Un cristiano del Pakistan: «perdono i kamikaze»

Attentato pakistanEnnesimo attentato in Pakistan contro le chiese cristiane, questa volta, domenica 22 settembre, è stata attaccata dai talebani la chiesa di Peshawar durante la Messa uccidendo 85 vite e ferendo 140 persone.

“Il Sussidiario” ha intervistato Z.Y., cristiano pakistano di 21 anni, che era uscito da Messa pochi istanti prima che due kamikaze si facessero esplodere in chiesa.

«Mi trovavo all’esterno», ha raccontato, «ho visto le due esplosioni provocate da altrettanti kamikaze. Ho visto bene in viso i due terroristi, erano due uomini giovani. Quando i due ordigni sono deflagrati mi sono trovato circondato da persone agonizzanti che gridavano chiedendo aiuto, riverse a terra davanti a me, e nei muri della chiesa c’erano dei grossi buchi da cui si vedeva l’interno della navata».

«Non c’è nessuna legge che protegge i cristiani», ha spiegato Z.Y., tuttavia «non ho paura di andare a Messa e non l’avrò mai in futuro. Quando un terrorista ti lancia una bomba addosso ti uccide, ma quando hai paura è come se fossi tu a ucciderti da solo. Per questo motivo noi cristiani pakistani non possiamo permetterci di avere paura. Non temo per me stesso, ma ho paura per i miei familiari e per la comunità cristiana della mia città, e soffro molto per il fatto di non potere vivere liberamente la mia religione. Nella fede trovo però la forza per affrontare tutto ciò».

Nell’attentato ha perso 13 parenti tra zii e cugini, anche bambini, e numerosi amici. «Ciò di cui abbiamo bisogno è di maggiore sicurezza e di medicine per le persone ferite. I Paesi occidentali hanno risorse che spesso vanno sprecate e che potrebbero essere utilizzate per aiutarci. Qui in Pakistan c’è bisogno del vostro sostegno».

Nonostante tutto, ha concluso, non ha esitato a perdonare i due kamikaze «perché Gesù Cristo ci ha insegnato a perdonarli in quanto non sanno quello che fanno».

 

Qui sotto l’attacco di islamici ad una Chiesa in Siria

La redazione

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Caro sacerdote: accorcia l’omelia e sii compagno di vita

Sono tanti i sacerdoti che seguono il nostro sito web, molti ci scrivono spronandoci a proseguire questa iniziativa e dandoci il loro sostegno. Siamo grati di questo, il sacerdote per noi rappresenta il punto nella storia in cui può riaccadere quotidianamente il mistero di Cristo, attraverso l’Eucarestia. Senza sacerdoti non esiste cristianesimo, essi sono la possibilità attraverso cui Gesù Cristo si dona nuovamente all’uomo, anche fisicamente. Solo il sacerdote può permetterlo e il suo compito e la sua importanza è di immenso valore.

Abbiamo seguito la recente visita pastorale di Papa Francesco ad Assisi, tantissime parole ci hanno colpito e in particolare ancora una volta è stata per lui l’occasione di lanciare dei messaggi ai nostri amati sacerdoti: «Penso al sacerdote, che ha il compito di predicare. Come può predicare se prima non ha aperto il suo cuore, non ha ascoltato, nel silenzio, la Parola di Dio? Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente», ha detto.

Vorremmo lanciare un appello ai nostri carissimi sacerdoti offrendo loro il nostro punto di vista di semplici fedeli: l’individualismo e il nichilismo che ci circondano è letale anche per la vivacità delle comunità parrocchiali. Abbiamo bisogno di voi, della vostra presenza fisica. In tante parrocchie, purtroppo, è venuto meno il riferimento paterno del sacerdote, i fedeli frequentano la parrocchia anche perché la vita cristiana esiste e persiste se si appartiene ad una comunità, eppure la gran parte delle persone che frequenta i Sacramenti non conosce nemmeno il nome del parroco. Certo, per molti cattolici recarsi alla Messa è come andare al cinema, lo fanno per seguire una tradizione imparata, ma senza usare cuore e ragione…ma tocca proprio a voi, cari sacerdoti, aiutarci a risvegliarci dal torpore! Così come Gesù ha fatto con gli uomini del suo tempo, guardandoli uno per uno.

Don Nicola Bux ha scritto un libro intitolato “Come andare a messa e non perdere la fede”. C’è bisogno della vostra omelia durante la Santa Messa, per tanti è l’unico momento della settimana in cui possono ascoltare il Vangelo e riflettere su parole profonde che parlano del destino della vita. Eppure tante volte, anche ascoltando con tutta la buona volontà omelie di un’ora/un’ora e mezzo che sono pura elucubrazione teologica, verrebbe voglia di alzarsi ed andarsene. Omelie in cui “non si capisce niente”, dice Francesco. Chi preferisce rimanere lo fa sbadigliando, pensando ai fatti suoi mentre guarda il sacerdote con il volto fisso sugli appunti. L’omelia è un prezioso strumento, parte integrante della Santa Messa ma a volte diventa la tomba del Sacramento. Tanti oratori sono l’unico luogo in cui un ragazzo può sentirsi accolto, sono una grande festa e un ambiente amorevole e di educazione cristiana. Al contrario, altri -basta farvi un giro sabato o domenica pomeriggio-, sono divenuti il ricovero di bande e bulli, di bestemmie e insulti all’arbitrio e ai giocatori avversari del campionato di calcio amatoriale che si svolge nel campetto. Nessun educatore, nessun sacerdote ad essere riferimento, il fulcro educativo per questi ragazzi in queste domeniche non esiste. Pomeriggi vuoti, senza senso, trascorsi nell’oratorio della città.

Stranamente il vaticanista Marco Politi questa volta ha ragione: commentando le telefonate di Papa Francesco, la sua presenza e vicinanza tra la gente ha scritto: «Il cellulare di Bergoglio diventa il simbolo di un appello ai sacerdoti perché non si riducano a funzionari del sacro, ma ritrovino il ruolo antico di compagni dell’esistenza dei fedeli. La parrocchia, il parroco, lo stretto legame tra guida spirituale, popolo e territorio ben definito sono stati sociologicamente la più grande invenzione del cristianesimo. Oggi, lo sanno bene i vertici ecclesiastici, questo sistema è in crisi. Manca il clero. E qui persino l’esempio del pontefice non basta». Non funzionari del sacro ma dei padri. C’è bisogno di voi, della vostra presenza nelle nostre parrocchie. Francesco può aiutarvi a tornare ad essere pastori, ad amare la vostra preziosissima e difficile vocazione e la vostra comunità parrocchiale, con tutti i suoi problemi, facendo sentire ogni fedele a casa sua, curando le ferite di chi si è allontanato. Fatevi vedere, state in mezzo alla gente, arrivando perfino a conoscere il nome del cane di ogni fedele! Lo ha detto sempre Papa Franecesco in questi giorni: «Qui penso ancora a voi preti, e lasciate che mi metta anch’io con voi. Che cosa c’è di più bello per noi se non camminare con il nostro popolo? E’ bello! Quando io penso a questi parroci che conoscevano il nome delle persone della parrocchia, che andavano a trovarli; anche come uno mi diceva: “Io conosco il nome del cane di ogni famiglia”, anche il nome del cane, conoscevano! Che bello che era! Che cosa c’è di più bello? Lo ripeto spesso: camminare con il nostro popolo, a volte davanti, a volte in mezzo e a volte dietro: davanti, per guidare la comunità; in mezzo, per incoraggiarla e sostenerla; dietro, per tenerla unita perché nessuno rimanga troppo, troppo indietro, per tenerla unita»

Ci scusiamo per questo consiglio, pensiamo di farlo per il bene della Chiesa. La gran parte di voi ovviamente non ne ha alcun bisogno, qualcun altro forse si. Ci sono comunità parrocchiali bellissime e altre che sono anonime, senza volto, più secolarizzate della società stessa che le ospita. Accorciate le omelie e accorciate le distanze con i parrocchiani, abbiamo bisogno di voi.

