Cassazione: «le nozze gay non sono un diritto, vietarle non è discriminatorio»

Repubblica gayFinalmente anche la Cassazione ha messo nero su bianco quello che da diversi anni ripetiamo anche su questo sito web: il matrimonio omosessuale non esiste come diritto, vietarlo non significa discriminare nessuno ed è falsa l’argomentazione di chi vuole istituirlo perché “ce lo chiede l’Europa” (sentenza in linea con le precedenti, come la 138 del 2010 della Corte Costituzionale).

«Deve pertanto escludersi», si legge nella recente sentenza che ha respinto il ricorso di una coppia gay che voleva sposarsi in Campidoglio e pubblicare le nozze (ennesima sconfitta di Ignazio Marino, dunque), «che la mancata estensione del modello matrimoniale alle unioni tra persone dello stesso sesso determini una lesione dei parametri integrati della dignità umana e dell’uguaglianza, i quali assumono pari rilievo nelle situazioni individuali e nelle situazioni relazionali rientranti nelle formazioni sociali costituzionalmente protette dagli articoli 2 e 3 della Costituzione».

Parlando dell’argomento “ce lo chiede l’Europa”, la Cassazione ha affermato che «l’articolo 12, ancorché formalmente riferito all’unione matrimoniale eterosessuale, non esclude che gli Stati membri estendano il modello matrimoniale anche alle persone dello stesso sesso, ma nello stesso tempo non contiene alcun obbligo […] e non necessariamente mediante l’opzione del matrimonio per tali unioni». Si parla dunque di «insussistenza dell’obbligo costituzionale o convenzionale di estendere il vincolo coniugale alle unioni omoaffettive», così come ribadito dalla sentenza del 2014 della Corte Costituzionale. E ancora: «nel nostro sistema giuridico di diritto positivo il matrimonio tra persone dello stesso sesso è inidoneo a produrre effetti perché non previsto tra le ipotesi legislative di unione coniugali».

Fino a qui la notizia positiva, tuttavia i supremi giudici hanno aggiunto che «il processo di costituzionalizzaizone delle unioni tra persone dello stesso sesso non si fonda, contrariamente a quanto sostenuto» dalle associazioni Lgbt «sulla violazione del canone antidiscriminatorio dettata dall’inaccessibilità al modello matrimoniale, ma sul riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia». Per questo «sorge l’esigenza di un trattamento omogeneo di tutte le situazioni che presentano un deficit od un’assenza di tutela dei diritti dei componenti l’unione, derivante dalla mancanza di uno statuto protettivo delle relazioni diverse da quelle matrimoniali nel nostro ordinamento». La Cassazione chiede dunque un intervento legislativo che, da una parte protegga queste unioni e dall’altra le differenzi dalle relazioni matrimoniali.

Abbiamo voluto come sempre affidarci alla pronuncia ufficiale e non alla rassegna stampa, facciamo soltanto osservare come “Il Manifesto” abbia riportato la notizia: un trafiletto intitolato “La Cassazione: si a diritti coppie gay”. Divertente anche la reazione isterica de “La Stampa” attraverso un articolo di Fulvia Amabile, secondo cui «non c’è stata nessuna bocciatura delle nozze gay». L’articolo si conclude con le classiche interviste ai presidenti delle migliaia di associazioni Lgbt, tra cui Franco Grillini che però parla di «sentenza pilatesca». “La Croce” di Mario Adinolfi la ritiene una sentenza storica e fondamentale, mentre “La Nuova Bussola Quotidiana” ne sottolinea l’ambiguità. Secondo diversi blog Lgbt è una sentenza «che offende la dignità di migliaia di cittadini». La docente di Diritto costituzionale dell’Università di Milano, Lorenza Violini, ha definito la sentenza un «richiamo a riconoscere un fatto sociale diffuso quali sono le coppie omosessuali senza tuttavia giungere al riconoscimento formale delle stesse analogo a quello che potrebbe conseguire da una precisa presa di posizione del legislatore. Al legislatore spetta dunque, in ultima analisi, la scelta relativa al conferimento di uno status di natura pubblicistica a tali coppie mentre al potere giudiziario spetta riconoscere, caso per caso, diritti e doveri relativi al caso singolo, nella vita concreta. Una linea non facile da tracciare e da rispettare ma che, in questo caso, ha visto il prevalere di scelte prudenti».

Il direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, si è dichiarato -lo aveva già fatto- favorevole ad una «”via italiana” per tutelare le unioni di fatto tra persone che non possono (e non vogliono) sposarsi. Una via che non confonda ciò che non deve essere confuso», ovvero sottolineando la differenza con il matrimonio. Lo stesso ha detto Maurizio Sacconi (NCD), anche lui però contrario «all’omologazione diretta o indiretta che costituisse il presupposto per alcuni diritti esclusivi del matrimonio». Anche Cesare Mirabelli, già presidente della Corte costituzionale, ha guardando con positività alla sentenza per la respinta delle nozze gay ritenendo però «opportuno un intervento del legislatore per tutelare i diritti dei singoli nel riconoscimento della loro vita sociale ed affettiva, per dare certezza anche a questi rapporti ed evitare le originali e diverse soluzioni di sindaci e tribunali».

