Le nozze gay non migliorano l’omofobia, anzi….

MondoSecondo i presidenti di Camera e Senato, Piero Grasso e Laura Boldrini, «il «dilagare della discriminazione sessuale o legata all’identità di genere è inversamente proporzionale al livello di tutela giuridica riconosciuto alle coppie omosessuali». Ovvero la legalizzazione delle nozze gay diminuirebbe i casi di discriminazione.

E’ una delle tante bufale inventate. Come già abbiamo fatto notare, una recente ricerca effettuata a livello internazionale dal Pew Research Center ha collocato l’Italia tra i Paesi del globo aventi i maggiori tassi di accettazione dell’omosessualità. E in Italia, fortunatamente, le nozze gay non sono legittimate.

Il fenomeno non è solo italiano. Sotto l’Italia stanno gli Stati Uniti, dove 13 stati riconoscono il matrimonio omosessuale. Curioso il caso della Francia: proprio nel 2013 sono state imposte le nozze gay e proprio nel 2013 l’accettabilità dell’omosessualità è calata di ben 6 punti. Ben sopra a Francia e Argentina, entrambi Paesi in cui gli omosessuali si possono sposare, si trova la Repubblica Ceca che non riconosce tali nozze (ma solo le unioni civili).

Un buon punteggio nella non discriminazione omosessuale lo ha raggiunto il poco secolarizzato Cile, ben superiore agli USA e al Messico, dove nella capitale sono ammesse le nozze gay. In Israele il matrimonio gay viene riconosciuto se legalizzato all’estero, eppure l’accettabilità degli omosessuali è molto bassa. In South Korea, senza che vi sia stata una legge pro-nozze gay, è cresciuta in tre anni come accettazione dell’omosessualità di ben 21 punti.

Insomma la legalizzazione del matrimonio omosessuale non solo non è correlata alla diminuzione dell’omofobia, ma in diversi casi sembra aumentare la discriminazione verso gli omosessuali.

La redazione

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La coscienza non è il prodotto del cervello

I volti della coscienza 
 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
da Il Foglio, 10/10/13
 

Esce in questi giorni per Cantagalli, I Volti della coscienza di Massimo Gandolfini, primario neurochirurgo e vice presidente nazionale di Scienza e Vita. Un testo scientifico, e nello stesso tempo divulgativo, in cui il problema dei rapporti mente-cervello viene analizzato alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, tenendo presente un dibattito filosofico e teologico secolare.

La tesi del libro, veramente opportuno in tempi in cui sulle neuroscienze si scrive di tutto, è che “il cervello è organo necessario ma non sufficiente per spiegare la coscienza”. A questa conclusione, di buon senso, in perfetto accordo con secoli di pensiero filosofico sull’uomo e la sua natura anfibia, si perviene dopo vari capitoli “tecnici” dedicati allo “stato vegetativo”, allo “stato di minima coscienza”, a “neuroimaging e stato vegetativo”, a “neuroimaging e attività cerebrale”… Alla fine del percorso scientifico, in un capitolo intitolato “Coscienza e cervello”, Gandolfini conclude: “un rigido meccanicismo che sostenga apoditticamente che la coscienza è il ‘prodotto’ del cervello induce all’errore di confondere ‘causa strumentale’ (o ‘mezzo’) e ‘causa formale’ (o ‘causa vera’), secondo l’insegnamento classico di Socrate a Cebete…”.

Leggendo queste pagine viene alla mente la concezione di coscienza portata avanti da buona parte della cultura riduzionista contemporanea, e, a livello divulgativo, dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari. Per Scalfari, molti lo ricorderanno, l’uomo non differisce, secondo una sua celebre affermazione, dalla mosca, in quanto come lei destinato solo alla morte e determinato nella sua esistenza da un rigido meccanicismo. Privo, in altre parole, di anima immortale. Nel suo “L’uomo che non credeva in Dio”, una sorta di testamento spirituale del 2008, il maestro del pensiero ateo contemporaneo, definiva gli uomini “universi di cellule, di flussi sanguigni, di inconsce passioni”, e di fronte alla grande domanda sul pensiero e la coscienza, in un paragrafo intitolato “La gabbia dell’io”, affermava: “Insomma, l’io non esiste. E’ una superstizione. Oppure una caricatura. Una maschera… Un computer depositario di una memoria. Una gabbia. Un capriccioso dittatore. Oppure un prigioniero?”.

Niente di nuovo, dunque, ma la riesposizione di dottrine orientali e gnostiche esistenti da secoli, che a Scalfari piace talora mescolare con riduzionismi materialisti di stampo pseudoscientifico. Di qui un articolo del luglio 2013, sull’Espresso, proprio sulla coscienza, nel quale viene presentata la tesi di un romanziere, Ian McEwan, secondo il quale il cervello altro non sarebbe che un pianoforte, cioè un insieme materiale di tasti, viti e martelletti, e la mente altro non sarebbe che la musica, impalpabile come il pensiero, prodotta, in toto, da questo pianoforte. Chiosa Scalfari: “La sorpresa sconvolgente di McEwan sull’origine materialistica della coscienza non è una novità: gli scienziati che studiano il cervello ci sono arrivati da tempo…”. Il lettore è avvertito: l’idea di coscienza di Scalfari e quella del romanziere sono la verità, nulla di meno. Peccato che le cose non stiano così, come dimostra il già citato studio di Gandolfini, che non è né un giornalista, né un romanziere, ma uno dei tanti neuroscienziati che hanno ben chiaro come sia impossibile ridurre il pensiero e la coscienza alla materia, la cattedrale ai sassi che la compongono, una musica ai martelletti di un pianoforte…

Proprio l’esempio scelto da Scalfari, infatti, dice dell’irrazionalità di simile posizione: un pianoforte, senza un’ intelligenza, senza una causa vera, il musicista, che se ne serva come di una causa seconda, come di un mezzo, non produce alcuna musica, alcuna armonia. Il pianoforte non è, di per sé, dunque, “origine” di nulla. Sostenere il contrario significa semplicemente fare un atto di fede, senza fondamenti né scientifici né logici, nella capacità della materia, in questo caso il pianoforte, di superare se stessa (nella possibilità della materia, per quanto riguarda l’uomo, di conoscere se stessa). Viene in mente, in proposito, quanto scrive un altro riduzionista come Edoardo Boncinelli, nel suo “Le forme della vita” (2006). Egli afferma che coscienza di sé e linguaggio umani sono “facoltà che ci appaiono quasi spuntate dal nulla”, sostanzialmente irriducibili al metodo scientifico, per poi catalogarle, con evidente illogicità e forzatura, tra gli “eventi accidentali”, gli “incidenti congelati” (espressioni senza significato alcuno).

E’ chiaro dunque quanto sia arduo intendersi tra riduzionisti atei ed eredi del pensiero greco-cristiano, sulla parola “coscienza”: per gli uni la coscienza è frutto del caso, “incidente congelato”, prigione, escrescenza della materia (dunque, come scriveva Benedetto XVI, essa diviene “l’istanza che ci dispensa dalla verità”, il “guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà”, la “giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione”…); per gli altri, al contrario, la coscienza è, secondo il catechismo, “il nucleo più segreto ed il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”, per fare i conti con la sua origine e il suo fine.

Presentando il suo libro il prof Gandolfini ha spiegato: “La coscienza va letta come un “pattern relazionale”, cioè come atto che scaturisce dalla relazione fra più componenti: geni e reti neurali, ma anche ambiente di vita, esperienze e “biografia” del soggetto. Dall’interazione di queste forze, attraverso meccanismi non rigidamente determinabili, scaturisce la “coscienza” , che è tutt’altro rispetto alle stesse forze che l’hanno determinata, non essendo riducibile a nessuna di esse. E tutto ciò non costituisce per nulla un atteggiamento fideistico-antiscientifico, se solo pensiamo che perfino la matematica (scienza esatta per eccellenza, costruita dalle nostre stesse mani) implica principi di “indeterminazione” (Heisenberg) e di “incompletezza dei sistemi” (teorema di Godel), per i quali esistono enunciati perfettamente compatibili con gli assiomi di partenza, ma assolutamente indimostrabili con gli stessi strumenti prescelti. Se così è di qualcosa di inerte, come non porsi almeno il dubbio che ancor di più vale per una materia vivente, continuamente rimodellabile e modificabile. In una battuta, va ribaltata la prospettiva: non è il cervello a dirci che cosa è la coscienza, ma è la coscienza a dirci che cosa è il cervello.

