Se manifesti contro l’aborto finisci accoltellato

40 days for lifeAncora non si era placata la preoccupazione per l’attivista gay che ha fatto irruzione con una pistola carica presso il Family Research Council di Washington, con l’intento di uccidere tutti i sostenitori del matrimonio tradizionale, che un’altra notizia tragica riaccende i riflettori: a Toronto una donna, Faye Arellano, è stata accoltellata da un uomo mentre protestava contro l’aborto.

L’uomo l’ha prima bagnata con dell’acqua scagliandole poi la bottiglia in faccia, l’ha afferrata per i capelli sbattendola a terra e l’ha malmenata prima di accoltellarla. La donna è stata immediatamente ricoverata ed è fortunatamente fuori pericolo di vita, l’aggressore è stato arrestato.

Brutte notizie anche dall’Australia: Bryan Kemper, un pro-life americano, è stato anche lui ferito da militanti a favore dell’aborto che hanno aggredito lui e altri cittadini mentre manifestavano pacificamente durante una Marcia pro-life nella città di Melbourne. Kemper, come altri manifestanti, sono stati buttati per terra e presi a calci ripetutamente. Gli attivisti pro-death, vestiti di nero e cosparsi di borchie e tatuaggi, hanno ostacolato la marcia di famiglie e passeggini, minacciato ed insultato le famiglie presenti, scoppiato i palloncini ai bambini e distrutto i manifesti e gli striscioni dei manifestanti.

 

Questo video documenta alcune scene dell’assalto degli attivisti pro-choice

 

Episodi di intolleranza anche all’Indiana University, dove uno studente ha vandalizzato e distrutto alcuni cartelloni e manifesti pro-life esposti da un’associazione studentesca.

In Spagna sono avvenuti episodi simili: durante una conferenza sulla persecuzione dei cristiani nel mondo, alcuni attivisti per l’aborto hanno urlato minacce e insulti contro la Chiesa cattolica come ad esempio: “bruciamo la Conferenza Episcopale sessista e patriarcale”. Cinque giorni dopo tale incitamento alla violenza, una bomba artigianale è stata collocata nella Basilica del Pilar.

Negli USA un avvocato, Eleanor Alter, ha ricevuto minacce di morte dopo aver sostenuto che la sua cliente era traumatizzata a causa della Sindrome Post Aborto, riportando tale disturbo all’interno del dibattito dell’opinione pubblica.

La redazione

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Il divorzio riesce a sciogliere la promessa “per tutta la vita”?

Valentina Sciubba
 
di Valentina Sciubba*
*psicologa e psicoterapeuta

 

Nelle società occidentali separazioni e divorzi sono aumentati negli ultimi 40 – 50 anni. In Italia “i tassi di separazione e di divorzio totale sono in continua crescita. Nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni si contavano 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2011 si arriva a 311 separazioni e 182 divorzi”.

Se ci sono persone che, una volta sciolto il vincolo matrimoniale, riescono a trovare una situazione di stabilità e di equilibrio grazie ad un più confacente legame sentimentale, ce ne sono molte altre che non ci riescono e che spesso vanno incontro a convivenze non durature o che comunque non si trasformano in legami sanciti da norme civili o religiose. Vale la pena domandarsi in questi casi perché ciò avvenga e se la prima separazione sia stata veramente un atto ponderato.

Sorge il dubbio che molte coppie di fronte alle prime difficoltà di una certa entità, scelgano la strada per certi versi più semplice ed immediata della separazione piuttosto che intraprendere un percorso più impegnativo di crescita personale, di modificazione di atteggiamenti e comportamenti che potrebbe preservare la loro unione. Ritengo che la legge dovrebbe prevedere obbligatoriamente per ogni coppia che intende separarsi, non solo il tentativo di conciliazione del giudice, ma anche almeno 2-3 colloqui con uno psicoterapeuta di coppia. Ciò non deve sembrare strano se si pensa alle numerose visite psicologiche a cui sono chiamati coloro che intendono adottare un bambino; in molte coppie che si separano non ci sono forse dei minori che vanno salvaguardati? E la salute degli stessi membri della coppia non potrebbe essere a rischio? Le ricerche epidemiologiche ci dicono chiaramente che i coniugati godono di migliore salute rispetto ai separati e ai divorziati.

Che cosa rende “costitutivo” il matrimonio? Sia nel rito civile che in quello religioso è essenziale la presenza dei membri della coppia, di due testimoni e dell’incaricato dallo Stato o dalla Chiesa di accettare e iscrivere nella società civile o religiosa la nuova unione. I principali soggetti “attivi” del rito sono comunque i membri della coppia; sono essi che manifestano una volontà congiunta di assumere degli impegni di non poco conto. Nel rito civile viene chiesto agli sposi di manifestare la loro chiara volontà, che si suppone libera e consapevole, in merito all’assunzione dei diritti e doveri che la condizione matrimoniale comporta nell’ordinamento dello Stato. In particolare gli sposi assumono impegni di fedeltà, assistenza, convivenza, collaborazione. Nel rito religioso la necessità di una volontà libera e consapevole è esplicitata da apposita domanda del celebrante agli sposi. I diritti e i doveri derivanti dal matrimonio sono riassunti in una formula con cui gli sposi si impegnano alla fedeltà e ad amarsi e onorarsi “per tutta la vita”. Nel matrimonio religioso tali promesse vengono formulate nella “cornice” della religione cristiana. Si tralascia, per brevità, di menzionare i doveri derivanti dall’acquisizione di prole.

In ambedue i riti è indispensabile una chiara, libera e consapevole manifestazione di volontà degli sposi a contrarre matrimonio che appare come l’elemento principale che rende il matrimonio stesso effettivo e valido. In tal senso la libera volontà, ai fini della validità del matrimonio, è probabilmente molto più importante e necessaria di una travolgente passione.
Nel matrimonio civile nulla si dice in merito alla durata dell’impegno, in quello religioso gli sposi promettono di amarsi ed onorarsi per tutta la vita. Se la volontà è il principale elemento costitutivo del matrimonio, logica vuole che una volontà simile e contraria debba essere necessaria per il suo scioglimento, ma come sciogliere una libera promessa, davanti a testimoni, che si è fatta “per tutta la vita”?

Un detto recita che “ogni promessa è debito” e i ripetuti fallimenti di molti separati nel ricostituire un legame stabile sembrano testimoniare proprio una impossibilità a sciogliere una tale promessa. Si prescinde qui da ogni considerazione a carattere religioso; piuttosto, in quanto psicologa, prendo atto di una sorta di anello di congiunzione che su questo punto sembra intersecare psicologia e religione. Avviene così che quella di due soggetti liberamente sposati con rito religioso e successivamente separati diviene, a mio avviso, una “storia non chiusa” e che “non si può chiudere”. Quel vincolo che si vorrebbe sciogliere in realtà non è eliminabile e storie successive non possono avere pari valore e significato, né profondità di impegno personale.