La nostra perplessità rispetto all’istituzione di unioni civili o coppie di fatto l’abbiamo già espressa: 1) innanzitutto molti diritti cui i conviventi eterosessuali e omosessuali aspirano sono già presenti nel nostro ordinamento (siamo comunque favorevoli a singoli interventi sul codice civile). Per questo non c’è nessun motivo di istituire tali unioni in quanto non rileviamo alcun «deficit od un’assenza di tutela dei diritti», secondo i criteri stabiliti dalla Cassazione se si vuole avanzare in questa direzione. 2) In secondo luogo è chiaro il tentativo dei promotori di prenderci in giro creando delle unioni civili che siano l’esatto equivalente del matrimonio, chiamate solo in altro modo (come se escludere l’adozione fosse sufficiente). 3) In terzo luogo, per i conviventi dello stesso sesso c’è il rischio concreto che esse siano semplicemente il trampolino di lancio verso l’istituzionalizzazione delle nozze gay, così come avvenuto nel resto d’Europa: occorre dire, tuttavia, che tale rischio si è decisamente abbassato dopo questa sentenza della Cassazione. 4) Infine, sempre per quanto riguarda le coppie omosessuali si tratta di una falsa priorità per i cittadini italiani: non solo perché i registri comunali per le coppie di fatto sono un flop nazionale, ma anche perché lo dicono i sondaggi. Proprio ieri l’istituto SWG ha pubblicato un report in cui si evince che solo il 49% è favorevole alle unioni civili per persone dello stesso sesso, un dato oltretutto in calo dato che due anni fa era favorevole il 58%.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Grazie Mauro (Platinette), senza trucco e parrucco sei finalmente te stesso

Mauro Coruzzi 
 
di Mario Adinolfi*
*direttore de “La Croce”

 
da www.lacrocequotidiano.it, 11/02/15
 

Mi è piaciuta la famiglia Anania e la sua lode al Signore, alla vita e alla Provvidenza; mi sono piaciuti Albano e Romina perché io sono convinto davvero che cantare a due voci “quanto mi piaci” sia la felicità; mi è piaciuto e molto Tiziano Ferro che ha proposto musica e parlato di musica; mi è piaciuta la canzone di Malika Ayane; mi è piaciuto Carlo Conti, sobrio, un po’ impacciate le vallette; mi è piaciuto il ragazzino ciccione che salutava il comico Alessandro Siani beccandosi una umiliazione, mi è piaciuto il ragazzino coraggioso, l’umiliazione è stata oscena e dicono persino che sia stata una gag studiata, quindi è peggio; mi sono piaciuti tanto gli Imagine Dragons.

Ma più di tutti mi è piaciuto Mauro Coruzzi. No, non la canzone: troppo jazz, poco popolare, affettata, in fondo suonava vittimista e un po’ falsa, troppo birignao. Andava bene per una puntata delle Invasioni Barbariche che fanno il 3%, non per i dieci milioni di telespettatori di Sanremo. C’è chi mi vuole convincere che essere snob, radicali e chic sia una figata. Ma io sono un tipo da pane e mortadella, troppa classe mi annoia. No Mauro Coruzzi non mi è piaciuto per la performance. Mi è piaciuto proprio lui. Mi è piaciuta la verità che emergeva nuda e cruda nell’istante stesso in cui rinunciava a trucco e parrucco. Suonava vero e addolorato Coruzzi con quella pelata, quella barba perfettamente incolta, quella camicia bianca a pennello se stava in piedi e terribilmente arricciata sulla pancia quando era seduto (conosco il problema, mai sedersi sugli sgabelli in tv caro Mauro, il bottone tira). C’era tanta verità e derivava dal contrasto con la sua versione imbellettata, la Platinette che ci fa divertire ma che è una maschera a cui Coruzzi ha rinunciato. E quanto sia chiara la distanza tra l’uomo e la maschera è stato evidente a tutti. Quanto la verità sia più possente della recita, non ha avuto bisogno di spiegazioni.

Certo Coruzzi cantava con Grazia Di Michele una lagnetta che provava a dire il contrario: che lui era un po’ uomo e un po’ donna, che ci sono i cattivi che lo giudicano se si mette il rossetto (ma quando mai, deve tutto il suo successo a quel rossetto e a quella parruccona da Platinette), che in realtà lui va valutato come indistinto “essere umano”. E’ il cuore della ideologia gender che finirà, purtroppo, per essere la cifra di questo festival di Sanremo anche per via della disgraziata decisione di far esibire sul palco come “superospite internazionale” un tizio che come cantante vale zero e non ha mai manco pubblicato un album, quel Conchita Wurst che esiste solo come icona dell’ideologia gender, capelli lunghi, vestito da donna e barba nera. L’indistinto, appunto: maschile e femminile che non sono nulla, solo un vestito da cambiare. Roba che non è, paccottiglia che una volta avremmo definito da avanspettacolo becero, oggi invece dobbiamo inginocchiarci e omaggiare altrimenti sei “omofobo”. Un marchio d’infamia e vai con gli insulti, chissà quanti ne attirerà questo articolo.