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Eutanasia, un piano sempre più inclinato

Stunning 4,620% increase in Belgian euthanasia cases in ten years since legalisationNathan era nata donna. E tale era rimasta, perlomeno fino a prima del 2009 quando incominciò la terapia ormonale. Primo passo di un lungo percorso che l’avrebbe portata a cambiare completamente i propri connotati e a passare da Nancy, ad appunto, Nathan. Ma alla fine del viaggio, il nuovo Nathan Verhelst non era soddisfatto del risultato.

Ancora “prigioniero” di un corpo di donna, era “disgustato di sé stesso”, un “mostro”. E fu così, che non diversamente da altri, chiese ed ottenne la ‘dolce morte’. In Belgio infatti, il mortifero trattamento viene svenduto anche solo per delle vaghe “sofferenze psichiche”. Cosa che sicuramente aiuta a spiegare l’impennata di morte on demand. Seppur quello di Nathan sia il primo caso di eutanasia in seguito ad un operazione per il cambio del sesso, riflette un trend comune tra i paesi che hanno adottato una legislazione analoga.

Nel 2002 infatti, il Belgio fu il secondo paese al mondo a legalizzare l’eutanasia e da allora, come riporta una ricerca pubblicata dalla Vrije Universiteit Brussel, i casi riportati sono constantemente «aumentati di anno in anno» coinvolgendo particolarmente i «pazienti più giovani», i malati di cancro e talvolta anche pazienti «non-terminali». Ad aggravare la situazione, già di per sé giudicata fuori controllo in più occasioni, sarebbe la mole di casi non riportati, come emergerebbe da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica BMJ. Tra questi rientrerebbe «un caso su due», che farebbe decisamente fluttuare l’incremento dei ricorsi documentati alla ‘dolce morte’, ufficialmente stimato ‘solo’ al 25%. Analoga la situazione in Olanda, primo paese al mondo ad aver legalizzato l’eutanasia, come fa notare il DailyMail, «dai tempi della Germania nazista» e che solo nel 2012 ha visto un incremento del 13%. Non diversamente dal caso belga, come evidenzia una pubblicazione della VU University Amsterdam, il 23% dei ricorsi a tale ‘trattamento’ non sarebbero riportati. Dato che sembrerebbe quasi confortante, senonché, confrontando le statistiche emergerebbe che, in termini assoluti, l’Olanda «uccide due volte tanto il Belgio».

La Svizzera, dal canto suo, non fa eccezione alcuna. Sebbene dotata di un infrastruttura legale diversa da quella belga e che permette soltanto il suicidio assistito, nel periodo tra il 1998 e il 2011 si è rilevato un incremento del 700%. A rendere i dati ancora più preoccupanti è il fatto che tale percentuale non considera i ricorsi alla morte indotta derivanti dal cosiddetto ‘turismo della morte’, attraverso le tristemente celebri cliniche Dignitas. Nello stesso periodo, nello stato dell’Oregon, si registrava un trend non dissimile, con un aumento dei suicidi assistiti del 450%.

E mentre policy simili danno vita a risultati simili, con un incremento generale della ricorso alla morte autodeterminata che avanza in progressione geometrica, la stessa tendenza risulta anche per gli abusi. Un paper del professor José Pereira, a capo della Division of Palliative Care all’università di Ottawa, mette in luce l’entità del fenomeno. In Olanda, ad un paziente su cinque, la soluzione letale viene somministrata senza che questi abbia dato il suo esplicito consenso. In Belgio, questo accade tre volte più frequentemente. A proposito, il 17% dei dottori belgi ha dichiarato d’aver proceduto senza autorizzazione perché «chiaramente nel miglior interesse del paziente». Se non è ben chiaro come il trapasso di qualcuno possa essere nel suo “miglior interesse”, appare evidente che dal diritto, si sta passando senza troppi indugi, al dovere di morire.

Nicola Z.

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Chi colma il cuore della donna

Costanza MirianoQui sotto il testo preparato da Costanza Miriano per il Seminario dei 25 anni dell’enciclica Mulieris Dignitatem, organizzato dal Pontificio Consiglio per i laici.

 

di Costanza Miriano*
*scrittrice e giornalista

 
da Il blog di Costanza Miriano
 

Quando lessi la prima volta la Mulieris Dignitatem credo proprio che non ne capii praticamente nulla, nella sostanza: avevo diciassette anni, e idee tutte strampalate su come dovessero essere maschi e femmine, sul matrimonio, su una malintesa parità tra i sessi. Mi sembravano belle parole, ma destinate a rimanere su carta.

Dieci anni dopo l’enciclica mi sono sposata, e i successivi quindici li ho passati praticamente a cercare di comprenderla. Piano piano, con il tempo, le parole del Santo Padre si stanno traducendo in carne, si sono incarnate nella storia della nostra coppia, hanno dato un nome a ciò che vivevo e anche in parte soffrivo. Credo che in amore si soffra quando si dimentica che “C’è un paradosso nell’esperienza dell’amore: due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare”. (R.M. Rilke) “Solo nell’orizzonte di un amore più grande è possibile non consumarsi nella pretesa reciproca e non rassegnarsi, ma camminare insieme verso un Destino di cui l’altro è segno”. (C.S. Lewis)

Uomo e donna sono due povertà che si incontrano e si donano. Quella che Lewis chiama pretesa reciproca è destinata a rimanere delusa a causa del nostro peccato, e a causa delle differenze tra l’uomo e la donna. Avere un’identità adulta a mio parere significa proprio accogliere questa verità: cioè che l’altro non potrà mai colmare tutte le attese, anche involontarie, o le pretese che noi riversiamo sulla persona che ci è a fianco. Avere un orizzonte più grande significa invece che le piccole mancanze e delusioni reciproche le possiamo vivere non come crepacci nei quali cercare di non cadere, né tanto meno come rivendicazioni, ma come “giogo soave”, un peso leggero che serve alla propria conversione, che è poi il fine della vita qui sulla terra.

Ogni attesa disattesa – perché l’amore non è quell’unione simbiotica spontanea, gratuita, facile, che prende il nome di amore, almeno nella cultura occidentale dal romanticismo in poi – ogni attesa disattesa, dicevo, dunque non è che lo scartavetramento della vita sul nostro ego, su quella parte di noi che è ferita dal peccato originale e che quindi non funziona, non ci permette di entrare in un rapporto vero e personale con Dio. Ogni uomo e ogni donna sono chiamati a essere sposi prima di tutto del Signore, sia che siano consacrati, e allora è direttamente lui lo sposo, sia che siano invece sposati, e quindi l’altro diventa la via privilegiata per amare e ricevere amore da Dio, che rimane sempre però il nostro sposo. Quello che guarisce i rapporti è ricordare che se il fine oggettivo del matrimonio è quello di generare figli, quello soggettivo è generare se stessi, quindi, poiché esattamente come per le persone consacrate, è il rapporto con Dio che ci definisce, lo sposo è la via per realizzare questa unione con Dio. Amando lo sposo, la sposa, si ama Dio, e questo ci permette innanzitutto di uscire dalla logica “del ragioniere” che sembra prevalere in tante coppie. E poi, ad un livello molto più profondo, l’uomo maschio e  femmina è a immagine di Dio, quindi necessariamente il rapporto con l’altro ci dice qualcosa di decisivo su noi stessi.

L’altro dunque, così diverso, che così spesso ci fa arrabbiare, venire i nervi, ci delude, ci ferisce, non è sbagliato, ma è semplicemente il “segnaposto del totalmente Altro”, come lo definisce il cardinal Angelo Scola, e ci costringe a una domanda sul senso, ci costringe alla conversione. Ci porta a una forma di amore preterintenzionale direi, che parte cioè dalla rinuncia a tutto o a molto di quanto si era atteso o proiettato sull’altro. Si abbraccia quasi la morte dell’amore come lo si era immaginato, e si accetta di perdere. Si ama non più con lo slancio dell’emozione ma con l’amore di un monaco che scolpisce una minuscola scultura sotto la volta di una cattedrale, qualcosa di piccolo e prezioso che non vedrà quasi nessuno, solo coloro che avranno la pazienza di alzare lo sguardo. Preparare un pasto o accogliere le critiche, accettare cambi di programma, silenzi quando si vorrebbe parlare e parole quando si vorrebbe dormire, allegria quando si vorrebbe piangere e riposo quando si vorrebbe proporre. Nella fedeltà al matrimonio partecipiamo dunque anche noi come parte della Chiesa a un’opera che ci trascende, il regno dei cieli, anche se a noi è stata affidata solo quella piccola scultura là in alto, che nessuno guarderà.