Come in tutte le storie “non chiuse” il vincolo precedente, in questo caso il matrimonio religioso, diventa un ostacolo al ritrovamento di un legame sentimentale di pari profondità e impegno. Le storie successive alla separazione possono essere solo delle “convivenze”. Queste mie riflessioni si collegano ad un mio precedente articolo dove parlo della non rara eventualità di restare ancorati a storie sentimentali di forte impatto emotivo e che si sono interrotte senza sufficienti chiarimenti Le-storie-sentimentali-non-chiuse. Anche in quei casi la “volontà” mi risulta essere il principale e necessario elemento in grado di costituire e interrompere un legame, volontà che però nel matrimonio religioso, per i motivi già detti, mi appare incancellabile. Sono fatti salvi ovviamente tutti quei casi in cui i vizi della stessa volontà rendono nullo il matrimonio ed è mio parere anzi che dovrebbe essere reso più facile da parte della Chiesa Cattolica l’accertamento di tali condizioni, demandandolo anche a rappresentanti locali.

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Ara Norenzayan: il monoteismo ha favorito il progresso civile

Monoteismo e violenza? Ara Norenzayan, studioso della University of British Columbia, smentisce un luogo comune spiegando che i monoteismi hanno favorito il progresso, al contrario dei politeismi.

 

Un luogo comune di antireligiosi e antiteisti militanti, quasi una sorta di dogma, è quello per cui la religione sarebbe una oppressiva struttura rituale e morale che ostacola il progresso “civile” delle comunità umane. Un recente studio di Ara Norenzayan, “Big Gods. How religion transformed cooperation and conflict“, invece sostiene la tesi opposta in quanto le religioni monoteiste, basate sul culto di un “grande Dio”, hanno rappresentato il presupposto per la nascita e lo sviluppo delle più grandi comunità del mondo antico, quelle che suscitano ammirazione ancora oggi per l’alto grado di organizzazione strutturata e di elaborazione culturale.

Lo studio di  Norenzayan, psicologo presso la University of British Columbia, prendendo spunto da  considerazioni sociologiche e storiche, intende individuare il collante che ha permesso la nascita e il poderoso sviluppo delle società più antiche. Il punto di partenza per la riflessione del noto studioso è rappresentato dalla condizione dell’umanità che 12.000 anni fa era organizzata in piccole bande di cacciatori-predatori spesso in competizione per la sopravvivenza. Questi piccoli gruppi erano generalmente politeisti, dediti al culto di esseri soprannaturali di varia natura, abitanti nei cieli o nelle oscurità della terra, persino animali oppure oggetti. Il culto tributato a queste divinità, rituale o sacrificale, comunicato grazie ad un oracolo o  tramite la divinazione, è stato insufficiente a creare saldi legami tra i singoli componenti per il superamento di situazioni conflittuali in vista di una stabile cooperazione.

Eppure, da questo pantheon variegato, ad un certo punto emergono le fedi monoteiste che prendono il sopravvento e riescono a favorire un poderoso sviluppo civile, sociale e persino culturale: come è potuto accadere? Questa fede in un “grande Dio” è venuta fuori spontaneamente oppure è stata diffusa da qualcuno? Le possibili risposte, come è ovvio, possono essere per taluni frutto di prevenzione ideologica oppure trarre la loro giustificazione dalla seria riflessione scientifica e, in ogni caso, l’autore dello studio evidenzia come le tre grandi religioni del libro abbiano favorito lo sviluppo di grandi comunità dopo un processo di composizione dei conflitti e una vertiginosa crescita della cooperazione tra individui diversi.

Ara Norenzayan non è nuovo a questo tipo di studi, come già ricorderanno i visitatori più attenti di questo sito web e altre informazioni su Big Gods possono essere reperite su questa pagina. Prima di concludere, desideriamo supportare la tesi del Professor Arenzayan richiamando alcune evidenze storiche riguardanti l’Ebraismo che riteniamo perfettamente calzanti.

Il popolo ebraico, in origine nomade e dedito alla pastorizia, ricevette una prima organizzazione tribale all’epoca del patriarca Abramo e da lì, non a caso solo dopo la rivelazione di Dio che si fa conoscere come tale con la sua proposta di alleanza, inizia tutta una storia che porta queste tribù ad approfondire la reciproca conoscenza in una prospettiva di superamento delle divisioni per edificare una civiltà originale rispetto a quella di tutti gli altri popoli del mondo antico. Questa storia, come sappiamo, conoscerà momenti di splendore e di tragico decadimento, di fedeltà e infedeltà rispetto alle promesse di questo Dio, ma indubbiamente la fede e la cultura del popolo  ebraico riscosse rispetto ed ammirazione senza precedenti. Non a caso la traduzione in greco del testo della Bibbia ebraica – la famosa versione c.d. dei Settanta – contribuì ad accrescere la fama  di una comunità che oramai sopravviveva solo da un punto di vista religioso, facendo sorgere un po’ ovunque lungo il Mediterraneo sinagoghe di proseliti non circoncisi che simpatizzavano per il Dio della Torah.

Il culto dell’unico Dio, insomma, usando le parole di Norenzayan, ha rappresentato il collante che ha tenuto insieme le società: quella ebraica e, in seguito, tutte le altre che hanno conosciuto il cristianesimo.

Salvatore Di Majo

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«Vivo felice senza gambe e braccia: sono amato da Dio»

Nick“Quid animo satis?” si domandava Sant’Agostino? Cosa colma il cuore dell’uomo? Cosa ci rende felici? La salute? La forza? La libertà? No, non servono nemmeno le braccia e le gambe per esserlo. La storia di Nick Vujicic lo dimostra: per essere felici è sufficiente avere coscienza di essere figli di Dio e vivere la vita alla luce di tale consapevolezza.

Nick è un trentenne australiano nato senza arti superiori ed inferiori, è direttore di “Life Without Limbs”, un’organizzazione per i disabili. Dopo aver vissuto molte difficoltà, anche esistenziali, relative al suo handicap ha avuto la grazia di essere stato toccato da Dio, maturando una nuova concezione sulla sua condizione. Da qualche anno gira il mondo per incontrare i giovani aiutandoli a superare i problemi, piccoli e grandi, sui quali sempre più frequentemente rimangono incastrati, offrendo loro un orizzonte più ampio per guardare la vita. Un orizzonte di eternità, di speranza perché nonostante la cinica mentalità secolarizzata che li circonda, sappiano che c’è Qualcuno che li ama e li attende, così come sono.

