Pio XI e l’intolleranza verso fascismo e leggi razziali

Pio XILa Chiesa cattolica alleata a Mussolini? Ma quando mai! Il Concordato avvenne nel 1929 e servì alla Chiesa come richiesta di libertà, con esso non vi fu alcun giudizio positivo sul fascismo, ma -come ha spiegato mons. Luigi Negri in False accuse alla Chiesa (Piemme 1997), venne realizzato «per poter vivere, proponendo sempre un’alternativa culturale e sociale».

Anche perché il fascismo picchiava duro da anni contro la stessa Chiesa, così come sulle sedi del Partito popolare e dell’Azione cattolica, sui sacerdoti che si opponevano alla presa di potere da parte delle camicie nere. Il caso più noto è quello di don Minzoni che la sera del 23 agosto 1923 venne ucciso con una bastonata alla nuca in un agguato squadrista.

Eppure, in altre nazioni il pericolo comunista sembrava essere addirittura peggiore. Come ha spiegato lo storico David I. Kertzer, docente di antropologia e storia alla Brown University, nel suo recente libro Il patto con il Diavolo (Rizzoli 2014) -recensito da “Il Giornale”-, fu in questo contesto che Mussolini, noto ateo-mangiapreti operò un radicale e strategico cambio di rotta per svuotare dall’interno l’opposizione del Partito popolare: iniziò ad ergersi a baluardo della tradizione cristiana e cattolica. Fu in questo lungo percorso di “riavvicinamento” che si svolsero i Patti lateranensi.

Un successo per Mussolini ma “un patto con il Diavolo” per Pio XI, ha spiegato lo storico Kertzer che, studiando gli archivi vaticani ha ricostruito il complesso rapporto che venne a svilupparsi tra le due sponde del Tevere. Se all’inizio Ratti vide in Mussolini l’uomo della Provvidenza, in chiave anti-comunista, pian piano l’avvicinamento ad Hitler del dittatore gli rese chiaro il pericolo delle sue scelte. Aveva tollerato le pressioni sull’Azione cattolica, aveva mantenuto un basso profilo sulla guerra d’Etiopia, accettato il fatto che molti prelati fossero fascisti. Tutto questo, viene ripetuto spesso nel libro, nella speranza che Mussolini potesse essere un baluardo contro il comunismo. Il colpo finale furono però le leggi razziali.

Tanto che il Pontefice convocò il gesuita americano Jhon LaFarge, che aveva fondato il concilio cattolico interraziale, con l’intenzione di scrivere una enciclica forte (Humani Generis Hunitas) di condanna del nazismo, del fascismo e del razzismo. Non riuscì a terminarla prima di morire. Il suo successore, Pio XII, optò per un profilo più prudente. Una saggia decisione, che permise a moltissimi ebrei e cattolici tedeschi di salvarsi dalle rappresaglie naziste.

La redazione

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Quanti sono i preti pedofili? Lo 0,8% in dieci anni

Seminaristi«Anch’io penso che nel dibattito sui preti pedofili vi sia un certo compiacimento anticattolico e anticlericale», ha ammesso l’anticlericale Sergio Romano. La pedofilia di alcuni sacerdoti è certamente un crimine abominevole, a volte sottovalutato da diversi esponenti della Chiesa. Un grave errore, come è sbagliata la strumentalizzazione del mondo laicista, che usa i “preti pedofili” come argomento ricattatorio per smorzare qualunque intervento della Chiesa in campo etico.

Ma quanti sono i preti macchiatisi di pedofilia? Il Vaticano ha rivelato i numeri ufficiali davanti al 52esimo Comitato Onu contro la tortura: tra il 2004 e il 2013 un totale di 884 membri del clero sono stati ridotti allo stato laicale nell’ambito dello scandalo della pedofilia. Altre misure disciplinari sono state prese nei confronti di 2.572 sacerdoti (spesso perché ormai in età avanzata o malati). Questi dunque i numeri su cui ragionare. Se sommiamo 884 a 2.572, in totale abbiamo 3456 sacerdoti cattolici pedofili in dieci anni. I preti cattolici nel mondo, secondo l’Ufficio statistiche del Vaticano, sono circa 410mila, una media approssimativa tra i 405mila del 2000 e i 413mila del 2010, numeri simili a quanti ce n’erano negli anni ’60 e ’70. Il calcolo è presto fatto: i 4000 preti pedofili corrispondono allo 0,8% dei preti cattolici in attività negli ultimi 10 anni. Anche se un solo caso di abuso è già troppo, possiamo rilevare che non si tratta affatto di percentuali elevate, anzi, decisamente modeste rispetto a quelle che colpiscono genitori, compagni, insegnanti, allenatori e parenti in generale (la maggior parte sposati, dunque non celibi).

