Il femminismo arriva tardi: la Chiesa da sempre difende le donne

Bergoglio donnePerché il cristianesimo pullula di grandissime donne, molte di loro martiri a causa della loro fede, come Agnese, Tecla, Cecilia, Margherita, Blandina, Pulcheria, Eudoxia, Galla Placidia, Olimpia, Melania, Clotilde, Teodolinda, Berta Di Kent, Olga di Kiev ecc.?

Perché, come ha spiegato il grande sociologo Rodney Stark, il cristianesimo fin da subito ebbe a cuore la stima, il rispetto e la protezione verso le donne. Esse, infatti, godevano di uno status più alto rispetto alle donne del mondo greco-romano o del mondo pagano: i cristiani promossero il matrimonio, combatterono la poligamia, la schiavizzazione e lo sfruttamento sessuale e proibivano la pratica dell’infanticidio, dell’aborto (che spesso veniva esercitato proprio nei confronti della nascita delle bambine).

Tanti Padri della Chiesa hanno parlato del rispetto della donna e della sua equiparazione all’uomo, uno di essi è ad esempio Sant’Agostino (354-430 d.C.) Egli, come abbiamo mostrato, mise bene in evidenza la pari dignità di uomo e donna, ricordando l’importanza della fedeltà, cui sia l’uomo che la donna sono chiamati allo stesso modo, ricordando che alla donna non può essere imposto un marito ma deve accettarlo lei stessa. Particolarmente ricordava che «Secondo il Genesi è la natura umana in quanto tale che è stata fatta ad immagine di Dio, natura che si compone dei due sessi e quindi non esclude la donna, quando si tratta di intendere l’immagine di Dio. […]. La donna è con suo marito immagine di Dio, cosicché l’unità di quella sostanza umana forma una sola immagine».

Un altro grande santo molto attento alla dignità femminile fu San Bernardino da Siena (1380-1444), famoso predicatore francescano di fine Medioevo. Se ne è parlato in un bell’articolo recentemente su “Qelsi Quotidiano”. Anche Bernardino spiegava, infatti, che il marito non ha alcun diritto a pretendere dalla moglie virtù che egli stesso non ha e che egli ha il dovere di aiutare nelle faccende domestiche la moglie qualora questa è già in una fase avanzata da “nutria”, di gravidanza, o ha troppi bambini a cui provvedere. “Tutta questa fadiga vedi che ella è sola della donna, e l’uomo se ne va cantando… E però… tu, marito… fa’ che tu l’aiti a portare la fadiga sua”.

Questo figlio del Medioevo e della Chiesa osservava con attenzione e tenerezza il quotidiano delle donne, di una madre che si occupa del suo bambino: “Ella el fascia e fascia; ella el netta, ella el lava quando n’ha bisogno; ella l’adormenta quando el piagnie; ella il lusinga con cotali giocolini; ella il vuol fare venire a sé, e mostrali talvolta la saragia”. Conosceva la fatica della donna ad essere madre e la stimava, con rispetto. Nelle sue prediche parlava spesso a favore dell’istruzione delle donne, specie le giovanissime, che dovevano essere necessariamente “istruite, foss’anche per lieggere solo la Bibia”. La Chiesa in sé già istruiva quasi tutte le sue tantissime religiose tanto che Bernardino arrivò persino a sottolineare che alcune donne “ne siano [ce ne sono] che so’ più dotte che alcuno uomo”.

“Volite voi le vostre donne oneste?”, chiedeva ai padri di famiglia, Fatele imparare lettera, che, t’avviso, che non possono stare senza diletto, e se farai si dilettino nelle Scritture, bon per te”. Per quanto riguarda le mogli, Bernardino si scagliava contro le pene corporali, pratiche legale e persino consigliate dalle leggi suntuarie comunali dell’epoca, che né la Chiesa né Bernardino hanno mai promosso. Il frate denunciava che ci sono mariti che trattano meglio le galline che non le mogli, avvertendo che dalla donna maltrattata si otterrà solo il contrario di quel che si pretenderebbe: O pazzi da catena di molti,… che tali so’ che sapranno meglio comportare una gallina, che fa ogni dì un uovo fresco, che non comporteranno la propria donna… che come ella parla una parola più che a lui non pare, subito piglia il bastone e comincia a bastonare; e la gallina, la quale gracida tutto dì e tu hai pazienza di lei per avere l’ovicciuolo!”. “Così dico a te, marito, non dare busse a la donna, però che mai busse fecero buona la donna; farà meglio co’ le buone parole… mostrandole il suo errore”.

La donna va amata, non picchiata, diceva San Bernardino da Siena, “fra la donna e ‘l marito bisogna che sia delle più singolari amicizie del mondo… se uno è lordoso e l’altro è virtuoso non si accorderanno mai insieme, ma se tutti e due sono virtuosi et amansi di vero e buono amore generasi tanta amicizia che pare già fatto un paradiso”. Come Agostino, appoggiava la sua predica a favore del rispetto della donna al Genesi: “Iddio non fece la donna dell’osso del piè dell’uomo, acciò che non se la mettessi per soggiogazione sotto de’ piedi. E no la fece dell’osso del capo dell’uomo, perch’ella non soggiogasse l’uomo. Fecela dell’osso del petto ch’è presso al cuore… per darti ad intendere che con amore l’ami come tua compagna””.

La Chiesa non ha certo dovuto aspettare il femminismo per avanzare certe richieste sulla “dignità” della persona prima di tutto, della donna nello specifico.

La Redazione

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Gli intellettuali di “Repubblica” amanti del plagio…

PlagiatoriOltre che titoli falsi (vedasi quello, a dir poco fuorviante, appioppato recentemente all’intervento di Papa Francesco), il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ospita falsari di professione.

L’ultimo caso è quello di Roberto Saviano, collaboratore di Repubblica condannato in Appello – insieme alla Mondadori, suo editore di allora – per il suo romanzo più celebre, Gomorra, redigendo il quale si sarebbe reso autore di plagio ai danni di un’altra testata, le Cronache di Napoli. Da garantisti, aspettiamo ovviamente il verdetto della Cassazione nella speranza che lo scrittore partenopeo venga riconosciuto totalmente estraneo alle accuse. In ogni caso, se la condanna divenisse definitiva l’autore di Gomorra non sarebbe – come detto – che l’ultimo asso della scuderia di Ezio Mauro pizzicato a scopiazzare, senza citarli, pezzi altrui.

Come dimenticare, infatti, le prodezze di Corrado Augias, che, in un suo libro scritto con Vito Mancuso, trascrisse buona parte di pagina 14 di La creazione: un appello per salvare la vita sulla terra (Adelphi, 2006) del biologo E.O. Wilson. «Non so che cosa dirà Augias, ma il fatto è innegabile: le pagine sono lì sotto gli occhi di tutti», ebbe ad ammettere Mancuso, scaricando di brutto il giornalista.

Non meno clamoroso fu quanto accadde al filosofo Umberto Galimberti, anche lui punta di diamante di Repubblica, nei cui libri è stata rintracciata l’abbondante presenza di frasi di testi altrui..non citati. «Ammetto lo sbaglio. Non c’era però intenzione di appropriarsi di cose altrui, non sono uno che copia apposta», si scusò allora il filosofo. Per i cui sbagli – come li chiama lui – il suo Ateneo, l’Università Ca’ Foscari, ha inoltrato richiamo formale invitandolo ad adeguarsi «nella redazione dei testi scientifici all’uso sistematico della citazione delle fonti secondo la prassi condivisa e consolidata nel campo della ricerca». Una tirata d’orecchi in piena regola, dunque.

