Savita morta per malasanità, non per il mancato aborto

Savita HalappanavarEsattamente un anno fa moriva di setticemia Savita Halappanavar, la trentunenne indiana residente in Irlanda, caso che ha fatto molto parlare i quotidiani principali di tutto il mondo subito dopo gli eventi e che oggi nessuno ha più coraggio di citare, ora che tali eventi sono stati ufficialmente chiariti.

I media, come chiunque può verificare da solo tramite una ricerca sul web, diffusero infatti la notizia che Savita era morta in quanto l’ospedale di Galway avrebbe rifiutato di praticarle l’aborto terapeutico in nome della legge irlandese particolarmente restrittiva, sentendosi rispondere dal personale medico che l’aborto era rifiutato anche «perché siamo un paese cattolico». Proprio questa battuta è divenuta il grimaldello impugnato da associazioni abortiste (dunque contro i diritti umani, come quello principale: il diritto alla vita) come “Amnesty International” per tentare di forzare la legge irlandese (che infatti è stata leggermente modificata).

Tuttavia in queste settimane è stato pubblicato il report voluto dall’Health Information and Quality Authority, l’ultimo di tre già condotti sul caso: si rilevano ben 13 mancanze procedurali in cui il personale dell’ospedale sarebbe incorso, portando così in pochi giorni al peggioramento delle condizioni di salute della donna e alla sua morte. Un caso di malasanità dunque, dove le peggiori fatalità hanno fatto seguito agli errori umani e dove a nulla c’entrava il rifiuto di interrompere la gravidanza. Ce ne siamo occupati anche noi allora denunciando lo sciacallaggio mediatico e anticipando le conclusioni ufficiali.

Stranamente anche la pagina di Wikipedia (versione inglese) dedicata al caso è stata correttamente aggiornata con relative fonti: «Dopo la morte di Savita, i mezzi di comunicazione hanno incolpato la fatalità della morte al cosiddetto divieto di aborto negli ospedali cattolici irlandesi. Tuttavia, la terza e ultima indagine nazionale ha scoperto che non era questo il caso. La causa è stata identificata come negligenza medica, che ha portato ad una serie di controlli incompleti e procedure inadeguate». Se Wikipedia si è aggiornata, nessun quotidiano sembra aver riportato la notizia.

Come abbiamo già evidenziato, è attraverso la menzogna che l’aborto è entrato nel sistema legale italiano e americano, ed allo stesso modo continua ancora oggi ad essere giustificato. Dove sono i liberi pensatori?

La redazione

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Chiara Lalli anti-femminista: «l’uomo può sostituire la donna»

Chiara LalliLo avevamo già fatto notare: chi sostiene le adozioni per coppie omosessuali nega decenni di battaglie femministe per rivendicare un ruolo proprio per le donne. Esse, infatti, non avrebbero nulla di speciale e potrebbero tranquillamente essere sostituite da un uomo omosessuale nel loro ruolo familiare.

Su “Il Foglio” è stato recentemente recensito un libro del 2009 (“Buoni genitori. Storie di mamme e di papà gay”) dell’infaticabile tuttologa Chiara Lalli, colei che passa con tranquillità dal sostenere che l’anima non esiste, che l’istinto materno non è una naturale e innata competenza femminile, che in fondo abortire è bello, finendo col legittimare il “regalo di neonati” (pratica subdolamente chiamata “gestazione per altri”).

Nel suo libro la Lalli parla dei fortunati bambini rifilati a coppie gay dopo essere stati sottratti alle loro madri, definite dalla Lalli “prestatrici” d’utero, spiegando di non capire gli “stereotipi e pregiudizi”, diffusi anche tra omosessuali eretici, tipo quello “tra i peggiori”, secondo cui “la figura materna” sarebbe “indispensabile”! (p. 237).

Dunque la retorica anti-femminista di Chiara Lalli è chiara: la madre, dunque la donna, non è indispensabile perché non avrebbe nulla di specifico da rivendicare come proprio. A questo punto sorge una domanda: a cosa servono le tanto decantate quote rosa? Se la donna non è indispensabile in una famiglia, come ci insegna la Lalli, figuriamoci in un partito politico oppure in un’azienda (magari a gestione familiare)!

La redazione

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L’etica protestante ed il capitalismo cattolico della Rerum Novarum

BorsaRecentemente, mi sono imbattuto in un interessante articolo firmato Carlo Cambi riguardante le differenze teologiche ed ispirative dei modelli di sviluppo economico tra Europa del Nord ed Europa del Sud. Il tema non manca di attualità e di interessanti spunti, anche alla luce della recente crisi economica e sociale che sta investendo più di un Paese europeo, queste considerazioni restano più che mai attuali.

Sarà capitato a moltissimi lettori di incontrarsi e scontrarsi con analisi e letture dalle quali emerge un problema non banale riguardante l’accezione di due termini chiave: Liberalismo e Capitalismo. Il primo termine soprattutto nel XIX e XX secolo è stato oggetto di utilizzo da parte dei soggetti più disparati e per certi versi posti agli antipodi; tanto che il termine liberale oggi suona più come un appellativo indefinito cui necessariamente debba esser seguito dall’immancabile aggettivo qualificativo specifico, per cui si passa dal Liberalismo Conservatore addirittura al liberalsocialismo di estrazione culturale e “sociale” completamente diversa. Questa moltitudine di sfaccettature che un singolo termine porta in sé sarebbe quasi ironica se non facesse trasparire tutto l’opportunismo che molto spesso cela.