Tuttavia, tale percentuale dovrebbe essere ancora inferiore. Lo ha spiegato il promotore di giustizia del Vaticano, Charles J. Scicluna, dato che bisognerebbe scindere la “pedofilia” dalla “efebofilia”: «in questi ultimi nove anni (2001-2010) abbiamo valutato le accuse riguardanti circa 3000 casi di sacerdoti diocesani e religiosi che si riferiscono a delitti commessi negli ultimi cinquanta anni. Possiamo dire che grosso modo nel 60% di questi casi si tratta più che altro di atti di efebofilia, cioè dovuti ad attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, in un altro 30% di rapporti eterosessuali e nel 10% di atti di vera e propria pedofilia, cioè determinati da una attrazione sessuale per bambini impuberi. I casi di preti accusati di pedofilia vera e propria sono quindi circa trecento in nove anni. Si tratta sempre di troppi casi – per carità! – ma bisogna riconoscere che il fenomeno non è così esteso come si vorrebbe far credere».

Per questo il laico Philip Jenkins, docente di Storia e religione all’Università della Pennsylvania ha spiegato: «Lo scandalo dei preti pedofili è stato ingigantito dai pregiudizi anticattolici. Il termine preti pedofili è discriminatorio. Gli abusi sessuali nella Chiesa cattolica non sono più frequenti che nelle altre chiese o tra gli insegnanti delle scuole. Inoltre, di rado si tratta di pedofilia, perché le vittime hanno raggiunto o superato la pubertà. Gli abusi sono orrendi, sono crimini da punire e stroncare, non da strumentalizzare». Questo pregiudizio, ha proseguito Claudio Magris, è anche «barbarico e stupido come sospettare in generale di stupro tutti i romeni. In tal modo, inoltre, si arreca ingiustizia a tutti quei religiosi – preti e suore – che, nelle più diverse e disperate zone del mondo e nelle più diverse e disperate situazioni di sofferenza e di miseria ma anche nelle parrocchie delle nostre città, dedicano più di ogni altro la loro vita a difendere i dannati della terra».

La redazione

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Pietro Barcellona, un riferimento per credenti e non

Pietro BarcellonaNel settembre scorso è morto un grande intellettuale, Pietro Barcellona. Filosofo, giurista, scrittore, già membro del Consiglio superiore della magistratura, deputato nelle file del Partito Comunista Italiano, docente emerito di filosofia del diritto all’università di Catania. Ma, sopratutto, ciò che vale di più per un uomo, nel 2010 ha annunciato l’approdo al mistero cristiano.

Ma non è del tutto corretto, lui stesso ha voluto chiarire in un articolo sull’“Unità” intitolato Come sono diventato cristianoche «non mi sono convertito l’altro ieri per effetto di un’improvvisa illuminazione ma ho vissuto in tutta la mia vita un percorso tormentato di ricerca oltre ciò che di volta in volta è sembrata l’ultima spiegazione possibile del nostro stare al mondo». Un percorso, che ha avuto come protagonisti il comunismo, il capitalismo, la critica alla modernità, la psicoanalisi. Poi, una svolta nel 1989, quando -ha raccontato in un articolo su “Avvenire”– ha incontrato «il mostro contro il quale avevo per tanti anni combattuto inutilmente: il nichilismo. Le alternative razionalizzanti non davano nessuna risposta, evoluzionismo, casualità e funzionalismo non consentono di attribuire alcun valore in sé a nessun evento della nostra esistenza quotidiana; tutto ciò che facciamo e siamo finisce per essere il mero risultato di una sequenza di fatti casuali e funzionali, senza alcuna dignità. Il venire al mondo di un essere umano non ha nessun significato nella sequenza dell’evoluzione».

Ha quindi continuato: «ciò che mi appariva chiaro», ha continuato, «era che finché l’uomo pretende di spiegare con i propri saperi tutto ciò che riguarda le condotte umane finisce col negare ciò che di specificamente umano la nostra condizione mortale esprime: il bisogno di trascendere l’orizzonte dentro il quale ci troviamo ad agire per riscoprire una presenza ulteriore rispetto all’azione degli uomini»«La mia non è una conversione quindi», ha chiarito ancora una volta, «ma un processo lungo, aperto e tormentato […] Sono sicuramente un cristiano che nella temperie del presente è convinto che solo il discorso di Cristo si può opporre al nichilismo biologico dello scientismo che cerca di cancellare ogni specificità della condizione umana. Penso con assoluta convinzione che la via della salvezza e la fuoriuscita dal pensiero unico dell’economia dominante possono realizzarsi soltanto restituendo all’uomo la sua vocazione divina».