Dopo la condanna in Appello ai danni di Roberto Saviano, e le già accertate scopiazzature di Augias e Galimberti, viene da domandarsi come mai Repubblica goda ancora – come gode – della fama di testata intellettualmente affidabile, da lettori colti e perbene, interessati ad abbeverarsi a fonti di qualità giornalistica ed accademica garantita e scevre da condizionamenti di sorta. Intendiamoci: il giornale è ben fatto, leggibile, ricco di approfondimenti. Non a caso vende tantissime copie. Ma anche – questo è il punto – qualche copione. Barbapapà provvederà a mettere in guardia suoi lettori?

 

Plagiatori

Giuliano Guzzo

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Una distrazione (fisico-teologica) a Messa

Supernova 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

L’immanenza è la presenza della divinità nel mondo ed è il concetto metafisicamente opposto alla trascendenza, che è lo stare della divinità fuori dell’Universo e del tempo. Detta così, la distinzione tra le due polarità sembra netta. Però, con l’esclusione del “dio dei filosofi” che una volta avviato il mondo se ne disinteressa, il Dio trascendente delle religioni del Libro è comunque in contatto col mondo: necessario alla sua sussistenza, provvidenzialmente agente nella storia, continuamente presente nella parola dei profeti e nei riti liturgici, misericordiosamente sensibile alle preghiere dei Suoi fedeli.

Prendiamo l’Antico Testamento nelle parole che stabiliscono il rito della Pasqua ebraica. “Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case” (Esodo, 12, 26-27). Con la Pasqua, gli Ebrei non commemorano tanto la liberazione storica dal Faraone (un evento accaduto a migliaia di km dalle loro case odierne e migliaia di anni fa), ma celebrano la salvezza qui e ora. I tempi usati nei verbi sanciscono la presenza attuale e ripetuta nel rito, cioè anche immanente, di “Colui che è” nella trascendenza. Analogamente vale nel cristianesimo. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”: l’immanenza tra uomo e Dio si ripete ogni volta nell’Eucaristia. Anzi, non s’interrompe mai perché rimanere non significa un incontro fugace, ma una dimora duratura, un modo di essere. “Fate questo in memoria di me”: così dicendo, su invito (al presente) di Gesù, i cristiani non ricordano soltanto l’evento storico della Crocifissione, ma partecipano attualmente all’evento della salvezza operata dal sacrificio di Cristo. L’atto di salvezza e la sua celebrazione eucaristica sono eventi eterni, non costretti nella località fisica e nella successione temporale, ma nemmeno giacenti in un Aldilà dello spazio e in un Oltre del tempo assolutamente estranei.

Un paio di domeniche fa a Messa, mentre udivo le sacre formule uguali da 2.000 anni e mi risuonavano ancora in testa i versetti del salmo 89 (“Mille anni ai tuoi occhi sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte”) recitati nel responsorio, mi sono chiesto – forse per una deformazione culturale sbilanciata sul lato scientifico – se la tensione tra immanenza e trascendenza si potesse integrare in un’interpretazione teologica della teoria scientifica del tempo, la relatività einsteiniana, o se dovessi rassegnarmi ad una completa incomprensione del mistero. Ecco la divagazione.

Ogni volta che eseguiamo la misura della posizione d’un oggetto nello spazio, lo facciamo in un istante preciso del tempo. Viceversa, non possiamo misurare a quale istante un evento accade se non in una determinata posizione dello spazio. Partendo da questa evidenza dell’inseparabilità di spazio e tempo (e dalla volontà di correggere un’asimmetria presente nelle equazioni di Maxwell), Albert Einstein costruì agli inizi del secolo scorso la sua teoria della relatività speciale (TRS, 1905). Una decina d’anni dopo, per comprendervi i fenomeni della gravitazione inizialmente esclusi, la estese nella teoria della relatività generale (TRG, 1916). Da allora, lo spazio e il tempo sono indissolubilmente uniti in fisica nella geometria di un continuum 4-dimensionale, chiamato spazio-tempo.

Prendiamo ora 2 eventi distinti, accaduti in 2 luoghi e in 2 istanti: nella TRS, osservatori in moto relativo ottengono con i rispettivi metri e orologi (preventivamente co-tarati e sincronizzati) misure diverse sia della distanza che della durata intercorse tra i 2 eventi. Distanza spaziale e durata temporale sono grandezze relative allo stato di movimento degli osservatori. Anche la simultaneità è relativa, perché tutti gli eventi contemporanei per un osservatore non lo sono per un altro in moto rispetto al primo: secondo l’orologio del secondo osservatore, alcuni di quegli eventi sono accaduti prima, altri dopo. La differenza tra passato e futuro, che prima di Einstein era pensata intuitivamente assoluta, si dissolve.

Di fronte al fiorire quotidiano di “teorie” di cui la divulgazione scientifica quotidianamente c’inonda (per spiegare per es. le nostre preferenze religiose o sessuali) e che sono soltanto congetture incontrollabili, qualche lettore potrebbe pensare che anche la teoria della relatività sia una speculazione di questo tipo. Si sbaglierebbe. Non c’è nulla in scienza sperimentale moderna di più sacro della relatività einsteiniana, che – oltre ad essere un sistema formale di bellezza e semplicità ineguagliabili – in un secolo è stata corroborata da ogni evidenza empirica, senza mai un’eccezione. Più salda del Gran Sasso.

Anche nella teoria della relatività però, non tutto è relativo, perché ci sono grandezze che a tutti gli osservatori, qualunque sia il loro stato di moto, risultano invarianti. Una di queste è la velocità della luce (c = 299.792,458 km/s), come Albert Michelson ed Edward Morley provarono con il loro straordinario esperimento, il cui risultato controintuitivo fu reso noto il 17 agosto 1887. Un caso in scienza, potremmo dire, di conferma sperimentale di una predizione avvenuto prima della predizione teorica! Un altro risultato della TRS è che la massa osservata di un corpo aumenta con la sua velocità, crescendo indefinitamente man mano che questa si avvicina a quella della luce. Cosicché diventa impossibile accelerare un oggetto massivo alla velocità c, perché lo sforzo richiederebbe un’energia infinita. Le particelle di luce invece, i “fotoni”, viaggiano alla velocità c proprio perché sono prive di massa, puri grumi di energia. Ancora, la rapidità di rotazione delle lancette d’un orologio risulta più lenta ad un osservatore solidale con l’orologio che ad un osservatore in moto relativo; tanto che, per un corpo massivo in accelerazione, all’approssimarsi della sua velocità a c lo scorrimento del suo “tempo proprio” tende a zero. Tutto ciò viene osservato quotidianamente negli acceleratori di particelle.