Ma per me così è e su questo giornale la libertà della verità conta e io voglio essere libero di dirlo. Me lo ha insegnato in tutta evidenza Mauro Coruzzi salendo sul palco di Sanremo finalmente privo della falsa armatura da cui si è fatto appesantire, mi sembrava il Robert De Niro di Mission quando finalmente qualcuno lo libera di corazze e spade che trascinava con sé, retaggio di un passato che oramai odiava. Coruzzi, come quel De Niro, esprimeva grandissima dignità e verità su quel palco di Sanremo, senza nascondere una forma di dolore. Il suo cravattino da smoking slacciato sulla camicia aperta valeva la barba inzaccherata di De Niro. Siamo così, siamo imperfetti. Se ci mettiamo a nudo lo siamo tutti. Ma la nostra bellezza è tutta nelle imperfezioni. Teniamole da conto. Non mascheriamoci. Siamo uomini e donne, maschi e femmine, ognuno con la sua specificità. Ma il gender che vuole raccontarci che l’essere maschio o l’essere femmina è solo un cambio d’abito, quello no, non spacciateci più ‘sta cazzata alla moda. Non è vera. E’ robetta da salotto.

La verità è Mauro, la recita è Platinette. La verità è sempre più bella, potente, emozionante di una recita. Il vero è, il non vero non è. Questa angosciante notte che volete dipingere per forza buia e in cui tutte le vacche sono nere è roba che passerà, come passano le mode, come passano le ideologie. Mauro Coruzzi, uomo senza trucco e parrucco, ha puntato un raggio di sole su quel buio e ha dimostrato, forse finanche a se stesso, che si sta più comodi senza indossare le maschere imposte dallo star system per farci sopra la grana. Ci rifletta, Coruzzi. Senza sceneggiate che, lo ha capito bene credo, sono davvero inutili.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

«Marino ricordati che noi siamo schiave, non esistono le prostitute»

ProstituzioneDopo essere stato sconfitto sulla trascrizione delle nozze gay (oltretutto con un recente pronunciamento della Cassazione, di cui parleremo domani), il sindaco di Roma Ignazio Marino  è incappato nel favoreggiamento della prostituzione. Lo ha detto il prefetto di Roma, Pecoraro Scanio: «Non c’è dubbio che decidere di concentrare le prostitute in un’area più o meno protetta, piuttosto che in un’altra, fa scattare l’accusa di favoreggiamento. Semplicemente non si può fare, lo Stato italiano vieta lo sfruttamento delle donne e il favoreggiamento della prostituzione, sono entrambi un reato».

Il prefetto si riferisce all’annuncio di Marino, appoggiato dagli estremisti di SEL, di creare un quartiere a “luci rosse” tollerando solo in esso la prostituzione, punendola invece nel resto della città. Una sorta di valvola di sfogo dove tollerare la schiavitù sulle donne. Si, perché la prostituzione -volontaria o meno- è sempre una mercificazione del corpo e non stupisce affatto che il sedicente cattolico Ignazio Marino non sia contrario (seppur in alcune zone), d’altra parte approva anche l’affitto dell’utero delle donne usato per sfornare figli alle coppie omosessuali (e non), un’altra forma di sfruttamento femminile. Forza Italia ha presentato una denuncia contro il sindaco proprio per favoreggiamento della prostituzione.

Ad opporsi all’idea anche l’Osservatore Romano tramite suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata a fianco delle prostitute. Ma anche il quotidiano comunista “Il Manifesto” tramite la femminista Lea Melandri, la quale ha spiegato che la prostituzione, scelta volontariamente o no, non è affatto «un lavoro come un altro» ma è «un residuo di una condizione antica di schiavitù». Contrario il fronte del “no” anche nel Partito Democratico, le cui deputate hanno parlato di «tratta delle donne», lo stesso ha scritto Dacia Maraini sul “Corriere“: «Ma quanti sanno che ormai non si tratta più di donne adulte e libere che vendono autonomamente il proprio corpo, cosa lecita nel nostro Paese, ma sempre più di donne soggette a tratte internazionali, nuove schiave che vengono trattate peggio degli animali da macello?».

Sia Marino, che quanti vogliono legalizzare la prostituzione nelle città italiane, cadono nell’errore di considerarla una professione «come tutte le altre», per cui è doveroso che chi la pratica paghi le tasse e il suo sia riconosciuto come un lavoro socialmente utile. A questi ha risposto Stefania, una prostituta di nazionalità rumena: «Con la zona rossa si laveranno la coscienza e ci lasceranno ancora più sole, in balia dei clienti e dei criminali che ci sfruttano. Ci confineranno in un ghetto, lontano dalle loro finestre e così, non vedendoci più, ci dimenticheranno. Per favore ricordatevi sempre che non siamo prostitute, ma schiave. Noi non abbiamo scelto questa vita, siamo state ingannate. A me che non volevo prostituirmi e che due anni fa ero venuta a Roma con la promessa di un lavoro da badante e la prospettiva di mandare soldi a casa alla mia poverissima famiglia, i miei due aguzzini rumeni hanno strappato l’orecchio destro per punizione. Ma ora sono libera e dico alle altre ragazze di fare come me e trovare la forza di denunciare». La ragazza è stata soccorsa e salvata dalla comunità Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, che alle autorità diceva: «Combattete con più decisione questo crimine, che a nulla a che fare con il lavoro!».

