o due anni prima di avere un figlio: sia la pillola che i metodi naturali hanno lo scopo di evitare una gravidanza, qual è, dunque, la  loro differenza?” Come spiega Ryan Topping, la questione non sta nel “fine” che si vuole raggiungere, ma nel “mezzo” utilizzato. Su questo sito abbiamo più volte espresso la posizione della Chiesa in termini di contraccezione. In un articolo di un anno fa, ad esempio, citavamo lo stralcio di un discorso tenuto da Giovanni Paolo II in occasione dell’Angelus domenicale. Il Papa ha spiegato che in tema di procreazione e sessualità il pensiero della Chiesa non è, come purtroppo si pensa sempre di più, l’invito ad una fecondità esagerata.

“Nella generazione della vita – ha spiegato Papa Wojtyla –gli sposi realizzano una delle dimensioni più alte della loro vocazione: sono collaboratori di Dio. Proprio per questo sono tenuti ad un atteggiamento estremamente responsabile. Nel prendere la decisione di generare o di non generare gli sposi devono lasciarsi ispirare non dall’egoismo né dalla leggerezza ma da una generosità prudente e consapevole, che valuta le possibilità e le circostanze, e soprattutto che sa porre al centro il bene stesso del nascituro. Quando dunque si ha motivo per non procreare [il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di “validi motivi”, che non siano, quindi, frutto di egoismo, nda] questa scelta è lecita, e potrebbe persino essere doverosa. Resta però anche il dovere di realizzarla con criteri e metodi che rispettino la verità totale dell’incontro coniugale nella sua dimensione unitiva e procreativa, quale è sapientemente regolata dalla natura stessa nei suoi ritmi biologici. Essi possono essere assecondati e valorizzati, ma non violentati con artificiali interventi”Per un ulteriore approfondimento sulla reale posizione della Chiesa in tema di fecondità coniugale, rimando al sito della Confederazione Italiana dei centri per la Regolazione Naturale della Fertilità.

 Il matrimonio è certamente un balzo nel vuoto, l’atto coraggioso che scaturisce da una fede profonda. E benché nell’attuale contesto socio-economico anche le coppie cristiane si possano sentire scoraggiate nella certezza di un amore “per tutta la vita”, la Chiesa non ha mai smesso di proporre strumenti adeguati al discernimento delle anime. L’esempio peculiare è chiaramente quello della castità prematrimoniale, valore ormai dimenticato anche da molti cattolici.

Eppure l’esercizio della continenza è una virtù che porta molto frutto perché educa a considerare l’altro per quello che è, e non per quello che noi vorremmo che fosse. Lungi dal rivelarsi deludente, escludere il sesso da un rapporto di coppia sarebbe dunque una strategia imprescindibile per prepararsi al matrimonio. Interessante a questo riguardo un recente articolo pubblicato sul portale Zenit. Scrive l’autore: “Attualmente il “permissivismo” morale è enorme. L’“educazione sessuale” trasmessa dai mezzi di comunicazione di massa, ma anche dalla scuola, dice: “Fa’ ciò che vuoi, sia con preservativi sia senza, di nascosto, senza dire nulla ai tuoi genitori”. Per vincere questo ambiente così ostile e irresponsabile è necessaria una vera educazione alla castità, a protezione appunto dell’autentico amore. E il periodo di fidanzamento serve a questo: per far crescere la coppia nella reciproca conoscenza è indispensabile elaborare progetti comuni, al fine di raggiungere virtù indispensabili alla vita matrimoniale. Se la coppia vive bene questo periodo, senza giungere ad avere intimità tipiche della vita matrimoniale, si formerà nella scuola della fedeltà. In altre parole, si manterrà una maggiore fedeltà all’interno del matrimonio, se se si è conservata la purezza del legame durante il fidanzamento. […] Attualmente le persone “usano” il sesso come se fosse un gioco. E cosa succede? Ogni volta sempre meno persone riescono a raggiungere l’opportunità di scelte definitive e sempre meno persone si sposano. L’atto matrimoniale, al quale Dio volle unire anche un piacere sensibile, deve produrre un piacere superiore, di natura spirituale: la gioia, cioè, di sapersi uniti alla volontà di Dio”.

Filippo Chelli

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La profondità di Francesco nell’intervista a La Civiltà Cattolica

Papa francescoCome sempre invitiamo a a non fidarsi dei media, dei quotidiani e della televisione, sopratutto per quanto riguarda la Chiesa, il Papa e il cattolicesimo, ma è necessario sempre riferirsi alle fonti originali e a quelle ufficiali che, grazie a Dio, non mancano.

Allo stesso modo occorre fare per la bellissima intervista rilasciata dal Pontefice alla rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica”, un vero manifesto per tutti gli evangelizzatori moderni.

Se si leggono i resoconti mediatici sembra che tutto si riduca ad un’apertura all’aborto, ai gay, al divorzio, invece occorre andare a leggere l’intervista integrale per capire la vastità e la profondità della visione di Papa Francesco.

 

La bellissima intervista del Papa a La Civiltà Cattolica.

Riportiamo i passi che ci hanno colpito di più sintetizzati per argomenti, vorremo farli nostri perché ci aiutino nella nostra conversione.

 

LA VITA CRISTIANA VA VISSUTA IN COMUNIONE, IN UNA COMUNITA’
Il Pontefice ha parlato di sé e di come la vita cristiana sia comunitaria e non isolata: «Una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta: quando sono stato eletto, abitavo per sorteggio nella stanza 207. Questa dove siamo adesso era una camera per gli ospiti. Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito distintamente un “no”. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri».

 

IL GOVERNO DELLA CHIESA E’ CONSULTAZIONE
Francesco ha quindi commentato il suo modo di guidare la Chiesa universale, imparando dagli errori del passato quand’era a capo della Compagnia dei Gesuiti: «Il mio governo come gesuita all’inizio aveva molti difetti. Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Dico queste cose come una esperienza di vita e per far capire quali sono i pericoli. Col tempo ho imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo anche attraverso i miei difetti e i miei peccati. Così da arcivescovo di Buenos Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: “non si consulti troppo, e decida”. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I Concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del Conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale».