Quando manca questa dimensione c’è un amore solo emotivo e si soffre. E sono soprattutto le donne, per la mia esperienza e per quella di coloro con cui sono entrata in contatto dopo aver scritto i miei libri, in scambi anche profondi, a soffrire. Soffrono perché hanno perso il contatto con la loro identità profonda. Gli ultimi decenni per la donna sono stati davvero di grande cambiamento, e non è il tema del mio intervento quindi non mi attardo su questo. Mi limito solo a dire che se la donna ritrova il suo posto tutto si rimette in ordine. La donna soffre perché in lei c’è quella nostalgia del primo sguardo che si è posato su di lei. L’eccomi dell’uomo che risponde all’eccomi di Dio è essenzialmente femminino. Più interiorizzata – scrive Pavel Evdokimov ne La donna e la salvezza del mondo – più vicina alla radice, la donna si sente a proprio agio nei limiti del proprio essere e con la sua presenza riempie il mondo dall’interno. La donna possiede una complicità con il tempo, perché sa che il tempo è gestazione, è attesa per qualcosa, per qualcuno. È predisposta al dono di sé, e infatti si realizza quando può donarsi, che sia a dei figli di carne o no. Ha nostalgia dello sguardo che si è posato su di lei al momento della creazione, infatti desidera intimamente che qualcuno le dica che è bella, mentre l’uomo desidera sentirsi capace di portare a termine progetti, di risolvere problemi, di proiettarsi fuori di sé.

Per mezzo della donna l’umanità è invitata a trovare la sua vocazione sponsale con il Signore. È sempre una vocazione in cui la Sposa risponde con il suo amore a quello dello Sposo, dice la Mulieris Dignitatem, lo sposo con la S maiuscola, il Signore. Per questo, scrive il catechismo della Chiesa cattolica, la dimensione mariana, la vocazione prima di tutto sponsale dell’umanità, precede quella petrina. San Paolo nella lettera agli Efesini parla del matrimonio tra un uomo e una donna come di un mistero grande. Accostarsi al mistero del maschile e del femminile ci introduce al mistero di Dio, che ci ha creati maschio e femmina, a sua immagine. La tensione tra maschile e femminile rimanda alla tensione amorosa fra le tre persone della Trinità, solo che noi uomini siamo feriti dal peccato originale. In Efesini 5 sono individuati i punti cruciali, i nodi di peccato dell’uomo e della donna. La donna è invitata a essere sottomessa allo sposo, l’uomo a dare la vita per la sposa, in modo che replichino nel matrimonio la dinamica tra Cristo e la Chiesa, quindi senza dominio o sopraffazione, ma in un dono reciproco.

La donna è invitata a essere sottomessa perché al contrario la sua costante tentazione è quella del controllo, di cercare di plasmare, di formattare coloro che le sono affidati. I figli ma anche lo sposo, spesso. In realtà queste sono qualità di cui l’ha dotata la Provvidenza perché la donna è chiamata a formare, a educare, come diceva anche Benedetto XVI: la donna conserva la consapevolezza che il meglio della sua vocazione è nell’aiutare la vita nel suo formarsi. Che sia sposa o che sia nubile la donna è chiamata a preservare e a fecondare la vita, a orientarla verso la luce. È chiamata a essere promemoria per l’umanità tutta. Come dice ancora Evdokimov c’è una particolare connivenza tra la donna, essere naturalmente religioso, messa di fronte ai misteri più gravi della vita, e lo Spirito datore di vita e consolatore. Lotta per l’uomo, per la sua salvezza. In questa vocazione lavora come sempre il peccato, e così la capacità di orientare al bene rischia continuamente di trasformarsi in tentazione di volere che le cose nel mondo vadano come vogliamo noi. Prendiamo un uomo che mediamente ci può andare, e lo vogliamo migliorare, così rischiamo di non permettere all’altro di essere. Finiamo per correggere, riprendere, per non lasciar emergere gli altri con le loro vere qualità.

La donna invece  è chiamata proprio a questo, a fare da specchio all’uomo, a rimandargli un’immagine positiva di sé, a mettere il lievito dell’amore nel rapporto. Serve una donna che sappia fare spazio, che non abbia paura di perdere posizioni, che parta da un pregiudizio positivo sull’uomo, che prenda l’impegno di fidarsi di lui e del suo sguardo sul mondo, lealmente decisa a  riconoscere di non essere l’unica depositaria del bene e del male – Eva! –   non perché debole ma proprio perché solida, resistente, accogliente. Questo atteggiamento, quando è onesto, limpido, non manipolatorio è un lievito potentissimo perché l’uomo non resiste a una sposa che gli sta lealmente accanto, sottomessa nel senso che rinuncia a imporre sempre il suo punto di vista e comincia a fidarsi, a valorizzare ciò che vede di bello nell’uomo. E così l’uomo comincia a sentire il desiderio di dare la vita come Cristo per la Chiesa. Non una semplice cooperazione di sforzi, ma la creazione di una realtà assolutamente nuova del maschile e del femminile che vanno a formare il corpo del sacerdozio regale. Gloria dell’uomo, come dice san Paolo, la donna è come uno specchio che riflette il volto dell’uomo, glielo rivela e così lo corregge. E così l’uomo si sente spinto a uscire fuori e dominare la terra, e a farlo non per sé ma per coloro che gli sono affidati, per i quali diventa pronto a prendere su di se i colpi della vita.

Il nodo di peccato dell’uomo, infatti, quello per cui san Paolo lo invita a essere pronto a morire per la sposa, è l’egoismo. Il desiderio di tenere qualcosa per sé. Di coinvolgersi ma risparmiando qualcosa, di mettere da parte, di rifugiarsi ogni tanto nel suo spazio privato, senza interferenze. Per l’uomo è faticoso tenere lo sguardo sempre rivolto alla donna, al rapporto, alla casa. L’uomo infatti ha una diversa accentuazione esistenziale: va al di là del proprio essere, ha un carisma di espansione, aspira alla crescita di tutte le sue energie che lo prolungano del mondo, ha un diverso rapporto con il potere. Sto facendo, è appena il caso di puntualizzarlo, un discorso non sociologico, ma spirituale: non sto dicendo che sia solo l’uomo chiamato a uscire fuori di casa e a dare il suo contributo per migliorare il mondo. Non stiamo parlando del mondo del lavoro né del potere. Non è un discorso su chi abbia più o meno dignità, è ovvio che siamo su un altro piano, e che diamo per assodato che l’unica dignità che conti nella Chiesa non può essere altro che l’acquisizione dello Spirito, e in questo la donna è privilegiata.

Sul piano dunque spirituale l’uomo esce la donna accoglie, l’uomo si tende verso l’esterno la donna verso l’interno, l’uomo è il muro, il senso della realtà, la donna l’accoglienza, e questo lo si vede sul piano educativo, nel rapporto con i figli, la donna ha il genio della relazione, tesse trame, spesso l’uomo è più bravo nel potare i rami secchi. Per concludere vorrei ricordare quello che Karol Wojtyla, da vescovo, diceva alle coppie di fidanzati: non dire “ti amo” ma “partecipo con te dell’amore di Dio”. Questo, credo, sia avere un’identità davvero matura

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Emergere dall’ateismo di stato usando la ragione (video)

Yu e FilonenkoLa recente edizione del “Meeting” di Rimini, organizzato dal movimento ecclesiale di “Comunione e Liberazione” ha ascoltato la testimonianza di conversione di due intellettuali nati sotto l’ateismo di stato.