E’ proprio questa comunità, che dagli anni Ottanta ha salvato dallo sfruttamento della prostituzione oltre 9000 ragazze, a combattere ogni idea di legalizzazione di questa schiavitù: «Non dobbiamo essere ipocriti», ha spiegato don Aldo Bonaiuto, uno dei collaboratori più stretti del beato Oreste Benzi. «In Italia la prostituzione non è vietata, sono vietati lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione. Questo significa che chi parla di legalizzazione vuole qualcosa in più». L’iniziativa di Marino «protegge i clienti, che non vengono multati, che sanno di poter andare con le prostitute senza essere disturbati. E’ una regressione civile e culturale, non solo morale.

Una strada concreta potrebbe essere quella indicata dall’Unione Europea che ha preso come modello i Paesi del Nord Europa dove viene punito severamente il cliente, così disincentivando la domanda cala anche l’offerta. Non è invece una soluzione quella della riapertura delle case chiuse: «Sarebbe come dire che bisogna comunque avere carne umana a disposizione per essere comprata», ha proseguito don Aldo. «E’ una questione di civiltà. All’aperto o al chiuso si tratterrebbe sempre di ghetti e per noi è incivile che ci possano essere persone da usare per gli sfoghi o per le perversioni di altri. E per favore, evitiamo anche frasi fatte come “la prostituzione c’è sempre stata”. Ma che significa? Il fenomeno di oggi non è lo stesso di 20, 50 o mille anni fa. Ci sarà sempre ma la tratta di esseri umani come quella di oggi non ha nulla a che fare con il passato».

Quasi contemporaneamente all’annuncio del comune di Roma, guarda un po’ la coincidenza, Papa Francesco ha voluto «richiamare l’attenzione, in questo contesto, sulla dolorosa situazione di tante donne povere, costrette a vivere in condizioni di pericolo, di sfruttamento, relegate ai margini delle società e rese vittime di una cultura dello scarto».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Contro Papa Francesco soltanto accuse liquide e banali

FrancescoNuovo articolo di accusa al Santo Padre da parte del giornalista di “Libero” Antonio Socci. La liquidità delle obiezioni fa quasi rimpiangere la quotidiana militanza del vaticanista Marco Politi de “Il Fatto Quotidiano” contro Benedetto XVI durante il suo pontificato, il quale per lo meno esponeva la sua personale insofferenza verso il Papa emerito basandosi su “riflessioni” un pochino più complesse e articolate.

L’accusa principale di Socci, come sappiamo, è stata dubitare dell’autenticità dell’elezione di Francesco, è stato ignorato dai più ma qualche canonista ha risposto: Giancarlo Cerrelli e Massimo Introvigne su “La Nuova Bussola Quotidiana” e Geraldina Boni su “L’Espresso”. Il giornalista ha replicato recentemente a quest’ultima e la prof.ssa Boni, contattata da UCCR, ha voluto soltanto affermare: «non mi sembra il caso di rispondere, vorrei evitare di scivolare in oziose polemiche. Socci non ha considerato con attenzione la mia ricostruzione giuridica oppure non l’ha capita, nonostante avessi cercato di essere il più semplice possibile, rivolgendomi ad un pubblico di non canonisti. Un esempio per tutti: l’obiezione che si debba motivare la vigenza del principio che un atto nullo tamquam non esset, ovvero giustificare la sua mancata esplicita previsione in ogni testo normativo, francamente per un giurista (ma anche per uno studente al primo anno di Giurisprudenza) non merita alcuna replica. Comunque a breve sarà pubblicato sulla rivista “Archivio giuridico” il mio intervento corredato di note ed ulteriori spiegazioni (che avrebbero appesantito troppo il testo online)». Nell’accusa di Socci, dunque, non c’è nulla di serio o preoccupante.

Il resto delle obiezioni si basa su alcune frasi che il giornalista ha trovato spulciando i discorsi di Francesco -in particolare quelli pronunciati “a braccio”-, e su singoli episodi citati in serie, come fossero un elenco della spesa. Nell’ultimo articolo ri-presenta infatti il classico calderone di accuse: ai partiti (di sinistra), alla politica, alla società e alla Chiesa, «diventata liquida col pontificato Bergoglio». Socci parla di un «trans-cristianesimo» perché Francesco avrebbe fatto una «preghiera alla moschea (con vista sulla Mecca), visita al tempio buddista, abbraccio al pastore pentecostale e accoglienza in basilica alla vescova anglicana, elogio  dell’interreligiosità e pure legittimazione oggettiva delle nuove unioni», nonché la «demonizzazione dei “cattolici identitari”, laddove l’identità diventa una colpa, sospetta di fondamentalismo o pure peggio».

Offriamo giusto qualche risposta: Francesco è entrato in moschea (con vista sulla Mecca) tanto quanto ha fatto Benedetto XVI nel 2006 quando si recò nella Moscha Blu: accompagnato dal Gran Mufti di Istanbul, Mustafa Cagrici, si fermò davanti al Mihrab, l’edicola islamica rivolta in direzione della Mecca verso la quale indirizzano le loro preghiere i fedeli musulmani. Padre Federico Lombardi precisò anche in quell’occasione: «Davanti al Mihrab, nella Moschea Blu, il Papa ha sostato in meditazione e certamente ha rivolto a Dio il suo pensiero». Dunque ha pregato. La notizia della “preghiera di Benedetto XVI nella moschea” raggiunse subito i media, ma nessuno lo accusò di sincretismo o relativismo, tanto meno Antonio Socci. Ricordiamo anche che il teologo domenicano Padre Alberto Fabio Ambrosio, tra i maggiori studiosi di Islam turco, ha risposto alle accuse di relativismo arrivate contro Francesco dal mondo tradizionalista, valorizzando il suo gesto ecumenico.