 

LA CHIESA E’ IL POPOLO CRISTIANO IN CAMMINO ED E’ INFALLIBILE NEL CREDERE
La risposta di Francesco si è spostata sulla Chiesa come popolo cristiano in cammino: «L’appartenenza a un popolo ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in questa dinamica popolare. Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua “infallibilitas in credendo” mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina. Ecco, questo io intendo oggi come il “sentire con la Chiesa” di cui parla sant’Ignazio. Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del “sentire con la Chiesa” sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica. E, ovviamente, bisogna star bene attenti a non pensare che questa “infallibilitas” di tutti i fedeli di cui sto parlando alla luce del Concilio sia una forma di populismo. No: è l’esperienza della “santa madre Chiesa gerarchica”, come la chiamava sant’Ignazio, della Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. Questa Chiesa con la quale dobbiamo “sentire” è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità».

 

ANCHE I SACERDOTI E LE RELIGIOSE SONO CHIAMATI A VIVERE LA FECONDITA’
«La Chiesa è Madre. La Chiesa è feconda, deve esserlo», ha continuato Papa Francesco. «Quando io mi accorgo di comportamenti negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che mi viene in mente è: “ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio, quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia, leggo una storia di vita, di fecondità. Un altro esempio di questi giorni: ho visto che è stata molto ripresa dai giornali la telefonata che ho fatto a un ragazzo che mi aveva scritto una lettera. Io gli ho telefonato perché quella lettera era tanto bella, tanto semplice. Per me questo è stato un atto di fecondità. Mi sono reso conto che è un giovane che sta crescendo, ha riconosciuto un padre, e così gli dice qualcosa della sua vita. Il padre non può dire “me ne infischio”. Questa fecondità mi fa tanto bene». Più avanti dirà: «Il voto di castità deve essere un voto di fecondità»

 

IL COMPITO DEI VESCOVI E DEI SACERDOTI: STARE IN MEZZO AL POPOLO
Francesco intende cambiare innanzitutto il ruolo dei Vescovi e dei sacerdoti, non più funzionari delle parrocchie ma padri fisicamente presenti dei fedeli: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».

«La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il confessore, ad esempio, corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o troppo lasso. Nessuno dei due è misericordioso, perché nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente “questo non è peccato” o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate». I ministri della Chiesa, spiega, «devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I Vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade. Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio».

 

IL MESSAGGIO CRISTIANO VIENE PRIMA DI ABORTO, DIVORZIO E OMOSESSUALITA’
Questa è la parte su cui si sono concentrati maggiormente i media, ovvero la domanda sui tanti cristiani che vivono in situazioni non regolari per la Chiesa o comunque in situazioni complesse: divorziati risposati, coppie omosessuali, altre situazioni difficili. Come fare una pastorale missionaria in questi casi? «Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile. Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: “Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell’uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta». E ancora: «Questa è anche la grandezza della Confessione: il fatto di valutare caso per caso, e di poter discernere qual è la cosa migliore da fare per una persona che cerca Dio e la sua grazia. Il confessionale non è una sala di tortura, ma il luogo della misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare meglio che possiamo. Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?».

Ed ora il programma specifico di Papa Francesco a cui molti, noi per primi, dovranno fare proprio: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione. Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali […] l messaggio evangelico non può essere ridotto dunque ad alcuni suoi aspetti che, seppure importanti, da soli non manifestano il cuore dell’insegnamento di Gesù».

 

LA DONNA E’ NECESSARIA DOVE SI PRENDONO DECISIONI IMPORTANTI
Il Pontefice si è anche soffermato sul ruolo della donna nella Chiesa: «È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa».

 

DIO E’ PRESENTE, SBAGLIATO LAMENTARSI E TEMERE IL FUTURO
Davvero molto bella anche la parte sulle sfide di oggi, sul vivere la fede nella realtà odierna: «C’è la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi. Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale, dell’amore di Dio, e di vedere tutte le cose in Dio».

 

LA FEDE E’ CONTINUA RICERCA E NON UN PUNTO DI ARRIVO
Il rapporto tra fede, dubbio, certezza ed incertezza: «In questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre. E spesso si cerca a tentoni, come si legge nella Bibbia. La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere… Si deve entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio».

«Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. È relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».

La redazione

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Intolleranza anticristiana: prassi consolidata dell’Europa laica?

AnticristianesimoL’intolleranza anticristiana, prassi consolidata nell’Europa contemporanea tanto nella sfera privata come in quella pubblica, viene ormai stigmatizzata e condannata anche dai commentatori non di parte che vedono in essa una pericolosa deriva dalle imprevedibili conseguenze.

Così, poco prima che iniziassero le vacanze estive, un lucido articolo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere ha evidenziato come “Ormai, non solo le Chiese cristiane sono state progressivamente espulse quasi dappertutto da ogni ambito pubblico appena rilevante, non solo all’insieme della loro fede non viene più assegnato nella maggior parte del continente alcun ruolo realmente significativo nel determinare gli orientamenti delle politiche pubbliche – non solo cioè si è affermata prepotentemente la tendenza a ridurre il cristianesimo e la religione in genere a puro fatto privato – ma contro il cristianesimo stesso, a differenza di tutte le altre religioni, appare oggi lecito rivolgere le offese più aspre, le più sanguinose contumelie”. Dopo aver richiamato significativi episodi del recente passato, tutti a senso unico sebbene siano avvenuti in contesti diversi, la nota firma del Corriere conclude amaramente osservando che “Ce n’è abbastanza da suscitare la preoccupazione di qualunque coscienza liberale […] libertà religiosa da un lato e dall’altro libertà di opinione e di parola – che sono i due pilastri della libertà politica – vanno all’unisono”.

Le reazioni non si sono fatte attendere: in primo luogo segnaliamo il filosofo marxista Mario Tronti il quale, intervistato da Avvenire, rileva come “Le società occidentali sono in preda a una deriva che coinvolge per intero la sfera dei valori, sempre più ridotta a favore di una competizione selvaggia tra gli individui”. Insomma, a detta di Tronti, sussistono individui  “abbandonati a se stessi, privi dei riferimenti elementari fin qui costituiti per esempio dalla famiglia, […] condannati a concentrarsi sugli obiettivi sbagliati. Nella fattispecie la coscienza cristiana, che ha svolto un ruolo tanto importante nella formazione della mentalità europea, viene percepita solo come controparte con cui polemizzare, scaricando così la rabbia accumulata altrove”.