 

Il primo è Tianyue Wu, docente di filosofia alla Peking University: «Vengo da una famiglia di tradizione cattolica ma è stato difficile per me abbracciare la religione», ha raccontato. «A scuola ci insegnavano che le religioni sono solo superstizioni, dei mostri che appartengono a un passato morto e sepolto. La società cinese è completamente secolarizzata, vige il motto del “Carpe diem” e i cinesi, complice l’enorme crescita economica unita all’impoverimento spirituale, hanno ormai assunto un atteggiamento cinico e utilitaristico». Eppure, afferma, «dopo tanti anni di educazione atea la gente sente ancora il bisogno di conoscere qualcosa che vada oltre la vita terrena».

La Cina è un paese dove già i primi missionari faticarono «a introdurre l’idea di un Dio trascendente tra gente convinta che esista solo la vita sulla terra e niente di più», inoltre il «governo comunista ha peggiorato la situazione, assumendo l’ateismo come parte essenziale della sua ideologia, cacciando i missionari, chiudendo chiese e obbligando i preti rimasti a non esercitare la loro funzione». Anche dopo la morte di Mao e la riapertura delle chiese, «il clima in Cina è rimasto ostile alla religione. Questo rappresenta da una parte una difficoltà, dall’altra un vantaggio per un credente: si è costretti a interrogarsi sulle ragioni della propria fede e a prendere una profonda coscienza di sé».

«In una società secolarizzata come la Cina, credo che la ragione e il pensiero razionale di San Tommaso, Sant’Agostino e Aristotele rappresentino il modo migliore per accostarsi alla fede», per questo ha iniziato a tenere corsi su di loro anche se con pochissimo successo. Ma «se avessi mollato, trattando argomenti più alla moda, non avrei dato la possibilità ai miei studenti di scoprire quanto fede e ragione siano unite. E oggi sono tanti a frequentare i miei corsi». «Sono convinto», ha confessato, «che mostrando la razionalità della fede, anche attraverso la lettura della Summa teologica di san Tommaso, getto un seme nel cuore dei miei studenti che li aiuterà ad affrontare un periodo secolarizzato come il nostro, così carico di sfide».

 

Qui sotto la testimonianza di Tianyue Wu

 
 

Un altro ospite del “Meeting” è stato il russo Aleksandr Filonenko, fisico nucleare per formazione, teologo per passione e filosofo per professione. Anche lui ha fin dal principio rigettato il cristianesimo, ritenuto troppo noioso: «Ci avevano insegnato che la religione era niente più che una forma di compensazione. Se eri malato e debole, avevi bisogno della stampella della religione per camminare, se eri ateo, invece, potevi farne a meno. E io mi sentivo forte».

Qualcosa cambia a 20 anni dopo la lettura della storia di padre Pavel Florenskij, il filosofo, matematico e sacerdote russo condannato a dieci anni di lager: «Leggere come padre Pavel fosse riuscito a mantenere la sua vitalità di studioso e creativo persino nel lager mi ha profondamente colpito. Non ho potuto fare a meno di domandarmi: da dove viene la sua vitalità? E quando ho scoperto che veniva dal rapporto con Cristo, ho pensato: “Se anche lui è un malato, un invalido, allora anch’io voglio stare con gli invalidi e non con gli atei, che sono infinitamente più noiosi”». Ha così cominciato la ricerca di «qualcuno da seguire che mi conducesse a Cristo, perché non sapevo come arrivarci da solo», incontrando per vie misteriose Antonio di Surozh, fondatore della chiesa ortodossa in Inghilterra. «Dopo averlo conosciuto», ha spiegato, «ho colto il cuore del suo messaggio: se vuoi conoscere Cristo, devi essere disponibile ad un incontro, da cui nasce la fede. La fede nasce dalla gioia causata dal riconoscimento che Dio ci chiama per nome».

 

Qui sotto la testimonianza di Aleksandr Filonenko

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Se Papa Francesco converte perfino Vito Mancuso

Vito MancusoIl “teologo” Vito Mancuso è un classico esempio di come i media occidentali abbiano la capacità di creare i personaggi che avranno poi il compito di parlare alle masse.

Ignorato completamente dalla comunità accademica dei teologi, è fortemente criticato dai pochi studiosi che lo conoscono -compreso i docenti che lo hanno formato-, per avere tesi insostenibili e in contraddizione con la disciplina che vuole insegnare: la teologia cattolica. Tuttavia non c’è trasmissione televisiva sulla Chiesa in cui sia assente e le librerie abbondano di suoi libri, questa è la potenza del potere mediatico. Eugenio Scalfari non avrebbe mai accettato un teologo vero come editorialista di “Repubblica”, il successo Mancuso lo deve alla sua inesorabile polemica contro il Magistero della Chiesa e non certo alla qualità di quello che dice.

Nel suo ultimo libro, “Io e Dio, Una guida dei perplessi” (Garzanti 2013), Mancuso usa 450 pagine per mettere da parte Dio e far emergere l’egoismo dell’Io, «come una piovra che invade tutto lo spazio dell’essere», secondo il commento di don Angelo Busetto, già docente di Teologia dogmatica a Padova e alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Mancuso scrive: “Qualcuno ogni tanto mi chiede come mi possa ancora definire cattolico”. Risponde di dichiararsi cattolico e voler rimanere tale “perché sento e so che la Chiesa cattolica è la mia comunità, la mia chiesa”. Eppure, osserva don Busetto, «il suo percorso va in direzione contraria. Pare una ritorsione, come dovesse ad ogni costo “fargliela pagare” a questa Chiesa, di cui parla solo per denunciarne incoerenze teoriche e pratiche, spazzando via non solo Bibbia, Vangeli inclusi, ma autori come Agostino e Tommaso, per non dire di Papi e Concili. Ci sono molte citazioni di filosofi e scienziati di tutti i tempi, ma su tutti domina Kant. Non è Kant a descrivere una religione “nei limiti della ragione”? Non è Kant a costringere la religione nei limiti di una morale che sorge dall’uomo? ».

Ancora una volta, «si individuano strati di new age, venati di panteismo; quasi una nuova gnosi contrapposta alla fede e alla teologia». Mancuso «ha sostituito Dio con il suo proprio io, giudice e centro del mondo». Don Busetto conclude: «Forse un’ultima onestà potrà condurre il nostro autore ad aprire il suo cuore e la sua mente al cuore e alla mente del Dio personale, che gli viene incontro nella figura del Figlio incarnato, Gesù».

Occorre comunque osservare che pochi giorni fa l’auspicio di don Busetto pare essersi avverato: il teologo Vito Mancuso dalle colonne di “Repubblica” ha fatto il suo mestiere replicando a Ian Buruma, un accademico che accusa Papa Francesco di “estremo individualismo” per aver scritto, nella lettera indirizzata al fondatore di “Repubblica” Scalfari, che «per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza». Mancuso ha preso le difese del Pontefice e della teologia cattolica spiegando che nulla ha a che vedere tale posizione con il relativismo o l’individualismo: la posizione del cattolicesimo riprodotta alla perfezione nella lettera del Papa a Scalfari, spiega Mancuso, è «semplice e chiara: 1) esiste un bene comune a tutti gli uomini, universale, oggettivo, che non dipende dalle circostanze o dai sentimenti o dalle emozioni, ma che si sostanzia nella natura delle cose; 2) tale bene consiste in ciò che favorisce la vita e come tale ogni uomo può riconoscerlo mediante la luce della propria coscienza».

Il Catechismo definisce la capacità di conoscere il bene oggettivo mediante la coscienza soggettiva con il termine sinderesi, che viene dal latino synderesis e che riproduce il greco syneidesis, cioè appunto “coscienza”. La sinderesi, continua giustamente Mancuso, «esprime la capacità luminosa di ogni coscienza umana di riconoscere il bene anche a prescindere dal proprio interesse e dalle diverse circostanze storiche e geografiche». Mentre l’individualismo definisce il bene a partire da sé, a suo uso e consumo, papa Francesco invece dice che il bene è oggettivo ma si può riconoscere e praticare solo passando attraverso la coscienza e che per questo “obbedire a essa significa decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male”. Fioccano le citazioni, non di Kant questa volta, ma del cardinale John Henry Newman, del Concilio Vaticano II, del teologo Joseph Ratzinger e del Catechismo.

