Il giudizio di Papa Francesco: «l’aborto è una condanna a morte»

Francesco bambinoNella recente intervista a “La Civiltà Cattolica” Papa Francesco ha riflettuto sui cosiddetti “valori non negoziabili” invitando i cattolici a mettere sempre al centro l’annuncio evangelico, “il Signore ti ha salvato” e non la condanna per chi li vìola e li tradisce. Molti hanno confuso questa precisione come una forma di relativismo ma il Papa sta applicando semplicemente la posizione secolare della Chiesa: misericordia per il peccatore e condanna del peccato.

Quando c’è infatti da condannare l’aborto non si tira indietro, usando parole anche più forti dei suoi predecessori: «Una diffusa mentalità dell’utile, la “cultura dello scarto”, che oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti, ha un altissimo costo: richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli. La nostra risposta a questa mentalità è un “sì” deciso e senza tentennamenti alla vita», come ha detto durante l’incontro promosso dalla Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici il 20 settembre scorso.

«Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente ad essere abortito», ha giudicato Francesco, «ha il volto di Gesù Cristo, ha il volto del Signore, che prima ancora di nascere, e poi appena nato ha sperimentato il rifiuto del mondo». «Non si possono scartare, come ci propone la “cultura dello scarto”! Non si possono scartare!», ha incalzato. «Per questo l’attenzione alla vita umana nella sua totalità è diventata negli ultimi tempi una vera e propria priorità del Magistero della Chiesa, particolarmente a quella maggiormente indifesa, cioè al disabile, all’ammalato, al nascituro, al bambino, all’anziano, che è la vita più indifesa».

Esiste una situazione paradossale, ha spiegato, dove «mentre si attribuiscono alla persona nuovi diritti, a volte anche presunti diritti, non sempre si tutela la vita come valore primario e diritto primordiale di ogni uomo. Il fine ultimo dell’agire medico rimane sempre la difesa e la promozione della vita». Occorre dunque «l’impegno di coerenza con la vocazione cristiana verso la cultura contemporanea, per contribuire a riconoscere nella vita umana la dimensione trascendente, l’impronta dell’opera creatrice di Dio, fin dal primo istante del suo concepimento. È questo un impegno di nuova evangelizzazione che richiede spesso di andare controcorrente, pagando di persona. Il Signore conta anche su di voi per diffondere il “vangelo della vita”».

La posizione della Chiesa, ha spiegato Francesco, è basata sulla scienza e non solo sulla fede. Ha infatti invitato i ginecologi cattolici a difendere la vita «nella sua fase iniziale e ricordate a tutti, con i fatti e con le parole, che questa è sempre, in tutte le sue fasi e ad ogni età, sacra ed è sempre di qualità. E non per un discorso di fede – no, no – ma di ragione, per un discorso di scienza! Non esiste una vita umana più sacra di un’altra, come non esiste una vita umana qualitativamente più significativa di un’altra. La credibilità di un sistema sanitario non si misura solo per l’efficienza, ma soprattutto per l’attenzione e l’amore verso le persone, la cui vita sempre è sacra e inviolabile».

Per questo, «la Chiesa fa appello alle coscienze, alle coscienze di tutti i professionisti e i volontari della sanità, in maniera particolare di voi ginecologi, chiamati a collaborare alla nascita di nuove vite umane». 

La redazione

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“Da quando mi sono convertito sono diventato coerente”

J. Warner Wallace 
 
di J. Warner Wallace*
*detective di polizia e docente di Apologetica presso la Biola University di Los Angeles

 
da coldcasechristianity.com

Ognuno ha una visione del mondo, tutti noi facciamo l’esperienza di interpretare il mondo attraverso un insieme di credenze che guidano la nostra comprensione. Come ateo, ho interpretato le mie esperienze attraverso la lente del naturalismo. Ho creduto che tutto quello che vivevo e osservavo poteva essere spiegato in termini di cause e leggi naturali. Non ho mai pensato profondamente alle incongruenze nella mia visione del mondo o al fatto che il mio naturalismo non riusciva a spiegare tre caratteristiche della mia esperienza quotidiana:

 

Mente
Se il naturalismo è vero, una qualche forma di fisicalismo o di materialismo deve avere un ruolo. Il “problema della mente” (come i filosofi e ricercatori comunemente dicono) è solo un “problema”, perché le limitazioni materiali del naturalismo faticano per tenere conto della coscienza immateriale. Il naturalismo può spiegare l’esistenza del cervello ma niente più, le nostre “menti” sono un’illusione creata dai processi fisici che avvengono nel nostro cervello materiale. Dunque i nostri pensieri sono semplicemente il risultato di una serie di cause fisiche (ed effetti conseguenti). Si potrebbe credere che si sta pensando liberamente su ciò che si è appena letto, ma in realtà i vostri “pensieri” sono semplicemente le conseguenze neurali, come tessere del “domino” che cadono l’uno contro all’altro. In un mondo di rigoroso fisicalismo causale, il libero arbitrio (e i pensieri liberamente motivati) sono semplicemente un’illusione.

 

Moralità
Se il naturalismo è vero, la morale non è altro che una questione di opinione. Tutti noi, come esseri umani, semplicemente abbracciamo quei costumi culturali o personali che promuovono meglio la sopravvivenza della specie. Non vi è alcuna trascendente e oggettiva verità morale. Le culture abbracciano semplicemente i valori e i principi morali che “servono” a loro e portano alla fioritura di una determinato gruppo di persone. Un gruppo di esseri umani evoluti non ha alcun interesse nel cercare di raccontare ad un altro gruppo evoluto ciò che è veramente giusto o sbagliato fare dal punto di vista morale. Dopo tutto, ogni gruppo è giunto con successo al suo particolare livello di sviluppo, abbracciando e accettando i propri standard morali. Gli argomenti su cui le verità morali prevedono una maggiore prosperità umana sono semplicemente soggettivi disaccordi, non c’è un trascendente standard oggettivo che può giudicare tali divergenze dal punto di vista naturalistico.

 

Significato
Se il naturalismo è vero, il senso e lo scopo della vita sono semplicemente negli occhi di chi guarda. Se tuo figlio ti dice che lui pensa che il significato della vita sia trascorrere dieci ore al giorno davanti ai videogiochi, c’è poco che si può fare per offrire una confutazione oggettiva. Dopo tutto, se non vi è un Autore trascendente della vita, ognuno di noi arriva a scrivere il proprio copione. Si può credere che il proprio figlio ha perso il punto della sua esistenza e ha perduto la possibilità di vivere pienamente la vita, ma non ha alcuna autorità oggettiva su cui fondare una alternativa di vita. Come un naturalista, anche lui si sta inventando il proprio significato. Scopo e significato, da un punto di vista puramente naturalistico, non sono altro che opinioni e preferenze personali.