«Quando riusciamo a dire “Gesù mi fido di te”, tutto il resto non conta più», spiega Nick nel video qui sotto. «Nient’altro era in grado di darmi pace come l’amore di Cristo. Neanche un paio di braccia e di gambe lo avrebbero fatto. Non ho trovato nessuna risposta veritiera al di fuori di Gesù Cristo, io non sono un uomo senza braccia e senza gambe, ma sono un figlio di Dio». Ed infine: «Io ringrazio Dio per non aver risposto alle mie suppliche quando gli chiedevo di avere braccia e gambe perché questa mia condizione fisica mi ha reso uno strumento di Dio in diverse parti del mondo portando negli ultimi 7 anni, attraverso la mia testimonianza, circa 200 mila persona ad incontrare Gesù per la prima volta. Come potrei preferire a questo il fatto di avere braccia e gambe?». Non c’è bisogno che cambino le circostanze, ci è data la possibilità di essere felici sempre, basta riconoscere di cosa e di Chi abbiamo davvero bisogno.

Il 12 febbraio 2012 Nick ha sposato una donna bellissima, Kanae Miyahara, e il 13 febbraio 2013 la coppia ha avuto un figlio, Kiyoshi James Vujicic.

 

Qui sotto un video su Nick, pubblicato anche sul nostro canale Youtube

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Maria Montessori era cattolica: smontata la leggenda nera

Maria MontessoriMaria Montessori è stata pedagogista e scienziata, ma anche femminista e pacifista e una delle intellettuali italiane più famose nel mondo. La sua opera è ancora molto studiata, ma è soprattutto il suo “metodo” ad essere vivo in moltissime scuole materne, elementari, medie e superiori in tutto il mondo. E a lei fanno riferimento, in alcune opere, celebri pensatrici come Martha Nussbaum.

Il famoso “metodo Montessori” è un approccio educativo basato sull’indipendenza e sul rispetto per il naturale sviluppo psicologico dell’alunno, la curiosità del bambino è il vero motore dell’apprendimento che lo porterà a sviluppare al massimo tutto lo spettro delle proprie capacità, a patto ovviamente che la sua crescita si svolga in un ambiente educativo predisposto a tutto questo.

Una pensatrice di tale livello non poteva non essere strumentalizzata dalle correnti laiciste in versione anticattolica, ed è ciò che è stato fatto per anni creando la leggenda della “pedagogista anti-cristiana”. Tuttavia un libro appena pubblicato, Montessori. Dio e il bambino e altri scritti inediti (Editrice La Scuola, pp. 363) curato e introdotto dallo storico Fulvio De Giorgi, ha smontato tale “leggenda nera”. Montessori era donna di fede e non rinnegò mai la sua appartenenza alla Chiesa cattolica.

Non solo, ma come spiega la casa editrice, nei testi inediti appena pubblicati -ritrovati nell’archivio romano di Luigia Tincani, fondatrice delle Missionarie della Scuola (e della Lumsa, la Libera Università degli Studi Maria SS. Assunta), e “confermati” dall’Associazione Montessori internazionale di Amsterdam- vengono espresse le “vere idee montessoriane”, “religiose” e “pedagogico-religiose”, come pure le sue ipotesi di educazione religiosa del bambino. Nel volume si trova anche un testo di “Regole” di una Pia Unione, quasi una Congregazione religiosa o, meglio, un Istituto secolare, datato 1910 e scritto da varie mani, compresa una parte nella quale è riconoscibile la grafia di Montessori. In una lettera del 1949 della Montessori a madre Tincani dall’India, in cui, insieme al malcontento e alle proteste sull’egemonizzazione del suo metodo in territorio indiano da parte di teosofi e non-cattolici, domanda un aiuto per ricevere un appoggio dal Vaticano per un progetto guidato da Gesuiti.

I vari testi pongono la Montessori molto vicina ad autentica spiritualità cristiana, aperta alle correnti “moderniste” (da qui nasce l’ostilità verso il cattolicesimo anti-modernista che ha dato lo spunto per la leggenda laicista). Si scoprono inoltre dati biografici inediti: l’avvicinamento ad ambienti cattolici come le Missionarie francescane di Maria; il Sodalizio religioso tenuto segreto e un’udienza privata, il 20 maggio 1947, da Pio XII.

La redazione

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Cosa c’entra il motore immobile di Aristotele con il DNA?

Aristotele 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Da qualche tempo si alzano voci dubitative in campo darwinista sulla qualificazione di “programma” del DNA, nel significato tecnico che la parola ha in cibernetica di sequenza lineare d’istruzioni in linguaggio eseguibile. Ciò si deve forse al persistente fallimento a trovare un modello scientifico dell’abiogenesi, che resta tuttora “una questione irrisolta”, come ha dichiarato al convegno del 2011 organizzato dal CERN per fare il punto sul problema lo scienziato che più di tutti vi si è dedicato per 40 anni, Stuart Kauffman.

Mi rendo conto che cercare nel bussolotto dei dadi il motore del salto dalla materia inanimata alla vita “non è la strada migliore per costruirsi una carriera scientifica” (“Nature”, 21 maggio 2009), essendo l’informazione (in questo caso, quella contenuta nel DNA) opposta per definizione al caso. Ancora nel III secolo Plotino argomentava: “Come attribuire al caso il principio di ogni ragione, ordine e determinazione? Di molte cose certamente è padrone il caso, ma di generare l’intelligenza, il pensiero, l’ordine esso non è padrone; e poiché il caso è il contrario alla ragione, come potrebbe esserne il genitore?” (Enneadi, VI 8, 10). Ma, se non si crede che il pero nasca dal seme della pera per fortuna, e così il gattino dall’ovulo fecondato della gatta e il bambino dalla donna, essendo solo una felice serie di eventi ciechi a selezionare di seguito per settimane i 1024÷1025 atomi che compongono la struttura ordinata dell’unità biologica; se non si può credere ciò, si deve ritenere razionalmente necessario che (prima ancora di ricercare scientificamente come) nel seme o nell’ovulo fecondato d’una specie esistano il software (completo) e l’hardware (iniziale) per il montaggio di un’unità della stessa specie, attraverso l’estrazione dall’ambiente della materia e dell’energia necessarie. L’esistenza del programma genetico è dunque una necessità di ragione.

Tale necessità fu compresa fin dagli albori del pensiero occidentale. Tommaso d’Aquino usa il termine seminalis ratio: “È evidente che i principi attivi e passivi della generazione delle cose viventi sono i semi da cui si generano le cose viventi. Perciò Agostino opportunamente ha dato il nome di ‘cause seminali’ [seminales rationes] a tutti i principi attivi e passivi che presiedono alla generazione naturale e allo sviluppo [degli organismi viventi]” (Summa Theologiae, I, q. 115). Tommaso aveva attinto il tema da Agostino, che aveva elaborato l’idea stoica del lógos spermatikós. C’è chi scorge l’intuizione addirittura nel Salmo 139, dove il re Davide (1040-970 a.C.) canta: “Poiché Tu stesso producesti i miei reni, mi tenesti coperto nel ventre di mia madre. Ti loderò perché sono fatto in maniera tremendamente meravigliosa. […] Le mie ossa non Ti furono occultate quando fui fatto nel segreto, quando fui tessuto nelle parti più basse della terra. I Tuoi occhi videro perfino il mio embrione, e nel Tuo libro ne erano scritte tutte le parti, riguardo ai giorni quando furono formate e fra di esse non ce n’era ancora nessuna” [sottolineatura mia].