Ma che cosa c’entra tutto ciò con l’eternità? Vengo al punto. Consideriamo nello spazio-tempo 2 eventi connessi da un raggio di luce: per es., l’esplosione della supernova SN1994D (evento 1) e la registrazione dell’esplosione avvenuta al Telescopio spaziale di Hubble nel marzo 1994 (evento 2, v. foto accanto al titolo). Poiché la supernova stava a 50 milioni di anni luce dalla Terra, per gli orologi terrestri l’evento 1 è accaduto 50 milioni di anni prima dell’evento 2. Secondo gli osservatori umani, i fotoni della supernova sono stati prodotti lì ed allora e dopo aver viaggiato per 50 milioni di anni alla velocità della luce hanno impressionato le lastre del telescopio qui ed ora. Ma osservata dai fotoni la storia è diversa, perché il loro tempo proprio si è letteralmente fermato: per tutto quanto li può riguardare, essi hanno viaggiato attraverso l’Universo istantaneamente. La registrazione dell’esplosione, che gli orologi terrestri hanno registrato 50 milioni di anni dopo il collasso della stella, risulta agli “orologi” fotonici avvenuta contemporaneamente al collasso. I fotoni esistono in un tratto di eternità, dalla loro emissione al loro assorbimento. Potremmo dire che la luce è immanente ai suoi osservatori terrestri viventi nella durata del tempo, e che è anche a loro trascendente, perché non è localizzata né ha una durata, ma solo un presente.

Noi umani abbiamo la coscienza di percorrere una sequenza di eventi spaziali e temporali, che in relatività si chiama una “linea di universo”. Ma la vita di Dio non può essere rappresentata da una linea di universo: se Dio non sta in alcuna posizione spaziale (al contrario di Zeus che abitava il monte Olimpo), Egli non vive alcun preciso istante del tempo. Egli è oltre lo spazio-tempo: analogamente alla luce, Egli ha il possesso di tutto lo spazio in un solo istante. Tuttavia questa è solo una faccia della teologia: quella domenica una distrazione mi ha fatto intuire che l’Incarnazione avvenuta nello spazio-tempo (a Betlemme, 2.000 anni fa) e che si ripete ogni volta nell’Eucaristia, conciliando il trascendente e l’immanente, sussume i concetti di tempo e di eternità insieme, senza contraddire la scienza.

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Da omosessuale chiedo scusa a Guido Barilla

Guido Barilla 
 
di Eliseo Del Deserto
 

dal Blog di Eliseo Del Deserto, 28/09/13

 

Signor Guido Barilla,

Le scrivo perché sono io a volerLe chiedere perdono!
Io sono un ragazzo omosessuale che ha seguito in questi giorni la vicenda scatenata dalle Sue dichiarazioni. Ero infastidito dal moltiplicarsi delle chiacchiere, delle battaglie inutili, boicottiamo o non boicottiamo, dall’elenco insipido delle altre marche di pasta, dalla Sua foto oltraggiata ed osannata.

Vivo lontano da casa ormai da quattro anni, e non riesco a mangiare nessun’altro tipo di pasta, anche se risparmierei, perché l’unica che mi ricorda la mia famiglia è la Barilla. Vuoi per la pubblicità, o forse solo perché è la pasta che mi ha sempre cucinato mia mamma.

Sono omosessuale e credo anch’io nella famiglia tradizionale e non credo che altri tipi di unione possano definirsi “evoluzione della famiglia”.

Quando da piccoli o da giovani ci rendiamo conto di essere omosessuali, lo sentiamo sulla nostra pelle: siamo diversi. Questa diversità inizialmente viene vissuta da tanti (non voglio generalizzare) come un handicap. Dopo la disperazione iniziale si cerca un equilibrio, una ragione, la felicità. Tutti abbiamo una diversità da gestire, questa è la verità.

E’ giusto riconoscere i tratti della nostra differenza, accettarne i limiti. Due uomini non potranno mai generare un figlio per esempio. Due donne non saranno mai una famiglia intesa in senso tradizionale. Non sto dicendo che le unioni omosessuali devono essere bandite, e sono sicuro che in una coppia omosessuale possa nascere un calore simile all’intimità familiare.

La maggior parte di noi però viene da una famiglia tradizionale. Tutti siamo figli! Sappiamo quanto abbiamo bisogno di un padre che sia veramente uomo e di una madre che sia pienamente donna! Io lo so, ogni volta che desidero profondamente avere un uomo forte accanto a me.

Perdono Signor Barilla! Per le parole umilianti che ha dovuto subire, Lei e la Sua azienda a causa di noi omosessuali. Anche se alcuni non saranno d’accordo con me. Io che nonostante tutto sono uno di loro, Le chiedo scusa. Scusi le ingiurie, le pressioni, i boicottaggi, le parole inutili di quel manipolo di anime ruggenti che vanno solo in giro cercando chi divorare.

Sulla famiglia ha molto da imparare chi l’ha portata a scusarsi per delle parole che non avevano nulla di offensivo.

L’atteggiamento violento, persecutorio, intimidatorio, dunque bullistico di questa gente, insieme alle tante espressioni di orgoglio gay che negli anni si sono diffuse, suscitano tutto in me, eccetto la fierezza di essere omosessuale. Perdono ancora!

Eliseo del Deserto

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La vita prenatale e le capacità sensoriali

 
di Anna Paola Borrelli*
*teologa moralista perfezionata in bioetica

 

Se volessimo raccontare la storia di un bambino non dovremmo iniziare dal momento meraviglioso della nascita, ma retrocedere all’instante del concepimento e a tutta la sua vita prenatale. Quei 9 mesi lasciano tracce importanti che si sedimentano nella sua memoria e definiscono il carattere del nascituro.

C’è una disciplina, la “psicologia prenatale”, che ha fatto la sua comparsa negli anni ’70. Essa «nasce dall’interazione di conoscenze mediche (medicina ostetrico-ginecologica, medicina pre e peri-natale, biologia, ecc.) e conoscenze psicologiche (psicologia dello sviluppo, psicologia della personalità, psicologia dinamica, psicobiologia, ecc.) e […] si prefigge lo scopo di studiare lo sviluppo e le capacità psicofisiologiche, comunicative, relazionali e psicologiche del feto, a partire dal presupposto […] che il feto è in grado di ricevere uno stimolo (intra ed extrauterino), elaborarlo (anche psicologicamente) e dare una risposta» (Pier Luigi Righetti).

Quante volte sarà capitato di chiedersi se il feto sente la voce della mamma, dei familiari o delle persone che lei incontra, se percepisce i suoni e i rumori, se avverte stimoli dolorosi, se lo stress della madre si ripercuote su di lui, se sogna e in caso positivo cosa e a queste saranno seguite un’altra miriade di domande e curiosità che prima o poi tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo posti.  Proviamo allora a decifrare insieme questo fantastico mondo che è la vita prenatale, focalizzando la nostra attenzione sulle capacità sensoriali.

Nella vita intrauterina gli organi di senso hanno uno sviluppo molto lineare e ben ordinato, dapprima si sviluppa il tatto, poi l’olfatto, il gusto, l’udito e infine la vista. «Tutti i sistemi sensoriali sono maturi anatomicamente in utero; certi sono poco stimolati, è il caso della vista; in altri casi, degli stimoli relativamente più ricchi sono presenti prima della nascita: stimoli chimici del liquido amniotico che intervengono sul gusto e l’olfatto, stimoli tattili, stimoli cinestesici e vestibolari legati ai movimenti, stimoli uditivi» (E. Herbinet – M. C. Busnel).