Il 20 ottobre scorso Mancuso è stato ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa” per presentare il suo ultimo libro. Poco interessante l’intervista al teologo brianzolo che ha ribadito le sue note e scontate opinioni conseguenti alla sua paura verso la modernità: annacquare il cristianesimo per non creare troppo scandalo al mondo. Interessante invece come ha chiuso l’intervista spiegando il senso della fede in Dio: «per me credere in Dio significa che quella passione per il bene e per la giustizia che si muove dentro di me ogni tanto, non è un’illusione, non è semplicemente un portato psicologico, non è un’invenzione mia, non è che ce l’ho perché sono buono ma è l’attestazione di una Realtà più profonda e questa Realtà più profonda che è bene e che è giustizia, dagli uomini tradizionalmente è chiamata Dio». Certo, dalle sue parole non si capisce che senso abbiano avuto l’incarnazione e la resurrezione di Cristo, tuttavia è una posizione matura per un credente. Papa Francesco comincia a scaldare il cuore di tutti, anche dei più lontani.

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Vietare l’aborto aumenta mortalità materna? Gli studi smentiscono

Gravidanza Il direttore dell’Institute for Family Policies di New York, Lola Velarde, ha denunciato presso la sede dell’ONU le falsità del femminismo circa la necessità di legalizzare l’aborto per ridurre la mortalità materna. Sono vecchie bugie, ampiamente smentite oggi dagli studi scientifici.

Nel suo intervento alla conferenza del 19 settembre scorso ha spiegato che «senza garantire il diritto alla vita e alla famiglia, non si possono raggiungere gli obiettivi di sviluppo programmati delle Nazioni Unite». E’ passata dunque a sfatare il mito principale dei sostenitori dell’aborto: la salute materna. Attraverso esso si è voluto gestire i recenti casi di Beatriz in El Salvador e di Savita in Irlanda, fallendo in entrambi. Ha quindi citato il caso dell‘Irlanda, un paese con leggi severe in materia di aborto (applicato solo in caso di oggettivo rischio di morte della madre) e considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come il paese più sicuro al mondo per partorire.

E’ intervenuto anche il dott. Monique V. Chireau, professore all’University Medical Center in North Carolina (USA), spiegando che il basso tasso di mortalità materna in Irlanda dimostra che «il trattamento delle gravidanze ad alto rischio non richiede una falsa scelta tra i bisogni e i diritti della madre e del bambino. In effetti, i dati del Ministero della Sanità britannico mostrano che negli ultimi 20 anni ha non è stato necessario nemmeno un aborto per salvare la vita della madre». Inoltre, il dott. Chireau ha sottolineato che «i medici hanno il dovere di fornire assistenza alla salute considerando gli interessi sia della madre che del neonato».

Non a caso alla conclusione del recente Simposio di Dublino, organizzato dal “Committee for Excellence in Maternal Healthcare” presieduto da Eamon O’Dwyer, professore emerito di ostetricia e ginecologia presso la National University of Ireland (NUI) e presenziato dei principali esperti del settore medico, ginecologi, psicologi e biologi molecolari, ha concluso i lavori sostenendo che «l’aborto diretto – la deliberata distruzione del nascituro – non è mai necessario dal punto di medico per salvare la vita di una donna» e «il divieto di aborto non influisce in alcun modo sulla disponibilità delle migliori cure mediche per le donne in gravidanza».

Il Cile è un altro esempio di legislazione pro-life e di maternità sicura, essendo il secondo paese del continente americano, dopo il Canada, con il tasso di mortalità materna più basso. Sul caso cileno ha parlato il dottor Elard Koch, direttore dell’Institute of Molecular Epidemiology (MELISA) che ha presentato uno studio completo con i dati degli ultimi 50 anni mostrando che dal divieto di aborto iniziato nel 1989 la mortalità materna in Cile è diminuita del 69 per cento. Koch ha anche presentato i dati relativi al Messico dove ha comparato i 14 stati con leggi permissive in materia di aborto ai 18 che hanno leggi più restrittive, mostrano che questi ultimi offrono risultati migliori in tassi di mortalità materna.

La redazione

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I devoti cattolici hanno una vita sessuale più soddisfacente

passioneCattolici e sessualità. Uno studio ha mostrato che le persone sposate che frequentano la chiesa vivono una sessualità più piacevole, un’occasione per ribadire la visione della Chiesa sul sesso.

 

«Il pensiero cattolico è sovente equivocato, come se la Chiesa sostenesse un’ideologia della fecondità ad oltranza, spingendo i coniugi a procreare senza alcun discernimento e alcuna progettualità. Ma basta un’attenta lettura dei pronunciamenti del Magistero per constatare che non è così». Queste la parole di Giovanni Paolo II del luglio 1994.

Egli ha proseguito: «Nel prendere la decisione di generare o di non generare essi devono lasciarsi ispirare non dall’egoismo né dalla leggerezza, ma da una generosità prudente e consapevole, che valuta le possibilità e le circostanze […]. Quando dunque si ha motivo per non procreare, questa scelta è lecita, e potrebbe persino essere doverosa. Resta però anche il dovere di realizzarla con criteri e metodi che rispettino la verità totale dell’incontro coniugale nella sua dimensione unitiva e procreativa, quale è sapientemente regolata dalla natura stessa nei suoi ritmi biologici. Essi possono essere assecondati e valorizzati, ma non “violentati” con artificiali interventi».

Interessante il recente l’articolo del dott. Gregory K. Popcak, direttore dell’ente cattolico “Pastoral Solutions Institute”: catechizzati da amici, familiari e dai media, ha scritto, tutti pensano che la Chiesa cattolica odi il sesso, utilizzato solo per mantenere la donna in un costante stato di gravidanza, molte coppie credono che la Chiesa non abbia nulla di interessante e utile da dire sul sesso. Se siete una di queste coppie sposate, ha proseguito Popcak, benvenuti. Vorrei condividere qualcosa con voi che i vostri amici, la famiglia e i media non sanno. La Chiesa cattolica, anzi Dio, vuole che voi abbiate una vita sessuale incredibile, sempre più appassionata e che duri il più lungo possibile.

Nel luglio scorso su “US News & World Report” è stato pubblicato un articolo con questo titolo: “I devoti cattolici hanno una sessualità migliore, dice lo studio”. L’articolo riprende le affermazioni del “Family Research Council”, basate su decenni di ricerca, in particolare uno studio dell’Università di Chicago che ha rilevato una sessualità più piacevole e più frequente tra le persone sposate che frequentano la chiesa almeno una volta a settimana (nell’articolo vengono poi citati come precedenti altri studi che nulla c’entrano). Popcak, autore di numerosi libri sulla sessualità nella dottrina cattolica (come “Holy Sex! A Catholic Guide to Toe-Curling, Mind-Blowing, Infallible Loving”), ha spiegato i motivi di tali risultati: per avere un rapporto sessuale soddisfacente, è necessario coinvolgere tutto noi stessi: fisicità, dimensione relazionale e spiritualità. Se i tralascia una qualsiasi di queste tre dimensioni, si rende il sesso meno interessante e piacevole. I devoti cattolici, coloro che usano i metodi di pianificazione naturale (NFP), sono pronti a coinvolgere tutte e tre queste dimensioni per la loro sessualità coniugale. I metodi naturali, infatti, rendono la coppia intimamente consapevole del corpo, questi metodi chiamano la coppia a comunicare ad un livello più profondo rispetto alle altre sulla natura del loro desiderio sessuale per l’altro. Infine, i cattolici che fanno uso dei metodi naturali si rendono conto che il sesso non è solo un atto fisico, ma spirituale (pensiamo al Cantico dei Cantici.

Per tutto questo, ha spiegato, i devoti cattolici sono gli amanti migliori perché capiscono che il sesso non è solo sesso. Esso è in ultima analisi, anche uno strumento per diventare migliori, più passionali, più autenticamente amorevoli e la gioia che sperimentano in camera da letto è un segno di quello sforzo che facciamo per diventare ciò che Dio ci chiama ad essere. Essere grandi amanti ovviamente non si riferisce solo a ciò che accade in camera da letto, ma a come ci si relaziona tutto il giorno, l’uno con l’altra e viceversa.