Francesco ha visitato il tempio buddista? Uno “scandaloso gesto” compiuto anche da Giovanni Paolo II durante il viaggio in Thailandia nel 1984. Francesco ha incontrato la vescova anglicana? Un'”eresia” che però commise volontariamente anche Benedetto XVI nel 2010 durante il suo viaggio nel Regno Unito. Francesco invoca l’interreligiosità? Si, lo ha fatto citando direttamente il Concilio Vaticano II: «Quando leggiamo quello che ci dice il Concilio Vaticano II sui valori nelle altre religioni – il rispetto – è cresciuta tanto la Chiesa in questo. E sì, ci sono tempi oscuri nella storia della Chiesa, dobbiamo dirlo, senza vergogna, perché anche noi siamo in una strada di conversione continua: dal peccato alla grazia sempre. E questa interreligiosità come fratelli, rispettandosi sempre, è una grazia». Nulla di nuovo dunque, se poi il problema fosse che parla di “interreligiosità” al posto di “dialogo interreligioso” (ma davvero a questo si riducono le critiche a Francesco?), ricordiamo che di “interelligiosità” parlò il parroco di Santa Dorotea in Trastevere davanti a Benedetto XVI senza venire corretto, anzi il Papa emerito lo ringraziò «per questa testimonianza di una parrocchia veramente multidimensionale e multiculturale. Mi sembra che lei abbia un po’ concretizzato quanto discusso in precedenza con il confratello indiano: questo insieme di un dialogo, di una convivenza rispettosa, rispettandoci gli uni con gli altri, accettando gli uni gli altri, come essi sono nella loro alterità, nella loro comunione». Parole molto simili a quelle usate di Francesco.

Socci parla anche di «legittimazione oggettiva delle nuove unioni» da parte di Papa Francesco. Lo avrebbe dedotto dai titoli dei giornali del 27 gennaio scorso, «metafora della rivoluzione planetaria in corso perché il Vaticano stesso ha permesso all’evento di assumere un significato simbolico: “Un trans con la fidanzata in udienza dal papa” (Corriere della sera); “Un transessuale in Vaticano, l’ultimo strappo di Francesco” (La Repubblica); “Francesco abbatte un altro tabù. Incontro con un trans” (La Stampa)». Se la stampa fosse esistita quando Gesù venne trovato a banchettare con pubblicani e peccatori avrebbe titolato le stesse parole, inoltre il Vaticano non ha affatto diffuso la notizia (tanto meno ne ha dato un significato simbolico) e non ne ha parlato perché si è trattato di un incontro privato del Pontefice, scoperto da un quotidiano spagnolo. Il transessuale ha portato anche la fidanzata? Sono decenni che i Pontefici incontrano pubblicamente coppie di persone unite in modo irregolare per la Chiesa e mai nessuno ha affermato che il Vaticano abbia così legittimato tali unioni (tanto più se l’incontro è privato, come in questo caso). Peccato infine che il giornalista abbia ignorato altri titoli di quotidiani, come ad esempio: “Unione tra l’uomo e la donna”. Il matrimonio secondo Francesco” (“Il Foglio”, 2/02/14); “Papa: il matrimonio tra uomo e donna è l’icona dell’amore di Dio” (“Rainews.it”, 02/04/14); “Francesco: “Nella Costituzione il matrimonio è uomo-donna” (“Gay.it”, 12/09/13); “Papa Francesco: “Matrimonio uomo-donna tutelato dalla Costituzione” (Fanpage, 12/09/13); “Papa Francesco cita la Costituzione: “Famiglia uomo donna bene di tutti” (“Il Fatto Quotidiano”, 12/09/13) ecc. Evidentemente non c’è alcuna legittimazione delle nuove unioni, tanto che si è costretti a teorizzare e dedurre vaghe simbologie da incontri privati, quando ci sono affermazioni dirette del Papa che contraddicono tale tesi.

Infine l’ultima accusa è che Francesco avrebbe demonizzato con spregio i “cattolici identitari”. Abbiamo fatto una ricerca ma non ci pare che il Papa abbia mai utilizzato questa espressione, l’unico riscontro utile dall’archivio sul sito web della Santa Sede è questa frase: «ci sono tanti cristiani che sono talmente identitari che non riescono a fare spazio all’amore, non riescono a vivere l’amore». Peccato che sia stata pronunciata dal pastore evangelico Traettino, in apertura di un incontro con Papa Francesco.