 

Come ateo ho scelto di aderire al naturalismo, nonostante il fatto che vivevo ogni giorno come se fossi in grado di usare la mia mente, fare scelte morali basate oltre la mia stessa opinione. Inoltre, ho cercato il significato e lo scopo al di là delle mie preferenze edonistiche, come se fosse davvero c’era un significato da scoprire. Io mi definivo un naturalista mentre abbracciavo tre caratteristiche della realtà che semplicemente non possono essere spiegate dal naturalismo. Come cristiano, ora sono in grado di riconoscere le fondamenta di queste caratteristiche della realtà. La mia filosofica visione del mondo è finalmente coerente con la mia concreta esperienza del mondo.

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Lizzani e il suicidio, un’occasione per riflettere

Carlo Lizzani 
 
di Marco Gabrielli*
*cardiochirurgo all’Ospedale di Cattinara (Trieste)

 

Ho imparato, nel corso delle mia vita, a riflettere su ogni morte di cui avessi avuto notizia. Un po’ per predisposizione naturale, un po’ per educazione, un po’ per la professione di medico cerco di non lasciar passare la morte di nessuno senza pormi delle domande, senza chiedermi anche se non fosse stato possibile evitarla e come: non per cercare un colpevole, ma per capire ed eventualmente migliorare.

Davanti ad un suicidio le domande sono più gravi e le riflessioni più toccanti e pressanti. Non per giudicare, ma per capire e per crescere. Non conoscevo Carlo Lizzani. Non saprei collegare a lui i film che magari ho visto. Ho letto che era un uomo che ha professato onestamente una certa ideologia, uno che ha sostenuto delle idee, uno che ha detto tante cose e tante cose avrebbe avuto ancora da dire. Condivisibili o no, questo non ha importanza.

Si è suicidato lanciandosi dalla finestra. Non ha retto quel “male di vivere” che colpisce sempre più frequentemente. Non ha più sopportato “l’alba di un giorno in cui nulla accadrà” di cui ci parla Pavese. Avrà visto morire tanti suoi amici rimanendo ancora più solo: come tanti ultra novantenni non aveva quasi più nessuno con cui condividere un passato comune e pochi saranno stati disposti ad ascoltare con pazienza i ricordi di un “vecchio” che magari iniziava a confondersi. Non avrà visto realizzarsi i suoi ideali e sarà stato sfiduciato dal mondo che lo circondava. Sarà stato malato. Avrà ritenuto di vivere una vita apparentemente senza senso. Tanti motivi per dire “basta!”. Motivi che mi permetto di giudicare non sufficienti e che la morte comunque non risolve.

La sua tragica morte è stata subito strumentalizzata: il “suicidio” è diventato “eutanasia”, il suo gesto considerato un “gesto di libertà”, l’unica “eutanasia” permessa in Italia. Ma Lizzani si è suicidato: non si può alterare la verità. L’eutanasia richiesta ed esaudita è contemporaneamente un suicidio per chi la richiede ed un omicidio per chi la pratica. Non ci sono altri termini per definire la questione senza mentire. La morte è la stessa, non importa come ci si arriva. Non muore meno un condannato a morte a seconda delle modalità in cui viene eseguita la sentenza: muore e basta. A partire dai primi suicidi, magari di amici, che mi si sono presentati nel corso della mia adolescenza e delle mia giovinezza, mi sono sempre chiesto se avrei potuto fare qualcosa per evitarli. Per le oggettive distanze che mi separavano dal noto regista, temo proprio di no. Avrebbe potuto farci qualcosa qualche altra persona? Non mi permetterei mai di rispondere ad una simile domanda.

Nessuna legge imporrà mai di stare vicino ai propri cari, agli amici più anziani, al vicino di casa che si incontra per la strada. Molto più sbrigativo ed utile fare una legge per permettere l’eutanasia. E’ più facile convincersi e convincere che sia meglio rispettare ed eseguire la volontà di chi decide di farla finita piuttosto che intromettersi, relazionarsi, condividere le sofferenze ed aiutare a superarle o, quanto meno, ad affrontarle insieme affinché chi soffre abbia un sollievo e trovi uno scopo. Troppo facile vivere senza essere disturbati e morire senza disturbare. Una vita senza urti né dolore. Una mentalità che è sempre più comune e sempre più dominante, di cui noi siamo sempre più imbevuti. Un giorno potrebbe capitare anche a noi di voler togliere il disturbo…

Per uno come me, abituato a “non chiedere mai per chi suona la campana”, alla notizia di un suicidio viene facile rivolgere a Dio una preghiera, invocando la Sua Misericordia sul suicida e su di noi che rimaniamo perché possiamo riandare ogni giorno al significato ultimo che da senso e compimento alla nostra vita e perché di questo senso riusciamo ad essere testimoni credibili per chi ci sta vicino. So bene che quella campana suona anche per me.

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Lettera di Benedetto XVI: Odifreddi colpito e affondato

Pierpippa OdifreddiAbbiamo aspettato qualche settimana per parlare della lettera di Benedetto XVI a Piergiorgio Odifreddi, attendendo la presa di posizione di qualche intellettuale. Più volte abbiamo preso di mira il matematico torinese, bizzarro personaggio mediatico e affabile oratore. Dalle tesi estremiste e scandalose, ama da una vita insultare i credenti in Dio semplicemente per “vedere l’effetto che fa”, senza mai crederci troppo alle bislacche teorie che si inventa per giustificare la sua avversione alla religione.

Per una volta ha voluto essere serio, ha scritto un libro di “introduzione all’ateismo” in risposta a quello di Joseph Ratzinger, titolandolo «Caro Papa ti scrivo». Benedetto XVI ha ricevuto il libro da un amico comune, lo ha letto e gli ha risposto. Odifreddi ha ricevuto la lettera di risposta emozionato come un bambino, «per la prima volta qualcuno mi ha preso sul serio» ha commentato incredulo.

Ratzinger in essa ha spiegato il senso della teologia: «Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione. Ambedue le funzioni sono di essenziale importanza per l’umanità. Nel mio dialogo con Habermas ho mostrato che esistono patologie della religione e – non meno pericolose – patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l’una dell’altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia». La fantascienza, ha continuato il Pontefice emerito, è il credo di molti atei di professioni: «Il gene egoista di Richard Dawkins è un esempio classico di fantascienza. Il grande Jacques Monod ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza».

Parlando degli altri temi toccati da Odifreddi, come la pedofilia in ambito cattolico, Papa Ratzinger ha risposto: «Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall’altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano. Non è neppure motivo di conforto sapere che, secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili. In ogni caso, non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo». E non bisogna «tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli». Odifreddi ha anche il coraggio di sostenere che Gesù di Nazareth non è mai esistito, ricevendo da Ratzinger una dura risposta: «Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico […]. Le raccomando per questo soprattutto i quattro volumi che Martin Hengel (esegeta dalla Facoltà teologica protestante di Tübingen) ha pubblicato insieme con Maria Schwemer: è un esempio eccellente di precisione storica e di amplissima informazione storica. Di fronte a questo, ciò che Lei dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere».

