Il caso Galilei? Un esempio di collaborazione tra scienza e fede
E’ evidente come il “caso Galileo” sia ritenuto l’esempio chiave utilizzato dai sostenitori di una presunta dicotomia tra scienza e fede, attraverso il quale si afferma che la fede nel Dio cristiano è una gabbia che soffoca il pensiero e la ricerca scientifica. La rilettura dei fatti in chiave anticristiana nacque con la “Vita di Galileo” di Brecht, autore insignito del “Premio Stalin” ricevuto direttamente dalle mani del dittatore sovietico.
Bisogna innanzitutto dire che di fronte a Galileo diversi teologi, «obbligati a interrogarsi sui loro criteri di interpretazione della Scrittura» non presero una posizione corretta, come ricordò Giovanni Paolo II nel 1992. Perché «la maggioranza dei teologi non percepiva la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione». Tuttavia, ha continuato Wotyla, «il caso Galileo ha costituito una sorta di mito, nel quale l’immagine degli avvenimenti che ci si era costruita era abbastanza lontana dalla realtà. In tale prospettiva, il caso Galileo era il simbolo del preteso rifiuto, da parte della Chiesa, del progresso scientifico, oppure dell’oscurantismo “dommatico” opposto alla libera ricerca della verità».
Chiarite le colpe dei teologi di allora, vorremmo ricordare che ci sono diversi motivi per cui non è affatto opportuno che tale evento venga citato come “prova” per una presunta inimicizia tra scienza e fede. Innanzitutto perché Galileo Galilei era e rimase un devoto cattolico, morì nel letto della sua bella residenza con la benedizione papale e affermò: «Nelle mie scoperte scientifiche ho appreso più col concorso della divina grazia che con i telescopi» (citato in F.Flora, “Galileo Galilei, Lettere”, Einaudi 1978). La stessa biografia di Galileo dimostra dunque che la tesi di una contrapposizione tra scienza e fede è anti-fattuale, lui stesso conciliava i due saperi così come fecero tutti i più grandi rivoluzionari del metodo scientifico (molti dei quali sacerdoti e monaci, da Copernico a Mendel, fino a Lemaitre).
Il secondo motivo è che proprio il “caso Galileo” dimostra che scienza e fede possono reciprocamente aiutarsi e sostenersi. La Chiesa e la scienza, infatti, si aiutarono e si corressero reciprocamente: se Galilei aiutò i suoi critici (ecclesiastici e scienziati) a ricordare che la Scrittura era neutrale sulle questioni astronomiche, i vertici della Chiesa -come il card. Berllarmino- si dimostrarono migliori di Galilei dal punto di vista scientifico: Bellarmino, infatti, si rese conto che le prove della teoria di Copernico argomentate da Galilei erano insufficienti, tanto che scrisse: «Dico che quando ci fosse vera dimostratine che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisognerà andar con molta attenzione a studiare le Scritture che paiono contrarie, e dire che non le intendiamo piuttosto che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostrazione, fin che non mi sia mostrata» (Lettera a Padre A. Foscarini, 12 aprile 1615).
Proprio di questo “caso” parla il libro “Lezioni da Galileo” recentemente pubblicato da APRA in italiano, scritto dal celebre storico della scienza Stanley Jaki (scomparso nel 2009). Jaki ha smontato diverse leggende, chiarendo che la Chiesa non era affatto interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé e che non lo temeva affatto. Anche perché, come abbiamo scritto, già quattro secoli prima di lui san Tommaso d’Aquino (1225-1274) disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva. Inoltre, diversi pontefici, come Leone X e Clemente VII, si mostrarono aperti alle tesi del sacerdote cattolico Copernico (nessun “caso Copernico”, infatti), tanto che nell’Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana (e lo stesso Galilei ne era consapevole). Nel 1533 papa Clemente VII, affascinato dall’eliocentrismo, chiese, ad esempio, a Johann Widmanstadt di tenergli una lezione privata sulle teorie di Copernico nei Giardini Vaticani. L’opposizione all’eliocentrismo venne invece in modo compatto dal mondo protestante, tanto che Lutero scrisse di Copernico: «Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica». Ancora oggi i protestanti hanno grossi problemi con il mondo scientifico (creazionismo Vs evoluzione) a causa della mancanza di interpretazione della Bibbia.
La critica a Galileo da parte della Chiesa fu basata invece dalla mancanza di prove sufficienti a favore dell’eliocentrismo e dunque sulla sua inopportuna presentazione come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. Galilei, inoltre, utilizzò come unica prova l’argomento dell’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare (e avevano ragione loro, non certo lo scienziato pisano). Tuttavia molti ecclesiastici erano d’accordo con Galilei, come ha perfettamente spiegato lo storico ateo Tim O’Neill, «tutta la vicenda non era basata su “scienza vs religione”, come recita la favola della fantasia popolare. Le posizioni di Galileo e dei vari ecclesiastici coinvolti erano varie e complesse […]. Molti dei sostenitori e difensori di Galileo erano ecclesiastici e molti dei suoi aggressori erano colleghi scienziati. L’idea di letteralismo biblico è un modernissimo concetto sorto negli Stati Uniti nel XIX secolo ed è esclusivamente una idea protestante fondamentalista. La Chiesa cattolica, allora come oggi, ha insegnato che ogni versetto o brano della Bibbia debba essere interpretato con non meno di quattro livelli di esegesi: letterale, allegorico/simbolico, morale ed escatologico. Di questi, il senso letterale è generalmente considerato come il meno importante».
Così, ha concluso lo storico laico, «tutto questo significa che la Chiesa era perfettamente in grado di cambiare le interpretazioni delle Scritture se si fosse dimostrata» una prova. «Semplicemente non aveva intenzione di farlo prima che vi fosse una dimostrazione in modo conclusivo e Galileo non lo aveva fatto […]. Molti dei miei compagni atei farebbero bene a ripassare la loro storia quando si tratta di Galileo e procedere con cautela quando si invoca questo argomento».
Ecco dunque perché il “caso Galilei” non solo non andrebbe ricordato come ipotetico esempio di una dicotomia tra scienza e fede, ma addirittura potrebbe essere citato come esempio a sostegno di un’alleanza tra le varie forme di sapere (scienza, teologia e filosofia). Una collaborazione che, però, non diventi un’invasione di campo, come ha spiegato benissimo di recente il fisico Fabiola Gianotti.
La redazione