Anche Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale alla Cattolica di Milano, non ha mancato di dire la sua su questo tema, sempre su Avvenire. Secondo lo studioso, l’intolleranza a senso unico contro i cristiani è una manifestazione crepuscolare della secolarizzazione, in quanto nell’attuale momento storico si fronteggiano “da un lato la rivalutazione della religione come fonte di identità o comunque di senso, dall’altra un dispositivo ad excludendum, per cui alla religione stessa viene negata qualsiasi cittadinanza pubblica, con le conseguenze che Galli della Loggia ha voluto elencare. Ma in questo momento le premesse ideali o, se si preferisce, ideologiche che stavano alla base della secolarizzazione sono sempre più labili, sempre meno percepite. L’intolleranza che ne deriva ha caratteristiche eminentemente pratiche e quindi tanto più sbrigative”

Anche Massimo Introvigne, studioso eminente nonché coordinatore dell’Osservatorio della Libertà religiosa istituito dal Ministero degli Esteri, interpellato sull’articolo di Galli della Loggia, ha fatto il punto della situazione con opportuni riferimenti ad emblematiche vicende di intolleranza sia in ambito continentale sia in quello italiano.

Cos’altro aggiungere a questo punto? Appare evidente come la cristianofobia non sia una mera definizione elaborata a tavolino da intellettuali di parte desiderosi di vendere libri, quanto piuttosto una specie di idra dalle molte teste, talune più evidenti rispetto ad altre che lo sono meno, una consolidata vessazione nei confronti del cristianesimo condotta sotto il duplice profilo culturale e pratico. Questo sistematico accanimento a senso unico, ancor prima di scomodare come mandante la massoneria o l’esistenza dei poteri occulti, sembra scaturire da un equivoco di fondo del liberalismo già lucidamente – o, per meglio dire, profeticamente – evidenziato dal Cardinale John Henry Newman quando affermò che “Il liberalismo commette l’errore di assoggettare al giudizio umano quelle dottrine rivelate che per loro natura l’oltrepassano e ne sono indipendenti; e di pretendere di determinare con criteri immanenti la verità e il valore di proposizioni la cui accettazione si fonda esclusivamente sull’autorità esterna della Parola di Dio” (Apologia pro vita sua, Nota sul liberalismo, tr. it. p. 305).

Su questo punto e in ordine agli ultimi studi in materia di cristianofobia,  rinviamo ai titoli citati in questa pagina per maggiori dettagli.

Salvatore Di Majo

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Dove l’aborto è più libero le donne muoiono di più

Donna incinta 
 
di Virginia Lalli
 
da Notizie Pro Vita, luglio-agosto 2013
 
 

Nell’articolo “Abortionists are not held accountable for mistake”, Lenora W. Berning prende in esame l’impunità dei medici per i danni fisici causati dagli aborti. L’aborto è una delle procedure chirurgiche più frequentemente eseguite negli Stati Uniti, ma è la meno regolamentata.

Le cliniche abortiste, che offrono normalmente solo quel servizio, cioè non sono ospedali polifunzionali, mantengono i medici abortisti liberi da responsabilità per eventuali complicazioni. Coloro che sono favorevoli all’aborto su richiesta sostengono che il tasso di complicanze riportato a seguito di aborti è basso. Ma ciò accade non perché ci siano poche complicazioni, ma perché le complicazioni sono sottostimate. E sono sottostimate, perché non c’è un sistema organizzato oggi atto a quantificare le ripercussioni dannose dell’aborto.

L’industria dell’aborto ha mantenuto gli abortisti liberi da ogni tipo di supervisione, regolamentazione, e da responsabilità che sono invece normali per tutto il resto dei professionisti sanitari. Secondo il Chicago Tribune del 16 giugno 2011, nell’articolo “State abortion records full of gaps”, ci sono migliaia di procedure di aborto non riportate, e sono inestimabili i casi di complicazioni post aborto non riportati come richiesto dalla legge. Quando nella diagnosi di un medico si legge “dolore” o “sanguinamento vaginale”, dietro molto spesso c’è stato un aborto. Quando una nota operativa dice “rottura di gravidanza ectopica ed emorragia interna” – la vera causa è l’aborto. L’autopsia afferma come causa di morte “sepsi” – la vera causa è l’aborto. Non c’è altra pratica della medicina nella quale le persone possono soffrire e morire per le complicazioni dell’intervento senza che ci siano, in qualche modo, professionisti responsabili, coinvolti nella loro cura, o che per lo meno siano a conoscenza del caso, salvo che nell’ipotesi dell’aborto.

Molti fautori dell’aborto sostengono che l’aborto è necessario per proteggere la salute e la sicurezza delle donne: ma secondo un’analisi fatta da The Catholic Family and Human Rights Institute (C-Fam), dai dati del rapporto Global GenderGap Report pubblicato da World Economic Forum (WEF) nel 2009, risulta che i paesi che permettono l’aborto non hanno per niente una più bassa mortalità materna. Gli aborti legali non salvano la vita della donna. Secondo detto rapporto, sono i paesi con più restrizioni normative riguardo all’aborto che hanno più basso il tasso di mortalità materna.

In Europa, l’Irlanda ha la più bassa mortalità materna (1 morte per 100.000 parti). In Africa il paese con la più bassa mortalità materna è Mauritius (15 su 100.000) che ha la legislazione più restrittiva; mentre l’Etiopia, che recentemente ha depenalizzato l’aborto, presenta un numero di 48 volte superiore, 720 su 100.000. Nel Sud Africa, dove la legislazione sull’aborto è molto liberale, si sono registrate 400 morti per 100.000 parti. In Asia, il Nepal che non ha nessuna restrizione per l’aborto è uno dei paesi che ha il più alto tasso di mortalità materna (830 per 100.000) mentre lo Sri Lanka, che ha la più bassa percentuale di mortalità materna (39 per 100.000), è uno dei paesi con leggi restrittive. In Sud America, in Cile, che ha una protezione costituzionale per i concepiti, muoiono 16 madri su 100.000 parti, mentre la più alta mortalità materna è in Guyana (430 su 100.000) dove l’aborto è quasi senza restrizioni. Stessi risultati in numeri per gli stessi paesi nel rapporto World Abortion Policies del 2011, delle Nazioni Unite.

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Processo a Galilei, nessun contrasto tra scienza e fede (video)

Agnoli videoE’ nota a tutti la strumentalizzazione del “caso Galileo”, divenuto suo malgrado (devoto cattolico, prima e dopo i problemi con il Sant’Uffizio) mito e martire del libero pensiero scientifico, contrapposto all’oscurantismo clericale e simbolo di un conflitto strutturale e insanabile tra Chiesa e scienza, in ultima istanza tra fede e ragione.