Aristotele tra gli antichi è il più esplicito e moderno. C’è da restare strabiliati davanti all’attualità scientifica di molti concetti biologici di Aristotele e alla forza della sua analisi, conseguente ad osservazioni di morfologia, anatomia, sistematica ed anche di embriologia, trattate in 5 libri. Prendiamo tra questi “Sulla generazione degli animali”. Aristotele comincia considerando un aspetto fondamentale della vita: il fatto che gli umani generano umani, i conigli conigli e le mele meli. Nella generazione degli uomini, prosegue lo Stagirita, il maschio fornisce col seme un principio formale, non un uomo in miniatura. Contro il padre della medicina Ippocrate, per il quale il seme è una secrezione in cui è materialmente presente ogni parte del corpo nascituro per mezzo di un contributo di quella stessa parte del genitore (una particella di fegato paterno per il fegato del futuro bambino, di vecchio cuore per il nuovo cuore, ecc.), egli osserva che gli uomini generano progenie anche prima di avere certe parti, per es. la barba o i capelli grigi, e lo stesso vale per le piante; che l’ereditarietà può saltare generazioni, “come nel caso di una donna di Elide che si accoppiò con un etiope. Sua figlia non fu nera, ma il figlio della figlia fu un nero” (I, 18); che il seme maschile può generare femminucce, e chiaramente non può farlo come secrezione in un uomo da genitali femminili. “Dalle considerazioni precedenti è chiaro che il seme non consiste di contributi provenienti da tutte le parti del corpo del maschio […], e che il contributo della femmina è alquanto diverso da quello del maschio. Il maschio offre il piano di sviluppo e la femmina il substrato. Per questa ragione la femmina non è fertile di per se stessa, poiché le manca il principio formale, cioè qualcosa che regoli lo sviluppo dell’embrione, qualcosa che determini la forma che esso assumerà” (I, 21). Secondo Aristotele dunque, il maschio fornisce il software, la femmina l’hardware: non è riconosciuto il contributo femminile nella meiosi (forse per un pregiudizio maschilista tipico dell’epoca), ma il concetto d’informazione genetica c’è.

Il principio informativo presente nel seme è paragonato al falegname, che costruisce i mobili di casa organizzando i materiali secondo un progetto, senza essere scalfito dal processo produttivo: “Il seme non contribuisce in nulla al corpo materiale dell’embrione, ma solo gli comunica il suo programma di sviluppo. Questa capacità è ciò che agisce e crea, mentre il materiale che riceve le sue istruzioni ed è forgiato da esso è il residuo non scaricato del fluido mestruale. […] La creatura prodotta dal principio formale nel seme e dalla materia proveniente dalla femmina è  come un letto, che è prodotto dal falegname e dal legno. […] Nessuna parte del falegname entra nel legno lavorato, […] ma solo la forma viene impartita dal falegname al materiale attraverso i cambiamenti che egli introduce. […] È la sua informazione che controlla il moto delle sue mani” (I, 22). In termini moderni, Aristotele ci dice che l’informazione contenuta nel DNA, dopo la fecondazione, viene letta in un modo pre-programmato che forgia la materia su cui agisce, ma non altera l’informazione salvata, la quale non è materialmente parte del prodotto finito. Il DNA è il motore della trasformazione, non trasformato dal processo. In greco kinoún àkíneton, un motore immobile in italiano.

È un errore scientista negare il ruolo della filosofia nelle scienze naturali, che invece ne è sempre alla base, come fase d’intuizione e metodo logico quanto meno. Ogni scienziato è nel suo lavoro, anche senza saperlo, un pedissequo discepolo di Aristotele. E il libro “Sulla generazione degli animali” prova che anche la scoperta di Francis Crick e James Watson del ruolo del DNA ha un lungo antefatto poco noto.

Così come è un’altra madornalità scientista irridere al concetto di motore immobile, dallo Stagirita dedotto proprio dai suoi studi embriologici e poi portato in fisica, in astronomia e finalmente in metafisica. Certo, se per moto s’intende (in bella ignoranza delle lingue classiche) solo il cambio di posizione spaziale, è facile obiettare alla filosofia aristotelica che in dinamica vale il galileiano principio d’inerzia; ma se, come intendevano Aristotele e la Scolastica medievale, la parola significa ogni tipo di cambiamento, allora l’assunzione di principi formali invarianti delle trasformazioni naturali è costituiva di tutte le scienze. Nella concezione meccanicistica della vecchia fisica newtoniana, per cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, il concetto di motore immobile appare un non senso; ma se, come nel DNA, esso è un principio che governa una trasformazione senza esserne alterato, allora il primo motore immobile (“próton kinoún àkíneton”) non è altro in fisica che il sistema di equazioni tensoriali dei campi di forza che regolano le trasformazioni basiche dei fenomeni naturali e sono il presupposto metafisico, immutabile della fisica moderna e della riduzione metodologica ad essa delle altre scienze naturali. (La forma tensoriale delle equazioni decreta matematicamente il confine tra l’invarianza assoluta dei principi e la covarianza relativa all’osservatore delle evidenze sperimentali misurate). In prospettiva, il primo motore immobile fisico è il santo Graal della cosiddetta TOE, l’unificazione matematica dei 4 campi.

Se conosciamo Aristotele, lo dobbiamo prima all’opera conservativa e traduttrice del cristianesimo medievale (dai cristiani d’Oriente ai monaci di Mont-Saint-Michel a Giacomo Veneto) e poi a quella divulgatrice e sviluppatrice della Scolastica, di San Tommaso d’Aquino in particolare; appartiene all’impulso iconoclastico di distruzione delle proprie radici se l’Occidente, in gran parte, oggi ignora questa storia.

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Le nozze gay? L’esatto opposto del “progresso”

verso il baratro«L’approvazione del matrimonio omosex è la prova del definitivo passaggio da una società di tipo patriarcale, fondata sui valori tradizionali e sulla famiglia, a una società femminilizzata, devirilizzata, nella quale l’uomo assomiglia sempre più alla donna», afferma Eric Zemmour intellettuale, giornalista e polemista de “Le Figaro”.

Questo è la “società avanzata”? Pochi sostenitori hanno il coraggio di parlare di “progresso”, ha notato il celebre filosofo e antropologo francese René Girard, «soprattutto alla luce di tutti i crimini commessi in suo nome nel XX secolo, apparendo alle generazioni future come il punto più basso della storia».