La sessualità è un dono di Dio e per questo va preso seriamente, ma non certo osteggiato. La Chiesa non l’ha mai fatto, nonostante tanti pensino così, l’astinenza completa è una vocazione scelta solo da alcuni (sacerdoti, suore ecc.) ma non è richiesta ad ogni cattolico. Allo stesso tempo il sesso non va concepito solo a fini procreativi: l’attività procreativa deve essere un’attività responsabile soggetta alla virtù della prudenza e se la virtù della prudenza esige la sospensione dell’attività procreativa, i coniugi possono usufruire dei naturali periodi di infecondità della donna. Questo perché la sessualità ha anche una finalità unitiva. La Chiesa insegna che quando si hanno motivi seri per non procreare (motivi medici, economici o sociali, ha spiegato Pio XII), questa scelta è lecita, e potrebbe persino essere doverosa. E’ utile approfondire tutto questo leggendo la riflessione del compianto dott. Bruto Maria Bruti.

Resta però anche il dovere di realizzare questa sessualità non a scopo procreativo, con criteri e metodi che rispettino la verità totale dell’incontro coniugale, quale è sapientamente regolata dalla natura stessa nei suoi ritmi biologici. Lo sanno bene tutte le coppie che frequentano i corsi prematrimoniali organizzati dalle Diocesi, a cui viene loro insegnato l’uso dei cosiddetti metodi naturali per la regolazione della fertilità. «La Chiesa è favorevole alla regolamentazione naturale della fertilità, a quei metodi cioè fondati sull’ascolto delle indicazioni e dei messaggi forniti dal corpo», è stato spiegato su “l’Osservatore Romano”.  Ha concluso Popcak: «la Chiesa non ti dice questo perché vuole intrometterti nella tua vita. La Chiesa davvero vuole farti vivere tutta la passione e l’amore che Dio vuole darvi, essa ha veramente qualcosa da dire che i tuoi amici, familiari e la maggior parte dei media vuole dirti».

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Un credente di fronte all’evoluzione

Forastiere MicheleLa pausa estiva crea talvolta occasioni d’incontro e di discussione che gli impegni di lavoro quotidiani rendono di norma difficili, se non impossibili. Grazie all’impegno di un gruppo di giovani volenterosi e all’ospitalità di un parroco curioso di cose di scienza, quest’estate Michele Forastiere ha avuto modo di parlare in pubblico della teoria dell’evoluzione, inquadrandola correttamente nel contesto di un dialogo rispettoso tra scienza, filosofia e fede. Qui di seguito riportiamo una sintesi del suo intervento.

 
 
di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica
 

Il mio libro è il frutto di diversi anni di riflessione personale su quelle domande fondamentali che ognuno di noi si pone almeno una volta nella vita: chi siamo, da dove veniamo, perché esiste il mondo – insomma, le questioni dell’origine e dell’evoluzione dell’Uomo e dell’Universo. Per una sorta di deformazione professionale (sono un fisico) non ho potuto fare altro che affrontarle da una prospettiva rigorosamente galileiana. Ora, chiunque si ponga l’obiettivo di scandagliare scientificamente il problema dell’origine si imbatte inevitabilmente nella teoria evolutiva attualmente più diffusa e accreditata: la Sintesi Moderna dell’evoluzione, discendente diretta e aggiornata della celebre teoria della selezione naturale di Charles Darwin (“L’origine delle specie mediante selezione naturale, ovvero la conservazione delle razze favorite nella lotta per la vita”, 1859).

È nota più o meno a tutti – nelle sue forme più varie, da quelle serie a quelle scherzose – l’immagine della marcia del progresso umano che scaturì dall’opera successiva di Darwin relativa alla comparsa dell’Uomo sulla Terra (“L’origine dell’Uomo e la selezione sessuale”, 1871): immagine che suggerisce, in modo schematico ma efficace, l’idea della discendenza dell’Uomo da un antenato scimmiesco (sebbene si dovrebbe dire più correttamente, secondo i biologi evolutivi, che l’Uomo e le scimmie moderne discendono da un antenato comune ormai estinto).

Credo sia altrettanto noto il fatto che la teoria di Darwin suscitò fin da subito aspre polemiche, in parte perché si pensò che infliggesse un duro colpo all’immagine dell’Uomo come signore e padrone della Natura, ma soprattutto perché negava apertamente l’immagine della Creazione biblica dell’Uomo dal fango. In realtà, il fastidio fu provato principalmente da parte delle varie confessioni protestanti legate a un’interpretazione letterale della Bibbia, mentre va sottolineato il fatto che la Chiesa Cattolica non si pronunciò mai ufficialmente né sulla teoria di Darwin (di cui non mise mai all’Indice le opere) né sull’evoluzione in genere (fino al famoso discorso di Giovanni Paolo II del 1996, che “apriva” alla teoria scientifica dell’evoluzione).

Tuttavia, nel corso degli anni non ho potuto fare a meno di notare che molti continuano a usare la teoria di Darwin come argomento anti-teista. A questo punto io, da scienziato e credente, ho sentito la necessità di provare a capirci qualcosa di più rispetto a quanto imparato a scuola, sentito in TV e letto nelle riviste e nei libri di divulgazione scientifica. È d’obbligo un’importante precisazione a quest’ultimo proposito. Quando si parla di “darwinismo”, si tende in genere a fare confusione tra il livello scientifico e quello filosofico. Diciamo subito che il darwinismo filosofico è un principio esplicativo della Realtà che è basato sul materialismo (nega quindi l’esistenza di Dio e di ogni forma di trascendenza); in quanto tale, dunque, è una rispettabile posizione metafisica – che però, in sé e per sé, non può ritenersi migliore o preferibile a qualunque altra posizione metafisica. Viceversa, il darwinismo scientifico (vale a dire, ogni teoria scientifica che si ispiri direttamente all’opera di Darwin) è uno schema interpretativo della porzione fisica della Realtà, che perciò deve rientrare nell’ambito della scienza galileiana.

Ora, è risaputo da secoli in filosofia che nessuna teoria scientifica (anche ammesso che sia stata verificata al di là di ogni possibile dubbio), è in grado di dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di una parte di Realtà trascendente quella naturale (di cui la porzione fisica, quella esplorabile dalla scienza, è un sottoinsieme). Dunque, sbaglia gravemente chi pensa che il darwinismo scientifico possa portare acqua al mulino delle basi metafisiche di quello filosofico. Da scienziato, non da credente, atteggiamenti di questo genere mi sono sempre stati antipatici. Ho cercato allora di evidenziare, nel portare a termine il libro, a quali conclusioni filosofiche si possa lecitamente giungere a partire dallo “stato di fatto” delle attuali conoscenze sull’evoluzione biologica.

Vediamo innanzitutto quali sono le conoscenze oggi “scientificamente accertate” (in senso galileiano) sull’evoluzione biologica: la Terra si formò all’incirca quattro miliardi e seicento milioni di anni fa, in un angolo non particolarmente interessante della Galassia. Appena nato il nostro pianeta era un posto molto sgradevole, del tutto inadatto a ospitare la vita. Per dirne una, era sottoposto a un incessante bombardamento di meteoriti e comete, che ne rendeva la crosta incandescente. Gli oceani primitivi apparvero subito dopo che la temperatura scese abbastanza da permettere la condensazione dell’acqua. Questo succedeva più o meno tre miliardi e seicento milioni di anni fa; solo cento milioni di anni dopo proliferavano già i primi organismi unicellulari. È fuori di dubbio che qualcosa sia cambiato, da allora a oggi: forme viventi diversissime si sono avvicendate sulla scena nelle successive ere geologiche; hanno prosperato per un po’, recitando il loro ruolo nel dramma della vita; poi hanno finito per cedere il passo a nuovi attori. Le prove scientifiche di questa vicenda inesauribile sono assolutamente schiaccianti e provengono da varie aree di ricerca, che spaziano dalla biologia alla paleontologia, dalla chimica alla fisica delle particelle. [da “Evoluzionismo e cosmologia”, pag. 11]

Vi sarebbe poi da aggiungere l’innegabile constatazione che questa lunghissima vicenda ha portato, infine, alla comparsa sulla scena di un’unica specie animale dotata di intelletto, di linguaggio simbolico, di progettualità: l’Homo sapiens sapiens. In questo video si può vedere come viene normalmente divulgata la teoria dell’evoluzione darwiniana (N.B.: il  video è stato pubblicato nella sezione “A ragion veduta” del sito UAAR). Questo, si può dire, è con buona approssimazione il modello evolutivo rappresentato dalla Sintesi Moderna a partire all’incirca dagli anni ‘50. Raccontata così, la storia appare assolutamente pacifica e assodata – sembrerebbe che nulla vi sia da aggiungere o modificare. Comunque, tale e tanta fu considerata la forza esplicativa di questo schema, da spingere il filosofo Jacques Monod a scrivere (nel suo testo fondamentale “Il Caso e la Necessità”, del 1971): «[Le alterazioni nel DNA] sono accidentali, avvengono a caso. E poiché esse rappresentano la sola fonte possibile di modificazione del testo genetico, a sua volta unico depositario delle strutture ereditarie dell’organismo, ne consegue necessariamente che soltanto il caso è all’origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell’evoluzione […]. Possiamo affermare, in definitiva, che la teoria darwiniana ha i suoi capisaldi nel Caso e nella Necessità: la variazione casuale lenta e graduale dei caratteri attraverso la modificazione del patrimonio genetico (Caso) e la selezione naturale nelle sue varie forme, compresa quella sessuale (Necessità)».