La redazione

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Le cinque vie di Tommaso sono ancora valide


 
di Francesco Santoni*
fisico e ricercatore

da Quaestiones quodlibetales, 05/09/13

 

Tempo fa, stimolato da una discussione con un amico filosofo, buttai giù una serie di riflessioni sul principio di causa e sul valore delle cinque vie tomiste per dimostrare l’esistenza di Dio. Il mio amico è un cattolico di ferma fede, non è per nulla impressionato dalle dimostrazioni di Tommaso, non ne capisce la necessità né il motivo per cui invece io le ritenga tanto importanti.

Io che sono teista solo grazie alla metafisica di Tommaso, ma agnostico in fatto di Rivelazione, cercavo di fargli capire il valore di queste dimostrazioni, e di come esse siano validissime e restino salde anche di fronte a tutti i tentativi di critica che gli sono stati mossi contro da diverse scuole filosofiche. Convinto che si tratti di riflessioni valide, e magari utili per qualcuno, le riporto qui, come dicevo, senza alcuna pretesa di sistematicità e completezza (si noterà forse che la discussione procederà un po’ a salti, infatti il contesto era una lunga ed articolata discussione avuta con il mio amico, e non posso stare qui, e sarebbe forse anche inutile e noioso, a riportare tutti i dettagli, me ne scuso).

 

1) Le cinque vie tomiste poggiano sul realismo e sul principio di causa. Entrambi questi presupposti non appartengono a Kant, alle cui spalle sta invece l’idealismo (secondo l’accezione gilsoniana) di Cartesio, e l’empirismo scettico di Hume. Già questo è di per sé sufficiente a sostenere che le prove tomiste sfuggano al maglio della Critica: Kant procede con una deduzione trascendentale delle condizioni di possibilità della conoscenza, mentre si potrebbe dire che Tommaso, dato il presupposto realista e riformulando (forse qui sono troppo ardito) il suo pensiero in termini kantiani, proceda ad una deduzione trascendentale delle condizioni di possibilità dell’essere dell’ente; tale deduzione è compiuta seguendo le implicazioni del principio di causa. Il risultato principale di questa ricerca è la scoperta della partecipazione dell’ente all’atto d’essere, l’ente che riceve l’essere per partecipazione dall’Essere Per Sé Sussistente che è Dio, nel quale essenza ed essere coincidono.

 

2) I principi più generali, quali l’atto e la potenza, non sono oggetto di dimostrazione, ma possono essere colti solo per analogia tramite esempi, come insegna Aristotele nella Metafisica. Che cos’è l’atto? Se io rispondessi la fattualità, la realizzazione, la concretizzazione di una potenza, non avrei risposto, perché poi dovrei definire tutti questi termini, i quali però non significano altro che l’atto. E che cos’è la potenza? È ciò che può ricevere un determinato atto… ma anche questa risposta non soddisfa. Come cogliere allora i concetti di atto e potenza? Con un esempio dal quale il nostro intelletto è in grado di astrarre un concetto: il fuoco è caldo in atto, e l’acqua è calda in potenza, e può ricevere l’atto di esser calda dal fuoco. Oppure si possono fare altri esempi come il seme e la pianta, il bambino ed il vecchio ecc. Dall’analogia tra tutti questi esempi si coglie il concetto di potenza ed atto. Questa è la cosiddetta analogia di proporzionalità secondo la classica distinzione del cardinal Gaetano, che è l’unica vera analogia secondo Aristotele. Si chiama di proporzionalità perché non implica una somiglianza di perfezioni (cioè una proporzione): l’atto del fuoco non è l’atto della pianta; ma indica una somiglianza di rapporti tra perfezioni diverse (quindi una proporzionalità): il fuoco sta all’acqua (riscaldandola) come la luce del sole sta all’aria (illuminandola). Da questa proporzionalità si coglie il concetto di atto, e così per tutti i principi più generali. Ovviamente più esempi facciamo e più avremo chiaro il concetto che cogliamo per analogia. In questo consiste l’esperienza. Il razionalismo moderno rifiuta l’analogia, ma finisce così per sprofondare nello scetticismo e nell’agnosticismo, perché chiaramente non ha altro modo di cogliere i principi, che di certo non possono essere oggetto di dimostrazione, perché la dimostrazione stessa richiede a sua volta dei principi. E questa è anche la vera essenza del realismo aristotelico-tomista, che rifiuta di dedurre il reale dai principi, ma piuttosto è la continua ricerca e scoperta dell’implicazione dei principi nel reale stesso.

 

3) Che cos’è l’atto d’essere? Chiaramente anche qui non è possibile una definizione, e dobbiamo ancora procedere per analogia. Diciamo infatti che l’atto d’essere è l’atto di tutti gli atti, perfezione di tutte le perfezioni, forma di tutte le forme, perché è per l’essere che ogni essenza esiste in atto. Mettendo ogni perfezione, ogni essenza, ogni modo di essere l’uno accanto all’altro come una sinossi, dice Cornelio Fabro, ci facciamo un concetto dell’atto d’essere come perfezione suprema che è sintesi, plesso di tutte le perfezioni. Ciò che tutti chiamano Dio (nota espressione di Tommaso), l’assoluto, l’incondizionato, è quindi Atto Puro, ciò che è primo nell’ordine delle cause moventi, primo nell’ordine efficiente, primo nell’ordine finale, primo nell’ordine delle perfezioni ecc. Ecco perché per arrivare ad una qualche conoscenza di Dio bisogna percorrere tutte le vie di Tommaso, e magari trovarne anche di altre mai percorse, perché non esisterà mai una conoscenza di Dio che possa dirsi completa (eccezion fatta per la conoscenza che Dio ha di se stesso). Ognuna delle cinque vie ci dimostra la necessità di dover ammettere un primo principio nei diversi ordini, ma è poi nell’analisi della natura divina svolta nei successivi articoli della Somma che viene mostrato, sfruttando gli argomenti di ogni via, come esista un solo Primo Principio e come esso debba necessariamente essere Atto Puro (ed inoltre c’è da tener conto che la Somma Teologica è una sintesi, e che per una trattazione più completa e dettagliata bisogna rivolgersi alla Somma Contro i Gentili e alle Questioni Disputate sulla Potenza di Dio e sulla Verità; non si può ridurre il discorso di Tommaso al solo e ben noto Respondeo che contiene le cinque vie).