«”La società è cambiata” si sente dire», argomenta Girard. «Ma siamo sicuri che si evolve bene? Cambia, è vero, continua a cambiare, non ha mai smesso di cambiare. Ma come si può sapere se è una buona evoluzione? Dopo tutto, anche uno stato di malattia cambia e progredisce, ma porta ad un esito fatale». Dopotutto, «non dimenticate che “avanzato” si riferisce anche ad un formaggio divenuto inadatto al consumo». In un’altra occasione, commentando le conseguenze delle nozze gay in Francia che apriranno all’adozione e all’utero in affitto, ha spiegato: «i nostri socialisti marciano così verso il trionfo estremo del capitalismo: l’uomo divenuto merce».

Perfino Tommaso Cerno, giornalista fazioso dell’Espresso ed ex presidente dell’Arcigay -che si definisce “omosessuale celibe”- ha riconosciuto: «“Mi chiedo che cosa ci sia di rivoluzionario e giacobino nell’immagine di una coppia gay che passeggia per il prato di una villetta residenziale portando a spasso il cane». Per i gay è una trappola: «per trent’anni gli omosessuali si sono sempre caratterizzati come ‘i diversi’, e in nome di questa orgogliosa diversità hanno caratterizzato le loro battaglie per costringere la società a formulare un modello di relazione che andasse di là dal matrimonio classico borghese, che peraltro contiene in sé la parola ‘madre’ alla quale la cultura omosessuale è tendenzialmente estranea». Così, «la comunità gay ha barattato la ‘diversità’ per ‘l’eguaglianza’, fino a snaturare l’essenza stessa della sua battaglia in uno slittamento semantico che oggi dovrebbe essere oggetto di una profonda riflessione». Cerno individua nella militanza gay una «deriva conformista» e si perderà «la filosofia di quell’impegno, il senso di quella lotta per la diversità».

L’opinionista omosessuale ha anche una critica per il mondo Lgbt: «Non esiste soltanto l’omofobia machista o quella fascista, bisogna avere il coraggio di dire che c’è anche un’omofobia latente fra i gay ed è figlia dello slittamento di cui stiamo parlando. Fintantoché sei giovane e bello rientri nelle ‘giuste’ categorie della comunità; ma poi, quando invecchi o se ti ammali? A quel punto non vieni più ammesso, a meno di essere ‘qualcuno’, uno scrittore, un attore famoso…». La comunità gay otterrà anche l’eguaglianza, «ma avrà lasciato dietro di sé morti e feriti».

La redazione

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Legge 40 ed eugenetica: vietata per legge, ammessa per sentenza

Aldo Vitale 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

«Quello che la natura fa ciecamente, lentamente e brutalmente, l’uomo può fare con lungimiranza, rapidità e delicatezza. Il miglioramento del nostro lignaggio mi sembra uno dei più alti scopi che ci sia dato di perseguire razionalmente»: così scriveva Francis Galton nei suoi “Saggi” a proposito dell’importanza positiva della pratica eugenetica.

Di un tal brano sembrano le parafrasi alcune pronunce delle corti nazionali e internazionali, allorquando autorizzano operazioni e procedure bio-mediche che si sostanziano in vere e proprie forme di nuova selezione eugenetica. Lo scorso 26 settembre 2013, infatti, il Tribunale di Roma ha sferzato l’ultimo colpo, in ordine temporale, alla legge 40/2004 disciplinante le norme in materia di PMA, stabilendo la legittimità della richiesta di accesso alle tecniche di PMA da parte di una coppia fertile che intende procedere alla selezione embrionale pre-impianto in quanto affetta da fibrosi cistica.

Alcune brevi considerazioni di carattere bio-giuridico s’impongono. Sotto l’aspetto più strettamente normativo non può evitarsi di notare che il giudice abbia stravolto già fin dall’inizio la lettera e lo spirito della suddetta legge consentendo ad una coppia fertile l’accesso alle tecniche di PMA contravvenendo al comma 1 dell’art. 4 della suddetta legge che, invece, prevede di potervi fare ricorso solo quando «sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione» e quindi ai soli casi «di sterilità o infertilità inspiegate documentate da atto medico, nonché ai casi ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».

La corte dunque ha autorizzato l’accesso alle tecniche di PMA per chi è privo dei requisiti richiesti dalla legge stessa; la violazione di ogni buon senso e della prudenza, che dovrebbero essere tratti tipici di chi ha studiato per l’appunto giurisprudenza, viene in risalto nella sua massima tragicità, come accadrebbe per quell’arbitro che decidesse di far vincere una squadra che neanche fosse inscritta al campionato. Inoltre, la stessa legge, alla lettera b del comma 3 dell’art. 13, vieta espressamente ogni tipo di selezione embrionale, soprattutto a scopo eugenetico.

Disancorandosi, tuttavia, dalla questione meramente normativa, non si può fare a meno di notare la criticità di una simile decisione almeno per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, scardinando la griglia dei requisiti posti dalla stessa legge, si avvalora l’idea che la medicina e la tecnica altro non siano che strumenti per la mera realizzazione dei desideri umani di ogni ordine e specie. In secondo luogo, si pongono in essere pratiche palesemente eugenetiche che, pur non coercitivamente contemplate e messe in essere da un apparato autoritario come lo Stato, e dunque su richiesta dei singoli, sono ugualmente in diretto contrasto con i principi “neminem laedere” (non ledere nessuno) e “unicuique suum tribuere” (dare a ciascuno il suo), cioè con sommi principi pre-ordinamentali e ultra-normativi, della giustizia, in quanto, tramite la selezione embrionale, si lede la posizione giuridica dell’embrione, tutelato dall’articolo 1 della stessa legge 40/2004, e non “gli si dà il suo”, cioè non si riconosce il suo diritto ad esistere anche se affetto dalle patologie più disparate.

La legge 40/2004, così subdolamente, ma cinicamente violentata per mano della stessa giurisprudenza, costituisce, dunque, un presidio non solo di legalità, bensì anche di giustizia, consentendo di tutelare le posizioni di coloro che, più deboli, non possono farsi giustizia da sé. Difendere la legge 40/2004, e nella specie il divieto di selezione eugenetica da essa sancito, non vuol dire dunque arroccarsi su posizione ideologiche, ma semmai su posizioni tipicamente giuridiche, specialmente se si guarda all’orizzonte, cioè verso la possibilità che, cadendo un simile divieto tramite le fantasiose interpretazioni delle corti di merito e di legittimità, possa inserirsi l’ombra oscura di un mercatismo bio-medico, con inevitabile aggravamento della situazione.