Davvero interessante quando Ratzinger colpisce al cuore la “fede atea” di Odifreddi: «se Lei vuole sostituire Dio con “La Natura”, resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla. Vorrei, però, soprattutto far ancora notare che nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male. Mi meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il valore portante dell’epoca moderna. L’amore, nel Suo libro, non compare e anche sul male non c’è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia queste domande fondamentali resta vuota».

Tanti gli intellettuali che hanno approfittato di questo scambio epistolare per intervenire nel dibattito, molti per bacchettare a loro volta Odifreddi. Tra essi il filosofo Costantino Esposito, docente presso l’Università di Bari, che ha approfondito la stoccata di Ratzinger: «La religione atea del naturalismo materialistico, il regno dell’assoluta immanenza dell’uomo come misura a se stesso è anch’esso una fede, ma con il rischio evidente di essere una fede senza ragioni, e dunque un fideismo con sembianza di scientificità. E questo per un problema che in esso resta irrisolto, anzi, in definitiva, censurato. Il problema riguardo alla nostra libertà e alla stessa possibilità del male. Una Natura intesa come l’unico Dio rischia di essere ultimamente “vuota” e “irrazionale”, se non aiuta a comprendere e soprattutto ad affrontare “il dramma reale della nostra storia”. E soprattutto, una divinità naturalistica che si espande in forma matematica (come Odifreddi ripropone in una debole ripresa della posizione di Spinoza), come può illuminare la realtà più misteriosa e al tempo stesso più concreta della nostra esperienza di uomini, vale a dire la possibilità dell’amore, e soprattutto il nostro bisogno di essere amati per poter essere noi stessi? Benedetto rilancia, e Odifreddi, alla fine, accusa il colpo, stupito».

Anche lo storico laico Gian Enrico Rusconi è intervenuto e, come Benedetto XVI, non ha usato mezze misure per giudicare le (in)capacità storiche del matematico tuttologo torinese: «In realtà il destinatario della lettera si presta sin troppo facilmente alla lezione critica che gli viene impartita. Non è infatti difficile controbattere le ingenuità intellettuali del matematico Odifreddi, magari simpatico nel suo sfottente ateismo, ma poco consistente sul piano filosofico e storico». Davvero un brutto colpo quest’ultimo, conoscendo il noto narcisismo del Piergiorgio nazionale.

La redazione

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Ecco come i politici devono difendere la vita dall’aborto (video)

Beatriz EscuderoLa notizia della possibile iniziativa da parte del governo spagnolo di procedere ad una riforma restrittiva della legge sull’aborto varata dall’esecutivo socialista di Josè Luiz Zapatero nel 2010 ha scatenato il dibattito sul tema.

In una seduta del 7 maggio 2013, i gruppi parlamentari sono intervenuti a seguito di un’interpellanza proposta dal gruppo socialista a proposito delle intenzioni del governo circa questa iniziativa. La deputata Beatriz Escudero ha preso la parola al Congresso dei deputati, difendendo la posizione del Gruppo popolare, che porta avanti la proposta di riforma, e chiudendo il dibattito.

Il video che riportiamo riguarda gli otto minuti di discorso della deputata Escudero. È un manuale per la buona battaglia che è necessario portare avanti in questi campi così delicati e così importanti per il futuro della società occidentale. Mi sembrano importanti soprattutto due aspetti della questione.

In primo luogo, è da notare come alcuni parlamentari spagnoli stiano provando ad arginare e invertire la rotta di una legislazione (spagnola, ma di fatto europea e occidentale) distruttiva e intoccabile: dal ’68 in avanti sono stati imposti costumi, norme e luoghi comuni fino ad ora considerati sacri e protetti dai mass media e dal pensiero dominante. Cominciando col divorzio e l’aborto, i passi successivi sono stati innumerevoli e tutti in direzione pericolosa.

Inoltre, la grinta, l’ironia e le argomentazioni di questa deputata sono ammirevoli e smascherano l’ipocrisia di chi (come è successo alla Camera spagnola) difende gli embrioni degli animali e calpesta la vita umana. Nei giorni successivi, è stata attaccata duramente dalle maggiori testate spagnole.

 

AGGIORNAMENTO 2016
Purtroppo il video dell’intervento è stato rimosso da Youtube, segnaliamo però un secondo discorso dell’on. Escudero in cui racconta il suo intervento intervistata da un’emittente spagnola, Radio Segovia. Si possono attivare i sottotitoli automatici in italiano.

 

Filippo Longhi

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Nuovo studio: omogenitorialità porta all’insuccesso scolastico

OmogenitorialitàCome ha spiegato lo psicologo e psicoterapeuta Domenico Simeone, docente di Pedagogia generale presso l’Università degli Studi di Macerata, quando si affronta la tematica delle adozioni per le coppie dello stesso sesso «non è in discussione la capacità di cura che possono avere le coppie omogenitoriali quanto piuttosto l’articolazione delle relazioni che i figli possono stabilire. Molti studi mettono in guardia sulle difficoltà che i bambini che crescono con persone dello stesso sesso possono incontrare».

Di questi studi, citati dal dott. Simeone, ce ne sono davvero tanti e abbiamo voluto raccoglierli in una pagina apposita su questo sito web. In questi giorni ne è uscito un altro e ancora una volta i quotidiani principali non ne hanno parlato (come non hanno voluto parlare di quanto accaduto ai figli di David Tutera, famoso conduttore televisivo americano e del suo compagno omosessuale).

Si tratta di una delle prime comparazioni su larga scala tra i figli di genitori dello stesso sesso ad altri tipi di genitori sul rendimento scolastico che di per sé è un buon indice di capacità di apprendimento, di relazione e di maturità raggiunta dell’adolescente. Si intitola High school graduation rates among children of same-sex households, l’autore è Douglas W. Allen, docente di Economia alla Simon Fraser University ed è stato pubblicato sulla rivista accademica peer review “Review of Economics of the Household”. Il prof. Allen ha confrontato su larga scala la genitorialità omosessuale, le famiglie monoparentali e genitori non sposati di sesso opposto basandosi sui dati del censimento canadese del 2006. Il Canada è ritenuto un Paese gay-friendly, le coppie dello stesso sesso sono state riconosciute fin dal 1997 e le nozze gay dal 2005.