Va detto che molti biologi evolutivi e filosofi della scienza sostenitori del materialismo hanno avuto gioco facile a sconfinare nella metafisica, ispirandosi alle concezioni di Monod. Il loro ragionamento si può riassumere più o meno come segue: “Se il vero motore dell’innovazione biologica è la variazione lenta e casuale dei caratteri, così come emergono dagli errori di copiatura e mutazioni del DNA, allora non è possibile rintracciare nella Natura un Disegno di cui l’Uomo sia l’oggetto, e dunque Dio o non esiste o non si interessa a noi. L’Uomo è solo il risultato di un cieco meccanismo generatore dei cambiamenti, giunto per puro caso a superare in intelligenza e capacità ogni altro essere vivente”. Già a questo livello basilare si può tuttavia comprendere che, se anche lo schema di Monod fosse vero, non sarebbe lecito trarre una simile conclusione metafisica. In altre parole, non è possibile escludere l’esistenza di un Creatore – in particolare, di un Creatore onnisciente e provvidente che agisce nel mondo in modo misterioso per “cause seconde” (conformemente alla concezione filosofica di san Tommaso d’Aquino) – tirando in ballo semplicisticamente il “Caso”. Quella del Caso, infatti, è una categoria “filosofica” dietro cui è sempre possibile nascondere la semplice ignoranza di una serie di concause sconosciute. Si tratta, in effetti, di una verità arcinota a chi si occupa seriamente di evoluzione e che – se vogliamo – è testimoniata dal fatto che esistono molti biologi darwinisti cattolici (per citarne solo qualcuno, ricordiamo Francisco Ayala, Fiorenzo Facchini, Stanley Miller). D’altro canto, lo stesso Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, il premio Nobel Werner Arber, è un convinto darwinista.

Per capire meglio questo concetto, proviamo a fare una semplicissima considerazione (in pratica, si tratta di una rivisitazione, al rovescio, di un argomento usato dallo stesso Darwin). Immaginiamo di studiare su un lunghissimo periodo una popolazione di pecore selvatiche che vivono in Scozia. È chiaro che si adatteranno meglio al freddo ambiente nordico quelle che si trovano ad avere per caso, fin dalla nascita, il vello più folto e lungo; dunque, è logico pensare che saranno più protette dal freddo e dunque si riprodurranno meglio queste ultime rispetto al resto del gregge, e le pecore a pelo più corto saranno eliminate da una lunga serie di inverni particolarmente rigidi. Si tratta, qui, di un caso di microevoluzione naturale: vale a dire, la comparsa di una nuova varietà all’interno di una specie. Ora: se a selezionare volontariamente le pecore, tramite incroci, ci fosse stato un pastore scozzese allo scopo di ottenere una maggiore produzione di lana (microevoluzione guidata), in che modo si potrebbe distinguere il risultato finale del processo naturale da quello guidato? Insomma, supponiamo di imbatterci, passeggiando in una fredda brughiera del nord, in una bella pecora lanosissima; ebbene, credo che senza maggiori informazioni non riusciremmo a capire se essa appartiene a una razza ottenuta tramite allevamento o ad una adattatasi all’ambiente nel corso di molte generazioni.

Ora, il darwinismo considera la macroevoluzione, cioè la comparsa di VERE innovazioni – nuovi organi (per es. l’occhio), nuove funzioni (per es. la respirazione aerea), nuovi piani corporei (per es. lo scheletro interno) – soltanto come la somma di una lunghissima catena di diversificazioni microevolutive analoghe a quella appena descritta. Chi può dire, allora, se tutto questo immenso processo sia stato effettivamente spontaneo e casuale, e non invece voluto e misteriosamente guidato da un Creatore onnipotente, in un Universo dotato di una certa dose di “libertà” di fondo? Qui si possono fare – e, credetemi, sono state fatte! – tante ulteriori considerazioni, sottilissime e profonde; tutte, però, portano alla stessa identica conclusione: in nessun caso, nemmeno se la validità scientifica della teoria darwiniana dell’evoluzione fosse provata al di là di ogni possibile dubbio, sarebbe possibile escludere a priori l’esistenza di un Creatore provvidente.

Vediamo perché. Intanto, la variazione casuale e la selezione naturale devono pur agire su degli esseri viventi già “funzionanti” e capaci di riprodursi; dunque, procedendo all’indietro nel tempo verso antenati comuni via via più semplici (secondo lo schema darwiniano dell’albero della vita che si arricchisce di rami col passare del tempo, per differenziazioni successive delle specie viventi) si deve giungere per forza ad un Primo Antenato semplicissimo, ovvero ad un primo meccanismo riproduttivo biochimico distinto dalla materia inanimata: e di quest’ultimo, a tutt’oggi, la scienza non sa dire assolutamente nulla. In altre parole, la scienza non può escludere a priori l’intervento di una Volontà creatrice che abbia portato all’esistenza il più antico antenato comune di tutti i viventi. 

Ancora, se pure un domani la scienza dovesse arrivare a confermare che tale “Primo Antenato” possa essere comparso spontaneamente dalla materia inanimata (vale a dire, solo per effetto di processi fisico-chimici spontanei – che so, fulmini scatenati nel brodo primordiale per milioni di anni), si dovrebbe comunque riconoscere che le cause che ne hanno determinato la comparsa dipendono a loro volta da una catena di eventi che, andando all’indietro nel tempo (dalla formazione del Sistema solare, all’esplosione della supernova vicina che ha inseminato di elementi pesanti la nube primordiale da cui esso è derivato, alla condensazione della materia in galassie, alla separazione della luce dalla materia), conducono dritto dritto a quel primo evento che è noto come Big Bang e del quale la scienza non è in grado di individuare una causa immanente. La scienza moderna, perciò, non può in nessun modo escludere la possibilità che un Creatore onnisciente abbia liberamente voluto e posto in essere un Universo le cui stesse leggi fisiche avrebbero portato, a tempo debito, alla comparsa di una prima forma vivente, dalla quale alla lunga sarebbe poi scaturito un essere pensante “fatto a Sua immagine e somiglianza”.

In realtà si scopre che, al di là di queste semplici considerazioni, c’è molto di più da dire sul rapporto tra scienza e fede (più in generale tra ragione e fede): ed è quello che ho cercato di fare nel mio libro. Il fatto è che lo schema darwinista, per quanto apparentemente monolitico e inattaccabile, mostra con tutta evidenze crepe che si estendono dalla versione scientifica a quella filosofica. In primo luogo, bisogna osservare che, quando si parla di evoluzione biologica darwiniana – soprattutto di quella dell’Uomo – più che di CASO si dovrebbe parlare di CONTINGENZA. Risulta infatti empiricamente evidente che non è possibile spiegare l’intero complesso della macroevoluzione come una successione lenta e graduale di moltissimi passi elementari di microevoluzione (l’effetto, realmente osservato in pratica, del puro caso unito alla selezione naturale), dal momento che un gran numero di eventi macroevolutivi assolutamente cruciali nella storia della vita sono stati determinati da una serie di straordinari e irripetibili colpi di fortuna, non necessitati in alcun modo dalle condizioni precedenti. Tale constatazione, si badi bene, non è affatto di matrice creazionista, ma è ampiamente e “laicamente” accettata dalla maggior parte dei biologi evolutivi (a partire dal grande paleontologo Stephen Jay Gould).