Ipotesi non tanto peregrina e nemmeno tanto iperbolica, posto che già un decennio or sono il noto filantropo Robert Graham fondò la “Repository for germinal Choice” con lo scopo di fornire alle donne interessate, e a prezzi non esorbitanti, la possibilità di accedere al liquido seminale di prestigiosi premi nobel per garantirsi una discendenza adeguata di alto livello intellettuale. La suddetta decisione del Tribunale di Roma apre la via, dunque, a scenari ancor più problematici di ciò che si possa ritenere a prima vista.

Difendere i principi di base posti a fondamento di alcuni dei divieti della legge 40/2004 significa, con le parole del filosofo di Harvard Michael Sandel «evitare un uso arbitrario dell’inizio della vita umana, e far sì che il progresso biomedico sia una benedizione per la salute, anziché una tappa dell’erosione della nostra sensibilità».

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Piccola raccolta di conversioni straordinarie

Conversione 1Su questo sito abbiamo già riportato la testimonianza di alcune conversioni, ponendo l’accento sull’impatto drammatico dell’incontro dell’uomo con Cristo. Trovare (o ritrovare) la fede è, di fatto, un’esperienza straordinaria che lascia stupefatti gli scettici e riempie di gioia il cuore mistico della Chiesa.

Le vie di Gesù, come sappiamo, sono misteriose: servendosi spesso di circostanze imprevedibili, Cristo si mostra nella vita di chi è pronto ad accoglierlo, talvolta in punta di piedi, altre volte impetuoso, come un uragano.

 

Meraviglioso è il caso di Timo Aytaç Güzelmansur, turco di Antakya (l’odierna Antiochia). Di origine musulmana, dopo la conversione ed il battesimo, Timo ha studiato teologia dal 2000 al 2005 presso l’università di Augusta e la Gregoriana di Roma. In un’intervista riportata da Sandro Magister sul sito de L’espresso, Güzelmansur spiega il motivo della sua scelta, maturata sin dall’età di diciotto anni: «Dopo il mio incontro con alcuni cristiani, ho iniziato a leggere la Bibbia, in particolare il Nuovo Testamento. E da subito sono stato affascinato dalla persona di Gesù. Questo fascino, che ancora oggi mi avvince, e la sorpresa (a causa della meraviglia) che Gesù mi ama così tanto da salire sulla croce e dare la vita per me, sono i motivi per cui sono diventato cristiano».

Dopo la conversione Timo ha sofferto l’allontanamento dei suoi parenti e dei suoi amici, ma questo non ha minimamente scalfito la sua adesione alla persona di Cristo che «ci ha amato al punto da donarsi per noi sulla croce. Se Gesù dona la sua vita per me – continua Güzelmansur – io come posso rispondere? Per me questa rappresenta la domanda fondamentale. E mi è sembrato logico ricambiare questo amore seguendo Cristo e ricevendo il battesimo». Alla fine dell’intervista (che consiglio di leggere per intero) Timo fa cenno alle conversioni dall’Islam: «Nella Chiesa cattolica in Germania annualmente vengono battezzate circa duecento persone di provenienza musulmana». I motivi di questi passaggi alla fede cristiana sono molti, ma ha ricordato soprattutto che «ci sono persone musulmane di una profonda religiosità alla ricerca di Dio, che per questo trovano nel cristianesimo un Dio che li ama e offre loro pace e accoglienza. Grazie all’incontro con Cristo scoprono un’immagine di Dio che ovviamente non possono trovare con l’islam».

 

Un’altra meravigliosa testimonianza di conversione dall’Islam è quella di Fauzia, una donna pakistana, madre di quattro figli, che ha conosciuto Cristo grazie all’incontro con una donna occidentale. «In quella donna brillava una luce particolare»; spiega in un’intervista, aggiungendo di essere rimasta molto colpita dal suo stile di vita. Così Fauzia matura nel cuore la decisione di diventare cristiana e di portare anche agli altri la gioia che lei stessa ha ricevuto. Purtroppo la reazione del marito sfoga nella violenza fisica e anche la sua famiglia di origine esprime la propria indignazione minacciandola di morte.

In un clima di persecuzione domestica, Fauzia si ritrova vedova dopo un anno. Con la morte del marito decide finalmente di aprire il suo cuore ai figli, che abbracceranno la fede cattolica. L’unica scelta è quella di fuggire in un altro paese, così, con l’aiuto dell’amica occidentale, Fauzia riesce a lasciare il Pakistan. Ora vive con i figli nelle Filippine e, insieme, riescono a condurre una vita normale.

 

L’invito di Cristo raggiunge anche Jean-Marie Elie Setbon, ebreo-ortodosso francese. Affascinato sin da piccolo alla figura di Cristo, a soli ventisei anni è rabbino del movimento Lubavitch, nel 2004 la conversione, dopo la morte della moglie. Racconta Setbon: «La nostra famiglia viveva nella precarietà. Ciononostante lunedì 6 agosto 2007 ci venne offerta una giornata di vacanza al mare, in Normandia, a Trouville. Visitai l’immenso calvario che si trova vicino alla spiaggia: quella vista mi causò una emozione molto forte. E nello stesso momento venni a sapere della morte del cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger (un altro grande convertito dall’ebraismo; nda): era un fatto che non poteva essere casuale! Un mese più tardi ho vissuto una sorta di esperienza mistica, di incontro con Gesù Cristo a casa mia, nella mia stanza: l’ho visto come presente! Di lì, grazie all’accoglienza paziente delle Piccole sorelle di Betlemme, mi sono preparato al battesimo. Sono stato battezzato con il nome di Jean-Marie il 14 settembre 2008. In quanto “apostata” sono stato rinnegato dalla mia famiglia, ma i miei figli, a loro volta, hanno seguito la mia scelta religiosa. Non è un qualche principio del cristianesimo che mi ha convinto, bensì il fatto di aver avuto la grazia di aver “visto” Gesù risorto. Questa esperienza diretta con Cristo mi ha trasformato interiormente e mi ha spinto a chiedere il battesimo. Anche prima, quando avevo il desiderio di essere battezzato, non c’era un qualche dogma cristiano che mi convinceva più di un altro. Proprio per questo un giorno vorrei scrivere un libro sul fatto che il cristianesimo non è una religione come un’altra».

 

Lo Spirito soffia dove vuole e non disdegna di abbracciare vite tra loro contrastanti. La storia della Chiesa ne è stata sempre testimone, a partire dalla conversione di San Paolo, che fu uno dei carnefici di Santo Stefano. Anche ai giorni nostri non mancano queste esperienze di luce e, a tale riguardo, vorrei citare la conversione di Walter Abbondanti e Li Jf: comunista il primo, vittima del comunismo il secondo.