I dati raccolti hanno mostrato che i bambini cresciuti da coppie gay e lesbiche hanno avuto solo il 65% di probabilità di ottenere il diploma delle scuola superiore rispetto ai bambini cresciuti in famiglie naturali con due genitori di sesso complementare, ovviamente confrontati per reddito e istruzione dei genitori simile. I figli di coppie dello stesso sesso hanno avuto anche tassi di diploma più bassi rispetto ai figli di genitori single. I dati sono drammatici in particolare per le adolescenti: «le ragazze che attualmente vivono in una famiglia gay hanno solo il 15 per cento di probabilità di diplomarsi rispetto a ragazze che vivono con genitori sposati di sesso opposto», ha scritto l’autore. E solo il 45 per cento delle probabilità se crescono con due donne lesbiche.

Intervistato per “Mercatornet”, il prof. Douglas W. Allen ha spiegato di aver risposto per la seconda volta ad uno studio di Michael Rosenfeld pubblicato su “Demography” nel 2010, il quale aveva analizzato la progressione scolastica dei bambini cresciuti con coppie omosessuali negli Stati Uniti, non trovando alcuna differenza con quelli cresciuti con coppie tradizionali. Il prof. Allen, assieme a Catherine Pakaluk, Joseph Price, verificò i risultati scoprendo diversi errori e mancanza di precisione e, ripristinando il campione utilizzando la tecnica statistica di controllo per la stabilità delle famiglie, ha scoperto che i bambini delle famiglie dello stesso sesso avevano circa il 35% di probabilità in più di fallire nel percorso scolastico. «Dopo il mio commento apparso su “Demography”», ha rivelato Allen, «la mia università ha ricevuto diverse lettere (inviate al rettore, a vari amministratori e a molti dei miei colleghi), chiedendo che io fossi licenziato». Questo nel 2010, oggi ha invece voluto verificare se in Canada i risultati fossero simili o differenti ed è apparsa una situazione abbastanza speculare a quella americana.

Come ha spiegato Pietro Zocconali, presidente dell’Associazione Nazionale Sociologi (ANS), «i bambini sono dotati di grande capacità di adattamento, tuttavia, sulla base della letteratura scientifica disponibile vivono meglio quando trascorrono l’intera infanzia con i loro padri e madri biologici. Il bambino riconosce se stesso e il proprio futuro rispecchiandosi e relazionandosi al maschile e al femminile di una madre e di un padre, biologici o adottivi. In assenza di questa diversità sessuale il benessere del bambino è a rischio, come dimostra la stragrande maggioranza dei dati raccolti dalla più validata letteratura psico-sociale a livello mondiale e non da quattro sofismi artatamente richiamati dalla comunità gay e privi di riconoscimento scientifico».

La redazione

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Il cristianesimo rifiuta l’imposizione della fede

Critica alla teologia politica 

di Marco Fasol*
*saggista e professore di storia e filosofia

 
 

Il 1700° anniversario dell’Editto di Milano, promulgato da Costantino nel 313, ci invita a riflettere sui rapporti tra teologia e politica. Al riguardo è uscito di recente un interessante saggio di Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale all’Università di Perugia, dal titolo Critica della teologia politica, da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana. (Marietti 1820, Genova-Milano 2013). Questo saggio è stato presentato al Meeting di Rimini di quest’anno, con la partecipazione di Antonio Socci e del teologo Stefano Alberto.

La svolta costantiniana, sostiene Borghesi, introduce nella storia una nuova epoca, in cui per la prima volta la religione viene dissociata dalla politica. Per l’Impero romano la religione era evidentemente al servizio della politica romana di dominio e di espansione. Non per niente a partire dall’imperatore Adriano, il tempio più grande dell’Urbe era proprio quello dedicato alla dèa Roma, la protettrice dell’Impero. Ed in occasione di tutte le feste pubbliche, nelle centinaia di stadi ed arene dell’Impero, venivano esibite le statue gigantesche di Marte e Venere, la coppia divina della guerra e della fecondità dell’Impero.

Con Costantino e con il suo Editto si ha la svolta: la religione viene dissociata dalla politica ed ogni cittadino è libero di abbracciare la religione che vuole. E’ difficile per noi, uomini del Duemila, comprendere la portata giuridica, ma anche esistenziale e politica di questa novità. Finalmente viene giuridicamente sancita la separazione della politica dalla religione. “Date a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio”.  “Il mio regno non è di questo mondo”, sono due celebri sentenze evangeliche a cui si ispira questa separazione della teologia dalla politica. Borghesi evidenzia la portata di questa innovazione spiegando che il Cristianesimo è l’unica religione che prevede questa separazione della fede dalla spada. Quindi libera la fede dalla soggezione o dall’interferenza dei politici di turno.  Come afferma il teologo Stefano Alberto: “C’è, nel Vangelo, una distinzione radicale tra la fede e la spada. E’ una novità che segna uno spartiacque nella convivenza civile. Il cristianesimo non si realizza attraverso la politica. C’è una differenza tra Grazia e Natura”.  Con l’Editto di Milano è sbarrata la strada a qualsiasi “teologia politica”, a qualsiasi pretesa della politica di strumentalizzare la religione, come purtroppo succederà con il cesaropapismo successivo. Si può anche dire che viene introdotta una distinzione tra “sacro e profano” e quindi viene superato il pericolo del fondamentalismo o integralismo.

Nel 380 la politica imperiale cambia notevolmente. Infatti, l’Imperatore Teodosio, con l’Editto di Tessalonica dichiarerà il cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero romano e di lì a poco inizieranno le distruzioni dei templi pagani, le soppressioni delle scuole filosofiche ellenistiche, insomma verrà meno la libertà religiosa. Il grande Agostino, nel De civitate Dei , sosterrà che la Città di Dio e quella dell’uomo sono mescolate insieme e non possono coincidere, confermerà dunque la tradizione dei primi quattro secoli di cristianesimo che difendono la libertà religiosa. Anche se nel suo epistolario ammetterà l’uso della forza politica imperiale contro gli eretici donatisti. L’Agostino del De civitate Dei afferma chiaramente che la piena realizzazione del Regno di Dio non può avvenire su questa terra, ma solo alla fine della storia. La tensione tra il “già e non ancora” resta perennemente attuale: la Chiesa è già un principio di regno di Dio in mezzo a noi, ma non ne è ancora la piena realizzazione, non può pretendere che la politica imponga la fede cristiana.

Purtroppo, nei lunghi secoli che precedono la modernità, si è spesso affermata come vincente la pretesa di egemonia totalizzante da parte della politica che voleva imporre la “religione di Stato”. Si pensi ai due secoli di guerre di religione che hanno travagliato l’Europa dal Cinquecento al Settecento. Con l’Atto di Supremazia di Enrico VIII (1534), il re d’Inghilterra si autoproclamava capo della Chiesa anglicana, con la pace di Augusta (1555) e la pace di  Westfalia (1648), in Germania si proclamava per i sudditi l’obbligo di professare la religione del principe regionale, con la revoca dell’Editto di Nantes (1685) gli ugonotti venivano cacciati dal regno di Francia. Sono tutti momenti significativi di questa drammatica negazione della libertà religiosa da parte della politica. Ed è da queste guerre di religione che si scatena la violenza illuminista e rivoluzionaria contro l’intolleranza e il fanatismo religioso. La dissociazione della modernità dalla politica intollerante del cesaropapismo affonda le sue radici in questa pretesa di imporre la fede con la spada. Si pensi ad esempio alla strage della notte di San Bartolomeo, in Francia, episodio emblematico di queste guerre di religione.