 

4) Le cinque vie conducono quindi a Dio partendo dalla contemplazione del reale ed applicando sistematicamente il principio di causa. Ma il realismo ed il principio di causa stanno a fondamento anche di qualsiasi discorso scientifico (nell’accezione moderna del termine), e pertanto mi pare che le prove di Tommaso debbano godere della stessa fiducia che si ha nelle scienze. Del resto, da aristotelico, non mi piace parlare di scienze e di metafisica, ma piuttosto di scienza fisica e scienza metafisica (sì lo so, Aristotele non usa il termine metafisica, ma lasciamo correre ora) dove in entrambi i casi, secondo l’accezione classica, per scienza si intende conoscenza certa per cause. Le scienze si distinguono primariamente in ragione dell’oggetto studiato, e chiaramente Dio non entra nel discorso scientifico (qui torno all’accezione moderna), e a dirla tutta non è nemmeno l’oggetto proprio della metafisica, che è invece l’essere in quanto essere. Dio è solo secondariamente oggetto della metafisica, in quanto ente più eminente tra tutti gli enti ed a fondamento di essi, ecco perché Aristotele dice che la metafisica, o filosofia prima, potrebbe esser detta anche teologia. Ma con l’affermazione del pensiero cristiano, la teologia è diventata una scienza a sé, della quale ora Dio costituisce l’oggetto proprio, ed i principi primi sono dati dalla Rivelazione.

Si potrebbe allora porre il problema di quale scienza sia la principale, la metafisica o la teologia. Il ruolo pare certamente spettare alla teologia, perché essa si occupa dell’oggetto più importante, Dio, e da Egli è direttamente rivelata, quindi è massimamente certa. Tuttavia Dio per mostrarsi deve rivolgersi a noi parlando la nostra lingua, dicendo cose che noi possiamo capire; ma allora la Rivelazione presuppone già un discorso metafisico più o meno compiuto (forse non è un caso che la Rivelazione non scenda in blocco ma sia “distribuita” nel corso della storia): se Dio dice “Io sono Colui che sono”, si presuppone che possiamo intenderlo in qualche modo. Un certo livello di sapere metafisico è quindi necessario alla ricezione della teologia, ed è quindi giusto riproporre il tradizionale appellativo della metafisica come ancilla theologiae; ma tale rapporto di signoria e servitù sembra quasi rovesciarsi dialetticamente, dal momento che sembra essere il sapere metafisico a dettare le regole alla teologia e renderla possibile come scienza. Tale contraddizione mi pare comunque si risolva in maniera semplice dicendo che la teologia è prima in quanto scienza assolutamente certa dell’oggetto più eminente, mentre la metafisica è prima solo quoad nos (rispetto a noi), quanto al progredire della nostra conoscenza, ed in effetti è la teologia stessa ad insegnare che nella visione beatifica sarà possibile conoscere Dio come Egli è, quindi senza la mediazione della metafisica, che è scienza umana e non divina.

 

5) Comprese tutte queste distinzioni, si capisce allora come sia sbagliato far entrare Dio all’interno del discorso scientifico, contrariamente a quanto pretendono di fare i creazionisti all’americana (o magari pure qualche teologo cattolico ingenuo). Ma al tempo stesso si deve capire che Dio sta a fondamento del discorso scientifico stesso; sta a fondamento del fatto che ci sia qualcosa su cui discutere, che questo qualcosa sia intelligibile, che noi siamo in grado di farlo, che desideriamo farlo, che desideriamo conoscere. A fondamento di tutto c’è il Logos e noi vogliamo e possiamo conoscerlo.

Inoltre si sosteneva (mi riferisco al mio amico) che le vie di Tommaso non sarebbero sufficienti, altrimenti non ci sarebbero atei. Però, allora, mi vedo costretto a portare la mia testimonianza personale, perché senza Tommaso io mi crogiolerei nell’agnosticimo, ostentando indifferenza ed atarassia come un Eugenio Scalfari qualsiasi. Se io non sono caduto nel nichilismo è grazie a Tommaso. Certo, la metafisica non ci rivela il Dio della fede cristiana, bensì il Dio dei filosofi, ne sono perfettamente consapevole, e Tommaso stesso lo dice chiaramente; ma ci si tiene comunque ben lontani dall’ateismo.

 

6) Qualche parola sul principio di causa. La causalità è fondata sulla partecipazione, e di quest’ultima credo non possa proporsi definizione più chiara di quella data da Tommaso stesso: Est autem participare quasi partem capere, et ideo quando aliquid particulariter recipit id quod ad alterum pertinet universaliter dicitur participare illud, sicut homo dicitur participare animal, quia non habet rationem animalis secundum totam communitatem; et eadem ratione Socrates participat hominem. Secondo l’esegesi del Fabro si devono distinguere due tipi di partecipazione, la partecipazione trascendentale, ossia la partecipazione dell’ente all’essere, e la partecipazione predicamentale, che è orizzontale, resta cioè sul piano dell’ente detto secondo le dieci categorie aristoteliche (o predicamenti appunto). La fondazione delle cause seconde richiede ovviamente entrambi i tipi di partecipazione. Riprendendo la lezione aristotelica si ricordi che l’atto del mobile e l’atto del motore sono un unico e medesimo atto, ovvero causa ed effetto partecipano di un’unica e medesima forma; è pertanto la partecipazione che fonda il nesso causale: quando una data forma è ricevuta per partecipazione in due enti distinti, allora o l’uno è causa dell’altro, oppure entrambi sono causati da un terzo agente. La causa formale-finale è sempre presente, infatti Tommaso definisce il fine come causa delle cause (causa causarum), perché ogni causa efficiente agisce secondo un ordine specifico (omne agens agit propter finem), seconda una certa direzionalità, ovvero secondo una forma-fine (li metto insieme perché tali sono negli agenti non intelligenti) che viene ricevuta per partecipazione dall’effetto. È perciò nella partecipazione che si riconosce il nesso causale, e si è così capaci di giustificare metafisicamente la nozione di causalità espressa dalle proposizioni controfattuali: il tale ente non si dà senza che si dia il tale altro ente. Duns Scoto, analitico ante litteram, nel Trattato sul Primo Principio, esprime tutto ciò sotto forma di teorema dimostrando una dopo l’altra le seguenti proposizioni: quod non est finitum (ovvero ordinato ad un fine) non est effectum,quod non est effectum non est finitum. Il “povero” Hume, erede di una filosofia che aveva ormai disconosciuto le cause formali e finali, si ritrovò con la sola causa efficiente, e cercò di trovarne il fondamento, ma ovviamente non poteva. Il principio di causalità viene abbandonato e con esso tutta la scienza: Hume finisce nello scetticismo

Non c’è bisogno di andare nei sistemi complessi per trovare le cause formali e finali. Esse sono sempre presenti affinché la stessa causa efficiente sia fondata. Basti pensare ad esempio come il principio di minima azione, così palesemente teleonomico, sia basilare praticamente per tutta la fisica oggi conosciuta.

 

7) Concludo dicendo che tutto quanto ho scritto fin qui non è chiaramente farina del mio sacco, ma semplice ripetizione di ciò che ho appreso leggendo tomisti autorevoli come Maritain o Fabro. Ora io non nego che ci siano state e ci siano ancora semplificazioni e banalizzazioni del pensiero di Tommaso, ma questo non dimostra nulla contro Tommaso stesso. Molti, troppi tomisti hanno purtroppo reso un pessimo servizio al maestro, trasformando il suo luminoso pensiero in una serie di vuote formulette, incapaci di calarle nel reale e nella vita. Per esperienza personale se si vuole studiare Tommaso bisogna fare moltissima attenzione ai manuali, perché in genere lo presentano in maniera superficiale e fuorviante; è piuttosto preferibile leggere direttamente Tommaso guidati da tomisti di indubitabile preparazione e profondità di pensiero, come appunto il padre Fabro.