Come lo stesso Socci scriveva pochi mesi fa, criticando i critici del Pontefice: «chi sta col “randello” del pregiudizio in mano con l’unico obiettivo di coglierlo in fallo, non sente ragioni, si attacca a ogni pretesto ed è sempre pronto a colpire». Appunto, a noi sembra che tutto questo sia proprio attaccarsi ad ogni pretesto per colpire Papa Francesco e, tuttavia, non riuscire a cavare fuori un’accusa reale ma soltanto un minestrone di fatti -sconnessi gli uni dagli altri e svincolati dalla loro complessità-, da citare a ripetizione per foraggiare il fenomeno del catastrofismo apocalittico (il Papa lo chiama «allarmismo catastrofico») che profetizza una Chiesa destinata all’auto-rovina. Meno male che Benedetto XVI ha preso da tempo le distanze da questo antipapismo, scrivendo (parole confermate direttamente dal Papa emerito): «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera». 

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La scienziata Gianotti è credente? Ecco la reazione antiteista

Fabiola Gianotti 3Qualche giorno fa abbiamo pubblicato un articolo che ha avuto migliaia di visite in poche ore: si tratta delle dichiarazioni di Fabiola Gianotti, la scienziata più famosa del mondo oggi a capo del CERN di Ginevra, è il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Viene definita la “signora della scienza”.

Bene, la Gianotti intervistata alla trasmissione televisiva “Otto e mezzo” (video pubblicato sul nostro canale Youtube) ha scandalosamente ammesso: «Si, io credo in Dio. Non ci sono contraddizioni tra scienza e fede, l’importante è lasciare i due piani separati: essere credenti o non credenti, non è la fisica che ci darà una risposta. La scienza si basa sulla dimostrazione sperimentale e la religione si basa su principi completamente opposti, cioè sulla fede, tanto più benemerito chi crede senza aver visto».

Niente di eccezionale, l’esperienza di fede della Giannotti non vale di più o di meno di quella di un sacerdote, di un muratore o di un libraio. Oltretutto, tutti i più grandi uomini di scienza nella storia del mondo hanno fatto professione di fede, molti di loro avevano preso i voti religiosi (Mendel, Copernico, Lemaitre ecc.) e dicevano le stesse cose. Ma negli ultimi anni, condizionati dai secoli bui illuministi, la vulgata vuole che soltanto chi si professa ateo possa essere scienziato (e viceversa), perché i credenti in Dio non sono “razionalmente formati” (cfr. Odifreddi) per poter approdare alla laurea in materie scientifiche e ad intraprendere una carriera scientifica.

La Gianotti ha tolto per un attimo il velo dalla burla anti-teista e le reazioni non sono state molto contenute. Abbiamo fatto qualche screenshot -due o tre, giusto per rendere l’idea- come sintesi di quello che abbiamo letto su Facebook quando veniva condiviso il nostro articolo. In linea generale ci siamo divertiti molto, sopratutto per le reazioni isteriche. Peccato per i diversi insulti -anche sessisti- e le minacce che la dott.ssa Gianotti ha subito per queste parole. Tutto questo ci ha fatto anche capire quanto sia importante e vitale per questa cultura resistere nel sostenere la presunta dicotomia tra scienza e fede, tra scienziati e credenti. Possibile che non si riesca ad andare oltre? Ad intraprendere un confronto più maturo?

 

Fabiola Gianotti 2

 
La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Caro Obama, non ci vergogniamo affatto delle Crociate

CrociateIl presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, durante il discorso alla National Prayer Breakfast, l’annuale appuntamento di preghiera multiconfessionale, ha più volte ribadito l’importanza della religione come fattore positivo nel mondo e ha condannato lo Stato Islamico definendolo «una setta della morte» e sottolineando che «nessun Dio può tollerare il terrorismo».

Nel criticare giustamente la deformazione della religione, ha tuttavia paragonato il fenomeno dell’Is alle Crociate medioevali, spiegando che anche l’occidente cristiano ha commesso enormi crimini in nome di Dio. Ora, è vero che tantissimi uomini cristiani hanno commesso crimini efferati, ma facendolo si sono posti automaticamente contro e al di fuori del cristianesimo stesso, agendo in nome di loro stessi o di un non certamente cristiano.

In secondo luogo le Crociate non sono affatto paragonabili al terrorismo islamico, lo sanno benissimo gli storici anche se purtroppo nella popolazione (ed evidentemente anche tra i politici) fa ancora presa la leggenda illuminista e pregiudizievole. Le critiche ad Obama non sono infatti mancate, ci interessa però andare a leggere cosa ha scritto lo storico Thomas F. Madden, direttore del dipartimento di Storia e del Center for Medieval and Renaissance Studies presso la Saint Louis University, tra i più esperti delle Crociate al mondo, collaboratore dei principali quotidiani americani e redattore della voce “Crociate” per l’Enciclopedia Britannica. «Gli occidentali in generale (i cattolici in particolare) trovano le Crociate un episodio profondamente imbarazzante per la loro storia. Nelle centinaia di interviste che ho rilasciato l’11 settembre 2001, ho sempre risposto: “Le Crociate furono un fenomeno medioevale senza alcuna connessione al moderno terrorismo islamico”».