Abbiamo dovuto attendere il Concilio Vaticano II, conclude Borghesi, con il suo documento Dignitatis Humanae, per riconoscere il messaggio originario del cristianesimo, che rifiuta l’imposizione della fede. Il bene, come venne sostenuto dai Padri conciliari, non può essere imposto, e quindi la religione non può essere imposta da una legge civile. La religione deve essere scelta liberamente, per amore. Altrimenti si scivola nell’integrismo, nella teologia politica, cioè nella pretesa di costruire uno Stato cristiano che vorrebbe anticipare la piena realizzazione del Regno di Dio in terra. Invece, dobbiamo accettare l’imperfezione dell’uomo, per cui lo Stato non è il Regno di Dio, ma il luogo della convivenza civile tra persone che hanno fedi religiose o laiche diverse, ma che si possono accordare su progetti politici di promozione umana. E’ la lezione di J. Maritain, ci ricorda Borghesi, che sosteneva questa autonomia della politica, fatta propria dal Concilio.  Naturalmente non si tratta di un’autonomia assoluta, altrimenti si aprirebbe la strada ai totalitarismi di sinistra memoria. La politica rimarrà sempre vincolata dalla legge morale, dall’etica dei diritti umani, da quell’etica che ha uno dei suoi pilastri proprio nella libertà religiosa riconosciuta dall’Editto di Milano.

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E’ “buona” l’eugenetica contro i bambini Down?

Sindrome down 
 
 
di Benedetto Rocchi*
*Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa, Università di Firenze

 
 

Chiara Lalli è una figura emergente nel dibattito sui problemi della bioetica in Italia. Il suo blog è uno dei più consultati dai giornalisti. I suoi libri, che in genere pretendono di presentare tesi “controverse”, vengono recensiti con entusiasmo dai principali quotidiani nazionali (è il caso del Corriere della Sera con “La verità, vi prego, sull’aborto.” dove, con molta approssimazione scientifica si sostiene l’innocuità dell’aborto volontario per la psiche della donna); viene invitata da radio e televisioni quando si deve dibattere qualche punto alla frontiera della bioetica.

Così è successo ad esempio durante la trasmissione radiofonica “Tutta la città ne parla” andata in onda su Radio Rai Tre il 31 gennaio 2013 (a questo indirizzo il podcast). La puntata era dedicata alla giornata internazionale per la Sindrome di Down. Tanta attenzione verso un tema di solito trascurato dai mezzi di comunicazione di massa, era causata da uno spiacevole episodio che si era guadagnato la ribalta dei notiziari proprio in quei giorni: il caso di un ragazzo affetto dalla sindrome, figlio di immigrati, ai quali era stata negata la cittadinanza italiana perché, nonostante tutti i requisiti previsti dalla legge fossero ottemperati, il giudice non aveva ritenuto presente la capacità di intendere e di volere.

Seguendo uno schema consolidato la trasmissione, dopo avere proposto alcuni contributi di persone che si occupano di persone affette dalla sindrome per professione o per esperienza personale (un avvocato di una associazione che si occupa dei diritti dei disabili, la mamma di un ragazzo con la sindrome di Down) ha sottoposto il tema ai rappresentanti di due concezioni della bioetica contrapposte tra loro: il direttore di Avvenire Marco Tarquinio e appunto Chiara Lalli, presentata come “filosofa della scienza”.

Bisogna riconoscere al conduttore di essere stato buon giornalista, lanciando ai suoi ospiti una domanda alquanto spinosa. Il tema è stato introdotto, infatti, ricordando che in tempi di diagnosi prenatale e di diritto di aborto molti bambini affetti dalla sindrome non nascono più, proprio come temeva Jerome Lejeune, lo scopritore delle sue cause genetiche. In Italia si può stimare che ogni anno vengano abortiti più di mille bambini ogni anno per il semplice fatto di avere un cromosoma in più (i dati possono essere consultati qui). Tanto che nel 2004 è stato lanciato dal governo danese un piano che prevede l’accesso gratuito ai test prenatali per l’individuazione della sindrome e che in 25 anni dovrebbe rendere la Danimarca un paese “Down Free” (i primi effetti sono stati valutati da questo articolo pubblicato dal British Medical Journal). Un’iniziativa che ha fatto scalpore per la sua scoperta impostazione eugenetica: selezionare sistematicamente quali bambini “meritino” di venire al mondo e quali no.

Non è stato difficile per Marco Tarquinio porre a confronto il governo danese degli anni 2000 con il governo tedesco degli anni ’30 del ventesimo secolo. Quando è arrivato il suo turno, Chiara Lalli si è trovata in una situazione difficile: da un lato non poteva non sostenere con forza i diritti delle persone affette dalla sindrome di Down già nate; dall’altro, però, voleva difendere il diritto di sopprimere quelle non ancora nate. Non si è però persa d’animo, imbarcandosi in una argomentazione un po’ arzigogolata per mostrare la coerenza della sua posizione. Per chi non avesse voglia di risentire il file audio originale trascrivo qui sotto i principali passaggi del suo intervento prima di commentarli. Parlando della agghiacciante prospettiva di una Danimarca “Down Free” la “filosofa della scienza” ha sostenuto che “… bisognerebbe distinguere l’obbligo dal condizionamento culturale, da un invito, da un’idea. Insomma, ci sono molti livelli che si possono intravedere in una posizione del genere. Il punto fondamentale è che credo le singole scelte debbano sempre rimanere degli individui, individui già esistenti e quindi persone a tutti gli effetti su eventuali, possibili, potenziali, possiamo scegliere gli aggettivi che vogliamo, persone. Però ripeto, il nodo fondamentale è che se io come potenziale genitore decido di interrompere una gravidanza non implica questa mia scelta la mancanza di rispetto per determinate persone ma sto compiendo una scelta perché magari non sono in grado, non mi ritengo in grado di affrontare una situazione del genere. Quindi, in qualche modo, non è una lesione della dignità di altre persone, questo è un nodo fondamentale, è anche un po’ complicato da capire, però insomma … altrimenti è estremamente difficile non connotare una scelta di questo tipo come una scelta nazista, per usare un termine chiaro”.