 

8) Una stoccata alla modernità è d’obbligo. Tutto questo chiaramente è metafisica, non scienza (nell’accezione moderna del termine). Ma è la metafisica a fornire i fondamenti teoretici sui quali è possibile edificare la scienza, e pensare di poter usare una teoria scientifica o delle evidenze empiriche (come pretendono certi moderni “pensatori”) per confutare delle tesi puramente metafisiche, quali sono quelle che ho esposto, è un’assurdità a sentire la quale Aristotele si rivolterebbe nella tomba, se mai le sue ossa siano ancora da qualche parte. Come diceva Koyré, senza la metafisica la scienza è morta. Buona parte dei filosofi moderni pensa che la metafisica sia inutile, se non addirittura priva di senso. Io sarò immodesto, ma penso che questi signori non abbiano capito nulla, e che un Aristotele o un Tommaso potrebbero papparseli in un boccone, ritornassero all’improvviso a vivere.

Io sono un fisico, e francamente delle speculazioni del circolo di Vienna ne faccio tranquillamente a meno. È grazie a Tommaso se posso comprendere i fondamenti del lavoro che faccio (ed ho la convinzione che gli scienziati siano per lo più degli aristotelici spontanei che non sanno di esserlo).

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Si può davvero ammirare Gesù senza credere alla sua divinità?

Gesù e un bambinoGesù e gli atei. Molti si dicono ammirati dalla sua persona ma censurano o tralasciano quel che diceva di essere, cioè il figlio di Dio. Ma Jean Guitton aveva ragione: “Nel problema riguardante Gesù si è stretti tra due ipotesi: o è davvero un uomo divino o è un pazzo furioso. Non ci sono mezzi termini”.

 

Approfittiamo della lettera di Papa Francesco al fondatore di “Repubblica”, Eugenio Scalfari, per soffermarci su una questione specifica, in particolare diamo attenzione alla risposta di Scalfari quando si definisce «un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth».

Anche il laico Umberto Veronesi è intervenuto scrivendo: «Noi laici siamo ammirati dall’insegnamento umano di Gesù, e gli siamo vicini perché crea un terreno favorevole a un’etica condivisibile, basata sull’amore, la solidarietà e la pace. Non possiamo tuttavia accettare la sua dimensione divina, che per la fede è quella che conta di più». Potremmo fare tanti esempi simili, di non credenti affascinati di Gesù, pieni di stima e di ammirazione per la sua persona e il suo messaggio ma che hanno scelto di non credere alla sua divinità.

E’ senz’altro bello sapere quanto quest’Uomo sia ancora oggi il riferimento etico anche delle società secolarizzate occidentali. Tuttavia c’è qualcosa che non quadra e ci sentiamo in dovere di farlo presente. Lo ha spiegato il grande filosofo francese Jean Guitton: «Nel problema riguardante Gesù si è stretti tra due ipotesi: o è davvero un uomo divino o è un pazzo furioso. Non ci sono mezzi termini. Nel problema “Gesù” si giunge a un punto in cui bisogna scegliere: tra zero e infinito» (Guitton, “Ogni giorno che Dio manda in terra”, Mondadori 1997, pag.159). Ovvero, come possono i laici essere affascinati e ammirati da Gesù Cristo, ma non credere nella sua divinità, senza prendere in considerazione quel che Lui diceva di sé, ovvero di essere il Figlio di Dio? Uno che afferma si descrive così o è un “pazzo furios0” oppure dice la verità. Se si esclude però che stia dicendo il vero allora, uno che dice di essere Figlio di Dio, è un “pazzo furioso” o, in alternativa, un sadico ingannatore. In entrambi i casi non potranno mai essere prese sul serio nessuna delle sue parole, tanto meno il suo messaggio.

I laici apprendono il messaggio di Gesù attraverso i Vangeli, ma sono proprio essi a descrivere che Gesù Cristo si è presentato al mondo come figlio di Dio, come mandato dal Padre suo. «Guardatevi dal disprezzare uno di questi piccoli; perché vi dico che gli angeli loro, nei cieli, vedono continuamente la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18:10). Oppure, ancora Matteo (12:50): «Poiché chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello e sorella e madre». E ancora più scandalosamente: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 15,6).

Non ci sono molte opzioni davanti a chi dice questo, come spiega Guitton: o Gesù è un folle completo oppure è davvero Colui che dice di essere. L’evangelista Marco (14, 62-64) riporta: «Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò e gli disse: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?”. Gesù disse: “Io sono; e vedrete il Figlio dell’uomo, seduto alla destra della Potenza, venire sulle nuvole del cielo”. Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: “Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”. Tutti sentenziarono che era reo di morte». Gesù viene mandato da Pilato proprio in quanto ha bestemmiato definendosi Figlio di Dio. Come lo spiegano i laici affascinati da Gesù ma che non credono nella sua divinità? Giovanni (18,33-37) racconta l’incontro con Pilato, quando Gesù dice di sé: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”».

Gesù dice di essere il Messia, il Figlio di Dio, parla del suo Regno dei cieli, accenna alla sua resurrezione («Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà», Mc 9, 31) ecc. Se non si vuole credere alla divinità di Gesù Cristo non si può nemmeno credere a quello che Lui dice di se stesso e non si possono selezionare le frasi (come fossero consigli di bontà) senza guardare l’intera Sua persona. Eppure il messaggio di questo folle ha rivoluzionato la storia umana, la civiltà, la scienza, la carità, la cultura, l’arte, la musica…ha incredibilmente cambiato la vita di miliardi di persone, molte delle quali hanno dedicato e decidono di dedicare l’intera vita nella Sua sequela. Il Suo messaggio ha sempre avuto inspiegabilmente la forza e la freschezza di essere attuale e di parlare alla coscienza di ogni uomo, di qualunque credo, origine o etnia. E lo sarà per l’eternità.

Laici e non credenti continuino a riferirsi a Gesù Cristo come autorità morale, ma provino a riflettere anche su questo: come avrebbe potuto un folle o un ingannatore essere all’origine di tutto quello che da Lui è nato? Per crederlo occorre molta più fede di quanta ne serve per credere che Gesù Cristo dica la verità su se stesso e sulla sua origine. Allo stesso modo, come ha spiegato il laico Umberto Eco, «Quand’anche Gesù fosse –per assurdo- un personaggio inventato dagli uomini, il fatto che abbia potuto essere immaginato da noi bipedi implumi, di per sé sarebbe altrettanto miracoloso (miracolosamente misterioso). del fatto che il figlio di un Dio si sia veramente incarnato. Questo mistero naturale e terreno non cesserebbe di turbare e ingentilire il cuore di chi non crede». (Eco, “Cinque scritti morali”, Bombiani 1997).