«Sin da ragazzo», ha scritto ancora nel suo libro Incontro con Gesù (Marietti 2010), «il mio demone mi ha spinto a una lotta incessante contro l’insignificanza degli esseri umani e del mondo circostante, contro l’indifferenza dell’universo che appare nelle notti stellate come un cielo lontano e inattingibile. Ho forse precocemente avvertito che mi era affettivamente impossibile rassegnarmi alla contingenza assoluta delle cose che mi circondavano, non perché non sentissi legami affettivi fortissimi con parenti e compagni di scuola, ma perché mi sembrava di vederli contemporaneamente presenti e in fuga verso un nulla che ne cancellava persino le ombre». Il cristianesimo è emerso come unica alternativa ragionevole, «poiché solo la presenza del divino nell’umano potrebbe gettare un ponte tra la nostra dolorosa finitezza e la gioiosa giostra delle galassie e delle stelle. L’ineludibile questione di Dio si è presentata, così, alla mia mente sotto l’aspetto apparentemente innocuo dei preti che ho incontrato e di uno in particolare che mi ha chiesto di cercare insieme, senza dare nulla per scontato».

Barcellona si riferisce a don Francesco Ventorino, il quale ha ricordato: «Del suo itinerario spirituale sono stato testimone in questi ultimi anni nei quali egli mi ha fatto dono della sua insperata e grande amicizia. Pietro ha fatto irruzione, infatti, in modo imprevisto nella mia vita di vecchio prete, pur piena di tante sorprese, ma che non si è mai abituata al riaccadere del miracolo dell’incontro cristiano». Esso, «è frutto dell’azione di una presenza unica, quella di Cristo, di cui non abbiamo un’esperienza diretta, ma una certezza ragionevole, fondata proprio sugli effetti che essa produce e che pertanto lo rende contemporaneo a ogni uomo in ogni epoca della storia. Per cui Pietro Barcellona poté affermare: “La contemporaneità della Persona di Gesù Cristo è dunque per me l’inizio di una vera e propria rivoluzione nei rapporti tra gli esseri umani. Come scrive Fulvio Papi, chi afferma che Gesù è il Figlio di Dio, un attimo dopo deve cambiare la propria vita”».

Proprio in questo periodo è uscito un libro postumo di Barcellona, intitolato La sfida della modernità (La Scuola 2014), dove il filosofo si interroga sulla nostra società e arriva, secondo noi, a chiarire e definire il vero l’obiettivo, consapevole o no, della rivoluzione antropologica in campo bioetico (aborto, eutanasia, fecondazione, omosessualismo…) a cui stiamo assistendo: «Gli uomini hanno paura sostanzialmente di una cosa sola – essere liberi –. La libertà sgomenta, perché – quando è vissuta fino in fondo – è un abisso che fa venire le vertigini. La radice del post-umano è sempre la stessa: riuscire a conseguire un dominio totale del processo di creazione che permetta di produrre il clone dell’uomo, dell’essere umano in modo da eliminare la figura del Creatore cioè di negare la creazione stessa perché questa diventa un’autocreazione continua, che è il compimento del progetto illuministico. Il progetto illuministico è che la modernità nasce da se stessa, si auto-legittima, non ha nessun rapporto con l’“altro”. Senza creazione, non siamo creati neppure noi. Questo riconoscimento lo pongo in chiave storica, cioè se io non avessi l’idea che nasco da due persone, non avrei nemmeno l’idea della mia libertà. Il fatto che io sono stato creato, vuol dire che non sono il risultato di una necessità, quindi sono libero anch’io».

Auguriamo ad ogni non credente di lasciarsi scuotere dalle stesse domande che hanno pervaso il percorso di Pietro Barcellona, e ad ogni credente di mantenere vive queste domande, così da essere grati continuamente della risposta cristiana che ci ha incontrati.

La redazione

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Vittoria del genere neutro: elogio del disordine

ConchitaMaschile, femminile e neutro. L’Australia ha inventato a tavolino il terzo genere per far contento Norrie May Welby, nato maschio ma che, per un disturbo d’identità (tecnicamente “disforia dell’identità di genere”), si è convinto di essere donna, iniziando una terapia ormonale dopo l’operazione chirurgica, per poi interromperla perché non si sentiva a suo agio nemmeno in questi “nuovi panni”. Così la Corte Suprema australiana ha riconosciuto il genere neutro.

In questi giorni l’Eurofestival è stato vinto da Conchita Wurst alias Thomas Neuwirth, uomo austriaco travestito da donna, con tanto di barba e baffi sul viso. Si definisce “gender-neutral” ed è stato fatto vincere non tanto per il merito (bella voce, senz’altro) ma per ovvi motivi ideologici: “una vittoria per la diversità e la tolleranza in Europa” si è affrettato a dire il presidente austriaco Fischer. Un voto pilotato dunque, a discapito degli altri cantanti in gara, per loro sfortuna senza confusione d’identità. Non a caso l’italiana Emma Marrone, cantante italiana in corsa all’Eurofestival, ha commentato: «Senza barba non avrebbe alcuna chance, siamo seri». Mentre Thomas ormai è purtroppo etichettato dal mondo come “donna barbuta”, con tanto di sorriso ironico, il vicepremier russo Dmitri Rogozin ha ironizzato: «Il risultato di Eurovision ha mostrato ai sostenitori dell’integrazione europea il loro futuro europeo: una donna barbuta». Mentre i lettori del “Fatto Quotidiano” (vedere commenti) stanno ridicolizzando disgustati l’artista con la barba, mentre il “Messaggero” lo definiscecolorato fenomeno”“Il Corriere” ha subito elogiato «la normalità del terzo sesso».