Qualche anticlericale calca troppo la mano e a volte, come accaduto ad Alessandro Cecchi Paone, arriva a pronunciare gaffe incredibili come il fatto che «Galieli dimostrò che la Terra era rotonda».

Il filosofo Luigi Baldi ha già approfondito su questo sito web la verità sul processo a Galileo, mentre Francesco Agnoli ha spiegato come l’eliocentrismo, lungi dall’aver messo in crisi la teologia, ha elevato l’uomo riaffermandone la centralità spirituale. Proprio Agnoli, scrittore, filosofo e saggista, in un video del 2009, ha approfondito dal punto di vista storico il processo di Galilei spiegando quel che la pubblicistica anticattolica ha nascosto per anni. Non ci fu alcuno scontro tra fede e scienza, tant’è che furono pagani e aristotelici ad opporsi alle sue teorie, trovando invece difesa delle sue tesi nei Gesuiti cattolici e fu la Chiesa ha consacrare tutte le sue scoperte più importanti.

I problemi iniziano per questioni diverse, sopratutto politiche. Ma inutile anticipare quel che ci verrà spiegato dal prof. Agnoli. Buona visione!

 

Qui sotto il video di Francesco Agnoli sul “processo Galilei”

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Il cristianesimo ha portato alla parità tra uomo e donna

SposiLa parità tra i sessi merito del femminismo? No, anch’essa merito del cristianesimo. Lo ha spiegato di recente su “Repubblica” il prof. Miguel Gotor, docente di Storia moderna presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino e senatore del Partito Democratico.

Recensendo l’ultimo libro di Gérard Delille, “L’economia di Dio. Famiglia e mercato tra cristianesimo, ebraismo, Islam” (Salerno Editrice 2013), ha riflettuto sul ruolo dei rapporti tra uomo e donna nelle tre religioni monoteiste.

«Gli ebrei hanno adottato un sistema bilineare in base al quale la discendenza, nell’ambito di una predominanza maschile, è affidata sia al padre sia alla madre come dimostra il matrimonio tra uno zio e la sua nipote e il meccanismo del levirato, in base al quale se un uomo sposato moriva senza prole, suo fratello doveva sposare la vedova e il loro primogenito sarebbe stato considerato legalmente figlio del defunto». Gli islamici invece «hanno aderito a un sistema agnatizio, in cui la proprietà, il nome e i titoli si trasferiscono soltanto dal padre al maschio primogenito».

Per quanto riguarda i cristiani, ha continuato Gotor, essi «hanno prevalentemente costruito un modello cognatizio che consente il trasferimento della parentela e della relativa eredità in ugual misura sia ai maschi sia alle femmine». Tali relazioni «proprie del cristianesimo hanno favorito una progressiva parità tra uomo e donna. Inoltre, il divieto di unioni tra parenti e la capacità della donna di ereditare, di trasmettere la proprietà e di sposarsi al di fuori della famiglia, hanno consentito una maggiore circolazione delle ricchezze e la formazione di un mercato autonomo, ma anche l’unione di Regni diversi senza guerra né sangue, bensì per via matrimoniale».

La redazione

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Le contraddizioni etiche di Michela Marzano

Michela MarzanoInnanzitutto, chi è Michela Marzano? E’ una filosofa e parlamentare del Partito Democratico, il cui pensiero è diffuso e amplificato grazie alla sua collaborazione con “Repubblica”.

Roberto Dal Bosco, sull’interessante rivista “Notizie pro-vita” l’ha definita «uno dei tanti prodotti del complesso culturale-industriale del gruppo L’Espresso, di quelli che passano dalle recensioni positive nelle pagine di Repubblica agli inviti nei talk show televisivi della Bignardi, Fazio, ecc.». La classica fotocopia delle intellettuali di “quel mondo”, come le colleghe Chiara Saraceno e Barbara Spinelli. Anche lei, come abbiamo già visto per la Saraceno, è autrice di diverse contraddizioni.

Nel suo libro “Sii bella e stai zitta”, edito dalla Mondadori nel 2010 (gli intellettuali di “Repubblica”, come Augias, scrivono tutti per la casa editrice di Berlusconi) Michela Marzano si dilunga in una apologia dell’aborto: «l’aborto è l’unica possibilità che esiste, in uno stato civile, per garantire il rispetto delle donne». Non si rispettano le donne favorendo politiche familiari ed aiuti economici che permettono di evitare la tragedia dell’aborto, per la Marzano ogni volta che una donna abortisce lo fa per rispettarsi. Pazienza se è dimostrato che l’aborto indotto porta al cancro al seno, a gravi ripercussioni psicologiche, aumenta il rischio di nascite premature e aborti spontanei, aumenta la probabilità di danni e infezioni all’utero e aumenta il rischio di placenta previa. L’importante è abortire, indipendentemente se questo causa notevoli danni e traumi psico-fisici alla donna e uccide un essere umano indesiderato.

Infatti, ha proseguito la filosofa di “Repubblica”, «la vita di una donna è infinitamente più preziosa di quella di un essere che non è ancora nato». Non esiste tuttavia alcuna motivazione razionale per preferire la vita della madre a quella del figlio o, viceversa, la vita del figlio a quella della madre, tant’è che lei stessa si è contraddetta in un recente articolo quando, distratta dal tema del femminicidio di cui si stava occupando, ha commentato così la notizia dell’uccisione di una donna incinta da parte di un uomo violento: «Quali che siano le circostanze precise di questo delitto», ha commentato, «non siamo più solo di fronte ad una forma di disprezzo nei confronti delle donne, ma anche di fronte ad un disprezzo generalizzato nei confronti della vita umana: quella di un bimbo che non nascerà mai, ma anche quella dei due figli già nati e della moglie». Magicamente quello che nel suo libro era “un essere umano non ancora nato” in questo articolo è diventato un “bimbo che non nascerà” e la sua vita, che prima era inferiore a quella della donna, ora è improvvisamente diventata di uguale importanza, tanto da essere paragonata all’uccisione della madre. E la contraddizione è molto più profonda: se è l’uomo ad uccidere il bimbo non ancora nato è “disprezzo nei confronti della vita umana”, se invece è la donna a commettere tale omicidio tramite l’aborto allora è “garanzia per il suo rispetto”.