Eppure in tanti sono davvero convinti che «i crociati hanno marciato contro gli infedeli mossi dal cieco fanatismo e dal desiderio di impossessarsi di bottini e di terre, che le Crociate tradirono il cristianesimo stesso in nome di “Dio lo vuole”». Ma, ha proseguito il prof. Madden, «ogni parola di questa frase è sbagliata. Gli storici delle Crociate lo sanno da tempo, ma per loro è estremamente difficile penetrare attraverso un abisso di preconcetti radicati». Addirittura lo storico Jonathan Riley-Smith, docente di Storia Ecclesiastica a Cambridge, ha ammesso di aver «quasi perso le speranze». Nel suo libro “The Crusades, Christianity, and Islam” (Columbia University Press 2009) ha mostrato come le Crociate non rappresentano affatto una perversione della religione il cui fondatore predicava mitezza, amore per i nemici e non resistenza. Tanto che  furono proprio i padri della Chiesa, tra cui Sant’Agostino, ad articolare un approccio cristiano alla guerra giusta, quella in cui le autorità sono legittimate a fermare o evitare un male maggiore, una guerra difensiva in reazione ad un atto di aggressione. Ricordiamo che anche San Francesco d’Assisi si aggregò alla Quarta crociata.

Le Crociate rispondono perfettamente ai criteri della guerra giusta, ha spiegato il prof. Madden. «Esse sono nate sempre in risposta ad un’offensiva musulmana alle terre cristiane, i fedeli decisero di entrare in guerra per difendere i cristiani e per punire gli aggressori per terribili torti». E’ quello che ancora oggi fanno le Nazioni Unite entrando in guerra per riportare la pace, quando la diplomazia non è più efficace. Come Riley-Smith ha scritto, la crociata è un atto di aiuto al prossimo, mettendo la propria stessa persona in pericolo di vita, è l’imitazione del Buon Samaritano descritto dai vangeli. Tanto che Innocenzo II disse ai Cavalieri Templari: «Voi trasformate in atti le parole del Vangelo, “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13)». Papa Urbano II davanti ai volontari della prima crociata pronti a partire, disse: «Dai confini di Gerusalemme e dalla città di Costantinopoli una storia terribile è stata raccontata e portata alle nostre orecchie: una massa di soldati dal regno dei Persiani, musulmani turchi, hanno invaso le terre di quei cristiani e le hanno spopolate con le armi, i saccheggi e il fuoco; hanno portato via una parte della popolazione prigioniera come schiavi e una parte l’hanno distrutta con torture crudeli; hanno interamente distrutto le chiese di Dio o se ne sono impadronite per i riti della loro religione. E che cosa dovrei dire degli abominevoli stupri delle donne? Parlare di ciò fa più male che stare in silenzio. A chi spetta dunque il compito di aggiustare queste cose sbagliate e di recuperare questi territori per chi li occupava, se non a voi?».

Lo storico americano ha precisato: «Ma le crociate non erano soltanto guerre giuste. Erano guerre sante, non per il loro obiettivo ma per il sacrificio dei Crociati. La crociata era un pellegrinaggio e quindi un atto di penitenza. Quando Urbano II chiamò la prima crociata nel 1095 creò un modello che sarebbe seguito per secoli. I Crociati che hanno intrapreso tale onere con retta intenzione e confessando i loro peccati, avrebbero ricevuto l’indulgenza plenaria. E i sacrifici erano straordinari, il costo della crociata era sconcertante: senza l’assistenza finanziaria solo i ricchi potevano permettersi di intraprendere questo pellegrinaggio, molte famiglie nobili si impoverirono. Gli storici sanno da tempo che l’immagine del crociato come un avventuriero in cerca di fortuna è esattamente l’opposto di quanto accadde. Come ha spiegato Riley-Smith, studi recenti dimostrano che circa un terzo dei cavalieri e nobili è morto in guerra. Non si può mai capire le crociate senza capirne il carattere penitenziale».

Abbiamo già smontato i più diffusi miti sulle Crociate riprendendo l’ottimo lavoro divulgativo dello storico medievalista Paul Crawford, docente alla California University of Pennsylvania. Per chi volesse ulteriormente approfondire pochi mesi fa è uscito l’ultimo volume dello storico statunitense Rodney Stark, intitolato: “Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate” (Lindau 2014).

Ovviamente tutto questo non significa negare che durante le Crociate vi furono anche episodi di cruda e gratuita violenza, ma si vuole invitare a studiare davvero quel che si pensa di criticare. Per quanto abbiamo scritto qui sopra non solo non ci vergogniamo delle Crociate, ma ne andiamo orgogliosi perché la carità cristiana (si trattò di questo, come abbiamo mostrato) è uno dei più alti valori dell’Occidente. Eppure, come ha spiegato Benedetto XVI, «c’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì, in maniera lodevole, di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’ossessione per i “nuovi diritti”: una ideologia statalista (video)

DirittoNell’agosto scorso a Rimini si è svolto l’annuale Meeting per l’amicizia tra i popoli organizzato da Comunione e Liberazione. Il messaggio di saluto di Papa Francesco ha aperto i lavori e tanti appuntamenti ed incontri si sono rivelati come sempre molto interessanti.

In particolare torniamo a riprendere oggi -dopo parecchi mesi- il dibattito sul tema dei “diritti” o “nuovi diritti”, l’ossessione moderna del veder legittimato qualunque desiderio. Ne hanno parlato Andrea Simoncini, docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze, Orlando Carter Snead, docente presso il Center for Ethics and Culture dell’University of Notre Dame (USA) e Tomaso Emilio Epidendio, Assistente di Studio alla Corte Costituzionale.