Normalità? Al posto di aiutare queste persone con fraterno calore umano, con l’attenzione e l’amore a quel che sono davvero e non a quello che per qualche motivo vorrebbero essere, si valorizzano e si premiano le loro difficoltà, la loro confusione, i loro disturbi (il “disturbo dell’identità di genereè presente nel Manuale diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali), rendendosi ridicoli, violando il buon senso e modificando le norme basilari della società (vedi il caso australiano). Ma, sopratutto, questi uomini e queste donne vengono trattati come fenomeni da baraccone che portano avanti lo show, da applaudire per non apparire intolleranti, discriminando così la loro vera natura.

Senza contare, inoltre, che a questo punto la Corte australiana avrebbe così discriminato gli altri 16 generi esistenti stabiliti dalla Australian human rights commission (Ahrc), ovvero: gli intersex, gli androgini, gli agender, i crossdresser, i drag king, i drag queen, i genderfluid, i genderqueer, gli intergender, i neutrois, i pansessuali, i pan gender, i third gender, i third sex, le sistergirl e i brotherboy. Vogliamo forse non riconoscere anche loro?

Il filosofo Vittorio Possenti, docente presso l’Università Cà Foscari di Venezia, parla di «tsunami antropologico», che «si appella alla tecnica, alla libertà insindacabile dell’individuo, alla manipolazione del linguaggio, nel chiaro intento di formare una nuova comprensione dell’essere umano». L’Enciclopedia Treccani spiega chiaramente che «il gender si presta a essere inteso come concetto neutro, né femminile né maschile […] dimenticando il significato essenziale della bipolarità sessuale e la sua struttura oggettiva». Ed invece «la realizzazione dell’identità sessuata dell’individuo si manifesta nel suo essere uomo o donna, e si esplicita nelle finalità stesse della sessualità (la riproduzione e la continuità intergenerazionale), e presuppone necessariamente una dimensione corporea definita, sulla base della quale il soggetto possa sviluppare un’identità psichica, in grado di percepire il valore della diversità sessuale e di confrontarsi con essa».

L’intervento migliore sul caso di Norrie (ma che vale anche per Thomas), stato quello di Mauro Magatti, sociologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore che, scrivendo sul “Corriere della Sera”, ha riflettuto sull’affermazione del genere neutro, rilevando tre piani d’appoggio: «Il primo è quello della soggettività a cui oggi si riconosce un potere di autodeterminazione pressoché assoluto. Il secondo piano è quello della tecnica. Tutti questi fenomeni hanno a che fare, in modo più o meno diretto, con le nuove possibilità che la tecnica mette a disposizione per modificare noi stessi e le nostre relazioni. Una tendenza che traduce a livello sistemico ciò che l’Io sovrano esprime nella sfera della soggettività. L’ultimo piano è quello della legislazione dello stato democratico. Portato ad assecondare, per quanto possibile, le domande di riconoscimento dei suoi cittadini, esso tende a prendere atto del dato di fatto e così a conformarsi alla realtà. L’applicazione sistematica del principio di non discriminazione — che mira a garantire la parità di trattamento tra persone diverse — ha, come conseguenza, la creazione del “regime dell’equivalenza”, nel quale ogni differenza va parificata a qualsiasi altra».

Sinteticamente, ha proseguito il sociologo, «l’ideale è quello di un mondo dove ognuno decide per sé grazie alle possibilità crescenti che la tecnica mette a disposizione in un regime di neutralità etico-valoriale garantito dal formalismo democratico. Un individualismo 2.0 che i nostri padri non erano nemmeno in grado di immaginare. Siamo solo ai primi passi di una vicenda che diventerà ben più seria avanzando il XXI secolo. Ma siamo proprio sicuri che sia questa la strada che vogliamo percorrere?».

La redazione

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Il basket in America? Diffuso grazie ai cattolici

Basket
 
da Aleteia, 04/04/14
 

Perché il basket c’entra con il cattolicesimo? Una risposta la offre Il Timone in un articolo pubblicato il 3 aprile in cui cita Julie Byrne, docente dell’Università di Hofstra che ha dedicato un approfondito studio al feeling tra cattolici e la palla a spicchi. L’articolo sostiene che le moltitudini di immigrati cattolici – irlandesi, italiani, polacchi – che si riversarono nei maggiori centri urbani americani tra fine ‘800 e inizi ‘900 incontrarono una cultura e anche un sistema scolastico ostile.