Si può senz’altro concordare che sia “estremamente difficile non connotare come nazista” il piano del governo danese. Purtroppo le spiegazioni che, con un po’ di didattica degnazione (“è un po’ complicato da capire”) Chiara Lalli ha proposto ai radioascoltatori, non fanno superare affatto tale difficoltà. Vediamole in dettaglio.

Alla domanda se la Danimarca sia paragonabile con la Germania del Terzo Reich Chiara Lalli risponde di no proponendo due argomenti: a) il piano danese non è coercitivo (“distinguere l’obbligo dal condizionamento culturale da un invito, da un’idea”) mentre quello nazista lo era; b) i bambini non ancora nati sono solo persone “potenziali” mentre gli adulti che decidono della loro vita sono persone “a tutti gli effetti”. Si tratta di due tesi francamente deboli, che possono valere per tenere il punto in un dibattito radiofonico che si risolve in una decina di minuti ma che non reggono assolutamente ad una riflessione rigorosa.

Il punto a) è il più semplice da contestare. Il programma eugenetico nazista, dall’eliminazione dei disabili allo sterminio degli ebrei (perché sempre di eugenetica si trattava per i nazisti, basta leggere i testi della loro propaganda) è stato possibile perché nella società tedesca esisteva un sufficiente consenso su di esso. Per dimostrarlo qualche anno fa uno storico di Harvard, Daniel Goldhagen, ha pubblicato un saggio che è diventato un best seller mondiale intitolato “I volenterosi carnefici di Hitler”. Dunque il “condizionamento culturale” degli esecutori del programma era all’opera anche allora: le persone collaboravano spontaneamente, proprio come spontanea dovrebbe essere la scelta delle donne che decidessero di ascoltare l’”invito” lanciato dal governo danese ad eliminare tutti i bambini concepiti affetti dalla sindrome di Down. Dov’è dunque la differenza? Si potrebbe forse dire che in realtà la presenza di un regime totalitario rendeva molto più “costringente” la capacità di persuasione dei nazisti. Ma la filosofa della scienza Chiara Lalli saprà certamente che è stato John Stuart Mill (che certo non era un sostenitore del totalitarismo) a spiegare nel suo saggio “Sulla libertà” che il condizionamento culturale della maggioranza può essere tanto oppressivo quanto quello di un regime autoritario. In realtà, tutte le volte che viene riproposta questa distinzione tra eugenetica “coercitiva” (che sarebbe cattiva) e eugenetica “volontaria” (che invece sarebbe buona) per sdoganare nuovamente tale pseudo-scienza (succede sempre più spesso, non solo sul blog di Chiara Lalli ma anche su paludate riviste di filosofia), bisognerebbe ricordare che in entrambi i casi la vittima non viene ascoltata: per la persona eliminata l’eugenetica è sempre “coercitiva”.

E qui si comprende perché Chiara Lalli deve aggiungere il punto b) alla sua argomentazione affermando che i bambini con la sindrome di Down non ancora nati in realtà non sono “persone a tutti gli effetti” ma solo “persone potenziali”. Proprio per questo motivo non sarebbe necessario chiedere il loro parere per eliminarli. In questo caso l’eugenetica sarebbe buona perché le uniche “persone a tutti gli effetti” coinvolte, cioè gli adulti che dovrebbero decidere la loro eliminazione, prenderebbero tale decisione volontariamente. Per quanto l’argomentazione suoni decisamente capziosa è importante discutere esplicitamente la distinzione tra persone “potenziali” e persone “ a tutti gli effetti”. Chiara Lalli la enuncia come se fosse un fatto assodato, sul quale non c’è alcuna discussione, aderendo a una sorta di mantra che sempre più spesso si affaccia nel dibattito sui temi bioetici più scottanti (aborto, eutanasia, fecondazione artificiale). In realtà si tratta di un’affermazione di tipo filosofico e come tale può e deve essere sottoposta ad un vaglio critico, soprattutto quando viene utilizzata per giustificare le decisioni sulla vita o sulla morte di esseri umani.

Poichè dal punto di vista biologico il processo di sviluppo di un essere umano non conosce alcuna soluzione di continuità dal momento del concepimento fino alla morte, l’idea di “potenzialità” della persona deve necessariamente trovare un altro fondamento. Questo fondamento è l’autocoscienza. Sarebbe l’autocoscienza a rendere un essere umano “persona a tutti gli effetti”. In ultima analisi, quindi, sarebbe un particolare “funzionamento” del soggetto, la sua autocoscienza, che ne renderebbe l’esistenza “personale” e quindi di valore. Si tratta della versione moderna di un argomento filosofico con una lunga tradizione, i cui ascendenti nobili possono essere fatti risalire a Cartesio e Locke, basato sul dualismo corpo-anima, per quanto espresso nella sua moderna versione mente-corpo.

Nel nostro caso l’argomento si applica così: il bambino non ancora nato ha la potenzialità di diventare cosciente ma non lo è ancora, dunque è in qualche misura sottoposto alle scelte degli adulti che invece hanno già raggiunto lo stadio di autocoscienza (notate la particella usata da Chiara Lalli, che implica una subordinazione dei bambini rispetto agli adulti: le … scelte [delle] persone a tutti gli effetti su … potenziali …  persone). L’argomento è piuttosto debole: in base ad esso infatti si potrebbe giustificare una subordinazione dei diritti di una persona incosciente a causa di una anestesia o di uno svenimento, rispetto a quelli delle persone che la soccorrono. Anch’esse infatti sono in quel momento coscienti solo “in potenza”, proprio come il bambino non nato: eppure, come è ovvio, non ci sogneremmo affatto di non considerarle persone “a tutti gli effetti”. Anzi, è proprio il possibile risveglio della loro coscienza che normalmente viene invocato come ragione delle cure da prestare loro: tanto che viene viceversa suggerita l’eutanasia per le persone in “stato vegetativo permanente”, una espressione medica non corretta (l’esperienza clinica insegna che non si può dimostrare ex ante come definitivo alcuno stato vegetativo, tanto è vero che oggi si preferisce l’aggettivo persistente) usata per esprimere la convinzione che di quella persona ormai funzioni solo il corpo, mentre la mente sarebbe invece “morta”.