Il fenomeno citato rispecchia quanto accaduto in Italia a partire dalla sua unificazione, partendo dallo stesso Cavour e passando per i vari Gioberti, Einaudi, il prof. Federico Caffè, tutti personaggi eterogenei di diversa estrazione culturale e sociale su cui loro stessi solleverebbero qualche riserva sulla casacca a loro attribuita. Si è avuta una fase anche nel periodo della “Seconda Repubblica” italiana, in cui definirsi un Liberale era quasi un obbligo morale, questo valeva anche per chi di liberale aveva ben poco. Il processo descritto ha generato enorme confusione, soprattutto culturale, tanto che ormai il significato della parola “liberale” assume gli aspetti più disparati. Analisi del tutto complementare la si può riscontrare nella parola capitalismo”, che a differenza del processo “unificatore” prodotto dalla prima, questa separa ed identifica gli schieramenti, rendendo il panorama politico e culturale più variopinto di opinioni e di idee; tanto che un qualsiasi dizionario non è in grado di raccoglierne le molteplici sfaccettature .

Max Weber nel suo libro “Etica protestante e Spirito del capitalismo” spiega come la nascita del capitalismo Nordico derivi dalla differente visione del lavoro e della società insite nella religione Luterana e Calvinista rispetto alla religione cattolica dei paesi del Sud Europa, e di come questa visione abbia reso possibile lo sviluppo capitalistico moderno. Le motivazioni “teologiche” scaturiscono dal fatto che per i protestanti i segni evidenti dell’opera della Grazia Divina venivano mostrati, in estrema sintesi sotto alcuni aspetti forse anche parziale, attraverso il successo e la ricchezza. Tutta la cultura cattolica ha sviluppato una grande tradizione di dedizione e di aiuto ai poveri in quanto segno di condivisione della stessa condizione cui era coinvolto Dio stesso attraverso Suo Figlio. L’elemento di fondamentale differenza tra le due visioni del mondo si risolve in un solo singolo concetto: responsabilità dell’azione umana. Nel primo caso essendo la Grazia Divina operante nel mondo, l’errore ed il peccato insiti nell’uomo lo renderebbero “incapace” di migliorarsi, togliendo de facto il peso della responsabilità del lavoro e delle opere, in quanto il peccato dell’uomo viene sanato dalla Grazia essendo l’uomo ontologicamente incapace di cambiare il suo status di “eletto” o “condannato”. Nel secondo caso invece l’opera Divina della Grazia e l’opera dell’uomo collaborano nel mondo, pertanto l’uomo diviene responsabile delle sue stesse azioni non solo verso di sé ma anche nei confronti dell’altro. Questo modo diverso di concepire il mondo inevitabilmente ha prodotto due modi di fare impresa, e due concezioni diverse di capitalismo che molto spesso entrano in contrasto.

La stessa sorte ha toccato l’evoluzione dei fenomeni economici e sociali occidentali dalla riforma ai nostri giorni, gli effetti più evidenti si riflettono sul ruolo e funzionamento dello Stato e delle norme implementate. L’assetto dello stato germanico si alimenta delle necessità prodotte dal modo di fare impresa e dalla diversa concezione del lavoro in quanto espressione del proprio successo teologico e non. Gli elementi normalmente presenti nel mercato quali povertà/ricchezza, produzione/scarsità, vengono influenzati da questa visione del mondo e si assiste a fenomeni completamente nuovi anche a causa del fenomeno dell’industrializzazione a partire dal XVIII secolo in alcuni casi amplificandoli. Erroneamente si crede che sia stata l’industria a provocare i danni ambientali e sociali, a volte volutamente accresciuti altre un po’ marginalizzati. I termini del problema non sono così semplici. L’industria ha semplicemente risposto alla naturale esigenza dell’uomo di soddisfare i propri bisogni sempre crescenti. In questo contesto sono nati gli Stati Moderni e la concezione dell’uomo protestante ha enormemente cambiato il volto dei rapporti istituzionali.  Se l’uomo è ontologicamente peccatore ed incapace di cambiare la sua particolare condizione, lo Stato può svolgere egregiamente la funzione di sanatore delle ferite sociali prodotte dall’uomo stesso. Lo Stato moderno è nato ed ha trovato linfa vitale in questo approccio etico-negativo dell’uomo. Questa concezione di stato si è radicata anche nei paesi di tradizione cattolica (Francia, Italia, Portogallo) con moltissime eccezioni particolari (in primis Polonia, Irlanda, Spagna) ma anche in questi sono innegabili le ferite da esso prodotte.

Nella cultura germanica, ma ormai anche in quella anglosassone, anche qui ci sono notevoli differenze, lo stesso Weber, ma poi anche Nietzsche ed Hegel, hanno attribuito allo stato lo stesso ruolo di Dio.  Tutte le correnti di pensiero sul ruolo e funzioni dello stato nascono per limitare o aggiungere questo potere, senza mai mettere in discussione l’approccio sulla società e sulla realtà da cui esso si ispira, ovvero che l’uomo faccia solo danni.  Paura già espresssa da Pio IX e Leone XIII sui danni che implica l’approccio dello Stato Onnipotente come emerge dall’enciclica Rerum Novarum. A causa di questa visione abbiamo assistito al progressivo aumento del peso ed ingerenza dello Stato nei rapporti sociali e familiari tanto da attribuirsi un potere infinito e cancellando l’esperienza dei secoli addietro in cui la collaborazione tra i ceti e le numerose opere di assistenza create dalla rete delle esperienze dei movimenti religiosi, che hanno invece portato l’europa a brillare nel mondo. Per la legge del contrappasso il seme da cui era originariamente nato il liberalismo francese, getta la maschera e mostra il suo vero volto. La preoccupazione della libertà e dell’uguaglianza non hanno portato affatto alla formazione di Stati Liberali così come originariamente stilizzati dai vari filosofi illuministi. Si è piuttosto assistito ad un passaggio da un sistema dispotico pre-rivoluzione francese ad un’apparente democrazia oligarchico rappresentativa, molto più invasivo dell’assetto precedente.