 

 Il tatto
Si sviluppa precocemente ad appena 7 settimane di gravidanza nella zona periboccale, nella 11ª settimana lo troviamo nell’epidermide del viso e nel palmo delle mani, alla 12ª settimana è nella pianta dei piedi, mentre alla 15ª interessa gli arti e il tronco, fino a giungere alla 20ª settimana, ove i recettori cutanei sono espansi in tutto il corpo (Balmaan, 1980). «La letteratura medica e quella fisiologica ritengono che il liquido amniotico e la placenta siano i principali “trasmettitori” e “conduttori” delle stimolazioni colte dal feto» (P. L. Righetti).

Lo psicologo P. L. Righetti dichiara anche che «il feto è in grado di discriminare stimoli tattili dolorosi (se si stimola la pianta del piede del feto con piccolissimi aghi, il bambino aumenta la sua frequenza cardiaca e i suoi movimenti)». Che il feto percepisca dolore oggi non è più un mistero. Basti pensare che «l’anestesia viene proposta da taluni sin dal 4° mese di gestazione (Clark 1994). Protocolli analgesici sono proposti comprendendo la somministrazione di sulfentanyl e pentotal al feto in caso di aborto (Mahieu-Caputo 1999). Anche autori anglosassoni sono d’accordo su questo fatto (Clark 1994)» (C. V. Bellieni), cioè in pratica è provato che il feto che dev’essere abortito proverà certamente dolore, per cui gli si pratica l’analgesia.

Nei Paesi Bassi è stata inventata perfino una disciplina detta “aptonomia” (dal greco “hapsis” toccare) è “la scienza del tatto”, “la scienza del contatto”. Il suo fondatore, Frans Veldman, nell’articolo “Il senso sensato” ribadisce che «a partire dal momento in cui i primi movimenti sono percettibili, momento che può variare a seconda che si tratti di una primipara o di una pluripara, di solito verso il 4°-5° mese di gravidanza, la madre orienta la sua affettività, con un’accresciuta sensibilità, verso il suo bambino; essa lo prende, letteralmente, nelle sue mani, circondandolo affettivamente. La stimolazione percettiva, sentita dal bambino, l’invita a rispondere in modo riflessivo, sempre più anticipante. E a poco a poco si sviluppa, tra la madre e il bambino, un’interazione comunicativa che, quando si ripete regolarmente, si risolve rapidamente in un momento di allegra ricreazione».  Pertanto, la gestante può dilettarsi con suo figlio, stimolarlo, toccarlo, mediante la parete addominale e uterina. Anche il padre non è chiamato fuori da questo perimetro d’amore, è necessario piuttosto che «partecipi a questo “gioco” in cui si incontrano, a partire dai primi movimenti del feto […]. Si accorgerà che, anche per lui, è relativamente facile comunicare con suo figlio nell’utero, come per la madre, giocando con lui, formando con la madre una trinità affettiva serena».

La pelle è un involucro di emozioni e tutto ciò favorisce l’attaccamento tra madre e figlio di cui parlano Bowlby in Inghilterra e Harlow negli USA.  Ma già a partire dalla vita prenatale F. Veldman fa rilevare che purtroppo «questi stimoli affettivi mancano nella maggior parte delle gravidanze e segnala che questo deficit può avere delle conseguenze: certi comportamenti autistici non sarebbero forse indotti a partire dalla vita prenatale, dato che possono apparire delle “engrammation” positive o negative, “archivi mentali del sentimento”, molto prima di quanto generalmente non si pensi? Più i bambini ricevono stimoli significativi, adatti e conformi alla destinazione dell’essere umano, già umano prima della nascita, più la “matrice” dell’esistenza accresce i suoi contorni».

 

L’olfatto
«Già in periodo embrionale sono evidenziabili dei sistemi cellullari che costituiranno il sistema olfattivo principale, trigeminale e vomero-nasale».  Mentre il tatto è il primo organo di senso a svilupparsi, «le strutture chemiorecettive del naso molteplici e complesse, sono fra le prime a formarsi nel corso della vita fetale. I recettori olfattivi primari e i sistemi cerebrali corrispondenti – i bulbi olfattivi – appaiono differenziati tra l’8ª e la 11ª settimana di gestazione […] Nel corso dello stesso periodo, le terminazioni sensitive del nervo trigemino […] sono ripartite in maniera diffusa nella mucosa nasale e sono all’origine delle sensazioni di natura tattile evocate dalle stimolazioni chimiche (il “piccante” dell’ammoniaca o il “fresco” del mentolo, per esempio). Infine, esistono nel feto umano di 5-13 settimane, dietro all’orifizio delle narici, due piccole strutture tappezzate da cellule sensoriali: gli organi vomeronasali» (E. Herbinet – M. C. Busnel).

Questi ultimi consentono di individuare l’odore delle sostanze di cui è impregnato il liquido amniotico. Riguardo al sistema olfattivo il legame tra vita prenatale e neonatale si rivela nel riconoscimento della madre, da parte del bambino, proprio in base al suo odore. Allo stesso tempo il neonato è in grado di riconoscere l’odore del latte materno e questo perché in antecedenza ne aveva conosciuto il suo sapore, all’interno del liquido amniotico. «Questo riconoscimento primitivo, essenziale, lascia sul piccolo una traccia indelebile; una volta riconosciuta la propria madre, saprà ritrovarla nuovamente e senza alcuno sforzo ogni volta che vorrà attaccarsi al suo seno». Nei nascituri, la cui età gestazionale è inferiore ai 7 mesi, la capacità di identificare l’odore materno si rivela minima, diversamente dai 7 mesi in poi. Questa differenziazione è motivata dal fatto che soltanto dal terzo trimestre i recettori olfattivi attivano la loro funzione di appurare eventuali modificazioni.

 

Il gusto
Un altro importante apparato è senz’altro il sistema gustativo che presenta recettori in tutta la lingua, soprattutto nella parte anteriore, così come nell’epiglottide e nel palato molle. Il feto fa esperienza gustativa di tutti gli alimenti che mediante la placenta arrivano in utero. Inizia così a riconoscerne le essenze, i profumi e a discernere quelli che gli piacciono di più o di meno, informando la madre di queste sue preferenze, attraverso modificazioni della sua frequenza cardiaca e di cambiamenti nei movimenti che saranno delicati o agitati, in base alle sue predilezioni e avversioni.

Alla nascita il bambino mostrerà poi un’evidente “memoria gustativa”. Se viene fatta un’«iniezione in utero nel liquido amniotico (che, si sa, è costantemente deglutito dal feto) di estratto di mela o d’estratto d’aglio induce allo svezzamento di una preferenza dei piccoli per l’alimento aromatizzato alla mela o all’aglio».  La dieta della madre influenza dunque le preferenze del piccolo, ma al tempo stesso sapori dolci e amari vengono riconosciuti dal nascituro e determinano una differente reazione. Così se dopo la 24ª settimana vengono iniettate sostanze dolci nel liquido amniotico, il feto reagisce, sia con un’accelerazione del ritmo di deglutizione, sia mostrando vere e proprie smorfie di piacere; viceversa iniettando sostanze amare egli rallenta il ritmo di deglutizione, fa smorfie di dolore e cerca di chiudere la bocca.