Al fine di renderlo più difendibile l’argomento della personalità “potenziale” viene spesso sviluppato introducendo una seconda condizione per l’esistenza della persona: l’esistenza di una capacità di giudizio e di un vissuto. Lo hanno fatto ad esempio Giubilini e Minerva, due bioeticisti italiani che su una delle più importanti riviste internazionali di etica medica hanno sostenuto la liceità morale dell’infanticidio, suscitando come è ovvio grande scalpore. Ho già mostrato in un articolo sulla stessa rivista alcune debolezze del loro ragionamento e i rischi sociali di una tale posizione bioetica. Vorrei però qui discutere la loro definizione di persona potenziale, in base alla quale arrivano a giudicare “sopprimibile” un neonato. Giubilini e Minerva affermano in sostanza che lo stato di incoscienza di un bambino non ancora nato o appena nato è diverso da quello che potrebbe temporaneamente vivere un adulto. Quest’ultimo infatti, avendo già un vissuto di cui ha memoria, al momento del risveglio sarà in grado di dare giudizi, e disporre del suo potenziale futuro e soffrire delle minacce alla sua esistenza. In realtà non è difficile mostrare che quella che sembra essere una condizione diversa è in realtà la stessa. Ammesso e non concesso che il bambino non ancora nato non abbia alcuna forma di coscienza (la scienza medica continua infatti a retrodatare tutta una serie di funzionamenti neurologici e di rapporti intensi di scambio con la madre fino a fasi sempre più precoci della gravidanza) è comunque tutta una questione di tempo: anche il bambino non ancora nato, se sarà lasciato vivere sufficientemente a lungo ad un certo punto potrà dare giudizi, disporre del suo futuro e soffrire delle minacce alla sua esistenza. Se accettassimo questa versione dell’argomento della coscienza, allora dovremmo postulare una gradualità dell’essere persona (e quindi dei diritti che ne derivano) via via che gli individui accumulano conoscenza e capacità di giudizio: è evidente infatti che un bambino di tre anni non ha la stessa capacità di un adulto di decidere del suo futuro o di valutare ciò che minaccia la sua vita; e lo stesso si potrebbe dire per distinguere tra adulti con differente grado di istruzione.

La verità è che l’argomento usato dai sostenitori dell’aborto o dell’infanticidio eugenetico andrebbe totalmente rovesciato. Infatti, almeno in un certo senso, siamo tutti persone potenziali. Come un bambino è un potenziale adulto, un adulto è un potenziale vecchio. Un adolescente che non ha ancora completato i suoi studi è un potenziale scienziato e allo stesso tempo un potenziale artista. Nessuno in realtà può realmente disporre del suo futuro ma solo accoglierlo con ciò che porta e richiede alla sua esistenza. Lo sviluppo dell’organismo neonato in organismo adulto è un processo altrettanto irresistibile e fuori dal controllo del soggetto di quello che porta un organismo adulto alla dissoluzione per una malattia degenerativa. Per non parlare dei legami che ci legano con il mondo che ci circonda: probabilmente a tutti, nel corso dell’esistenza, capiterà almeno una volta di esclamare ‘se avessi saputo prima!’; oppure di scoprire che quello che aveva ritenuto uno sbaglio si era rivelato come una preziosa opportunità verso qualcosa di imprevisto e positivo.

Ciò che connota l’essere persona è proprio il mettere continuamente in atto una potenzialità: un articolo un po’ difficile ma che illumina in modo affascinante questo punto è stato pubblicato on line da Damiano Bondi sul sito di mondodomani.org. Il vivere è un tendere verso qualcosa in ogni momento: è un processo in cui una inesauribile potenzialità continuamente si realizza. A partire dalla magnifica e misteriosa potenzialità contenuta nella prima cellula con identità biologica del tutto nuova che viene all’esistenza al momento del concepimento.

Se dunque siamo tutti persone potenziali allora più semplicemente siamo tutti persone (altri argomenti su questo punto possono essere trovati qui). La condizione esistenziale di un bambino affetto dalla sindrome di Down non è diversa da quella degli adulti che rivendicano un diritto di vita e di morte su di lui: semplicemente egli subisce la loro maggiore forza. Per questo Chiara Lalli si sbaglia. Per questo non esiste un’eugenetica “buona”. Per questo il programma eugenetico danese non differisce da quello nazista.

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Francesco e Martini contro i teologi new age

EsorcismoE’ palpabile l’imbarazzo di molti vaticanisti politicamente corretti, come Paolo Rodari, citare tutte le volte che Papa Francesco parla del diavolo, di Satana, un inquilino che certa teologia impaurita dalla modernità ha banalizzato e ridotto a mito.

Già il giorno dopo l’elezione al soglio pontificio, Francesco spiegava che «quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del Diavolo, la mondanità del Demonio». Eppure Vito Mancuso, dall’alto della sua cattedra in teologia, replica fieramente: «Io non credo nell’esistenza del diavolo ma credo nella diabolicità». Evidentemente il “principe del mondo”, come viene definito nei Vangeli, ha già vinto la battaglia contro Mancuso, usando l’astuzia di non far credere alla sua esistenza per meglio raggiungere i suoi scopi, come scriveva Charles Baudelaire.

Eppure, ci insegna Papa Francesco, «l’uomo vive sotto il soffio di due venti, quello di Dio e quello di Satana». Venerdì scorso nell’omelia a Santa Marta ha spiegato che al tempo di Gesù «è vero che si poteva confondere un’epilessia con la possessione del demoni ma è anche vero che c’era il demonio! E noi non abbiamo diritto di fare tanto semplice la cosa, come per dire: “Tutti questi non erano indemoniati; erano malati psichici”. No! La presenza del demonio è nella prima pagina della Bibbia e la Bibbia finisce anche con la presenza del demonio, con la vittoria di Dio sul demonio».

Lo spiegava anche il “padre spirituale” di Mancuso, il compianto card. Carlo Maria Martini, il quale spesso si riferiva all'”avversario”: «non è necessariamente implicato personalmente Satana, ci troviamo però davanti a quella complessa sfera del male di cui Satana è il responsabile […]. Dobbiamo sentire il dramma della lotta tra Dio e Satana che si sta svolgendo nella storia. Un combattimento senza esclusione di colpi, per il quale Cristo muore sulla croce».

Un altro teologo che si sente troppo adulto per il magistero della Chiesa è il mediatico Hans Küng, lo svizzero ossessionato da Joseph Ratzinger da quando erano compagni di studi e professori a Tubinga che la stampa ha usato come anti-papa durante il pontificato di Benedetto XVI. In questi giorni sono uscite le sue memorie: «Non sono stanco della vita, ma stanco di vivere» ha ammesso ipotizzando anche il suicidio: «Forse verrò chiamato all’improvviso, e mi sarà risparmiata una scelta individuale. Sarebbe bene così. Ma nel caso che io steso debba decidere di persona sulla mia morte, prego tutti di attenersi ai miei auspici e desideri». Noia di vivere, suicidio…chissà se questa volta i media avranno il coraggio di fare un confronto con la vita gioiosa del Papa Emerito. «E’ molto triste per me sapere che un teologo parli in questo modo, spero che nessuno segua il suo esempio» ha commentato il Prefetto per la Dottrina della Fede, Gerhard L. Müller, scelto appositamente da Papa Francesco.