La  Rerum Novarum aveva anticipato il rischio di una deriva autoritaria dello stato cosi come era stato concepito. La funzione dell’impresa e del lavoro non possono essere contrapposte al bene comune di tutti, lo Stato riveste l’autorità sufficiente per dirimere le controversie legali senza porsi gerarchicamente al di sopra del soggetto principale della società, la persona umana. Credo che sia proprio questo il contesto , nel nostro piccolo, in cui si mostrano le macroscopiche differenze a livello europeo, sia tra Nord e Sud dell’Europa che tra le varie estrazioni culturali note (destra e sinistra, ma oramai non hanno più molto senso politico), sia a livello economico che sociale.  Lo Stato liberale condannato da Pio IX e l’approccio portato avanti dai “liberali” classici à la Cavour non hanno nulla a che vedere con l’assetto istituzionale di uno stato realmente liberale.

Marco Marinozzi

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Il sociologo Bauman: «Francesco è una chance per l’umanità»

Bauman e FrancescoUna delle affermazioni più usate da chi si ritiene troppo emancipato per essere cristiano è che le religioni sarebbero una via di fuga dai problemi della vita, dalla morte e dalla malattia. Un rifugio dove riparare, pensando all’aldilà piuttosto che all’aldiquà. Lo confermerebbe il fatto che la religione sarebbe più diffusa in aree del mondo povere e piene di miseria (su questo abbiamo già riflettuto in passato).

Come tutte le spiegazioni che resistono per più generazioni, anche questa contiene una parte di verità: le religioni sono effettivamente un tentativo umano di approdare al quel mistero a quella “X” che chiunque percepisce come completamento di sé. L’uomo che riflette seriamente e onestamente su se stesso riconosce di essere teso continuamente verso un qualcosa, in ricerca verso una soddisfazione che non riesce mai a raggiungere. “Attesa” è la parola che più di tutte definisce l’uomo, in qualunque epoca storica e in qualunque area del mondo. «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?» si domanda ad esempio Cesare Pavese (Il mestiere di vivere, Einaudi 1973, p. 276). Certamente le condizioni di miseria sociale portano l’uomo a riflettere maggiormente sul senso della sua vita, dunque non sarebbe affatto strano se -ammesso sia vero- gli abitanti dei Paesi con maggior benessere riuscissero a distrarsi maggiormente dal loro “vero” bisogno, ripiegando sul consumismo sfrenato (questo sì, un rifugio!).

L’uomo fin dalla preistoria ha imparato a chiamare “Dio” l’oggetto di questa attesa. «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?», si domanda Ungaretti. Il cristianesimo, tuttavia, si colloca ben oltre alle altre religioni e testimonia una rivelazione di questo “Dio” alla ragione umana, attraverso Gesù Cristo. Questo oggetto di attesa è divenuto incontrabile nella storia, ha deciso di mostrarsi e lo ha fatto in modo credibile (tanto che ancora oggi la storia è divisa in prima e dopo Cristo). La sete di infinito ha trovato una fonte a cui abbeverarsi, senza comunque mai saziarsi (almeno in questa vita).

Dunque le religioni contengono tutte qualcosa di vero (cioè la tensione verso Dio), ma solo il cristianesimo nasce al di fuori dell’uomo: è Dio stesso che si fa incontro, che prende l’iniziativa. Affidarsi al cristianesimo non è però uno scappare dal mondo e dalle fatiche umane, ma è affrontare seriamente la verità più profonda di noi stessi: è proprio il vivere intensamente le “cose mortali”, come dice Ungaretti, che porta alla consapevolezza che ogni risultato raggiunto non basta mai, l’uomo attende perché è fatto per Altro, per l’Infinito.

Da questo punto di vista è molto interessante la recente intervista al celebre sociologo Zygmunt Bauman, uno dei più autorevoli interpreti della condizione umana e padre della fortunata immagine della “modernità liquida” per indicare una situazione di diffusa incertezza, in cui sembra venir meno qualsiasi punto stabile di riferimento. Ha osservato che proprio grazie all’avanzare della secolarizzazione è contemporaneamente aumentato il bisogno di spiritualità, «concepita come qualcosa che potrebbe conferire un senso compiuto alle nostre vite, riempiendole. Evidentemente, si constata che i piaceri materiali (“della carne”, si sarebbe detto un tempo) non bastano: occorre un contatto con qualcosa che trascenda le nostre occupazioni e preoccupazioni quotidiane».

Tuttavia non c’è un ritorno generale al cristianesimo, spiega Bauman, ma una forma di “Dio personale”. Le pretese illuministe e razionalista dell’uomo misura di tutto hanno fallito, si è tornati dunque al riconoscere e prendere sul serio la tensione interna all’uomo verso quella “X”, «l’umanità è intenta a ricercare disperatamente dentro o fuori di se dei punti d’appoggio a cui reggersi». Papa Bergoglio, spiega il sociologo laico, «sa parlare alla spiritualità tipica del nostro tempo: i seguaci del “Dio personale”, in effetti, non sono molto interessati alle prescrizioni morali impartite dai rappresentanti delle istituzioni religiose, ma desiderano rintracciare un senso nella frammentarietà delle loro esistenze individuali. Sono ancora in attesa di un “evangelo”, nell’accezione originaria del termine — di una buona notizia».