La redazione

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Se Sergio Romano smonta il mito di Che Guevara…

Che Guevara 

di Sergio Romano*
*storico e diplomatico

da “Il Corriere della Sera”, 25/09/13

 

Non sono mai riuscito a dividere il mondo della storia in buoni e cattivi. Non saprei criticare Tito senza riconoscergli il merito di avere guidato la lotta contro le forze tedesche e italiane durante la Seconda guerra mondiale e di avere coraggiosamente sfidato l’imperialismo sovietico dopo la fine del conflitto. Non saprei parlare male di Stalin senza aggiungere che costruì un grande Stato, incarnò il sentimento nazionale, trascinò il Paese alla vittoria contro la Germania nazista. Non saprei denunciare le colpe e gli errori del fascismo senza ricordare che molte delle sue istituzioni sono state ereditate e conservate dall’Italia democratica. Non saprei descrivere la tirannia di Fidel Castro senza aggiungere che ha liberato la sua isola dalla sudditanza americana. Non saprei evocare il Nixon del Watergate senza ricordare che il suo viaggio a Pechino, nel febbraio del 1972, aveva schiuso nuove prospettive di dialogo internazionale. Di Bastianini mi piacciono la sobrietà di cui dette prova durante qualche difficile passaggio della storia italiana e il tentativo di strappare gli ebrei di Salonicco alla loro tragica sorte. Di Milovan Djilas mi piacciono la lucidità con cui denunciò le storture del regime e la fierezza con cui sopportò gli anni di prigione.

Mi è molto più difficile trovare qualcosa di veramente e durevolmente positivo nella vita politica di Che Guevara. Era coraggioso, ma incostante, politicamente instabile, soggetto a crisi umorali, capace di azioni inutilmente crudeli. Il suo tentativo di provocare una grande rivolta contadina nell’intero continente latino-americano fu un clamoroso esempio di ignoranza politica. La sua avventura boliviana fu una iniziativa donchisciottesca. Il suo volto domina ancora la Piazza della Rivoluzione, nel centro dell’Avana, e può dare la sensazione che il Che sia sempre il nume tutelare del regime. Ma Castro fu felice di sbarazzarsi di un compagno ingombrante e imprevedibile. Il suo volto sulle magliette è soltanto folclore rivoluzionario e il suo mito in alcuni ambienti giovanili mi sembra una infatuazione politicamente diseducativa.

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San Francesco non è il mito laico e buonista creato dai media

San FrancescoSan Francesco, patrono d’Italia ma vittima di rivisitazioni. Addosso gli è stata cucita un’immagine pauperista e buonista che si discosta fortemente dal personaggio storico.

 

Dispiace ripetere quello che gli storici sanno benissimo e da tempo, ma la presenza di Papa Francesco oggi ad Assisi – e delle ormai consuete strumentalizzazioni -, impone un riassunto: san Francesco (1182 – 1226) fu un uomo diverso dalla caricatura dolciastra che, purtroppo con successo, gli è stata cucita addosso.

Perché? Per più ragioni. Tanto per cominciare, non era affatto un personaggio ossessionato dalla povertà materiale alla quale anteponeva, come preoccupazione, quella spirituale. Mai, infatti, esortò i bisognosi alla rivolta bensì, semmai, alla pazienza; fu seguito anche dai rampolli della nobiltà italiana del suo tempo ai quali disse che la povertà era una strada per il Paradiso senza però mai – attenzione – azzardarsi a suggerirla come unica.

Francesco lottò dunque contro la vanità terrena ma non demonizzò i materiali preziosi, che difatti raccomandava esplicitamente ai suoi di impiegare per la Messa: «Vi prego […] i calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere preziosi. E se in qualche luogo trovassero il santissimo corpo del Signore collocato in modo miserevole, venga da essi posto e custodito in un luogo prezioso, secondo le disposizioni della Chiesa, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione» (Prima lettera ai Custodi).

Se poi pensiamo che fra gli studiosi c’è chi sostiene che pure la moderna teoria del libero mercato debba molto al contributo culturale dei teologi discepoli del Poverello, si può definitivamente comprendere l’infondatezza del mito di un predicatore della povertà assoluta quale Francesco mai, di fatto, volle essere.

Priva di fondamento è anche l’idea di un san Francesco eternamente sorridente e dalla personalità tiepida e buonista: basti ricordare che un giorno – stando agli scritti di Tommaso da Celano (1200-1270) – informato della presenza di detrattori del suo Ordine si rivolse al suo vicario, frate Pietro di Cattaneo, intimandogli quanto segue: «Coraggio, muoviti, esamina diligentemente e, se troverai innocente un frate che sia stato accusato, punisci l’accusatore con un severo ed esemplare castigo! Consegnalo nelle mani del pugile di Firenze, se tu personalmente non sei in grado di punirlo (Chiamava col nome di pugilatore frate Giovanni di Firenze, uomo di imponente statura e dl grandi forze)». Un tono e un atteggiamento, converrete, che mal si concilia con l’immagine mielosa che i più hanno in mente. Ma questo non è certo il solo episodio significativo.

Possiamo anche ricordare, per rendere giustizia del Francesco della storia – così diverso da quello di certa propaganda -, che quando costui, nell’anno 1219, si trovò al cospetto del Sultano Malik al-Kami, anziché tessere l’elogio del dialogo e della pace non esitò a ricorrere a parole oggettivamente forti: «Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo». Che il Poverello fosse guerrafondaio? Ma no, ci mancherebbe. Semplicemente era un uomo non solo di solidi principi ma anche di solida personalità, incline all’amore, certo. Ma non ai compromessi. Mai.

Per un approfondimento ulteriore consigliamo questi tre articoli su San Francesco:
“Ma poi, s.Francesco era davvero il cicciobello che dicono?”: San Francesco obbediente alla Chiesa e povero in senso cristiano (non laico).
Francesco non ha mai rischiato di essere bruciato come eretico: la Chiesa non si oppose mai a Francesco, anzi venne pienamente riconosciuto il suo carisma.
San Francesco, il Papa e la Chiesa: San Francesco aveva come riferimento morale i sacerdoti e la Chiesa Romana.

Giuliano Guzzo

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Eva Illouz: «la rivoluzione sessuale ha ucciso l’amore»

Perché l'amore fa soffrire“…se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo.”. Montaigne già alla fine del 500 invitava gli uomini ad abbandonare le leggi morali occidentali, e quindi fondamentalmente cristiane, a favore delle leggi naturali degli uomini primitivi.

Giunti nel XXI secolo non siamo molto lontani dalla sua proposta. I mores ( i costumi quotidiani ) negli ultimi decenni si sono affrancati dalle regole comportamentali vigenti. La tendenza è ormai quella di permettere tutto ciò che l’uomo desidera: dai matrimoni omosessuali (si veda la Francia come ultimo esempio) alle inversioni di gender, dalle nozze poligame ai partiti per la liberalizzazione della pedofilia. Stiamo realmente esaudendo il desiderio di quel grande pensatore, stiamo permettendo che l’uomo, che grazie alla ragione aveva conquistato le più alte vette del sapere, si “depauperizzi”, si svuoti delle pur minime regole morali.

Ma siccome, come dice il proverbio, “le bugie hanno le gambe corte”, uno dei “traguardi” della modernità sta mostrando qualche iniziale crepa. Stiamo parlando della cosiddetta “rivoluzione sessuale”, scoppiata nel 68’, che tentò di liberare gli uomini del XX secolo dalla schematicità morale che fin da fine 800’ la società occidentale aveva instaurato. Sigmund Freud , come ha ricordato la storica Lucetta Scaraffia, fu il pioniere di questo cambiamento: il ricondurre ogni nostra frustrazione psichica e mentale alla repressione sessuale fu il primo grande impulso che questo “grande” pensatore diede alla “liberazione sessuale”. “… insisteva sulla naturale libertà sessuale dei primitivi, contrapposta alla morale repressiva in cui noi occidentali di matrice cristiana eravamo costretti a vivere.” Questa e altre scienze umane posero i pilastri sui quali fondare i cambiamenti che aleggiavano sulla cultura europea e americana.