 

L’udito
Il 4° apparato a svilupparsi in ordine di tempo è quello uditivo. Il feto è «in grado […] di distinguere una voce femminile da una voce maschile, musiche diverse, di dare sia risposte cardiache sia motorie differenti» (P. L. Righetti). Il sistema uditivo inizia il suo funzionamento verso i  4 mesi e più precisamente intorno alle 20 settimane (Pujol e Uziel, 1988). «Il sentire fetale è un sentire di tipo tattile per vibrazione del liquido amniotico; il nascituro risponde attivandosi di più se stimolato da una voce femminile (in particolare quella della madre, internamente con i rumori viscerali, ed esternamente, per vibrazione del liquido amniotico) perché la voce femminile produce una vibrazione più veloce di quella maschile» (P. L. Righetti). I rumori presenti sono di due tipi: rumori di origine materna e rumori provenienti dall’esterno.

«Dalle 26-28 settimane di gestazione, proprio come nel prematuro, possiamo osservare nel feto sottoposto a un forte rumore un’accelerazione del ritmo cardiaco e dei movimenti. […] Si tratta in genere di una risposta di sussulto più o meno forte. Se il rumore è più debole, la risposta si manifesta con un ammiccamento delle palpebre e modificazioni dei movimenti pseudo-respiratori, ma essa coinvolge abitualmente tutto il corpo, in particolare sotto forma di una flessione-estensione degli arti e di una contrazione del tronco. Serve per provocare questa reazione motoria un’intensità sonora maggiore di quella necessaria per indurre una risposta cardiaca. Questa segue molto rapidamente, con un tempo di latenza inferiore a un secondo. Birnholz e Benacerraf (1983), Leader e Baillie (1982) hanno descritto delle reazioni motorie ancor più precoci a stimoli vibro-acustici, a partire dalle 23 settimane di gestazione in certi feti. Per Leader e Baille le bambine reagirebbero due settimane prima dei maschi; questo risultato non è stato ancora ripetuto» (E. Herbinet – M.C. Busnel).

La musica riveste un ruolo particolare per quanto riguarda la funzione uditiva. Se il feto ascolta musiche troppo veloci e ritmate come nel caso del rock o di Beethoven reagisce con movimenti bruschi e con accelerazioni del suo battito cardiaco, viceversa se si tratta di musiche più lente e melodiose come Mozart e Vivaldi produrrà movimenti più tranquilli e il battito cardiaco diminuirà (Zimmer et al). L’apparato uditivo è in sé molto delicato e la madre deve riporre attenzione, non esponendosi a forti rumori che oltre a disturbare il piccolo, possono portare seri danni alla sua salute. «Alcuni esperimenti hanno mostrato che si poteva provocare una sordità nel feto di una cavia sottoponendo le gestanti per oltre sette ore al giorno al rumore prodotto dalle macchine di una fabbrica tessile. Da parte loro, Pujol e Lenoir (1979; 1980) hanno osservato che il topolino neonato può essere afflitto da un deterioramento uditivo permanente se, nel corso di un periodo particolare del suo sviluppo, è sottoposto a un rumore notevole, anche se non traumatico per un orecchio adulto. […] Sappiamo fin d’ora che un’esposizione costante a forti rumori per tutta la durata della gravidanza triplica il rischio di un deficit uditivo nel neonato, e questa stessa probabilità aumenta di otto volte se i rumori sono particolarmente violenti» (J. P. Relier).

 

La vista
L’ultimo organo di senso a svilupparsi, durante la vita prenatale, è la vista che seppur funzionante, completerà la sua maturazione dopo la nascita. Il feto presenta le palpebre chiuse sino alla 26ª settimana per permettere il corretto sviluppo della retina. Dopo questo periodo gestazionale egli è in grado di percepire la luce se ad es. la gestante sosta al sole col pancione scoperto oppure se una lampada viene posta sull’addome della madre il bimbo si volterà immediatamente dall’altro lato e si registrerà un aumento del battito cardiaco. Arrivato alla 33ª settimana le pupille del nascituro si restringono o si dilatano, in relazione al grado di energia della luce.

A differenza degli altri organi di senso la vista è quello che viene utilizzato meno, dato il buio dell’ambiente uterino. Soltanto quando una fonte luminosa molto forte attraversa la parete addominale quell’ordinario buio muta per qualche attimo in penombra. Rispetto agli stimoli uditivi che «contribuiscono in maniera determinante allo sviluppo cerebrale,[…] gli stimoli visivi diventino importanti solo a uno stadio più avanzato dello sviluppo, dopo la nascita. D’altronde questi fenomeni potrebbero spiegare ciò che tutti i medici hanno constatato: i ciechi dalla nascita sono persone molto meno infelici […] dei completamente sordi, spesso depressi e chiusi in se stessi» (J. P. Relier).

«Per quanto riguarda un’identificazione attraverso la vista, gli autori non sono concordi e i risultati delle ricerche sono spesso ambigui. In primo luogo è difficile eliminare tutti gli elementi che non siano visivi, ma possiamo frapporre un cristallo tra il bebè e un adulto e osservare come reagisce il bebè quando l’adulto è la madre o un’altra donna familiare o meno, o un uomo. Sembra che se l’adulto ha una faccia espressiva, si muove, parla, il bebè di un mese passerà più tempo a guardare sua madre piuttosto che un altro adulto. Al contrario se l’adulto resta immobile, il volto fisso, senza parlare, questo stesso bebè guarda meno sua madre che un altro» (E. Vurpillot).

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Papa Francesco ha ragione sui “valori non negoziabili”

Francesco e BenedettoE’ un dispiacere scoprire che alcuni intellettuali cattolici, pensiamo a Michael Novak, stanno criticando Papa Francesco per alcune sue recenti prese di posizione, come se stesse dicendo qualcosa di diverso da Benedetto XVI o Giovanni Paolo II.

In particolare, le obiezioni si sono levate in quanto Papa Francesco ha chiesto a noi cattolici, anche con espressioni forti, di mettere al centro della nostra attenzione il cuore del cristianesimo, ovvero l’annuncio del Vangelo, lasciando in secondo piano il resto come ad esempio la difesa della vita, del matrimonio, della famiglia ecc. Questo ha fatto nascere dubbi sopratutto in chi più si impegna in tal senso, un esempio è l’importante sito web americano Lifesitenews.com.

L’errore è nostro: di Benedetto XVI e di Papa Wojtyla abbiamo forse soltanto trattenuto la loro forte intransigenza sull’etica e sui principi morali inviolabili, la stessa di Papa Francesco. Per questo il Pontefice oggi ci sta correggendo: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile», ci ha detto nell’intervista a la “Civiltà Cattolica”. «Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione». E’ giusto dare ragione della nostra posizione in campo bioetico e cercare di aiutare gli altri a capire i loro errori, ma non è l’essenziale per un cristiano. Invece, ci spiega Papa Francesco, «l’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».

Il desiderio dev’essere innanzitutto di portare a tutti lo sguardo di misericordia che abbiamo incontrato nel volto di Gesù e quindi nella Chiesa. «Il messaggio evangelico non può essere ridotto dunque ad alcuni suoi aspetti che, seppure importanti, da soli non manifestano il cuore dell’insegnamento di Gesù», ha spiegato giustamente. E ancora più chiaramente: «La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”». Da questo deriva anche tutto il resto: quando si prende coscienza di tale annuncio e lo si fa proprio, infatti, allora ne conseguirà anche una posizione morale sull’aborto, sull’eutanasia, sul matrimonio omosessuale ecc. E’ anche vero, comunque, che la sacralità della vita la si può capire e difendere anche per sola ragione, come fanno tantissimi laici nostri compagni. Ma se ci limitiamo a questo, senza un impegno principale nell’annuncio cristiano (“Gesù Cristo ti ha salvato!”) la nostra difesa in campo bioetico alla lunga risulterà sterile. La Chiesa deve innanzitutto «curare le ferite e riscaldare il cuore dei fedeli», perché siamo tutti feriti senza distinzione di credo o di filosofia o di fede politica.