Concludendo ha replicato a coloro che spiegano il fenomeno religioso come alternativa di rifugio al malessere sociale: «La seconda parte del secolo scorso, in campo economico, è stato dominata da presupposti apparentemente indiscutibili, che hanno influenzato profondamente i comportamenti individuali e collettivi degli esseri umani. Che la ricerca della felicità andasse di pari passo con un aumento dei consumi: i luoghi naturali dell’appagamento personale sarebbero stati i negozi, piuttosto che le relazioni sociali, o le attività con cui ognuno potrebbe rendersi utile ai suoi simili, cooperando con loro. Queste convinzioni hanno prodotto, di fatto, una gran quantità di miseria materiale e spirituale, oltre a intaccare gravemente le risorse naturali dell’intero pianeta: da un lato, abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi; dall’altro, abbiamo scoperto dolorosamente che la felicità non si può acquistare. Dunque, a tutti noi oggi è richiesto di cambiare radicalmente l’assetto delle nostre vite. Per esprimere questa stessa idea, Papa Bergoglio userebbe probabilmente un antico termine della tradizione cristiana: conversione». Per questo Bauman crede «che il pontificato di Bergoglio costituisca una chance, non solo per la Chiesa cattolica, ma per l’umanità intera».

Ovviamente il celebre sociologo parla da un punto di vista laico, ma è vero che il Pontefice indica insistentemente una proposta all’umanità per curare le sue ferite e agli uomini per riflettere seriamente sul loro bisogno di spiritualità, la soluzione è la stessa degli ultimi 2000 anni: «l’incontro con Gesù Cristo Via, Verità e Vita, realmente presente nella Chiesa e contemporaneo in ogni uomo, porta a diventare uomini nuovi nel mistero della Grazia, suscitando nell’animo quella gioia cristiana che costituisce il centuplo donato da Cristo a chi lo accoglie nella propria esistenza», ha spiegato all’inizio del suo pontificato. «La verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana, annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi come lo fu all’inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande espansione missionaria del Vangelo».

La redazione

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La differenza tra metodi naturali e contraccettivi

SposiQual è la differenza tra metodi naturali e contraccezione? La Chiesa propone i primi ma respinge i secondi eppure persiste l’errore di definirli “contraccezione cattolica”. Il teologo padre Angelo spiega le diversità.

 

Persiste spesso un equivoco sulla posizione della Chiesa in tema di sessualità, la quale sottolinea come un bene per gli sposi l’utilizzo dei metodi naturali per la regolazione della fertilità (sicuri tanto quanto gli anticoncezionali, dicono gli studi) ed invece mantiene una posizione critica verso la contraccezione.

Molti non capiscono la differenza e non avendo approfondito le differenze ritengono sia una posizione ipocrita. C’è ovviamente un errore di comprensione su cosa siano i metodi naturali, questa disinformazione è all’origine del pregiudizio (identico a quello per cui l’annullamento del matrimonio tramite la Sacra Rota sarebbe la “via cattolica per il divorzio”).

Il teologo padre Angelo Bellon ha risposto precisamente a questa confusione spiegando la posizione della Chiesa: i metodi naturali sono il ricorso ai periodi infecondi della donna per regolare l’attività sessuale della coppia sposata. Questo non costituisce «una barriera nei confronti dei figli e un ostacolo alla volontà di Dio», ha spiegato padre Angelo, «perché usando dei periodi infecondi si fruisce di un’indicazione data da Dio stesso e nel contempo si rimane aperti ad un eventuale concepimento. Il rapporto coniugale e la disposizione intima degli sposi è di comunione col progetto di Dio e di accoglienza dell’eventuale nascituro. Nella contraccezione invece, come nel coito interrotto che è una forma di contraccezione, ci si sostituisce a Dio e c’è il volontario rifiuto del bambino».

«Nello stesso tempo», ha proseguito, «fruendo dei ritmi infecondi ci si dona in totalità, mentre nella contraccezione questo palesemente non avviene e l’atto cessa, secondo il Magistero, di essere un atto di autentico amore […]. Va aggiunto che percorrendo la strada dei ritmi maturali di fertilità e infertilità i due coniugi si sanno comandare. Nella contraccezione, no. Anche quest’aspetto è particolarmente importante perché l’atto sia un atto di vero amore, di consegna di se stessi, di dono all’altro, e non un atto in cui ci si lascia trasportare dalle passioni. Insieme con l’autodominio, cresce anche la stima e la fiducia vicendevole. Perché quando non si è mai capaci di rinnegare se stessi all’interno del matrimonio, diventa difficile rinnegare se stessi quando le tentazioni extraconiugali si fanno più forti». Ovviamente «la Chiesa non si pronuncia sui vari metodi naturali. Ognuno può scegliere quello che vuole, purché nell’atto coniugale si rimanga in un atteggiamento interiore e vicendevole di vero dono, di amore puro». Per chi volesse approfondire le differenze tra contraccezione e metodi naturali, padre Angelo ha risposto esaustivamente alla questione nel 2010 in quattro articoli consecutivi: primo, secondo, terzo e quarto.

Spesso giungono a padre Angelo delle testimonianze da parte di coppie che hanno iniziato ad usare i metodi naturali. Una giovane ragazza scrive che ora, «nella mia piccola cerchia di conoscenze cerco di promuovere i metodi naturali perché risanano la coppia più di una seduta dallo psicologo, istruiscono al rispetto del proprio corpo e di quello del partner e aiutano la donna ad aver una maggior consapevolezza della propria natura femminile, altro che la menzogna della contraccezione!». Per un’altra donna è stato come vedere la luce dopo anni di buio.