La storia di Walter Abbondanti la racconta Luigi Amicone dalle colonne di Tempi, il settimanale da lui fondato nel 1994. Morto recentemente di cancro, Abbondanti da oltre dieci anni scriveva una rubrica per Tempi. Nell’articolo Amicone ricorda il suo passato di intellettuale e professore marxista. Ma la conversione di Walter avverrà in modo insolito, con la nascita di sua figlia: «Nasce mia figlia. Sono emozionatissimo. La prendo in braccio. Mi viene spontaneo un pensiero: “Ma la vita non è mia”. Giuro, non ci avevo mai pensato prima. Ma da quel preciso istante ho smesso di essere ateo e stalinista. Ti dirò di più: mia figlia è nata al Policlinico di Milano, dove c’è una piccola grotta della Madonna di Lourdes. Sono andato lì e mi sono inginocchiato».

 

Li Jf è, invece, un cinese cattolico che prima conduceva una vita agiata, essendo giudice in una provincia della Cina. La sua testimonianza del Vangelo lo porta alle attenzioni del regime che lo interna per undici anni in un campo di “rieducazione”. Questa esperienza lo ha privato di tutto: della casa, della moglie (costretta a divorziare) della figlia e del fratello (fuggito in Tailandia). Nonostante gli orari di lavoro massacranti e le continue vessazioni, Li non ha mai perso di vista le parole del profeta Isaia: “I tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: “Questa è la strada, percorretela”, caso mai andiate a destra o a sinistra” (Is. 30,21).

Animato dalla fede, Li non si scoraggia e riesce ad ottenere in contrabbando alcune copie della Bibbia. Così dalle tenebre spunta una piccola luce e decine di prigionieri riescono a conoscere Gesù Cristo: «Il mio Padre Celeste ha voluto che lo seguissi portando la mia croce – racconta Li – Con difficoltà ho intrapreso un cammino che mi ha privato di tutti i beni materiali, lasciandomi povero. Ma sono stato scelto a gloria del Signore e questo non può essere sostituito da alcuna ricchezza».

 

La conversione di Tomasz, invece, emerge dal mondo delle filosofie orientali e dell’esoterismo. Nato in una famiglia cattolica, Tomasz vive la sua adolescenza in una Polonia appena uscita dalla cortina del comunismo. Sin da giovane si appassiona alle arti marziali e trova un istruttore che lo allena all’interno di una fattoria. Il maestro lo introdurrà presto alla conoscenza (ed alla pratica) delle teorie taoiste. Tomasz lascia così la frequentazione parrocchiale e si dedica anima e corpo allo sviluppo e al controllo dell’energia. Col passare del tempo, i progressi maturati lo portano a conoscere e frequentare un guaritore, capo di una setta di cui entrerà a far parte. Grazie all’aiuto di alcuni amici riesce ad uscirne, ma ciò non lo distoglie dal retaggio di tutte le dottrine assimilate nel corso degli anni. Dopo una relazione con una donna sposata, Tomasz conosce la ragazza che diventerà sua moglie.

Ritorna in Chiesa, si confessa, ma la strada della conversione è ancora lontana. Si dedica al buddismo ed alla pratica delle OoBE (“esperienze fuori dal corpo”, dall’Inglese “out of body esperience”; nda). I continui inviti della moglie persuadono Tomasz ad accompagnarla in un convento dove insieme seguiranno un ritiro spirituale. E in quel convento egli vivrà un’esperienza che lo metterà definitivamente alle corde. «Sono arrivato di notteracconta Tomaszsono andato a dormire ed ho sentito che qualcosa mi stava attaccando, come per strapparmi fuori dal corpo. Preso dal terrore, ho intrapreso una dura lotta contro quella forza, fino a che mi sono liberato, riuscendo a sedermi sul letto. Mi sono subito reso conto che, nonostante fossi seduto, il mio corpo se ne stava disteso dietro di me. Ho aperto subito gli occhi, ma ogni volta che provavo a chiuderli, qualcosa cominciava a farmi a pezzi. E finalmente lo vidi. Un lupo saltò fuori da sotto il letto, mi si avventò contro per divorarmi. In quel momento, per la prima volta, ho implorato l’aiuto di Gesù Cristo. E’ stato come se una forza invisibile mi avesse veramente protetto. Sono certo che in quel momento il Signore mi ha salvato la vita. Mi ha toccato e mi ha liberato da tutto il dolore che ho causato negli anni. Oggi mi rendo che senza Gesù non posso fare niente».

 

Dalle fauci del nazismo giunge la testimonianza del figlio di Martin Bormann, il braccio destro di Hitler. Con lo stesso nome del padre, il giovane Bormann viene educato nel totale disprezzo della religione cattolica e nel culto del Führer. Frequenta prestigiose scuole in Baviera fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando, insieme alla madre ed ai suoi nove fratelli,  sarà costretto a fuggire. Come ricorda Martin, una modesta famiglia di Salisburgo lo accoglie come un figlio, garantendogli cure e protezione. L’amore gratuito di quella gente, lo spinge a rivalutare le sue opinioni sulla Chiesa. Insieme alla sua famiglia adottiva, Martin va in pellegrinaggio al santuario della vergine di Kirchental. Da lì inizierà un cammino di conversione che lo porterà, dal ricevere il battesimo nel 1947 al prendere i voti sacerdotali e partire come missionario in Africa. Nel 1969 chiede la dispensa, si sposa, e prende la cattedra di teologia presso una università della Germania. Nel corso della sua vita (Bormann è morto all’inizio di quest’anno) ha incontrato molti sopravvissuti alla Shoah esprimendo il suo rifiuto delle teorie di razza ed il rammarico per le atroci sofferenze patite dal popolo ebraico.

 

Molto edificanti, infine, le esperienze di due Italiani: Liborio Coaccioli è avvocato dello Stato e fascinoso viveur, racconta di aver incontrato Dio: «Nel 2004, per una scommessa, accettata da buon pokerista. Perché deve sapere che io frequentavo regolarmente i casinò di Venezia, Sanremo, Saint-Vincent, Campione d’Italia, Montecarlo, Cannes, ed ero anche piuttosto fortunato: l’unica volta che tra chemin-de-fer e roulette ho lasciato sul tavolo verde una milionata, parlo in lire, me la sono subito ripresa con gli interessi». La scommessa che lo portò a Medjugorje la perse contro una fisioterapista, sicura che nel piccolo villaggio bosniaco la Vergine apparisse veramente. Allo scetticismo dell’avvocato, la fisioterapista rispose con le stesse parole di Filippo a Natanaèle: “Vieni e vedi”. «Era giugno – racconta Coaccioli – A ottobre andai, e la mia vita non fu più la stessa». Da quell’ottobre del 2004, dunque, Liborio Coaccioli intraprende un cammino di riscoperta della fede cristiana che lo porterà, tra le altre cose, a scrivere due libri (“Le geometrie di Dio”, edito per Thyrus e “I misteri del rosario” pubblicato da Verdechiaro Edizioni) sulla sua conversione e sulle molte domande della dottrina cattolica.