Per far fronte a quella situazione nacquero come funghi scuole cattoliche. Ma sia per la povertà degli studenti, che non potevano permettersi le attrezzature del football americano, sia per gli spazi ristretti dei quartieri cementificati di New York o Chicago, che non si prestavano a ospitare un campo da baseball, il basket divenne lo sport per eccellenza, facile da giocare anche in palestre improvvisate.

Da allora, quell’amore nato per spirito di aggregazione ma anche grazie alla Provvidenza, non si è mai interrotto. E, si può aggiungere, se gli afro-americani vanno matti per questo sport non va dimenticato che i primi a integrarli e a schierarli massicciamente in campo furono proprio i cattolici.

Villanova, Dayton, St. Louis University sono centri importanti per la teologia cattolica negli Stati Uniti, mentre Gonzaga e Creighton sono due degli atenei simbolo dell’apostolato intellettuale dei gesuiti. Ma per l’americano medio queste realtà, almeno nei mesi invernali, richiamano una cosa sola: il basket.

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Giacomo Poretti: il dialogo tra la Madonna e il Figlio

Professio fideiIn occasione della Festa della mamma riprendiamo il bel dialogo tra la Madonna e il Figlio in croce scritto dall’attore Giacomo Poretti (di Aldo, Giovanni e Giacomo) e letto l’8 maggio scorso in piazza Duomo a Milano in occasione del pellegrinaggio della Croce con il Santo Chiodo, che ha visto la partecipazione di 40mila persone. Sull’account Youtube della diocesi di Milano è possibile vedere tutto l’evento.

L’evento è stato guidato dal card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, oltre a Poretti, hanno partecipato il tenore Vittorio Grigòlo e cantautori Marco Sbarbati e Davide Van De Sfroos; Massimo Popolizio e Pamela Villoresi hanno letto Testori e Manzoni; Gemma Capra (moglie del commissario Luigi Calabresi) ha parlato del difficile percorso del perdono, ricordando l’assassinio di suo marito e la conversione. Lo scrittore Luca Doninelli e il giornalista Massimo Bernardini hanno parlato della Croce di San Carlo e Philippe Daverio di come la fede ha modellato la città.

 

Qui sotto il video della lettura di Giacomo Poretti.

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Divorzio breve, una pessima scelta

DivorzioSorpresa: il problema non è più il divorzio, ma i suoi tempi. Non l’agonia di un matrimonio, ma la rapidità delle procedure di sepoltura. Non il fatto che ci si lasci, ma che si perda troppe energie nel farlo. Questo, almeno, il significato che emerge dal testo bipartisan depositato alla Camera dalla democratica Moretti e dal forzista D’Alessandro, che prevede la riduzione ad un anno del periodo di separazione per ottenere il divorzio, ridotto ulteriormente a nove mesi in caso di coppia senza figli minori, e lo scioglimento della comunione dei beni nel momento in cui il giudice autorizza moglie e marito a separarsi.

Al di là del profilo strettamente tecnico-giuridico della proposta, non possiamo sottrarci ad alcune considerazioni di carattere morale – ma non per questo astratte, anzi – che questa iniziativa inevitabilmente stimola. La prima, breve ma emblematica, concerne il fatto che una politica divisa su tutto riesce ad unirsi solo su ciò che divide, vale a dire la rottura coniugale e la necessità di agevolarla: si fa un gran parlare di solidarietà e condivisione e della necessità di contrastare le divisioni, ma quando poi si tratta di concorrere alla frammentazione della famiglia, che della solidarietà e della condivisione è fonte originale, l’unanimità di vedute è straordinaria. Il che rappresenta, si converrà, un amaro paradosso.

Una seconda considerazione riguarda il messaggio distruttivo insito nel cosiddetto “divorzio breve”. Si dirà che se un matrimonio è finito, e marito e moglie non trovano più la forza per andare avanti assieme, tanto vale che possano lasciarsi il più in fretta possibile evitando lungaggini dolorose per entrambi. Ora, a parte che se il Legislatore non ha previsto lo scioglimento coniugale istantaneo, non è certo per inumana crudeltà o per il gusto di infliggere sofferenza bensì come estremo tentativo – sulla cui efficacia è lecito discutere, ma pur sempre tentativo è – di sottolineare con forza la gravità del divorzio e di conseguenza l’importanza del matrimonio, c’è una domanda che pesa.