Come ha spiegato Giovanni Paolo II, tra i metodi naturali e quelli anticoncenzionali c’è «una differenza assai più vasta e profonda di quanto abitualmente non si pensi e che coinvolge in ultima analisi due concezioni della persona e della sessualità umana tra loro irriducibili». Ed è solo con il ricorso ai metodi naturali che «la sessualità viene rispettata e promossa nella sua dimensione veramente e pienamente umana, non mai invece “usata” come un “oggetto” che, dissolvendo l’unità personale di anima e corpo, colpisce la stessa creazione di Dio nell’intreccio più intimo tra natura e persona» (“Familiaris consortio” n. 32 EV VII, 1624).

La redazione

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Quei sacerdoti cattolici all’origine della scienza moderna

Sacerdoti e scienziati. Il nuovo libro di Francesco Agnoli, Scienziati in tonaca, offre una buona rassegna di personalità religiose che hanno contribuito in maniera determinanti a diversi campi dell’indagine scientifica.

 

Regione e scienza, chissà perché, all’orecchio dell’uomo contemporaneo, questa accoppiata suona male. Il punto è che i dogmi del positivismo, sposati sia da molti ambienti liberali sia dalle dittature novecentesche, detti e ripetuti infinite volte, hanno fatto breccia nell’immaginario collettivo, nutrito da una versione banale, zoppa e antistorica dell’affare Galilei.

La realtà, però, è facilmente verificabile: all’origine della scienza sperimentale moderna vi sono essenzialmente uomini religiosi, profondamente religiosi; uomini per i quali studiare la natura altro non è che cercare di leggere il libro scritto dal Creatore, andare alla ricerca delle sue tracce, delle sue orme. Senza nessuna presunzione di possedere ogni verità, di ridurre la causa prima alle cause seconde, di trasformare la scienza sperimentale in una fede, di farne una metafisica onnicomprensiva.

Tutti conoscono il nome del monaco cattolico Gregor Mendel, padre della genetica; solo alcuni sanno che Niccolò Stenone, vescovo e beato, ha posto le basi della moderna geologia; pochi hanno presente, invece, che tanti altri ecclesiastici cattolici – e qualche pastore protestante, ma nessun imam, nessun rabbino, nessuno sciamano, nessun bramino indù, nessun monaco buddhista… – sono stati all’origine di svariati campi dell’indagine scientifica.

Il nuovo libro dello scrittore Francesco Agnoli e del medico chirurgo Andrea Bartelloni, Scienziati in tonaca (La fontana di Siloe 2013), è proprio la storia di alcune (solo alcune) di queste personalità che hanno vissuto nel contempo una forte fede religiosa in un Dio trascendente e una grande passione per l’indagine empirica e scientifica. Così è stato per Keplero, Newton, Maxwell, Volta, Planck, e per tantissimi altri giganti del pensiero scientifico. Così è stato anche per numerosi sacerdoti che hanno contribuito con il loro lavoro alla nascita della citologia, della biologia, della genetica, della cristallografia, della geologia, dell’astronomia. Dal canonico Niccolò Copernico, padre dell’eliocentrismo al terziario francescano Luigi Galvani, scopritore dell’elettricità biologica, da don Georges Lemaître, padre del Big Bang a sacerdoti-scienziati quasi del tutto dimenticati, come l’Abbé René Just Haüy, padre Corti, padre Venturi, padre Bertelli e i gesuiti Angelo Secchi, Francesco De Vico, Lazzaro Spallanzani, Giuseppe Boscovich, Giovanni Girolamo Saccheri, Giovanni Riccioli ecc.

In questi ritratti si mescolano vita affettiva, scoperte scientifiche e fede religiosa, nel tentativo di rendere conto, in minima parte, del fecondo rapporto esistente nella Storia tra fede e ragione. Nel nostro apposito dossier abbiamo elencato i più grandi scienziati cristiani e cattolici, fornendo di loro una breve biografia.

La redazione

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La Costituzione: baluardo contro la dittatura del desiderio

Dittatura desiderio“Mori potius quam non desiderare”. Morire piuttosto che non desiderare. Questo detto latino riassume una delle principali caratteristiche dell’essere umano: il desiderio. Non occorre citare filosofi e pensatori come Schopenauer e Oscar Wilde per ribadire quanto il desiderio sia componente essenziale dell’uomo, la spinta propulsiva alla sua esistenza. La vita è già in sé desiderio di vivere; senza questo, l’uomo smarrisce sé stesso e pure le ragioni per proseguire la sua vita biologica.

Ma è altrettanto vero che questa è l’epoca del politicamente corretto, il tempo in cui tutti hanno diritto a tutto. Ma è davvero così? Tutti hanno davvero diritto a tutto? E c’è un diritto per ogni cosa? Ogni cosa può diventare un diritto? La risposta più sincera e spontanea che si possa dare è “sì, certo. Tutto hanno diritto a essere felici”. Ma qui si può fare confusione. Tutti gli uomini desiderano essere felici e attribuiscono la felicità a svariate cose che desiderano. Ma desiderare qualcosa significa davvero che essa ci renderà felici? E dà il diritto di possederla? Desiderio e diritto coincidono?

E’ la riflessione operata da Lorenza Violini, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Milano, che parla di “teoria del desiderio insaziabile”. Mimmo Muolo, giornalista de l’Avvenire inviato a Torino per assistere ai lavori della 47.ma Settimana Sociale, intervista la costituzionalista, la quale spiega con concetti limpidi che il desiderio, lasciato libero nella sua forma più vorace e insaziabile, è diventato una lama affilata capace di tagliare in modo chirurgico i legami tra matrimonio e famiglia, legge naturale e società.