Vediamo dunque qualcuno dei colpi di fortuna che hanno portato alla comparsa dell’Uomo – inteso come essere vivente capace di osservare il mondo e di porsi domande su di esso (lasciando per il momento da parte la straordinaria “fortuna” che ha portato alla nascita del primo meccanismo di riproduzione biologica dalla materia inanimata, la cosiddetta abiogenesi):

a)  Comparsa della fotosintesi, quindi separazione dei viventi in autotrofi ed eterotrofi. In mancanza di ciò, non si sarebbe mai potuto instaurare una catena alimentare completa (carnivori-erbivori-vegetali-detritivori; ovvero: produttori-consumatori-decompositori), né del resto si sarebbe mai potuto produrre l’ossigeno destinato a fornire energia agli animali superiori: tutto sarebbe finito miliardi di anni fa.
b) Comparsa delle cellule con nucleo e degli organelli cellulari, secondo la teoria della endosimbiosi di Lynn Margulis. In mancanza di ciò, non sarebbero mai potute esistere cellule abbastanza efficienti (dal punto di vista energetico, ma non solo) da poter dare origine agli organismi superiori.
c)  Differenziazione “esplosiva” di organismi viventi complessi all’inizio del Cambriano.
d) Evoluzione dell’occhio, avvenuta diverse volte nel corso delle ere in gruppi di animali imparentati solo alla lontana.
e) Estinzione, a causa di eventi catastrofici irripetibili, di interi gruppi (come i dinosauri) che, con ogni probabilità, non avrebbero mai potuto raggiungere un elevato livello di intelligenza individuale, e in particolare sviluppare un’intelligenza simbolica.

Nessuno degli eventi citati può essere spiegato mediante variazioni lente e graduali da qualcosa di preesistente, ma è stato unico e irripetibile, cioè contingente. Ora, se si prova a stimare la probabilità che la serie di tali eventi possa essere avvenuta per puro caso – ovvero, tramite le normali interazioni chimico-fisiche spontanee e rimescolamento casuale della materia dell’intero Universo nel corso di 14 miliardi di anni – si scopre che questa è talmente bassa, che il fatto che noi ci troviamo qui a riflettervi sopra è da considerarsi di per sé miracoloso (nel senso che comunemente si dà al termine). In altre parole, è come se l’Universo stesso avesse costantemente “cospirato”, “truccando le carte” fin dal Big Bang per far emergere l’Uomo dalla materia inanimata.

Dal punto di vista strettamente scientifico, questa osservazione ci porta a ritenere che, quasi certamente, o siamo i soli esseri pensanti nell’Universo (e in tal caso abbiamo il dovere di continuare a chiederci come mai esistiamo, visto che la probabilità della nostra esistenza sfiora – anzi, tocca decisamente – l’impossibilità matematica), oppure devono esistere leggi specifiche della complessità biologica (non ancora scoperte) che regolano e guidano l’evoluzione ma che in qualche modo, necessariamente, trascendono la fisica e la chimica oggi conosciute.

Passando al piano filosofico, a cosa ci conducono queste considerazioni? A ben vedere, secondo me vi sono poche alternative:
a) se si dà per scontato il materialismo si deve necessariamente credere nell’Universo caotico, infinito ed eterno di Democrito, Epicuro e Giordano Bruno – naturalmente nella versione moderna di questo concetto, vale a dire il Multiverso. La credenza in tale Assoluto immanente, tuttavia, è in totale contrasto con la scienza e la ragione: ha lo stesso valore logico di una superstizione – indimostrata,  indimostrabile e priva di senso.

b) se non si dà per scontato il materialismo vi sono due ulteriori possibilità:
1) Si può credere che l’evoluzione apparentemente “casuale” sia in realtà provvidenzialmente e misteriosamente guidata attraverso una successione di eventi contingenti – le “cause seconde” di San Tommaso – da un Creatore eterno (ed è quello   che fanno i darwinisti credenti);
2) si continua ad andare alla ricerca di una teoria scientifica dell’evoluzione che non dipenda in modo tanto cruciale dal Caso come agente di innovazione biologica, così come fanno le teorie darwiniane.

Questo è quanto dicono la scienza e la filosofia. Come si vede, alla luce delle attuali conoscenze umane, non resta molto spazio per credere ragionevolmente in un Assoluto immanente, che per forza di cose dovrebbe essere eterno e infinito, e perciò stesso in contraddizione con la ragione umana. Credervi è certamente possibile: ma è bene essere consapevoli del fatto che si tratta di una credenza di valore equiparabile a quello di una superstizione.

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Ricordate l’adolescente gay suicida? Non era omofobia

OmofobiaVi ricordate Roberto, l’adolescente omosessuale suicidatosi quest’estate gettandosi dal terrazzo di casa? Ricordate l’immediato sciacallaggio delle associazioni gay e della maggioranza dei quotidiani su questa tragedia spacciandola per omofobia, prima ancora di accertare le cause? Ne avevamo parlato anche noi.

Bene, ovviamente anche questa volta l’omofobia non c’entrava nulla: la Procura di Roma ha infatti chiesto l’archiviazione del fascicolo perché ha accertato che la vittima non ha deciso di togliersi la vita a causa di episodi di bullismo e omofobia, ma per un disagio esistenziale non generato dall’ambiente esterno.

Mentre la notizia sul “suicidio perché deriso in quanto gay” è rimbalzata su ogni organo d’informazione, l’archiviazione del caso è stato riportato in un trafiletto a pagina 16 soltanto dal quotidiano “Libero”. Nell’articolo si ricorda giustamente che l’insistente strumentalizzazione dei casi tragici come quello di Roberto, contribuisce a far si che gli omosessuali si sentano appartenenti ad una categoria da osservare ossessionatamene. Inoltre, il continuo e ossessivo spauracchio sull’omofobia  usato per ogni caso e per chiunque osi dire qualcosa di contrario alle associazioni LGBT renderà sempre più insensibile la popolazione verso tali episodi, anche quando si dimostreranno reali (esistono i casi veri, da condannare ovviamente con tutte le forze, fortunatamente sono pochissimi tanto che l’Italia è stata classificata dal Pew Research Center come l’ottavo Paese al mondo per miglior accettazione degli omosessuali). Lo insegna la nota favola di Esopo chiamata “Al lupo! Al lupo!”.

Per questo «i nemici più pericolosi dei gay italiani, spesso, sono i gay stessi», come ha scritto Domenico Nardo sul gay-friendly “Fatto Quotidiano”. Da questo punto di vista, un nemico dei gay italiani è Nichi Vendola, che subito dopo il suicidio di Roberto ha abusato della sua morte per accusare la classe dirigente a chiedere «perdono per le vittime dell’omofobia e per aver consentito che l’odio per le diversità diventasse lessico ordinario della contesa politica». Un altro che ha malamente approfittato di questa tragedia è stato Flavio Romani, presidente di Arcigay, anche lui accodatosi allo sciacallaggio sulla morte di Roberto dicendo che «è ai ragazzi e alle ragazze come questo quattordicenne che bisogna pensare quando si dibatte dell’omofobia». Altri sono Fabrizio Marrazzo, Paola Concia e Franco Grillini,, che puntualmente con le loro dichiarazioni strumentalizzano in chiave politica la vita e le difficoltà degli omosessuali. 

Non è la prima volta, ovviamente, che si verifica questo tipo di sciaccallagio su fatti tragici subito usati dalla lobby gay per accusare gli italiani di omofobia: ricordiamo il caso del giovane Andrea (gennaio 2013) che però non era affatto omosessuale, il tentato suicidio del sedicenne di Roma (maggio 2013) che però lui stesso ha spiegato non essere motivato dall’omofobia ed infine il recente attentato al liceo Socrate noto istituto gay-friendly, rivelatosi invece una vendetta per una bocciatura.

Esistono anche, non solo in Italia, numerosi omosessuali che si fanno appositamente male da soli per poi accusare la società di essere omofoba, ricordiamo il caso di Joseph Baken, quello di Alexandra Pennell, la coppia di lesbiche del Colorado e il caso di Charlie Rogers.  Sono altri che urlano “al lupo, al lupo”, senza ricordarsi purtroppo il brutto finale della favola. Chi è davvero interessato a chi vive una situazione di omosessualità?

La redazione

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