La domanda è la seguente: quale messaggio lancia ai propri cittadini, ed in particolare alle coppie sposate, un Parlamento che, anziché interrogarsi cercando di trovare il modo per arginare il disastroso fenomeno del divorzio, sceglie di renderlo più celere? E’ un Parlamento che, per quanto possibile, sostiene l’unità della famiglia oppure è un Parlamento che, di fronte alla crisi di coppia, suggerisce a tutti la scorciatoia più facile? E ancora: è realmente neutrale, come si sente spesso dire, uno Stato che dinnanzi all’instabilità coniugale, fra la solidità matrimoniale ed il divorzio scegliere di promuovere, offrendolo in formato light, quest’ultimo?

Se si riflettesse con attenzione su questi interrogativi, si capirebbe quanto la proposta di Moretti e D’Alessandro non stia dalla parte dei cittadini bensì contro il loro bene. Per quanto si possa infatti dire e raccontare al riguardo – e per quanto si stia tentando di indorare la pillola arrivando al punto di proporre ed organizzare grottesche “feste di divorzio” -, in cuor suo non c’è chi gioisca all’idea di un addio, all’idea di dover azzerare la propria vita calpestando una promessa risalente magari solo qualche anno prima, rendendo, se c’è, il proprio figlio o i propri figli testimoni di un fallimento che anche se fosse reso immediato dalla legge, sempre fallimento rimarrebbe.

Non servono dunque menti elevate per comprendere come uno Stato che, evitando di cercare di promuoverne la solidità, decidesse di mettere più dinamite dentro la famiglia per farla saltare prima, giocherebbe un ruolo ancora più distruttivo di quello attuale, scegliendo chiaramente da che parte stare ed assumendosi responsabilità gravissime, soprattutto nei confronti dei giovani e delle future generazioni. Non è difficile, a questo punto, immaginare diverse obiezioni che, in fondo, si possono riassumere in un unico interrogativo: che senso ha chiedere a due persone che hanno smesso di amarsi di protrarre il loro rapporto? Perché aggiungere burocrazia alla sofferenza? Per quale ragione nascondere con l’ipocrisia della legge una verità drammatica e già evidente?

Il nocciolo della questione – venendo alla terza ed ultima considerazione – in effetti è proprio questo: la verità di Amore dichiarato finito. Si è volutamente ricorrere a detta espressione – dichiarato finito -, perché c’è un ultimo interrogativo col quale è opportuno fare i conti: un Amore può davvero finire? La domanda, benché possa apparire provocatoria e a qualcuno persino ridicola, è invece assolutamente centrale. Perché se l’Amore è solamente un intreccio di passioni non solo non c’è da meravigliarsi che finisca, c’è perfino da stupirsi che duri così a lungo da condurre due persone da un fidanzamento, magari di diversi anni, fino al matrimonio. Se però l’Amore è anche (e in alcuni passaggi soprattutto) e volontà e sacrificio, determinazione e sudore, difficilmente può – un po’ come il petrolio di un pozzo qualsiasi – esaurirsi. Né potrà prosciugarsi per una crisi.

Sarà anzi proprio la crisi o le crisi – che è del tutto fisiologico che, negli anni, ciclicamente si verifichino – a rafforzarlo, a cementarlo rendendolo equilibrato e maturo. L’idea che se un giorno volessimo mandare tutto al diavolo – per quanto i problemi di coppia non siano e non debbano diventare affari altrui – la comunità, anziché spianare la strada a propositi disfattisti, possa mettere a nostra disposizione non solo supporti psicologici, materiali o di altro genere (cosa che oggi non avviene) ma soprattutto, attraverso quei supporti, un chiaro messaggio a favore del mantenimento della promessa da noi liberamente fatta ad una persona da noi liberamente scelta, di certo non risolverebbe i problemi. Però ci farebbe sentire meno soli. E ci farebbe capire che la scelta più difficile, quella di ripartire quando ormai sembra tutto finito, rimane la scelta giusta. Altro che “divorzio breve”.

Giuliano Guzzo

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L’arretratezza dell’Italia nella libertà di educazione

ScuolaOggi Papa Francesco incontrerà la scuola italiana, qui si può seguire la diretta streaming.

Solitamente in campo bioetico i pecoroni dicono ai liberi pensatori che “l’Europa è più avanti di noi”, come se imitare e dipendere automaticamente dagli altri Paesi fosse un segno di intelligenza e autonomia. E’ facile rispondere ai negatori del libero pensiero che il criterio dell”erba del vicino” dovrebbe valere sempre, non solo quando si vuole. Infatti, l’Italia è uno dei pochi Paesi in Occidente a non permettere una vera libertà di educazione, opponendosi al finanziamento totale da parte dello stato verso le scuole paritarie.

Recentemente ha condannato l’ideologia comunista-statalista, che ancora perversa nel nostro Paese, il rettore della School of Education dell’Università di Boston, Charles Glenn: «La libertà di educazione richiede due elementi: uno è che le famiglie siano effettivamente in grado di scegliere, senza impedimenti finanziari, la scuola che corrisponde ai propri valori e all’obiettivo educativo che hanno in mente per i loro figli. L’altra è che ci siano reali alternative nel panorama scolastico, il che richiede un notevole grado di autonomia delle scuole. Qui è dove l’Italia è arretrata, nonostante il tanto parlare di autonomia da parte dei vari governi che si sono succeduti in questi anni».