Attaccando la famiglia intesa come realtà che poggia sull’unione naturale tra uomo e donna, il desiderio insaziabile attacca il singolo individuo. Ognuno di noi ne viene attaccato e leso in modo subdolo e ingannevole, poiché il desiderio insaziabile pare invece, all’opposto, lottare per i tutti i diritti che ogni singolo individuo possa immaginare. La famiglia, per la sua duttilità sociale, non è questione confinata nel diritto privato, dove si dibattono i vari “io voglio”, ma soggetto pubblico di primaria importanza, fa notare la Violini. Per cui “sposo chi voglio, anche se del mio stesso sesso” o “anche se è consanguineo” o “anche se sono già sposato, così d’avere più coniugi” non rientrano né nel diritto giuridico né nei fondamenti costituzionali della nostra società.

Gli articoli 29 e 30 della Costituzione parlano chiaro. Il primo recita che la famiglia è “società naturale fondata sul matrimonio” (definizione data da Achille Togliatti) i cui coniugi hanno “uguaglianza morale e giuridica”, il secondo insiste sul “diritto-dovere dei genitori” di “mantenere, istruire ed educare i figli”. Violini fa notare che in nessuna di queste definizioni è esplicitato il concetto di eterosessualità ma perché esso vi è dato per ovvio e scontato, poiché i concetti di “società naturale”, “coniugalità” e “filiazione” hanno implicita connotazione eterosessuale. Ma ciò mostra che il problema è, più che giuridico, in primo luogo culturale. Fin quanto è legittimo un desiderio? Fin dove può spingersi fino a diventare un diritto? Ma soprattutto: cosa rende davvero tale la famiglia, e qual è il legame tra famiglia e matrimonio? Infine, cosa ancor più fondamentale, cos’è questa “legge naturale” di cui i difensori del matrimonio etero tra non-consanguinei parlano tanto, e che troviamo persino nella nostra Costituzione? Di cosa conversiamo realmente, noi contrari e noi sostenitori del matrimonio gay, quando dibattiamo su ciò? Cosa c’è davvero in gioco?

Chiudo con queste domande forti, che aprono spiragli su questioni enormi eppure a portata di mano di tutti, con le quali determineremo il futuro delle prossime generazioni, molto più di quanto comprendano sia coloro che giocano ad atteggiarsi a grandi intellettuali “gay-friendly” sia gli omofobi che si mimetizzano tra coloro che davvero difendono la famiglia. Tanto è aberrante il conflitto ideologico in atto, che il Reato di Omofobia, se venisse approvato, consentirebbe di mandare in galera anche chi difende ciò che è scritto proprio nella nostra Costituzione, creando nella nostra società un cortocircuito tanto invisibile quanto subdolo, tanto nascosto quanto pericoloso. Ma la storia insegna che a volte, contro i desideri insaziabili aizzati da certi venti ideologici, portati avanti dalle onde di cambiamenti in atto, c’è poco da fare, come gridano le vittime innocenti delle rivoluzioni di tutti i tempi.

La redazione

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Proseguono le vittorie pro-life nel mondo

Bambino con mamma«L’attenzione alla vita umana nella sua totalità è diventata negli ultimi tempi una vera e propria priorità del Magistero della Chiesa», ha spiegato Papa Francesco, «particolarmente a quella maggiormente indifesa, cioè al disabile, all’ammalato, al nascituro, al bambino, all’anziano, che è la vita più indifesa». Proprio per questo saltuariamente aggiorniamo i lettori sulle novità legislative rispetto alla difesa degli indifesi, ed è quello che faremo anche in questo articolo.

In Canada la British Columbia Court of Appeal ha confermato il divieto canadese sulla legalizzazione del suicidio assistito, trovandolo pienamente costituzionale in quanto non violano il “diritto” di morire.

Negli USA si è toccato il record del numero di cliniche abortiste chiuse. Infatti, grazie alle recenti cliniche che hanno cessato l’attività (anche quattro nel Texas), nel 2013 sono state 44 quelle che sono state costrette a chiudere i battenti. In generale quasi una clinica abortista su 10 negli Stati Uniti ha chiuso o smesso di eseguire aborti a partire dal 2011.

Nel North Dakota (USA) una recente sentenza ha respinto un ricorso contro la legge in vigore nel Paese che vieta l’aborto di bimbi disabili. Si tratta del primo Stato a vietare aborti di bambini affetti dalla sindrome di down.

In Ohio (USA) secondo un sondaggio del “Public Religion Research Institute” ha rilevato che il 51% dei cittadini avrebbe votato contro un emendamento costituzionale per ridefinire il matrimonio aprendolo alle coppie omosessuali, mentre il 45 per cento avrebbe votato sì.

In Italia è stata firmata la convenzione tra l’Uls 16 di Padova ed il Movimento per la vita, che autorizza i volontari, muniti di apposito distintivo, ad entrare nell’ospedale per aiutare le donne con una maternità problematica, offrendo loro assistenza, servizio di accoglienza e ascolto; interventi a favore di maternità e genitorialità; realizzazione di attività per l’inserimento lavorativo; interventi di ascolto, di sostegno morale e psicologico, nonché di sensibilizzazione della comunità civile; promozione di iniziative di carattere formativo, educativo ed informativo.

La redazione

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Gli atei si accorgono che l’UAAR è un’associazione religiosa

Manifesto uaarNonostante lo avessimo fatto notare da tempo, finalmente diversi atei militanti si sono spiacevolmente accorti che l’Unione Atei Agnostici Razionalisti (UAAR) considera l’ateismo una “confessione religiosa”, se stessa una “associazione religiosa” ed infine la scelta di iscriversi ad essa, diventando socio UAAR, una “precisa scelta religiosa”.