Svincolando il rapporto sessuale dalla riproduzione si è tentato di rendere gli uomini liberi sul paino sessuale. Si credeva che in questo modo finalmente anche il sesso femminile sarebbe stato reso libero come quello maschile di ricercare il piacere nella vita sessuale. Ma il risultato è stato, se vogliamo, ancora peggiore: il libero amore è divenuto mercificabile, si è permesso agli uomini di strumentalizzare questo piacere tanto da farlo diventare una dei mercati più proficui dell’intero globo. La depauperizzazione della persona ha raggiunto abissi inimmaginabili: lo scopo dei giovani ormai è quello di realizzare una “conquista” che possa portare a quel temporaneo godimento, che poi lascia l’uomo ancora più insoddisfatto, ma nello stesso tempo insinua la concezione che ormai “l’altro da me” sia solo uno strumento, un “usa e getta” comodo per i miei desideri.

Ora questi sono fatti comuni e osservabili da chiunque. Ma è in arrivo in Italia un libro della studiosa israeliana Eva Illouz, “Perché l’amore fa soffrire”, il Mulino, che analizza da un punto di vista scientifico questo grande fallimento sessantottino. La studiosa esamina il rapporto amoroso eterosessuale dell’Occidente dagli inizi del 900’ fino ad oggi, come recensito da Massimo Introvigne. I dati confermano il crollo della morale tradizionale: il matrimonio è stato devastato da una parte dal divorzio, che ormai ha sfaldato ogni concezione tradizionale di famiglia, e dall’altra dall’introduzione delle coppie non sposate, che non mostrano alcun interesse verso la stabilità matrimoniale.

Tutto questo è ormai risaputo, ciò su cui la Illouz ha messo luce è che la propagandata liberazione sessuale non ha realmente liberato l’uomo, e soprattutto la donna, anzi lo ha reso più disilluso e disperato. L’aspetto più affrontato dalla sociologa riguarda soprattutto il sesso femminile (la Illouz è femminista ), illusosi negli anni 60’. Bombardata dai modelli ideali creati dai mass media e dalle industrie dei cosmetici, la donna è sottoposta a incessante stress, nel tentativo di raggiungere quella bellezza ideale che il mondo d’oggi continua a comunicare.

Nonostante ci siano più possibilità, frutto dalla tecnologia, che permettano agli uomini di interagire e conoscersi, le donne non hanno smesso di desiderare i figli e di avere una famiglia. Solo che adesso sono gli uomini quelli che non la desiderano, anzi son quelli che hanno veramente realizzato la rivoluzione sessuale, trasformando il rapporto sessuale in merce di scambio. Così le donne rimangono bloccate nei loro desideri insoddisfatti, famiglia e figli, e per di più si sentono costrette a riconsiderare, adattandosi psicologicamente e fisicamente, sé stesse secondo i canoni del mondo, perdendo fiducia in se stesse.

Questo è il risultato a cui portano le ricerche della Illouz, che come femminista riconosce il fallimento dell’ideologia sessuale sessantottina. E’ nel dialogo, conclude l’intervista della sociologa al quotidiano La Croix, tra le diverse parti sociali, tra mentalità laiche e religiose, che si può tentare di realizzare la vera liberazione della persona. Tra le componenti tradizionali e quelle moderne si può tentare di svincolare gli uomini da queste sovrastrutture (siano sociali o psicologiche) e così permettere all’uomo e alla donna di essere se stessi, liberi.

Luca Bernardi

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Caso Barilla: l’immaturità della lobby LGBT

Concia«I nemici più pericolosi dei gay italiani, spesso, sono i gay stessi. Non è la prima volta che si conferma questo assioma». A scriverlo il blogger Domenico Naso sul quotidiano gay-friendly “Il Fatto Quotidiano”.

Dopo la campagna per l’introduzione “genitore 1” e “2” al posto di “mamma” e “papà”, infatti, è arrivata quella contro l’opinione di Guido Barilla presidente della nota multinazionale, che in un’intervista radiofonica ha affermato: «Non faremo uno spot per le coppie omosessuali perché la nostra è una famiglia tradizionale. Non è per mancanza di rispetto agli omossessuali, che hanno diritto di fare quello che vogliono senza disturbare gli altri, ma perché non la penso come loro e penso che la famiglia a cui ci rivolgiamo noi è una famiglia classica».

La lobby LGBT si è scatenata sui social network, «con i leader tradizionali del movimento LGBT pronti a mettersi in prima fila (causa ricerca di visibilità narcisistica e tradizionalmente rainbow) e a fomentare gli istinti più bassi di gente che per 364 giorni l’anno se ne infischia della “causa” e dei diritti civili», si spiega su “Il Fatto”. La vendetta è stata il boicottaggio del marchio italiano, condito ovviamente da insulti e minacce di morte (vedi ad esempio quelle ricevute al consigliere comunale Gianluigi De Palo), fino alla ritrattazione da parte di Guido Barilla. E’ rimasta inspiegabile la vastità della campagna intimidatoria, almeno fino a quando uno dei leader italiani del lobbysmo LGBT, Franco Grillini, ha affermato di aver invitato Barilla al suo ufficio alla Regione Emilia-Romagna spiegando: «Gli chiederò quanto meno uno spot riparatore». Ecco dove volevano arrivare, avevano già programmato tutto.

Si è comunque verificato un importante moto di contro-reazione: tantissime persone, molte distanti dal dibattito sull’omosessualità e sulle unioni civili, hanno preso posizione a favore di Barilla e della libertà d’opinione, esauste di queste campagne intimidatorie. Molti parlano di “Gaystapo”, “omonazismo”, “omofascismo”, “omocrazia” chiunque può verificarlo leggendo i commenti a questa pagina Facebook (anche qui). D’altra parte proprio dall’inizio della rovente polemica, il numero di simpatizzanti della pagina ufficiale di Barilla su Facebook (ed altre ad essa collegate), anziché decrescere sono aumentati vertiginosamente. Anche negli USA pochi mesi fa la comunità omosessuale ha pensato di boicottare la catena di fast-food “Chick-fil-A perché il presidente, Dan Cathy, si è schierato contro le nozze gay, con il risultato però di aver fatto incrementare del 2,2%, rispetto al 2011, la quota di mercato. Qualcuno avrebbe dovuto dirlo al dott. Barilla, per lo meno si sarebbe evitato la misera figura della ritrattazione.