La Marzano, senza figli, sostiene l’omosessualità come “condizione naturale” e contemporaneamente afferma che la maternità «non è una condizione naturale». Nel libro “Volevo essere una farfalla”, sempre pubblicato dalla casa editrice di Berlusconi nel 2011, ha raccontato la sua lotta con l’anoressia e il tentato suicidio. Nel suo ultimo libro, “L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore”, ha spiegato che tuttora la sua vita sociale è abbastanza inquieta. Secondo la recensione su “Repubblica”, «ha parlato dei propri uomini, padre, fratello, amanti, compagni che l’hanno abbandonata e tradita, e che da lei si sono fatti tradire e abbandonare». L’uomo va tradito, ha spiegato, «se promettessi ad una persona di non tradirla mai, mentirei». Il suo concetto di amore è simile a quello raccontato dalle teenager nei loro diari personali, come è stato notato da chi ha letto il libro: “sole, cuore e amore”, questo è il livello.

Nonostante il suo «abortismo forsennato, quasi mistico», come definito da Diego Molinari, l’8 giugno scorso è stata invitata al “Festival Biblico” nella Basilica Palladiana di Vicenza, organizzato tra gli altri dalla Società San Paolo, da Famiglia Cristiana e dal Pontificio Consiglio per la Cultura. Chi ha osato chiedere conto delle sue posizioni abortiste, in totale antitesi rispetto alla Chiesa, è stato zittito dal pubblico, ricevendo come risposta dalla filosofa questa frase: «E lei come si permette di giudicare la mia fede?».

Pare infatti che la Marzano sia cattolica, ovviamente emancipata ed indipendente dalla dottrina cattolica, altrimenti non potrebbe scrivere per “Repubblica” e sotto gli editoriali di Vito Mancuso. Ha sostenuto, ad esempio, che Dominique Venner, lo storico francese di estrema destra che si è suicidato nella cattedrale di Notre-Dame in protesta delle nozze gay non poteva essere cattolico. Era un «radicale ed estremista, ma non nel nome di Dio o della fede. Il suo estremismo aveva radici atee e si nutriva dell’odio per gli altri». Difendere il cattolicesimo scaricando la colpa alle estremiste radici atee? Anche da questo punto di vista la Marzano sembra totalmente fuori allineamento rispetto all’insegnamento cristiano che invece dice di professare.

La redazione

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Richard Dawkins difende la pedofilia?

Richard Dawkins E’ ufficiale ormai, Richard Dawkins ne combina di più perfino del nostro simpatico Odifreddi. Dopo essersi classificato tra i peggiori misogini del 2011 per aver chiesto di tacere ad una donna che si lamentava degli abusi subiti in una conferenza di atei militanti, in questi giorni “l’ateo più famoso del mondo” (che però ha cambiato idea dicendo di essere agnostico) ha difeso la “pedofilia mite”. Questo è quanto dicono i media, in realtà non è vero.

In un’intervista al “Times”, il 72enne inglese ha raccontato che nel 1950 uno dei suoi maestri di scuola una volta lo ha messo sulle sue ginocchia infilando la mano dentro ai suoi calzoncini. «Era estremamente sgradevole e imbarazzante», ha ricordato, «appena ho potuto divincolarmi dal suo grembo l’ho raccontato ai miei amici, molti dei quali avevano avuto la stessa esperienza con lui. Non credo che questo fatto abbia avuto alcun danno duraturo su di noi».

Le dichiarazioni non sono terminate: «Sono molto consapevole del fatto che non si possono condannare le persone di un’epoca precedente usando gli stessi standard di oggi». Questo è purtroppo vero, la pedofilia era decisamente sottovalutata anni fa, non a caso i casi di abusi commessi anche da sacerdoti e religiosi risalgono in massima parte tra gli anni ’50 e i ’70 come ha dimostrato l’indagine nel 2006 dal John Jay College della City University of New York. In un periodo culturale di libertinaggio sessuale ed esplosione della pornografia, com’è stato quel periodo storico, anche la pedofilia ha trovato meno resistenze ad affermarsi, anche giustificata dalla teoria della “liberazione sessuale” dei bambini, portata avanti dagli antenati di Dawkins come gli intellettuali laici Simone de Beauvoir, Michel Foucault, e Jean-Paul Sartre.

«Proprio come noi, se guardiamo indietro ai secoli 18° e 19°, non condanniamo le persone per razzismo allo stesso modo di come noi le condanneremmo oggi, se guardo indietro alla mia infanzia vedo cose come una lieve pedofilia e non riesco a trovare gli stessi motivi per condannarla come invece farei o chiunque farebbe oggi», ha aggiunto lo scienziato inglese. «Il signor Dawkins sembra pensare che se un reato è stato commesso da molto tempo dovremmo giudicarlo in modo diverso», ha commentato Peter Watt, direttore del Child protection at the National Society for the Prevention of Cruelty to Children. «Ma noi sappiamo che le vittime di abusi sessuali subiscono gli stessi effetti, indipendentemente se abusate negli ani 50 o ieri». Peter Saunders, presidente del National Association for People Abused in Childhood ha aggiunto: «L’abuso in tutte le sue forme è sempre stato sbagliato. Il male è male e dobbiamo sfidarlo ogni volta e ovunque si manifesti».

Leggendo le dichiarazioni di Dawkins è evidente che non intendeva giustificare l’abuso di bambini o la pedofilia lieve, tuttavia la sua uscita è stata davvero infelice e ambigua. Oltretutto sorprende che abbia completamente omesso una parola di aperta condanna verso la pedofilia (lieve e non), nonostante fosse sul principale quotidiano inglese. In Italia si direbbe un’odifreddura o come ha commentato il suo amico PZ Myers, un vero disastro. In ogni caso si tratta dell’ennesima gaffe di Dawkins & Co. che ha portato Martha Gill sul “Telegraph” a definire questi “atei impegnati” come “persone imbarazzanti” ed il non credente Brendan O’Neill ad affermare che «gli atei stanno diventando le persone più fastidiose del pianeta».

Curioso che l’unica ad aver difeso integralmente Dawkins, senza nemmeno sottolineare che la sua è stata oggettivamente un’uscita poco prudente, è stata la sua laica devota Chiara Lalli. La militante italiana si è preoccupata di difendere a tutti i costi le buone intenzioni del suo Dawkins, temendo che se venisse screditata la figura dello scienziato inglese per una dichiarazione tanto controversa potrebbe per molti risultare compromesso anche il suo pensiero in favore della religione ateista e di condanna dei credenti. Ecco perché si è sentita chiamata ad intervenire. Peccato che la Lalli non abbia fatto l’avvocato difensore quando Dawkins ha umiliato la donna abusata nel 2011 e non abbia pensato di correggerlo quando, sempre lui, pochi mesi fa ha affermato che educare i bambini alla religione è un male paragonabile alla pedofilia. In questo caso, siamo certi che Dawkins lo ritenga una terribile violenza anche quando lo si faceva negli anni ’50.