Sono parole ufficiali, alcune presenti nello statuto UAAR, riprese nel Ricorso straordinario al Capo dello Stato del 30/5/1996” che l’associazione integralista ha intrapreso per iniziare le trattative con lo Stato per vedere riconosciuto il diritto alle intese, regolamentato dall’articolo 8 della Costituzione, previsto solo per le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Tutto questo comporterebbe vantaggi morali e concreti, come l’attribuzione dell’8×1000 e l’insegnamento dottrinale nelle scuole pubbliche, vantaggi che secondo l’associazione sarebbero «discriminatori nei confronti degli atei, qualora non fossero messi a disposizioni anche delle associazioni di atei».

Le contraddizioni sono evidenti: come si può combattere la presenza pubblica della religione se loro stessi, -confessione religiosa che pratica una religione-, si affannano per essere riconosciuti pubblicamente come tale? Con quale coraggio criticare il meccanismo dell’8×1000 se poi presentano ricorsi per poterne a loro volta beneficiare?

Per questo sul forum “Atei italiani”, qualcuno (che deve avere letto i nostri articoli), ha ripreso la questione spiegando: «Non so che effetto fa a voi, io sono rimasto negativamente sorpreso […]. Autoclassificandosi esplicitamente come associazione religiosa e aggiungendo che non esiste criterio discretivo tra associazione religiosa e confessione religiosa e dando l’impressione che alla fine tentino semplicemente di accaparrarsi una quota di ciò che criticano. Questa è l’impressione che ha dato a me, magari mi sbaglio, ma mi sembra un gigantesco passo falso». No, non c’è nessun errore come sottolinea un altro forumista, decisamente più diretto: «mi pare chiaro che si vogliono spacciare come “religione” per accaparrarsi quel 3per1000 in più derivante dall’ipotetico passaggio dal 5×1000 all’8×1000. Io con la mia prosa spicciola lo chiamo “vendersi il culo”».

Qualcuno ci tiene a chiarire che «l’UAAR non ha ricevuto alcun mandato di rappresentanza da tutti gli atei», altri cadono dalle nuvole: «Non ne sapevo niente del ricorso. Sono senza parole». Un utente offre una soluzione: «come per lo sbattezzo basterebbe uscire formalmente da UAAR e chi resta facesse quello che gli pare».

Interviene anche un amministratore del forum, che è anche un socio dell’associazione di atei fondamentalisti. «Le dimensioni dell’uaar al momento lasciano poco ben poco spazio alla fantasia», sottolinea. «Se non ricordo male siamo circa 4000 soci, ossia un numero impossibile da considerare come appunto “rappresentativo” di un qualcosa che poi tu stesso (uaar) dici essere relativo a milioni di persone. Io concordo con tutti voi sul fatto che il passo sia delicato e molto, molto a rischio di pestamento di merda». L’amministratore del forum critica l’individualismo degli atei che non vogliono finanziare economicamente l’UAAR perché «avere maggiori risorse potrebbe significare poter iniziare a fornire (queste cose costano e costano parecchio) assistenza laica negli ospedali, per i poveri, ecc insomma svincolare dal contesto religioso le attività solidali. Potrebbe (e l’uso del condizionale è d’obbligo) rappresentare una strategia di cavallo di troia per poi potersi muovere in un ambito più ampio».

Si resta sbalorditi: intraprendere attività per i poveri come strategia per acquisire reputazione e benevolenza pubblica, per poi agire con meno resistenze in campo anticlericale e antiteista? D’altra parte è più o meno il passaggio simile che ha escogitato la dirigenza stessa dell’UAAR per recuperare in termini di credibilità dopo i numerosi scandali interni, chiamando esperti per la consulenza dell’immagine. Per “sedurre” nuovi “clienti” e vendere di più il “prodotto”, gli esperti di marketing hanno dato vari consigli sopratutto tesi a far apparire in primo piano i “diritti umani” e non mostrare la «bassa rilevanza argomentativa, doverismo, aggressività» che invece hanno caratterizzato il modus operandi dell’UAAR in questi anni. Non sono mancate nemmeno in questo caso le reazioni sdegnate dei simpatizzanti: «Sinceramente, mi viene da vomitare all’idea che si sia considerati un “oggetto da vendere” e quindi da “rendere accattivante”. Se devo dirla tutta nemmeno la Chiesa ha degli atei una così scarsa considerazione», ha scritto un utente. E ancora: «Un’associazione con obbiettivi culturali e politico/sociali va dietro a strategie di marketing adatte a vendere mutande. Mi sa che siamo parecchio fuori strada».

La redazione

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Pio XII e la Shoah. La “lezione” di Adriano Prosperi

Shoah 
di Matteo Luigi Napolitano*
*Docente di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università G. Marconi

 

Gli storici, si sa, non sono esenti da errori, perché la storia è una scienza umana ed errare è umano. Ma non si tratta solo di questo. La storiografia è afflitta talvolta dall’obbligo delle distinzioni, divisioni e appartenenze culturali, dagli steccati ideologici: insomma da tutto ciò che inficia la serena analisi dei fatti. Quando poi questi fatti riguardano la storia della Chiesa nella seconda guerra mondiale, si materializza la possibilità che le convinzioni religiose o politiche sovrastino i fatti documentati, alterando le interpretazioni dello storico.

Ne è un tipico esempio l’articolo di Adriano Prosperi sul negazionismo, apparso su La Repubblica il 24 ottobre scorso.