Oltre ai social network, numerosi commentatori sui quotidiani hanno preso posizione e vorremmo brevemente sintetizzare il loro punto di vista. Il laicissimo Sergio Romano sul “Corriere” ha scritto: «non credo che gli omosessuali abbiano il diritto di costringere al silenzio, soprattutto in Paesi dove il cristianesimo è fortemente radicato, coloro per cui soltanto il matrimonio fra uomo e donna ha l’autorità della tradizione e il crisma della moralità. Ho l’impressione che alcune associazioni e gruppi di pressione stiano chiedendo più di quanto necessario. Vi piacerebbe vivere in un Paese in cui chiunque osi dire in questa materia ciò che pensa è costretto a fare pubblica ammenda per le sue parole? A me no»Massimo Adinolfi su “Il Messaggero”, non condividendo le opinioni di Barilla, ha tuttavia commentato: «arrivano i guerrieri del nuovomillennio, le tribù degli hashtag che ti marchiano a fuoco, imprimendo sul tuo nome virtuale un cancelletto che ti espone in rete allo sberleffo, alla derisione, all’insulto, alla riprovazione universale». Si è arrivati a pretendere «che per ogni pubblicità imperniata su una famiglia di soli bianchi ve ne sia una di colore. Barilla, d’altra parte, non ha mica detto che nelle sue fabbriche non entrano gli omosessuali, o che nei suoi spot non possono recitare attori omosessuali. Eppure la reazione è stata così compatta, la ripulsa così unanime, da far venire qualche dubbio sugli spazi di dissenso che si possono coltivare, soprattutto in rete, e sulla tolleranza che viene riservata alle opinioni diverse. Non sono sicuro che questo sia un progresso»

Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari ha commentato: «Siamo alla prova generale di quello che succederà se verrà approvata la legge contro l’omofobia». Sempre sull’omofilo Fatto Quotidiano  Marcello Adriano Mazzola ha preso posizione: «La libertà di pensiero vacilla ed è oggetto di inaudite aggressioni, mistificatrici perché mimetizzate da rivendicazioni di pari opportunità». Ha sottolineato il tentativo di «instillare il pensiero unico. Evocato da un mainstream che avanza inesorabilmente, solo per chi ha gli occhi per vederlo. Un vero e proprio revanscismo che non perde occasione per strumentalizzare episodi come» quello di Barilla. Stiamo assistendo «a ondate di rivendicazioni di modelli che si vogliono imporre non a fianco del modello tradizionale ma in sostituzione del modello tradizionale». Queste campagne volte «a censurare la pubblicità dove la donna riveste ruoli domestici, a reprimere la libera opinione sul web, a sostenere la soppressione della diversità tra il sesso maschile e quello femminile (genitore 1 e genitore 2), tra il ruolo di padre e quello di madre, mi fanno orrore. Mi paiono esempi di inquietante ingegneria sociale. Se è anti conformista e rivoluzionario sostenere che bisogna difendere le diversità tra i sessi, nell’ottica però della piena tutela dei diritti tra gli stessi, concetti non certo antitetici, sono fiero di essere definito tale. La diversità – accompagnata dalla parità – è un bene prezioso che tutti noi dobbiamo salvaguardare. Chi pretende di trasformare la società in un esercito di esseri indistinguibili gli uni dagli altri mi preoccupa. Chi pretende di inculcarti il suo pensiero e di omologare il tuo mi preoccupa. Chi rivendica più diritti con lo scopo non di avere gli stessi diritti altrui ma di avere più diritti degli altri mi preoccupa. E temo che sia lo specchio dei nostri tempi».

Il quotidiano “Libero” ha pubblicato un editoriale firmato da Mattias Mainiero: «In Italia, per vivere tranquilli e non prenderla in quel posto lì, bisogna essere gay o almeno filo-gay. Non basta più neppure specificare: ognuno fa ciò che vuole, ognuno è libero di pensarla come crede, ma a me piace la famiglia tradizionale. Bisogna dire: non mi piace la famiglia tradizionale, mamma e papà non esistono più, al loro posto Genitore 1 e Genitore 2»Alberto Contri, presidente di Pubblicità Progresso e docente di Comunicazione sociale allo Iulm ha commentato l’attacco alla “famiglia da Mulino Bianco”: «La tanto vituperata famigliola sempre felice non descrive tutte le situazioni esistenti, ma lo stesso avviene per ogni spot, che per definizione ti deve far sognare. Certo per vendere la pasta non metti due coniugi che litigano separandosi. È rimasta memorabile la bimba che infilava una farfalla Barilla nella tasca del papà, lontano per lavoro: era la celebrazione di un momento di calore che tutti cerchiamo, quando torniamo a casa stanchi. Rappresentarlo è un peccato? Ci sarà pure un 90% di coppie fatte da un uomo e una donna? E allora possiamo crocifiggere Barilla che dice “a loro noi ci rivolgiamo?”».

Lo storico Mario Ajello su “Il Messaggero” si è stupito: «che Barilla possa essere crocifisso per non aver detto niente di male, e per il solo fatto di non aver ripetuto il bla bla politicamente corretto secondo cui la famiglia tradizionale è superata, reazionaria e non è trendy, dà la misura di quanto si sia perso il senso della misura. Tutti criticano Barilla ma Barilla ha detto quello che tutti pensano: e cioè che la famiglia “classica”, nè migliore nè peggiore rispetto alle altre che lui non biasima nè ghettizza, è quella che si riunisce all’ora dei pasti ed è composta da una madre, da un padre e da qualche bimbo come nella stragrande maggioranza dei casi. E dal punto industriale lui a questo target si è rivolto e lì vuole continuare legittimamente a puntare». Il boicottaggio per la scelta di un’immagine «è un esercizio di oscurantismo che non dovrebbe essere al passo con i tempi in cui viviamo». Marcello Veneziani su “Il Giornale” ha commentato: «nessun’offesa è stata pronunciata, neanche ironia verso i gay; solo una semplice, naturale (si può dire naturale o è contro la legge?) preferenza per la famiglia come è sempre stata. Non è in gioco uno spot che offende i gay o che contiene un’allusione omofoba, qui si processa un imprenditore che non vuol fare uno spot pubblicitario puntando su una coppia omosessuale. La feroce demenza dell’omocrazia scava ogni giorno fossati d’odio».

Sull’Huffington Post Antonio Tresca si è chiesto: «siamo davvero arrivati al punto in cui se non osanniamo e celebriamo l’omosessualità, senza per questo condannarla o giudicarla, veniamo considerati bigotti o omofobici? Dobbiamo, allora, omologarci tutti sulle stesse posizioni per non turbare il benpensante moderno? Di questo passo, secondo l’ipocrita logica dei pensanti moderni, arriveremo al punto in cui perfino dichiararsi eterosessuali verrà considerata come una discriminazione nei confronti degli omosessuali». Paola Ferrari De Benedetti, portavoce dell’associazione “Osservatorio nazionale bullismo e doping” ha detto: «Ogni giorno, ormai, le associazioni gay e settori della sinistra, come una goccia cinese, tentano di far passare l’assunto che manifestare posizioni o opinioni in contrasto con quelle da loro sostenute sia da condannare e sia un atteggiamento omofobo al contrario, ritengo che questo sia un comportamento discriminatorio e ingiustamente accusatorio».

Brutto gesto anche quello da parte della concorrenza: al posto di essere solidali con Barilla si è affrettata a mostrare quarti di nobiltà gay-friendly che manco sospettava di avere. Come se Buitoni o Misura, tra l’altro, avessero mai fatto uno spot gay. Anche Ikea è intervenuta, avendo in passato realizzato uno spot con una coppia omosessuale: ricordiamo che quel giorno nessuna associazione cattolica ha manifestato contro, ha diffamato i responsabili su Facebook o tanto meno lanciato un boicottaggio.

«La reazione isterica e incontrollata della comunità gay», ha concluso Naso su “Il Fatto Quotidiano”, «è uno sterile esercizio narcisistico di chi non riesce a incidere su altre cose e si getta a capofitto su battaglie di retroguardia che fanno sorridere amaramente (e con un pizzico di pena). Cari gay, è il momento di crescere».