La redazione

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L’esperienza del Trascendente alla luce della psicoterapia (2° parte)

Trascendenza 
di Alberto Carrara*
*biotecnologo e neurobioeticista, Ateneo Regina Apostolorum (Roma), Gruppo di Neurobioetica (GdN)

Alberto Passerini*
*Psichiatra, Psicoterapueta, S.I.S.P.I. – Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano-Roma

Alessandra Pandolfi*
*Anestesista, Psicoterapeuta, S.I.S.P.I. – Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano-Roma

 

Nota: la prima parte di questa riflessione è stata pubblicata ieri

 

Considerare l’idea che l’Uomo ha dell’esistenza della divinità alla stregua di un pensiero magico o animistico, come si legge in alcuni scritti, significa, al di là di qualsiasi credenza religiosa, atea o agnostica, ignorare una parte dell’Essere nei suoi bisogni fondamentali; oltre a quelli di amare, essere amato ed essere riconosciuto nei propri significati: il trascendente (Toller, Passerini, 2007). Quasi un secolo di studio e di pratica della Psicoterapia con l’Esperienza Immaginativa (Rêve-Eveillé, Procedura Immaginativa) (Passerini, 2009)  ha dimostrato che, oltre al vissuto corporeo e a quello psichico, esiste una dimensione superiore attinente allo spirito, accessibile a tutti anche se non tutti vi prendono soventemente contatto (Passerini, 2012).

All’interno del “laboratorio” della pratica clinica si possono cogliere della sequenze immaginative a contenuto “transpersonale”, “mistico”,  caratterizzate da vissuti di “fuori dal tempo e dalla fisicità”, “pace interiore”, “estasi”.  Si tratta di una “coscienza di ordine trascendentale, che sfugge a qualsiasi analisi e a qualsiasi linguaggio espressivo adeguato” (Fabre, 1981), di un “sentimento oceanico”, come lo definisce Roman Rolland nelle sue ricerche sulla mistica, un “silenzio nell’oscurità perfetta” con sentimenti di fusione e di comunione con il mondo (Desoille, 2010 [1973]).

Queste ultime caratteristiche possono palesare una parentela con alcuni vissuti arcaici di indifferenziazione tra sé e l’esistente ma  ciò che distingue questa esperienza umana dal pensiero arcaico e/o infantile è stato ben evidenziato dagli studi di Fabre (1981) e De Martin (1986).  Mentre, là dove il pensiero infantile raffigura il soprannaturale in un essere superiore non soggetto alle leggi della fisica (Vallortigara, Girotto, 2013), che si può considerare null’altro che una tappa dello sviluppo cognitivo e psico-affettivo ben descritto negli studi di Piaget (1983), esiste invece un punto d’incontro tra Trascendente ed Arcaico proprio dove questi due stati condividono il vissuto di “fusione”.  Ma ci sono delle differenze: nella regressione all’Arcaico c’è una regressione anche nel cognitivo, si altera la logica causale, la razionalità, si disorganizza il pensiero, si dissolvono i confini dell’Io; diversamente nel contatto con il Trascendente ci sono sentimenti di presenza, di lucidità creativa (Desoille, 2010) (Passerini, 2009), (Rocca, Stendoro, 1993) e di finalismo (Ales Bello, 2010).

 

Il superamento di una soglia
Sempre dal “laboratorio” empirico dell’attività clinica, si è potuto riscontrare che il raggiungimento di stati “elevati” di coscienza, in genere, è preceduto dal superamento di una soglia, da un cambiamento interiore che permette all’Io di ritrovare un’unità (originaria), dalla quale sprigiona una comprensione  lucida, creativa e riflessiva.  La soglia di cui si sta parlando si identifica spesso in un’azione non ordinaria come una nascita simbolica o un’esperienza iniziatica, che si possono riconoscere grazie all’apparire di particolari simbolismi: l’attraversamento di un varco, il passaggio di una porta monumentale, l’attraversamento di uno specchio, la scala a spirale, un passaggio di stato attraverso l’addormentamento, la scomparsa di una maschera ed altri (Romey, 1982).  Ed avviene sempre attraverso il superamento di una prova.

 

I vissuti di pre-morienza
La possibilità di saggiare l’esperienza del Trascendente appartiene all’essere umano che può vivere questo stato in momenti diversi della propria esistenza. Una delle più recenti acquisizioni è quella dei vissuti trascendentali extracorporei, legati alle testimonianze di persone che, trovatesi in punto di morte, grazie alle moderne tecniche rianimatorie, vengono salvate e, al proprio risveglio, raccontano di aver sperimentato nuove dimensioni, in genere a forte contenuto emozionale e di grande bellezza (Owen et al., 1990) (Van Lommel et al., 2001).

Vissuti di pre-morienza (Near Death Experience) vengono descritti anche da pazienti sottoposti ad anestesia generale, soprattutto per interventi chirurgici in cui il muscolo cardiaco viene fermato artificialmente per un certo periodo di tempo (Spitelli et al., 2002). In questo caso non sempre i vissuti extra-corporei sono rasserenanti ma possono avere anche connotati angosciosi.  Questa condizione è di particolare interesse “sperimentale” poiché si può dire che il paziente cardio-chirurgico, in relazione alle modalità dell’intervento, sperimenti “in vita” la propria morte: egli sa che il suo cuore si fermerà per poi ricominciare a battere dopo l’intervento; frequenti sono in letteratura (Blacher, 1983) così come nella nostra esperienza (Passerini, 1987) i vissuti di rinascita, di resurrezione e di pre-morienza.  Infatti si tratta di un intervallo di tempo di vera e propria “sospensione della vita” e verosimilmente sarebbe banale liquidarne i vissuti come semplice angoscia di morte o meccanismi di adattamento.  Sono stati riportati vissuti in cui l’anima va a ricongiungersi con i propri cari defunti, di incontro con Dio o con antenati morti, come esperienza piacevole o rassicurante e percepiti come condizione intermedia tra la vita terrena ed extra-terrena, vissuti d’immortalità, indipendentemente dalle convinzioni religiose del soggetto, visioni di “fuori dal corpo”.  Non estraneo a queste esperienze è il significato simbolico nonché fisiologico dell’organo “cuore”, che in molte culture anche tra loro lontane, rappresenta il “centro dell’essere”, la “divinità dentro l’Uomo”, che è il primo organo che inizia a funzionare alla nascita e l’ultimo a smettere con la morte. Affermare se i vissuti di “pre-morte” si riferiscano ad esperienze al di fuori del proprio essere e senza alcuna connessione con le funzioni cerebrali, che durante un arresto cardiaco si interrompono, o se si tratti di qualche complessa funzione encefalica che si attiva proprio in concomitanza dell’evento potenzialmente mortale esula dallo scopo di questo scritto. Vogliamo tuttavia rilevare come i vissuti riportati dai sopravvissuti appartengano alla sfera del Trascendente.