Come ha spiegato benissimo Antonio Socci, la modernità ha intrapreso da diversi secoli la battaglia per emanciparsi da Dio, la Chiesa ha storicamente perso quella battaglia e il campo ora è pieno di “morti e i feriti”. La Chiesa non combatteva per sé, ma per noi, noi moderni abbiamo prevalso e ora siamo al tappeto. Perciò essa, come una madre premurosa, che aveva messo in guardia i suoi figli, si china su di loro, pietosa e se li carica sulle spalle. Papa Francesco fa come il padre del figliol prodigo, non rinfaccia al figlio i suoi errori, non inveisce e non punisce. Il rischio, altrimenti, è trasformare la Chiesa nell’elenco dei peccati, un catalogo di valori morali invece è colei che annuncia agli uomini da 2000 anni che Dio ha avuto pietà di loro ed è venuto a prenderseli sulle spalle, a curarli, a guarirli, a salvarli. Gesù entrò nel mondo così: «Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo». scriveva il grande convertito francese Charles Péguy.

Chi oggi lamenta la fine della battaglia per i valori non negoziabili non ha compreso. Tali valori non sono l’essenza del cristianesimo e considerarli tali sarebbe una nuova, pericolosa ideologia. E’ anche sbagliato pensare che Francesco rinneghi quanto hanno insegnato i suoi due predecessori perché ha sempre ribadito quell’insegnamento: di questi giorni la notizia la scomunica papale di un sacerdote australiano leader di un gruppo in favore del matrimonio gay e dell’ordinazione delle donne. Si legga inoltre il messaggio del Pontefice contro l’aborto inviato ai ginecologi cattolici ecc.

Illuminante ancora l’articolo di Socci: questi valori da difendere sono importanti ma a Francesco preme anzitutto sottolineare il primo, vero, grande e basilare “principio non negoziabile” (la base di tutti gli altri): l’essere umano concreto, quello in carne e ossa, con le sue ferite, anche con i suoi peccati. Ecco perché nell’esortazione missionaria di Francesco a “curare” le ferite dell’umanità, rientra pienamente fare centri di aiuto alla vita, accogliere le persone travolte dal crollo di legami affettivi, sostenere chi vive malattie terminali o ha persone care in condizioni estreme, aiutare poveri e infelici, farsi compagni degli omosessuali che si sentono erroneamente abbandonati dalla Chiesa. A vincere la cultura nichilista, spiegava don Luigi Giussani, non sarà un confronto dialettico o una contrapposta cultura cattolica, ma la commozione personale per Gesù, la sua carità: “La Chiesa è proprio un luogo commovente di umanità, è il luogo della umanità. La lotta col nichilismo, contro il nichilismo, è questa commozione vissuta”.

L’altra critica a Papa Francesco, da parte di molti cattolici, è quella di mettere molti cristiani sulla difensiva, proprio quando sono attaccati, incoraggiando le critiche contro la Chiesa da parte dei suoi avversari dichiarati. Novak fa l’esempio della strumentalizzazione dei quotidiani laici o laicisti, come il “New York Times” o “Repubblica”. E allora? Da quando abbiamo paura di essere aggrediti, ricattati moralmente e attaccati? Anche Gesù fu accusato di essere indulgente e perfino connivente con peccatori, pubblicani e prostitute, ricordate lo scandalo dei farisei? Stava assieme a loro ma non li ha mai giustificati, li abbracciava con amore ma non ha mai titubato su quale fosse la strada da seguire, sottolineava il loro peccato ma li ha sempre perdonati. Ha mostrato di essere venuto proprio per loro (cioè per tutti noi) e proprio la sua misericordia, la bellezza della sua umanità, commuoveva i peccatori che si convertivano e cambiavano vita.

Papa Francesco chiede a tutti noi (cioè a tutta la Chiesa) una conversione di sguardo e di cuore. Possiamo aggiungerci anche noi ai già tanti cattolici adulti, emancipandoci pensando di sapere noi cosa invece è giusto fare e sostenere, oppure possiamo con umiltà e fiducia metterci in cammino, ancora una volta, dietro al successore di Pietro. A noi la scelta.

La redazione

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Aumentano i ginecologi obiettori? La realtà vince sull’ideologia

A Child Is BornÈ curioso come ultimamente gli obiettori di coscienza si ritrovino ostacolati da chi é di convinzione contraria alla loro. Il presupposto su cui molti abortisti, come Marilisa D`Amico, fanno leva riguarda il fatto che il 90% dei medici in Italia sono obiettori di coscienza e ciò non permetterebbe una libera e totale applicazione della legge 194.

Secondo la D’Amico la soluzione sta ” nella corretta e severa applicazione dello stesso [ decreto 146] “ e quindi: “L’Europa […]è chiamata a pronunciarsi su questa questione e ancora una volta ci costringe a tenere conto della ormai imprescindibile dimensione multilivello della tutela e garanzia dei diritti. Diritti che hanno anche i propri rovesci, ma che non possono essere svuotati di significato per motivi ideologici”.  Innanzitutto occorre mettere in chiaro il fatto che tali motivi non possono essere dichiarati ideologici, in quanto le “credenze” su cui si basano fanno fondamento ad una visione oggettiva della vita umana e non soggettiva, né tantomeno “comodi” in quanto per un farmacista vendere o non vendere una pillola in più non comporta meno fatica, né maggior guadagno (anzi…). Inoltre é da sottolineare che questo “indispettimento” mette in evidenza una negazione della realtà nella sua totalità.

L’esistenza della maggioranza di medici obiettori è un dato che non va negato né ridotto a problema soggettivo, ma considerato come realtà oggettivamente degna di imparzialità. Sì, lo so, molti potrebbero negare l’affermazione sopra fatta chiamando in causa i diritti della donna, perciò credo che sia giunto il momento di rivolgersi ad un giudice imparziale: la realtà.

a) Prendiamo per buona l’indagine fatta da un gruppo di politici del PD in Lombardia che dichiara che su 63 ospedali con reparto di ginecologia e ostetricia, 11 contengono il 100% dei medici obiettori.
b) A Milano abbiamo un tasso 67,8% di obiettori medici e una percentuale di 85,7% di ginecologi obiettori. Confidando perciò in una maggiore competenza del medico che dopo la laurea in medicina e chirurgia si specializza in ginecologia oncologica (purtroppo non abbiamo ancora una percentuale pubblicata per gli ostetrici) rispetto agli altri medici, possiamo iniziare a dedurre che più che di convinzioni ideologiche/religiose qui si potrebbe parlare di convinzioni scientifiche della personalità del feto e dell’embrione umano.

Come è stato fatto notare, perché non valutare le vere ragioni per cui esistono così tanti medici obiettori di coscienza, sopratutto nella Regione in cui la sanità e le competenze sanitarie sono un’eccellenza italiana? Il numero tanto alto di ginecologi contrari all’aborto è una vittoria della realtà sull’ideologia, è la vittoria della vita sulla morte e sulla discriminazione, è la vittoria della scienza sulla speculazione filosofica contro l’embrione.