Tornando al tema principale, oggi Papa Francesco cita Satana in continuazione. Lo combatte senza risparmio. Non lo ritiene affatto un mito, ma una persona reale, il più insidioso nemico della Chiesa. «La sua astuzia più bella è far credere che non esiste, ma io ho come la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel regno di Dio», disse Paolo VI in occasione della Festa dei Santi Pietro e Paolo il 29/6/1972. Una vera profezia, dato che da lì in avanti tanti teologi impauriti dalla modernità hanno smesso di crederci, diventandone le prime vittime.

La redazione

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Flores D’Arcais continua la sua guerra contro i credenti

Paolo Flores DArcaisLo zoologo Richard Dawkins è ormai diventato lo zimbello dei media per le sue continue gaffe (l’ultima quella sulla pedofilia), Sam Harris è scomparso dalla circolazione mediatica assieme al chimico Peter Atkins, il compianto Christopher Hictens è passato a miglior vita e Piergiorgio Odifreddi, sempre meno lucido con il passare degli anni, si commuove come un bambino se un Papa gli risponde. Questa più o meno la situazione del cosiddetto “new atheism”, molto in voga fino a qualche anno fa.

Nella feroce guerra contro i credenti è rimasto a combattere solo il buon Paolo Flores D’Arcais, il cosiddetto “filosofo intollerante” per una curiosa vicenda di cui si è reso stato protagonista e che abbiamo documentato nel nostro canale Youtube. E’ di questi giorni l’uscita del suo ennesimo libro contro chi crede in Dio, intitolato: “La democrazia ha bisogno di Dio? Falso!” (Laterza 2013).

Il primo sostenitore politico di Di Pietro e poi di Antonio Ingroia (un bel portafortuna per entrambi, davvero!) ha puntato all’impossibile mirando a confutare la posizione del celebre filosofo tedesco Jürgen Habermas (e ancora prima quella di Tocqueville e Heidegger, per cui “solo un Dio ci può salvare”), secondo il quale la democrazia ha bisogno di un presupposto religioso. Dopo aver liquidato velocemente il pensiero di Heiddeger con un’accusa a livello personale «era un nazista (mai pentito)» (pag. 3) (quando oggi è evidente agli storici essere una falsità), spiega: «L’alleanza che oggi invoca la presenza di Dio nell’agorà democratica è inquietante per la sua eterogeneità» (pag. 3). Flores D’arcais non sostiene la laicità ma approva pubblicamente il laicismo, ovvero l’estirpamento di ogni aspetto religioso dalla vita pubblica. «Ahimè», si lamenta in un’intervista al “Fatto Quotidiano”, «non possiamo che notare come le religioni abbiano un ruolo pubblico sempre crescente». Per questo la sua tesi centrale è che «va negato radicalmente e in modo sistematico ogni ruolo pubblico delle religioni nella democrazia, perché qualsiasi ruolo pubblico minaccia e mette a repentaglio elementi essenziali del sistema democratico».

Queste minacce sarebbero sopratutto in campo bioetico, ha spiegato, ad esempio per quanto concerne l’opposizione all’eutanasia che sarebbe frutto di «un sistema di valori religioso vuole imporre la sua particolare morale come morale dello Stato». Peccato che siano le principali associazioni medico-scientifiche americane ed europee ad opporsi a tale pratica, come abbiamo documentato, ben lontane dall’offrire motivazioni religiose alla loro posizione. Inoltre, perché l’approvazione dell’eutanasia non sarebbe invece un imposizione di un’etica atea, cioè priva del concetto di sacralità della vita? Perché la religione non deve partecipare alla democrazia ma l’ateismo si? Esso è davvero neutralità? La storia della Francia è paradigmatica: in nome del laicismo ieri eliminava fisicamente i credenti dalla vita pubblica mentre oggi ha intrapreso nuovamente la crociata contro il cristianesimo abolendo le feste cristiane per celebrare la ricorrenza ebraica dello Yom Kippur e quella musulmana dell’Aïd, trovando però l’opposizione di ebrei e musulmani. Questo è il progresso laico?

Flores d’Arcais risponde positivamente: solo gli atei possono partecipare alla vita pubblica perché «la democrazia è atea, imprescindibilmente», ha spiegato il direttore di “Micromega”. Il credente, se vuole esistere in una democrazia, deve abbandonare ogni pretesa di dedurre norme direttamente o indirettamente dalla propria fede e Dio può sopravvivere alla democrazia solo accettando l’«esilio dorato nella sfera privata della coscienza». Si passa quindi agli insulti verso chi crede in Dio, immancabili in un pamphlet di proselitismo: «il credente è civicamente minus habens perché incapace di interiorizzare autonomamente la scelta pro-democrazia e in grado di riconoscerla solo affidandosi all’autorità religiosa di riferimento».

Come lui probabilmente la pensa la nuova maestra della scuola elementare “Bombicci” di Bologna, che appena entrata in classe ha tolto il crocifisso dal muro perché, ha detto, «non me ne faccio nulla» (interessante l’intervento dell’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli). Certamente come lui non la pensa, invece, il non credente Giulio Giorello che ha deciso pubblicamente di schierarsi a fianco dei cristiani in difesa della Chiesa perseguitata in Pakistan. Il lettore saprà giudicare chi incarna di più lo spirito democratico e civile tra i due.

Velata la critica al libro de “Il Corriere della Sera, più dura quella apparsa sull’“Unità”, l’ex quotidiano ufficiale del PCI di cui il filosofo intollerante è un forte nostalgico: «Flores d’Arcais vuole addirittura negare il certificato elettorale a Dio e ai suoi fedeli […] Francamente ci pare una posizione artificiosa, oltre che insolente e intollerante. Perché la democrazia è il contrario di certe intimazioni totalitarie e discriminatorie. Essa è conflitto regolato su valori e interessi divergenti». Raccogliamo la sfida di Papa Francesco, scrive l’editorialista dell’“Unità”, Bruno Gravagnuolo, «il resto è vecchia ideologia giacobina. Caricatura rovesciata del confessionalismo e Devozione Atea».

Proprio il Pontefice argentino nella “Lumen Fidei” ha scritto: «Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno. Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, perderemo la fiducia tra noi e saremo uniti solo dalla paura e la stabilità sarebbe minacciata». Lo dimostra la storia: la fede e la cultura cristiana sono alla base delle nostre civiltà democratiche, come ha spiegato il celebre sociologo americano Rodney Stark: «il cristianesimo ha svolto un ruolo chiave nel fornire una base morale per la democrazia, ben oltre qualsiasi cosa immaginata dai filosofi classici» (“La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza”, Lindau 2006, pag. 124). Nessun ateismo -nessun culto del nulla e del non-dio-, invece, è mai stato in grado fondare eticamente e moralmente alcuna civiltà democratica. Anche questo è un dato su cui vale la pena riflettere per chi vuole decidere chi e come si deve partecipare alla vita democratica.

La redazione

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