Ci auguriamo che i vari Augias, Rodotà, Furio Colombo, Dario Fo, Flores d’Arcais, Carlo Flamigni, Sabina Guzzanti, Carlo Freccero si facciano finalmente da parte e lascino l’Italia avanzare verso il progresso, verso la libertà dallo statalismo omologatore.

La redazione

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Sacra Sindone: Garlaschelli ci riprova…

Sindone tridimensionaleNell’ottobre del 2009 l’associazione di atei fondamentalisti UAAR (“Unione Atei Agnostici Razionalisti”) ha finanziato il chimico Luigi Garlaschelli, responsabile scientifico del CICAP (il fantomatico “Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale“), per produrre una “seconda” Sindone utilizzando una tecnologia disponibile nel 1300 d.C., con l’obiettivo di dimostrarne la sua origine medievale.

Il risultato è stato talmente deludente, osservabile anche ad occhio nudo, che perfino Piergiorgio Odifreddi -presidente onorario dell’UAAR- ne ha preso le distanze, affermando su Micromega: «anch’io non sono particolarmente impressionato dalla riproduzione di Garlaschelli». A confermare il flop del CICAP, oltre agli esperti sindologi, ci hanno pensato anche i ricercatori del Centro Ricerche ENEA di Frascati, guidati da Paolo Di Lazzaro, che, attraverso un’indagine accurata, hanno concluso che la scienza non è oggi in grado di replicare l’immagine sindonica nella sua totalità, ma soltanto a realizzare una colorazione similsindonica attraverso l’irraggiamento di un tessuto di lino tramite impulsi laser eccimero.

Il primo ricercatore dell’ENEA -intervistato da UCCR- ha tuttavia “valorizzato” il tentativo di Garlaschelli, spiegando che «la mal riuscita copia di Garlaschelli, al contrario di quanto dichiarato dal Professore, è una ulteriore dimostrazione di quanto sia improbabile che un falsario del Medioevo abbia potuto realizzare la Sindone senza microscopio, senza conoscenze medico-legali, senza un laboratorio chimico attrezzato come quello del Prof. Garlaschelli». Perciò, «la estrema difficoltà tecnologica nel riprodurre alcune caratteristiche microscopiche dell’immagine sindonica (confermata peraltro dai risultati del Prof. Garlaschelli) permette di poter ragionevolmente escludere l’ipotesi di falso medioevale».

Dopo due anni di “pausa”, l’UAAR è tornata a finanziare Garlaschelli, il quale si è dedicato ad un secondo tentativo sulla (o, per meglio dire, contro la Sindone). Recentemente infatti è apparso un articolo su “NewScientist” in cui si parla di uno studio secondo cui Gesù sarebbe stato crocifisso con le braccia dietro la testa a “Y” e non a “T”. Gli autori di questo studio sono il “nostro” Garlaschelli e Matteo Borrini, che, guarda caso, è anch’egli un collaboratore del CICAP -l’ente di cui Garlaschelli è direttore scientifico-, e che, come immagine della sua pagina Facebook, ha scelto una significativa foto di un fulmine che colpisce la basilica di San Pietro. La conclusione di questo studio, prevedibile fin dall’inizio, è che l’impronta del corpo presente sulla Sindone non corrisponde alle rappresentazioni classiche della crocifissione usata tradizionalmente al tempo di Gesù.

Interessante la risposta di Emanuela Marinelli, fra i massimi studiosi mondiali della Sindone: «la teoria della posizione delle braccia a Y è tipica dei Testimoni di Geova ed è assolutamente sbagliata. Loro cercano in questo modo di distruggere il simbolo della croce, per questo affermano che la posizione delle braccia era diversa. Ma poi, se anche fossero unite sopra la testa, al massimo viene una I e non una Y». Le colate di sangue sono diverse perché «il braccio destro e sinistro non potevano essere perfettamente tesi come nelle rappresentazioni sacre perché il poggiapiedi, che spesso si vede, ancora non veniva utilizzato. E’ chiaro che il corpo non poteva essere in una posizione con le braccia esattamente orizzontali». L’assenza dell’appoggio sotto i piedi è stata sottolineata anche dal prof. Enzo Pennetta nella lettera aperta al prof. Garlaschelli.