Lorenzo Bartolacci

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Eutanasia? No grazie, accompagnare non sopprimere

Eutanasia  
 
di Marco Gabrielli*
*cardiochirurgo all’Ospedale di Cattinara (Trieste)

 
da Vita Nuova, 20/08/13
 

Siamo nel pieno di una campagna in favore dell’eutanasia: dopo anni di pubblicità unidirezionale su alcuni casi limite siamo arrivati alla raccolta di firme per la sua legalizzazione. Il tutto abilmente condito da dati statistici non confermati (nessuno studio scientifico è mai stato commissionato su larga scala per conoscere l’effettiva opinione degli italiani) e portando casistiche poco credibili e comunque non confermabili quali quelle relative alla cosiddetta “eutanasia clandestina”.

Ci troviamo davanti a militanti che sanno coprire bene l’odore della morte parlando di libera scelta, di sofferenze evitate, di dignità della vita e di libertà fino alla fine, ma tacciono su cosa sia l’eutanasia, intesa anche come suicidio assistito ed abbandono terapeutico, e a cosa potrebbe portare la sua legalizzazione soprattutto in un momento di grave crisi economica che porta ai tagli alle spese sanitarie. Il tutto aggravato dall’inverno demografico che ci siamo creati che vede un numero sempre più esiguo di giovani dover prendersi cura di un numero sempre maggiore di anziani e dove, non avendo più figli, viene meno il primo livello di solidarietà, quello famigliare.

Facile l’analogia con precedenti campagne quali quella in favore dell’aborto. Chi si sarebbe mai aspettato che in 35 anni in Italia quasi sei milioni di bambini non sarebbero nati perché uccisi legalmente nell’utero materno con la legge 194/78? E dire che solo una minima parte dei bambini abortiti fa parte dei “casi limite” tanto pubblicizzati in occasione del referendum del 1981. Se viene meno un principio, tutto crolla. L’aborto è ormai un fatto routinario perché la vita di un feto non è più considerata un valore con tutte le conseguenze che non sempre si hanno presenti: si è smesso di cercare soluzioni alternative in termini di aiuti, anche economici, ai genitori; si è smesso di ricercare terapie in grado di trattare eventuali patologie fetali; è venuta meno una rete di solidarietà in grado di aiutare le madri e le famiglie a cui fosse capitata una “gravidanza indesiderata”. L’aborto è considerato la soluzione migliore e chi non vi ricorre viene pesantemente commiserato: non sarà “obbligatorio”, ma è “fortemente consigliato” e, in assenza di aiuti concreti, come quelli erogati dal volontariato, non lascia spesso alternative.

Facile l’analogia con l’eutanasia. Perché continuare a ricercare cure quando c’è una via diversa? Perché dovrebbe continuare a vivere una persona quando un’altra affetta dalla stessa malattia ha deciso di morire? Meglio: perché lo Stato dovrebbe continuare a pagare cure per chi ha l’eutanasia come alternativa? Il passo che porterà a chiedere l’eliminazione di tutte le vite “non degne di essere vissute” è brevissimo. Lo abbiamo già visto in un triste passato che ora cerchiamo di dimenticare. Lo vediamo quotidianamente con l’aborto eugenetico.

Dai paesi europei ed extraeuropei in cui già è legale l’eutanasia giungono notizie allarmanti. Per brevità accenno solo all’estrema facilità di accesso al “suicidio assistito” che viene erogato anche per patologie non in fase terminale, alla sospensione delle cure e dei trattamenti salvavita per i pazienti più anziani o affetti da un elenco crescente di patologie per le quali è sufficiente non assumere dei farmaci per alcuni giorni per arrivare al decesso, all’eutanasia del non consapevole quale può essere un malato di Alzheimer, agli errori diagnostici su persone avviate verso protocolli eutanasici e alla sempre più diffusa “eutanasia pediatrica”. Anche fosse vero che una esigua minoranza di medici pratica l’eutanasia non sarebbe sufficiente per far approvare una legge che la consenta: questo varrebbe anche per tutti gli altri reati, pensiamo, ad esempio, all’evasione fiscale o al non rispetto dei limiti di velocità.

Non è cosa esclusiva dei cristiani riconoscere che è insito nell’uomo quell’istinto di sopravvivenza che ci accomuna agli animali e che eliminiamo solo facendoci violenza. In più l’uomo, con la ragione, dovrebbe riconoscere la vita come valore assoluto. Non possono essere dimenticate tutta quella serie di relazioni che danno scopo e dignità alla vita, anche se questa attraversa momenti difficilissimi ed è particolarmente fragile, vulnerabile, dipendente e, per questo, richiedente aiuto e sostegno. Voler eliminare con la morte queste fasi fa venir meno l’umanità di chi soffre e di chi accompagna nella sofferenza. Accompagnare non è semplice, ma sicuramente più umano che sopprimere.

Non è detto che si debba per forza soffrire, accusa gratuita che viene spesso rivolta verso la Chiesa Cattolica: già nel 1957 papa Pio XII precisò che è da ritenersi moralmente lecita una terapia antidolorifica anche se, al fine di alleviare i dolori, di fatto abbrevia la vita. Insegnamento ribadito anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che pure vieta espressamente l’accanimento terapeutico. La “morte imposta nella sofferenza” di cui i cattolici vengono accusati è una menzogna pretestuosa di chi si batte per la legalizzazione dell’eutanasia.

Da ultimo qualche brevissima considerazione sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT). Le DAT sono lo strumento culturale per far accettare ed approvare l’eutanasia. In assenza di una legislazione nazionale non ha alcun senso istituire dei registri a livello locale che le raccolgano. Non si deve temere che i medici pratichino il tanto temuto accanimento terapeutico perché questo è vietato tanto dal Codice Penale quanto dal Codice di deontologia medica. Lo stesso dicasi per l’eutanasia. Che valore può avere una dichiarazione resa in giovane età, davanti ad un funzionario non preparato a raccoglierla in un mondo in veloce cambiamento anche dal punto di vista terapeutico? Tutti noi possiamo cambiare le aspettative di vita e magari quello che oggi ci sembrerebbe insopportabile un domani potrebbe non esserlo più e quanto oggi non è curabile un domani potrebbe diventarlo. Desta preoccupazione leggere il testo di alcune DAT sottoscritte da giovani e rese pubbliche attraverso Internet. Chi firma queste dichiarazioni, spesso tratte dallo stesso canovaccio, dichiara di rifiutare trattamenti quali “rianimazione cardiopolmonare” o “intubazione tracheale”, trattamenti che, se accompagnati al trattamento risolutivo delle cause che li hanno resi necessari, possono portare alla piena guarigione. Il rifiuto aprioristico di questi trattamenti può causare la morte della persona che avrebbe potuto riprendere una vita normale. Stiamo attenti a quello che firmiamo…

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Se Chiara Lalli crede di essere una mosca…

GeneticaLa matematica/filosofa/tuttologa Chiara Lalli ha dimostrato di aver imparato benissimo dal suo maestro Piergiorgio Odifreddi: il suo intervento sui quotidiani non dev’essere solo divulgazione scientifica ma va usato per infilarci una propaganda, esplicita o velata, al determinismo ateo (o contro la maternità e a favore dell’aborto, questo è l’altro tema di cui è appassionata).