In questo articolo Prosperi analizza il caso Priebke, sottolineando efficacemente che, dopo il processo in Italia, la condanna all’ergastolo e i benefici della legge italiana, il boia delle Fosse Ardeatine «ha potuto muoversi tranquillamente per Roma in mezzo agli eredi delle sue vittime», facendo di questa libertà un «uso per rivendicare un miserabile orgoglio di soldato e per negare l’ingranaggio di morte di cui era stato un piccolo anello». Come non condividere queste parole? Sennonché, qualche riga dopo, Prosperi parla di coloro che avrebbero voluto fare di Priebke «un’icona politica dopo il vicino decesso» e che «a favore del disegno c’era la prevedibile benedizione della Chiesa e il consueto facile perdono italico». La Chiesa dunque avrebbe senza dubbio “benedetto” il perdono italico di Priebke, passando quindi la spugna sui suoi efferati crimini.

Poco dopo, l’autorevole storico precisa il suo pensiero in questi termini: «Ma stavolta dall’alto di quel Vaticano che non aveva visto il rastrellamento degli ebrei del 1943 qualcuno ha visto il disegno e ha inceppato il meccanismo». In altri termini, le gerarchie vaticane si sarebbero salvate in calcio d’angolo, riscattandosi dal “silenzio” sulla Shoah. Tralasciando le osservazioni sul perdono nella teologia cattolica (che non è certamente il facile passaggio di spugna che Prosperi crede), desideriamo invece concentrarci sulla sua idea del Vaticano che, secondo lui, non vide che cosa succedeva agli ebrei romani e, supponiamo, agli ebrei europei.

L’approccio degli storici a un tema delicato come il Vaticano e la Shoah richiede più che mai attenzione ed equilibrio. Non ci sono solo gli apologeti, disposti ad assolvere e a “beatificare” sempre e comunque il personaggio di turno, sulla base di un’appartenenza religiosa o culturale e prescindendo dai documenti. Esistono anche gli “ipologeti”: coloro che dicono meno di quanto dovrebbero perché omettono o ignorano i documenti esistenti, quando non li tagliano di proposito nei punti in cui tali documenti smentiscono le loro tesi o i loro assiomi di partenza. E può anche capitare di imbattersi in quelli che abbiamo definito gli storici “gasteropodi”, i quali senza documenti, in modo strisciante ma politically correct inoculano nel dibattito teorie indimostrabili, ma presentate in modo apparentemente ineccepibile, quindi tale da farle apparire vere e inconfutabili. Gli storici, quelli seri, devono quindi dibattersi fra tali approcci distorti; ma anche guardarsi dall’esserne vittime, dato che nessuno è esente da errore.

Per Prosperi il Vaticano non vide la razzia degli ebrei romani. Sarebbe stato opportuno aggiungere che la maggioranza di quegli ebrei romani (l’anagrafe è matematica)  trovò rifugio in conventi e in altri rifugi, anche sulla spinta delle direttive papali. Non ripeteremo qui quanto altrove è già emerso grazie alla documentazione; preciseremo soltanto che anche se quegli ebrei romani mai tornati da Auschwitz rappresentano certamente un capitolo doloroso della storia nazionale, tutto ciò nulla toglie ai meriti della Chiesa cattolica per quello che essa fece in favore degli altri ebrei sfuggiti alla retata nazista di Roma.

Quel 16 ottobre 1943, di buon’ora, l’ambasciatore tedesco viene convocato dal Segretario di Stato Maglione: la razzia, gli dice il cardinale, deve avere immediatamente fine. Che trovi l’ambasciatore il modo di farlo, ma la Santa Sede non dev’essere messa nelle condizioni di protestare e si affiderebbe alla Provvidenza se fosse costretta a farlo. Sulla base di questo intervento vaticano, la razzia degli ebrei romani fu fermata; questo ci dicono i documenti britannici, che confermano quindi le informazioni ricavabili dai documenti vaticani.

I documenti ci consegnano quindi un Vaticano che non è cieco di fronte alla tragedia ebraica. E le testimonianze in tal senso non ci provengono solo da fonte vaticana, ma dalle stesse fonti ebraiche, che si rivelano davvero molto interessanti e ci fanno comprendere che gli ebrei contemporanei di Pio XII vedevano questo Papa in una luce molto positiva; diversamente da molti ebrei delle generazioni successive.

Il problema che lo storico deve quindi affrontare è quello dello iato culturale esistente fra due generazioni di ebrei: perché quella coeva a Pio XII lo difende? Su quali basi la generazione successiva lo attacca e lo accusa di “silenzio” di fronte alla Shoah? Perché Raffaele Cantoni, l’intelligente “mangiapreti” di sinistra dirigente della Delasem (l’organizzazione che durante la Shoah aiutò gli ebrei a emigrare), difende Pio XII nel 1964? Perché, sempre dopo la guerra, lo difende il Rabbino capo di Roma, Elio Toaff? Perché negli archivi ebraici dell’Ohio ci imbattiamo in dichiarazioni secondo cui gli ebrei, durante la Shoah, trovarono l’aiuto delle gerarchie cattoliche e di tanti  uomini di buona volontà ligi a Pio XII? Perché molte organizzazioni ebraiche di soccorso, durante la Shoah, affidarono i loro soldi a Pio XII, all’unico scopo di aiutare gli ebrei? Tutti questi elementi si ricavano dai moltissimi documenti ormai accessibili agli studiosi. Perché se ne tace?

La verità ormai consegnata alla storiografia è che nessuno che affronti seriamente tali questioni arriva a pensare che Pio XII chiuse gli occhi di fronte alla tragedia ebraica. Non lo pensano neppure a Yad Vashem, dove lo scorso anno ha visto la luce il primo volume su Pio XII e l’Olocausto, frutto di un lavoro congiunto ebraico-cattolico iniziato nel 2009 e durato tre anni.

Sarebbe bastato uno sguardo a Google per aggiornarsi su tutti questi sviluppo. Ma l’ipologia, si  sa, è la più facile accetta con cui si tagliano i giudizi sommari.

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