La redazione

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Il 70% dei medici americani contro il suicidio assistito

Suicidio assistitoUn sondaggio online tra i medici lettori del prestigioso New England Journal of Medicine ha evidenziato che quasi il 70 per cento (67%) dei medici statunitensi sono contro la legalizzazione del suicidio assistito. Nel 2011 su Palliative un sondaggio sui medici inglesi aveva raggiunto risultati simili (80%).

Le ragioni principali per l’opposizione di tale pratica erano la violazione del giuramento dei medici a non uccidere e non fare del male, inoltre il fatto che l’apertura al suicidio assistito porterà probabilmente alla legalizzazione dell’eutanasia, una pratica ancora meno appetibile per i medici. L’indagine ha seguito il comunicato della World Medical Association (WMA), che ha ribadito la sua forte opposizione all’eutanasia e al suicidio assistito.

Il WMA è in buona compagnia, tante altre associazioni mediche ufficiali -come abbiamo osservato in questo articolo– si sono già opposte a qualsiasi modifica della legge per consentire il suicidio assistito o l’eutanasia: la British Medical Association (BMA), la Association for Palliative Medicine (APM), la British Geriatric Society (BGS), l’American Medical Association (AMA), la German Medical Association(GMA), l’Australian Medical Association (AMA), la New Zealand Medical Association, la Organización Médica Colegial de España, la Società di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) ecc

A volte in buona fede si può pensare di provocare intenzionalmente la morte di una persona sofferente allo scopo di porre fine al suo dolore (fisico o psichico), ma essa rimane un’azione gravemente contraria alla dignità della persona umana. La medicina ha proprio il compito di evitare ogni sofferenza e il diritto ad interrompere procedure mediche sproporzionate rispetto ai risultati attesi, ma non quello di eliminare il malato per eliminare la malattia. Fortunatamente è possibile usufruire oggi di valide cure palliative per annullare ogni tipo di dolore fisico ed è doveroso accompagnare le persone sofferenti, aiutandole eventualmente a ritrovare il gusto e il senso della vita, anche in mezzo alla disperazione.

La redazione

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Il bilancio dello Ior e l’imposta Ici-Imu pagata dalla Chiesa

Mensa poveriLa “banca vaticana”, lo IOR, ha fatto un altro passo avanti nella trasparenza pubblicando il suo primo bilancio consultabile sul web, rivelando un utile 2012 di 86,6 milioni di euro, merito soprattutto delle operazioni sui titoli di Stato. Nel luglio scorso, lo ricordiamo il Moneyval, l’organismo del Consiglio d’Europa che valuta le legislazioni in tema di lotta al riciclaggio, ha “promosso” la Santa Sede per quanto riguarda l’azione finanziaria internazionale contro il riciclaggio.

In realtà chiamare lo Ior “banca” è un po’ improprio, si tratta in realtà di un gestore di fondi delle finanze dello Stato del Vaticano. Gli investimenti in azioni oggi sono ormai molto ridotti e negli ultimi mesi Ernst von Freyberg, direttore generale, ha annunciato una operazione di pulizia affidata alla società Promontory Financial e il risultato è riportato in bilancio: tra il 2011 e il 2012 sono stati chiusi 2100 conti correnti inattivi o fuori linea rispetto ai criteri dell’istituto. Entro l’anno saranno chiusi tutti i conti correnti anomali o di persone che non hanno a che fare con le opere di religione e una speciale commissione sta revisionando lo statuto affinché l’attività dello Ior si concentri esclusivamente sulla “missione della Chiesa”. È stato anche istituito un Centro anti-riciclaggio, il cosiddetto Comitato di sicurezza finanziaria, che raggruppa esponenti della Segreteria di Stato, del ministero degli Esteri vaticano, del Governatorato, della Prefettura affari economici, della procura vaticana, dei servizi di sicurezza e dell’Autorità di informazione finanziaria «per assicurarci che non si verifichi nessuna azione di riciclaggio nell’Istituto», ha spiegato von Freyberg. «Siamo pronti per un’ispezione da parti terze», ha aggiunto.

In tema di economia vaticana ritorna puntuale anche il “tic” anticlericale sul pagamento dell’ICI-IMU, l’imposta comunale sugli immobili riservata agli enti non commerciali, quindi anche alla Chiesa. Ne abbiamo già parlato a suo tempo: l’imposta è sempre stata pagata dagli enti cattolici con fini commerciali (e chi eventualmnete non l’ha pagata è un evasore in più da perseguire legalmente), il problema esiste invece per una zona “grigia” che riguarda le attività “miste” (ovvero luoghi di rilevanza sociale ma anche con fini commerciali, per esempio). Non essendo chiara la legge per queste categorie, fino al 2012 alcuni enti no profit “misti” (di ispirazione laica e cattolica) non hanno pagato l’imposta. La Cei ha comunque accolto con favore il chiarimento della legge, dato che lo stesso era stato auspicato anche dal cardinale Angelo Bagnasco.

In ogni caso questa campagna contro la Chiesa è una bolla di sapone anche per quanto riguarda l‘entità delle cifre in ballo: l’esenzione dell’ICI da parte della Chiesa cattolica (per le attività di rilevanza sociale come “Caritas”, mense dei poveri ecc.) toglie allo Stato circa 100 milioni di euro, una cifra assolutamente ininfluente per il bilancio pubblico statale, e che, tra l’altro, non è imputabile alla sola Chiesa ma comprende anche tutti gli altri enti no profit. Insomma, «tanto rumore per nulla» secondo il commento di “MilanoFinanza”. Radio Radicale, per intenderci, da sola toglie 10 milioni all’anno per un servizio (la diretta con il Parlamento) garantito già dal web e da “Radio Rai Parlamento”.

In questi giorni è intervenuto anche Achille Colombo Cle​rici, ​Presidente di Assoedilizia, il quale ha spiegato che «è una vera fandonia parlare di miliardi di gettito non riscosso» sulla questione dell’Ici sugli “immobili della Chiesa”. «Intanto occorre ribadire che lo stock immobiliare la cui proprietà è possibile far risalire agli enti ecclesistici italiani può essere stimato complessivamente (includendo gli immobili di culto) attorno all’1-1,5% del totale e non certo al dato ampiamente inverosimile del 20%, come è stato riportato in alcuni servizi giornalistici». Inoltre, ha proseguito, occorre considerare «che, da un lato gli immobili destinati al culto (che costituiscono la stragrande maggioranza) sono fuori questione per riconoscimento stesso fattone dall’Europa, come pure gli immobili destinati alle attività religiose dirette (monasteri, conventi); e d’altro lato che gli immobili “messi a reddito” dagli enti ecclesiastici già pagavano l’Ici e ora hanno pagato l’Imu (senza nemmeno beneficiare della esenzione per la prima casa da poco introdotta)».

Quindi, concludendo, il presidente di Assoedilizia ha spiegato che stiamo parlando «di una ristretta nicchia di situazioni che si inserisce nel più ampio quadro degli immobili gestiti direttamente da realtà non profit (circa 40 mila enti in Italia di diversa ispirazione, laica e cattolica e di altre religioni) per le loro attività istituzionali di tipo assistenziale, benefico, culturale, ludico-sportivo, sanitario e, poi, ancora, camere di commercio, sedi diplomatiche estere, immobili appartenenti alle altre confessioni religiose… Se dobbiamo parlarne, parliamone pure. Ma dimentichiamoci i miliardi di gettito, e comunque non si può far passare il tema sotto la denominazione generica “di immobili della Chiesa”: si tratta di altro».

La redazione

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