Esiste ormai una letteratura scientifica e divulgativa piuttosto ampia sull’argomento, che continua ad arricchirsi di nuove testimonianze.  Il primo fondamentale punto è quello che ogni essere umano, indipendentemente dalla sua età, razza, cultura, religione e grado di istruzione è in grado di vivere e ricordare con chiarezza tali esperienze.  Un altro punto interessante è che il percorso in una differente dimensione ha delle tappe che sono presenti  in quasi tutte le descrizioni come il passaggio in un tunnel, l’incontro con una luce mistica, gli incontri descritti sopra, la ricapitolazione della propria vita, l’accesso ad una conoscenza  speciale, l’incontro con un confine o barriera e il ritorno nel corpo volontario o involontario (Long et al., 2010).  Tutti coloro che raccontano la propria esperienza parlano di sensi acuiti, capacità di comprensione straordinaria rispetto a quella della vita normale, possibilità di apprendere per via telepatica. La maggior parte delle persone che riferisce di questa esperienza la giudica indescrivibile  a parole considerando il vocabolario della propria lingua privo di vocaboli adatti a dare un’idea esatta della essenza delle proprie sensazioni (Parnia, Fenwick, 2002).  E qui è sorprendente la similitudine con l’incontenibilità delle emozioni trascendentali riscontrate in psicoterapia.  Un tema ricorrente in coloro che “ritornano” alla vita terrena è quello del sentimento di amore e di pace che pervade ogni situazione vissuta.

Un dato da rimarcare è che l’incontro con persone defunte sconosciute possa portare a posteriori ad un riconoscimento come parenti morti prima della propria nascita e di cui non si conosceva l’esistenza.  Un esempio interessante è quello di un bambino che, in un’esperienza del genere, incontrò un altro bambino che riconobbe come suo fratello. Al risveglio ne parlò con la famiglia che rimase esterrefatta in quanto effettivamente c’era stato un fratello, morto prima della sua nascita, e di cui il protagonista non sapeva nulla poiché nessuno ne aveva mai parlato (Long et al., 2010).

 

Conclusioni
Nella nostra cultura post-moderna c’è un’estrema necessità di applicare e vivere la “prudenza”, intesa come la retta ragione che bisogna, e bisognerebbe, impiegare al formulare conclusioni, specie se queste hanno per oggetto elementi esistenziali considerevoli come l’esperienza umana del “Trascendente”. Non è indifferente, infatti, credere che è il nostro cervello, e non noi stessi, ciò che agisce, colui che ragiona, colui che prende le decisioni, colui che “ci” fa prendere consapevolezza di essere coscienti, di entrare in contatto con una realtà Altra, etc.

Queste credenze, troppo spesso sbandierate da certuni persino in convegni scientifici seri, oltre a venir smentite dalle più recenti acquisizioni in campo neuroscientifico (basti considerare la nuova branca della “neuro-connettomica”, oppure quella della plasticità e rigenerazione cerebrale, etc.), risultano ormai obsolete e “ingenue”, dinnanzi al diffondersi di teorie radicali di stampo “esternalista” sul mentale (M. C. Amoretti, 2011) che non riducono tutto ai neuroni o al solo cervello, ma prendono in considerazione la realtà integrata della persona umana, unità-duale tra componenti fisiche e bio-psichiche (e spirituali), che sempre più trovano riscontri nelle evidenze neuroscientifiche, cliniche e psicodinamiche (A. Nöe, 2010; W. Glannon, 2011).

Le sottili distinzioni da tener presente sono ben riassunte dalla filosofa italiana Angela Ales Bello quando, scrivendo sul tema della coscienza umana, afferma: «È possibile ribaltare la collocazione della coscienza [dell’esperienza umana del “Trascendente”] secondo la quale essa è “epifenomeno” del cervello… a patto che si sottolinei la complessità e la stratificazione dell’essere umano, che conduce non ad un rigido dualismo» (alla René Descartes, all’italiana: Renato Cartesio), «ma ad una dualità, all’interno della quale è presente un aspetto psichico-spirituale autonomo» (P. L. Fornari, 2012). La stessa filosofa, intervistata per l’uscita del volume di oltre 900 pagine da lei curato insieme a Patrizia Manganaro sul tema della coscienza tra fenomenologia, psico-patologia e neuroscienze (A. Ales Bello, P. Manganaro, 2012), sottolinea importanti distinzioni da tener presente nell’odierno dibattito neuroetico: «l’intrinseca autoreferenzialità del pensiero e l’accesso cosciente agli stimoli esterni potrebbero “incarnare” la differenza tra la consapevolezza di se e dell’ambiente circostante. Il termine “incarnare” è particolarmente significativo. Infatti, affermare che la coscienza [l’esperienza umana del “Trascendente”] ha una base nell’attività cerebrale conduce al riduzionismo, invece sostenere che il cervello nella condizione temporale è il luogo della coscienza [dell’esperienza umana del “Trascendente”] è cosa ben diversa» (P. L. Fornari, 2012).