Tra gli autori di questo “studio”, ha commentato infine la prof.ssa Marinelli, «c’è Luigi Garlaschelli, dell’università di Pavia. Lui è un noto negatore dell’autenticità della Sindone, quindi non capisco perché studi una cosa che per lui è falsa. Inoltre, in un’intervista al Sole 24 Ore del 2009 affermava di essere stato pagato da un’associazione di atei e agnostici per riprodurre una copia della Sindone e dimostrare così che quella di Torino non è autentica. Tra l’altro affermava: “Il denaro non ha odore. Quello che è stato fatto, è stato fatto scientificamente. Se la Chiesa cattolica vorrà in futuro finanziarmi, sono il suo uomo“. Cosa vuol dire? Che a seconda di chi lo paga lui dice una cosa o l’altra? Questo è inquietante e non mi sembra molto scientifico».

Un lavoro lacunoso, dunque, e dalle conclusioni poco significative. Non a caso, ha fatto notare il prof. Pennetta, non è stato pubblicato su nessuna rivista peer-review. Anche perché, probabilmente, non sarebbe stato mai accettato. Su una prestigiosa rivista scientifica, l’International Journal of the Care of the Injured, è stato invece pubblicato recentemente un altro studio sulla Sindone, in cui si è rilevato che l’uomo crocifisso ha riportato una lussazione dell’omero e la paralisi di un braccio, subendo un violento trauma al collo e al torace, fornendo per una serie di motivi (qui per approfondire) un ulteriore indizio della totale sovrapponibilità dell’immagine sindonica con i più minimi dettagli del racconto evangelico.

La redazione

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Ma Benedetto XVI aveva già risposto a Vasco Rossi…

Vasco RossiUno dei più grandi cantanti cristiani italiani è certamente Vasco Rossi. Un’affermazione quasi blasfema, lo sappiamo. Lui sarebbe profondamente in disaccordo, non solo per il suo dichiarato nichilismo/agnosticismo, le sue convinzioni e il suo stile di vita. Eppure, le riflessioni che pone e si pone, nei suoi brani, contengono una profondità e lucidità tale -nella loro semplicità- da confermare (a sua insaputa) la ragionevolezza del cristianesimo.

Vasco Rossi non soltanto canta autenticamente l’uomo, ma individua perfettamente la sua condizione attuale. «Quando cammino in questa valle di lacrime, vedo che tutto si deve abbandonare. Niente dura, niente dura e questo lo sai. Però, non ti ci abitui mai. Chissà perché?». Queste le parole della canzone “Dannate nuvole”, suo recente singolo. «Sono confuso, non son sicuro. Quando mi viene in mente che non esiste niente, solo del fumo. Niente di vero, niente è vero. E forse lo sai. Però, tu continuerai. Chissà perché?».

Domande serie, brucianti -altro che le canzonette che passano continuamente in radio-, davanti alle quali ogni uomo dovrebbe trascorrere l’esistenza. Interessante come sappia individuare la grande confusione in cui versa l’uomo di oggi, la spietata convinzione che “niente dura niente”. Ma, sopratutto, il riconoscere che “non ti ci abitui mai. Chissà perché?”. E’ vero, l’uomo non si accontenta mai, non riesce a placare la domanda di senso, di significato, di “oltre”, chissà perché. E’ una ribellione al pensiero dominante, che indica il nulla come unico destino della vita e un assoluto relativismo come unico modo di pensare.

«L’uomo “sa”, ne ha il confuso e nitido presentimento di essere fatto per una destinazione infinita, che sola può colmare quello “spazio” che egli sente di avere dentro di sé, uno spazio che chiede di essere riempito», ha concordato Benedetto XVI, scrivendo nel 2006. «Inquietudine, insoddisfazione, desiderio, impossibilità di acquietarsi nelle mete raggiunte: queste sono le parole che definiscono l’uomo e la legge più vera della sua razionalità. Egli avverte un’ansia di ricerca continua, che vada sempre più in là, sempre oltre ciò che è stato raggiunto». Fino a qui Vasco e Ratzinger sembrano fare la stessa lettura dell’uomo: davanti alla fragilità del mondo, dentro di noi sentiamo la certezza d’essere fatti per qualcosa che dura.

Ma, se nel primo c’è confusione, incertezza, perplessità, il secondo riesce ad andare oltre, ad offrire una risposta all’altezza della vibrazione della domanda: «Dio, l’infinito, si è calato nella nostra finitudine per poter essere percepito dai nostri sensi, e così l’infinito ha “raggiunto” la ricerca razionale dell’uomo finito. Sta qui la “rivoluzione” cristiana: Dio Creatore “raggiunge”, oggi e permanentemente, la ricerca razionale dell’uomo tra gli uomini: “Io sono la via, la verità e la vita”».

E’ nella natura della ragione desiderare l’infinito. Per alcuni è un’illusione, un tranello. Per altri è una domanda reale, ma senza risposta. Per noi, invece, è la firma che il Creatore ha posto in noi, perché non ci allontanassimo troppo. E’ la prova più evidente che siamo fatti da un Altro e per Altro, e che «il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (Sant’Agostino).

 

Qui sotto il video di “Dannate nuvole”

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