 

Luca Maffi è invece un rapper che a quattordici anni intraprende la via dello spettacolo. Racconta in una sua intervista per Zenit: «Comincio a fare recitazione, a lavorare nei locali notturni come deejay, come presentatore in radio e tv locali. Insomma, tutto ciò che mi poteva far sentire qualcuno andava bene per nascondere il Luca reale». Ma chi era il “Luca reale”? Un ragazzo vittima del divorzio dei genitori e di alcuni abusi sessuali: un altro dei tanti innocenti strappati da una vita normale e lasciati feriti ai margini dell’esistenza. Come racconta nell’intervista, non c’era spazio per Dio nella sua vita, fino al 2008. Durante un periodo di fallimenti lavorativi e solitudine entra, infatti, in una profonda crisi esistenziale che lo porta a rivalutare tutto. Nel mese di dicembre dello stesso anno, quasi mosso da una voce inconscia, raggiunge il Villaggio Paolo VI, una casa di spiritualità nel bresciano; lì accadrà qualcosa che segnerà tutta la sua vita: «Il 27 dicembre, alle otto di sera, entro nella cappella e faccio una cosa poco ortodossa. Apro il tabernacolo, guardo negli occhi l’eucarestia e Gli dico: “Ti do un mese di tempo per farmi capire ciò che vuoi dalla mia vita alla fine dell’anno”. Lui si è fatto aspettare fino all’ultimo, perché in quel mese ne sono successe davvero di tutti i colori: lo sconforto, il non riuscire in nulla, neppure a livello lavorativo, nei rapporti con le persone. È stato proprio un mese difficile e continuavo a dire dentro di me: “Ma arriverai? Ti ho dato tempo un mese, perché non ti fai sentire?”». Sta di fatto che proprio allo scadere del mese “pattuito” con Gesù, ad un incontro di preghiera Luca incontra la ragazza che un giorno diventerà sua moglie: «Penso che Gesù, più chiaro di così su cosa volesse dalla mia vita, non poteva essere. Mi ha parlato molto chiaramente».

L’esistenza di Luca cambia profondamente, ma la conversione non soffoca la sua più grande passione, la musica. Così, nel 2010, dà vita ad un progetto di musica hip hop che possa rendere un servizio di evangelizzazione: nasce “RapGesùCristico” sulla falsa riga del famoso “Rap Futuristico” di Fabri Fibra. Dopo la conversione ha trovato anche il coraggio di perdonare l’uomo che abusò di lui in gioventù.

Filippo Chelli

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Odifreddi incompetente: «le camere a gas? Un’opinione»

Odifreddi e le camere a gas. Il noto matematico lancia una delle sue “odifreddure” e viene accusato di antisemitismo, lo stesso manifestato qualche tempo fa nei confronti del matematico Giorgio Israel.

 

Torniamo ancora una volta ad occuparci di Piergiorgio Odifreddi in quanto, nomen omen, è un vulcano di odifreddure. In questi giorni la città di Roma sta commemorando il 70/o anniversario della deportazione degli ebrei e il matematico pensionato ha pensato di intervenire dubitando dell’esistenza storica delle camere a gas.

Ancora una volta è stato accusato di essere succube del suo odio verso ebrei e cristiani, non sapendo valutare la misura delle sue opinioni e tanto meno l’opportunità. «Il processo di Norimberga è stato un’opera di propaganda», ha scritto nel suo blog il matematico incontinente. «Non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato nel dopoguerra. E non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che “uniformarmi” all’opinione comune. Ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti».

Odifreddi ripete a pappagallo le tesi dubitative e scettiche sostenute dai gruppetti di negazionisti e neonazisti, cioè l’idea del mito della Shoah come un falso storico o come una manipolazione ex post. Ad esempio il nazista ed ex capitano delle SS, Erich Priebke, ha una posizione simile a quella di Odifreddi: «nei campi di concentramento non c’erano le camere a gas. Già durante la guerra gli alleati hanno cominciato a fabbricare false prove sui crimini nazisti». Il matematico italiano non nega apertamente come Priebke, ma è fortemente scettico. Il suo grande problema è sempre lo stesso: l’incompetenza su quasi tutto ciò di cui vuole occuparsi, storia compresa. Lo ha evidenziato anche lo storico laico Gian Enrico Rusconi: «Non è difficile controbattere le ingenuità intellettuali del matematico Odifreddi, magari simpatico nel suo sfottente ateismo, ma poco consistente sul piano filosofico e storico».

Esattamente come quando nega l’esistenza storica di Gesù Cristo, Odifreddi non sa di cosa parla nemmeno sulla Shoah. «Io faccio un discorso generale, di metodo; la maggior parte delle persone si forma un’idea, anche sulle camere a gas, su romanzi e film hollywoodiani, ma così nascono dei miti». Eppure basterebbe leggere Primo Levi o Grossman, i diari degli stessi carnefici o le migliaia di testimonianze (per esempio Amery, o Shlomo Venezia). Niente, i sei milioni di ebrei uccisi nei campi di concentramento sono un mito per lui. Sarebbe sufficiente anche aprire un libro di storia, a meno che non siano tutti reclutati dalla fantomatica “propaganda”. Il vaticanista del “Corriere della Sera”, Gian Guido Vecchi, ha commentato ironico: «Odifreddi mostra sulla Shoah la stessa competenza e il medesimo rigore morale che applica alla Chiesa. Una prece».

Perfino il suo compagno di guerra contro i credenti, Corrado Augias, è riuscito ad informarsi decentemente questa volta, mandandogli un sms: «La battuta sulle camere a gas te la potevi risparmiare. epater le bougeois va bene, ma la decenza ha un limite». Gianni Vernetti ha lamentano «la folle dichiarazione antisemita e negazionista» e qualcuno comincia a domandarsi: «questo commento è o non è reato per la legge contro il negazionismo?». Ma impedire le opinioni per legge non serve, come ha spiegato giustamente Luca Telese. Il quotidiano “Libero” scrive: «Odifreddi strizza l’occhio ai folli neonazisti che ancora bazzicano qua e là alcune piazze europee, ma nessuno, questa volta, alzerà il dito».

Non è la prima volta che Odifreddi prende di mira gli ebrei, oltre che i “cristiani-cretini”. Un anno fa “Repubblica” aveva  dovuto cancellare un suo post in cui accusava Israele di comportarsi in stile nazista. Nel 2009 volle invece restituire per protesta il Premio Peano, vinto da lui nel 2002, dopo che lo stesso era stato assegnato anche al matematico ebreo Giorgio Israel. Nel 2010 è tornato ad insultarlo scrivendo: «Giorgio Israel è un virulento, un intellettuale di nicchia, una testa calda. In più esercita il vittimismo dell’ebreo».

La redazione

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