 

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Bibliografia

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AMORETTI M. C., La mente fuori dal corpo, Franco Angeli, Milano 2011; questa è un’opera sintetica sui diversi esternalismi in relazione al mentale di estrema importanza per averne un panorama completo e approfondito. Gli esternalismi sono posizioni eterogenee che considerano che la mente umana si estenda, almeno in parte, oltre i confini fisici, non soltanto della nostra cerebralità, bensì anche della nostra corporalità.
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VALLORTIGARA G. – GIROTTO V., «Perchè ci affidiamo al soprannaturale», Repubblica, 26 giugno 2013; http://www.iniziativalaica.it/?p=16174. Ricordiamo che il neuroscienziato Vallortigara, lo psicologo cognitivo Girotto e il filosofo della scienza Pievani hanno pubblicato un libro intitolato: Nati per credere la cui tesi principale poggia su un’esaltazione della teoria darwiniana dell’evoluzione biologica che, sulle mosse delle speculazioni di Richard Dawkins, sostiene che il nostro cervello e la mente umana si sia evoluta per farci credere in una entità Superiore priva di alcun fondamento ontologico che non siano le stesse connessioni sinaptiche.
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I diritti gay in Italia ci sono già, parola di «Repubblica»

RepubblicaFinalmente. C’è voluto parecchio tempo, anzi troppo, ma alla fine è stato ammesso: in Italia i sospirati diritti per le coppie omosessuali non solo non sono negati, come taluni seguitano ostinatamente a ripetere, ma sono già disponibili e “attivabili”. In poche parole, a portata di mano: nessuna ingiustizia dunque, nessun “vuoto legislativo” e nessuna crudele discriminazione. La novità è che questa verità – già ampiamente sottolineata da autorevoli giuristi, ma a lungo oscurata da disinformazione volta a nascondere alle coppie conviventi i loro effettivi diritti – tempo fa è stata riconosciuta pure dall’insospettabile quotidiano la Repubblica.

La sorprendente ammissione è arrivata da un’inchiesta circa l’iniziativa di una compagnia di assicurazioni che propone – riprendiamo testualmente – due «polizze assicurative» innovative rispetto ad «altre soluzioni di diritto privato»; la prima riguarda la materia successoria e, in alternativa alla prassi che prevede che tutto possa «essere impugnato o reso nullo dai parenti di uno o dell’altro, che vantano la consanguineità», si prefigge la tutela di «qualsiasi beneficiario, non necessariamente un parente o un coniuge», mentre la seconda contiene un dispositivo «che “si sostituisce” alla pensione di reversibilità» attraverso un apposito «fondo pensione deducibile». Il problema, si legge sempre nell’articolo, è «che c’è molta ignoranza su questi temi». Una considerazione scomoda ma vera, sulla quale sarebbe opportuno soffermarsi.

E che pone un dubbio: se la materia successoria e perfino la pensione di reversibilità non sono negati ai conviventi gay, dov’è il fantomatico ”vuoto legislativo”? Ha senso chiederselo pensando, in aggiunta a quanto scritto da Repubblica, che le coppie di fatto godono già oggi dei diritti – solo per rammentarne alcuni – di stipulare di accordi di convivenza per interessi meritevoli di tutela (ex art. 1322 cc), di successione nel contratto di locazione a seguito della morte del titolare a favore del convivente (Cfr. C.C. sent. n. 404/1988), di visita in carcere al partner (Cfr. D.P.R 30 n. 230 del 2000), di risarcibilità del convivente omosessuale per fatto illecito del terzo (Cfr. Cass., sez. unite Civ., sent. 26972/08, Cass. III sez. pen. n. 23725/08), di obbligo di informazione da parte dei medici per eventuali trapianti al convivente (Cfr. L. n. 91 1999; Cfr. L.n. 53 2000), di permessi retribuiti per decesso o per grave infermità del convivente (Cfr. L.n. 53 2000), di nomina di amministratore di sostegno (artt. 408 e 417 cc), di astensione dalla testimonianza in sede penale (art. 199, terzo comma, c.p.p.), di proporre domanda di grazia (art. 680 c.p).

Il punto è che tutto ciò, quasi sempre, viene taciuto. Perché? Questa è una bella domanda. Un’ipotesi convincente è che ai responsabili dei movimenti gay interessi poco, in realtà, di colmare un “vuoto legislativo” a questo punto quanto mai dubbio; loro preoccupazione è invece occupare la scena pubblica con rivendicazioni che, esaminate da vicino, rivelano una matrice prevalentemente politica ed identitaria. Lo conferma con chiarezza un insospettabile come Gianni Rossi Barilli, giornalista, scrittore e militante gay, il quale ha scritto che «il numero delle coppie disposte ad impegnarsi per avere il riconoscimento legale è trascurabile» e che «il punto vero è che le unioni civili sono un obbiettivo formidabile. Rappresentano infatti la legittimazione dell’identità gay e lesbica» (Rossi Barilli G.Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano 1999, p. 212). I conti, insomma, tornano.

Infatti, se sul piano giuridico – precisamente del diritto volontario -, i diritti cui le coppie omosessuali aspirano sono sostanzialmente già disponibili, su quello pubblico non lo sono; manca cioè l’istituto delle coppie di fatto. Istituto che se da un lato poco aggiungerebbe sotto il versante normativo, d’altro lato moltissimo cambierebbe su quello simbolico giacché determinando, come osserva Rossi Barilli, «la legittimazione dell’identità gay e lesbica», avvierebbe una dinamica palesemente concorrenziale – sul piano delle risorse e della visibilità, dell’economia e della cultura – rispetto all’istituto matrimoniale, tanto che la stessa Corte Costituzionale, consapevole di questo e tradendo una certa ingenuità, si è preventivamente preoccupata di escludere che il riconoscimento delle coppie di fatto possa avvenire «soltanto attraverso una equiparazione […] al matrimonio» (Cfr. Corte cost. 14 aprile 2010, n. 138).

In altre parole il vero motivo per cui, col pretesto di diritti che – come abbiamo visto – in realtà negati non sono, si spinge in favore di un riconoscimento pubblico delle coppie di fatto anche omosessuali non è di giustizia ma di ideologia, ed ha il preciso scopo «di espropriare la famiglia dai diritti e dai privilegi che in molti paesi, come l’Italia, ancora vengono accordati a questa istituzione». Quello dei diritti civili è cioè l’ultimo paravento del materialismo distruttore dello «stato di cose presente» (Marx K. – Engels F. L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1972. p. 25), di chi considera la famiglia luogo di oppressione della donna e di «sfruttamento dei figli da parte dei loro genitori» (Manacorda Alighiero M. Marx e l’educazione. Armando editore, Roma 2008, p. 99). E’ qui, su questo terreno –  forse meno visibile ma decisivo – che si gioca la vera partita: quello che definisce e critica la famiglia naturale e la sua ragion d’essere. Il resto, con rispetto parlando, è specchietto per le allodole.

Giuliano Guzzo

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