Se vediamo un articolo firmato da lei sappiamo già il secondo fine ed infatti ce lo aspettavamo leggendo ieri la sua recensione sul “Corriere” all’ultimo lavoro di Edoardo Boncinelli, “Una sola vita non basta” (Rizzoli 2013).  La Lalli ha raccontato dell’incontro tra Boncinelli e Walter Gehring, il quale ha isolato tre geni omeotici della drosofila capaci di controllare altri geni, una loro mutazione può provocare profonde alterazioni nel corpo della mosca. Boncinelli ha approfondito gli studi sull’uomo scoprendo a sua volta l’esistenza di geni con un ruolo simile a quello dei geni omeotici nella drosofila. Un bellissimo lavoro dunque che grazie alla interessante recensione della Lalli è divenuto pubblico.

Ma poteva finire qui senza una stoccata ai suoi nemici, i credenti, strumentalizzando la scienza per le proprie battaglie ideologiche? Ovviamente no, così la Lalli si è avventurata oltre affermando che l’aver trovato dei geni simili tra mosca e uomo avrebbe anche «un’eco filosofica». Via dunque alla propaganda riduzionista: «non siamo poi così “speciali”, diversi da una mosca, almeno nei componenti fondamentali. È facile capire lo scombussolamento di chi si crede appartenente a una specie ontologicamente superiore alle altre». Scombussolati perché Boncinelli ha trovato dei geni simili tra uomo e mosca? Addirittura scomodando l’ontologia dell’essere umano?

Pensate quanti salti di gioia farebbe Chiara Lalli se scoprisse che l’uomo non condivide dei geni solo con la mosca ma perfino con l’albero di Natale! Noi esseri umani abbiamo inoltre il 50% del DNA in condivisione con la banana, il 90% con il gatto e l’80% con la mucca. Quindi, secondo il suo ragionamento del “non siamo poi diversi da una mosca”, l’uomo sarebbe anche per metà una banana, in gran parte un bovino da latte e per il 90% un felino che miagola. Possibile che possa esistere ancora oggi uno sguardo talmente miope sull’essere umano, ridotto ai suoi fattori genetici? Ancora qualcuno che crede che l’irriducibilità dell’uomo possa essere smentita dai geni in comune con piante e animali?

Comprendiamo il disappunto di Adriano Favole, antropologo dell’Università di Torino per «il ritorno prepotente di una sorta di monopolio delle scienze biologiche (dalla chimica alle neuroscienze) nella definizione della condizione umana». Questi sono semplicemente «abusi politicamente strumentalizzati», dal nome di “determinismo genetico”. Giorgio Dieci, docente di Biochimica all’Università di Parma, ha aggiunto in modo significativo: «L’idea che gli organismi viventi e la loro evoluzione siano ultimamente, esattamente riconducibili al DNA e alle sue dinamiche mutazionali e replicative, idea di cui non sono mai mancati i sostenitori a oltranza fuori e dentro il mondo scientifico, sopravvive soprattutto nella retorica di certe discussioni pubbliche e fonti divulgative, spesso dominate dallo sforzo di non ammettere lacune nella conoscenza dei meccanismi dell’evoluzione e dell’essenza dei viventi, anziché dall’entusiasmo nel constatare l’inaspettata ampiezza d’orizzonte che l’analisi sempre più approfondita dei genomi, e della intricatissima loro espressione nel contesto cellulare, sta rivelando. Dove sono scritte la cavallinità del cavallo, la “quercità” della quercia, l’umanità dell’uomo?». Gereon Wolters, filosofo dell’Università di Costanza ha sapientemente svelato quel che si cela dietro ai tentativi, come questo di Chiara Lalli: «Se fosse possibile mostrare che anche il comportamento è geneticamente determinato, questo sancirebbe il trionfo definitivo del riduzionismo: anche i meccanismi cognitivi, l’azione morale e, in ultimo ma non di minore importanza, la credenza in Dio, diverrebbero generi di comportamento determinati dai nostri geni. Le discipline corrispondenti, come ad esempio l’epistemologia, l’etica e la teologia perderebbero inoltre la loro autonomia e il loro diritto di esistere al di fuori della biologia».

Il dogma dell’ateismo militante, ha spiegato Francesco Agnoli, è l’essere costretto a negare l’uomo per poter negare Dio. «Perché negare Dio», ha scritto, «ha significato da sempre ridurre l’uomo ad un elemento della natura, equivalente ad un sasso o un albero; ridurlo via via a frutto del Caso, a un “esito inatteso”, a una “eccezionale fatalità”, a un aggregato di materia senz’anima, a un meccanismo geneticamente determinato, a un membro indistinto di una non meglio identificata Umanità, di una Razza o di una Classe sociale. E’ infatti una caratteristica tipica di tutti gli ateismi – da quello darwinista-materialista a quello marxista, da quello animalista a quello new age – quasi un risentimento, un rancore verso l’uomo, come singolo, unico e irripetibile, che reclama testardamente un senso più alto».

Se Chiara Lalli si crede convinta nel volersi paragonare ad una mosca, una mucca o un gatto non saremo certo noi ad impedirglielo. Auspichiamo tuttavia uno sguardo più aperto e profondo sull’essere umano e una vera divulgazione scientifica, non proselitismo. Anche perché, è sotto gli occhi di tutti, i suoi amici Dawkins e Odifreddi non hanno poi fatto una bella fine.

La redazione

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Il devoto cattolico Gino Bartali salvò 800 ebrei

Gino BartaliUn grande campione e un buon cristiano. Si chiamava Gino Bartali, a cui il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, nel 2006, conferì la medaglia d’oro al merito civile per i gesto di grande solidarietà compiuto a favore degli ebrei con la seguente motivazione: “Nel corso dell’ultimo conflitto mondiale con encomiabile spirito cristiano e preclara virtù civica, collaborò con una struttura clandestina che diede ospitalità ed assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti in Toscana, riuscendo a salvare circa 800 cittadini ebrei.

Da oggi, Gino Bartali è anche “Giusto tra le nazioni”, l’importante riconoscimento proveniente dallo Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoah fondato nel 1953. «Un cattolico devoto», spiega lo Yad Vashem, «che nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’Arcivescovo della città cardinale Elia Angelo Dalla Costa (anch’egli riconosciuto Giusto tra le Nazioni da Yad Vashem). Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca e all’avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati dai territori prima sotto controllo italiano, principalmente in Francia e Yugoslavia».

Nell’autunno del 1943, ha raccontato Cristiano Gatti, non esitò un attimo a raccogliere l’invito del vescovo fiorentino EliaGino Bartali e Pio XII Della Costa, il cardinale gli proponeva corse in bicicletta molto particolari e molto rischiose: doveva infilare nel telaio documenti falsi e consegnarli agli ebrei braccati dai fascisti, salvandoli dalla deportazione.

Il grande campione viveva la sua profonda fede come terziario carmelitano e membro dell’Azione Cattolica. «Prese i voti nella chiesa di San Paolo a Firenze», ha raccontato il figlio Andrea. «Già a dieci anni si iscrisse all’Azione cattolica. Quando passava per Padova, dove aveva moltissimi amici, era d’obbligo la tappa al Santo. Era un uomo di fede, ma sempre nel suo stile, nei fatti più che nelle parole».

La redazione

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