 

 

Durante l’introduzione, il prof. Andrea Simoncini ha riflettuto sul fatto che queste richieste sono espressioni di una domanda/desiderio e che non vanno demonizzate a prescindere, piuttosto occorre domandarsi se la loro realizzazione davvero risponderà all’esigenza di libertà degli uomini. Davvero all’ottenimento di questo presunto diritto gli uomini otterranno quello che cercano per essere liberi? In realtà, spiega il giurista, «il diritto nato per porre un limite al potere dell’uomo sull’uomo, oggi finisce per essere lo strumento che rimuove ogni limite al potere dell’uomo sull’uomo», ma la cosa ancor più paradossale è che «la richiesta ossessiva di nuovi diritti non libera l’uomo dalle dipendenze ma, in realtà, ne crea una gigantesca: la super-dipendenza dallo Stato, che è l’unico erogatore, difensore e controllore di questi diritti».

Il prof. Carter Snead ha invece spiegato perché la Chiesa e i cattolici fanno bene ad essere cauti nell’accodarsi al carrozzone dei cosiddetti e presunti “diritti umani”, formulazione nata in ambito illuminista per un uomo concepito come un insieme di volontà e desideri, radicalmente slegato dagli altri verso i quali esiste un rapporto strumentale di utilità per il raggiungimento dei propri obiettivi (una comunità di stranieri che si riuniscono per vantaggi reciproci e avversari isolati difesi dall’armatura dei diritti). Il massimo bene di questa persona è l’autonomia e il raggiungimento degli obiettivi che si è costruito, dove non esistono vincoli/restrizioni naturali alla natura del desiderio. L’ingiustizia è concepita come il vincolo verso gli obiettivi che l’uomo si è costruito e il ruolo dello Stato è quello di rimuovere i vincoli (sociali, naturali, religiosi ecc.) che ostacolano questo raggiungimento. Quando si parla di “diritti” nella bioetica pubblica si concepisce questo tipo di uomo: tutte le argomentazioni a favore dei presunti “diritti umani”, infatti, fanno perno sul concetto di autonomia e autodeterminazione. Il bambino nella bioetica laica è concepito come l’oggetto del volere dei genitori, il vettore nel quale i genitori riversano le proprie aspirazioni, un prodotto che può essere accolto o respinto nella misura in cui collima con i desideri dei genitori. Per correggere questa concezione impoverita di uomo e di diritti umani, il prof. Snead auspica un recupero di significato vero di persona umana, la quale è dignitosa dal concepimento alla morte naturale indipendentemente dalla sua salute, dalle sue funzioni mentali, dal fatto che sia un peso o meno per gli altri, dal suo sesso, dalla sua età ecc. Non esistono “persone non umane”, neologismo creato per escludere alcune categorie di persone dalle persone stesse, i rapporti con gli altri non sono strumentali ma di solidarietà e comunità, siamo esseri relazionali e radicalmente collegati agli altri.

Il giurista Tomaso Emilio Epidendio ha infine rappresentato la realtà odierna evidenziando come ci abbiano fatto credere che «promettere e sopratutto esaudire un desiderio sembra innocuo», il mito del diritto mite cioè il diritto non fa male. «Questo è il motivo del successo di tanti diritti “scomodi”», ha affermato. «Che cosa ci perdo io? Ci guadagna solo qualcun’altro». Il linguaggio dei diritti viene usato appositamente nella sua ambiguità: il “diritto al figlio” può voler dire rivendicare giustamente il diritto della coppia ad avere un figlio contro il controllo statale delle nascite, ma anche aver diritto ad un (o su un) figlio, a spese dello Stato. E può significare ricorrere alle tecniche biomediche per avere figli innaturalmente. Lo slogan “diritto al figlio” nasconde i suoi eventuali risvolti eugenetici e censura l’interesse del bambino, il quale ad esempio vedrà moltiplicarsi le figure genitoriali o verrà privato di una madre o di un padre in caso di adozione omosessuale. Il diritto, ha spiegato Epidendio, è diventato un idolo, un’identificazione morale con il diritto.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Legame tra aborto e crisi economica? Mons. Luigi Negri ha ragione

Luigi NegriUna provocazione? Così, a prima vista, potrebbe sembrare. E pure una provocazione di cattivo gusto, tanto è vero che sulle parole mons. Luigi Negri, vescovo di Ferrara, è scoppiata un’autentica bufera mediatica.

Le sue colpe, del resto, appaiono senza dubbio gravi: aver dichiarato che, non consentendo «di venire al mondo» a «milioni di italiani», «la legge sull’aborto» avrebbe causato una «scarsità di figli» tale da farci «sprofondare in questa crisi economica». Si è volutamente scritto “colpe”, al plurale, perché sua eccellenza, con questa dichiarazione, ne ha collezionate almeno tre: la prima è stata chiamare in causa l’intoccabile Legge 194/’78, la sola norma al mondo che è proibito criticare, la seconda è stata non parlare bene dell’aborto volontario mentre la terza, forse la peggiore, è stata dire una cosa vera. Il legame fra crisi economica e aborto è difatti fuori discussione.

Prima di vedere perché, però, una premessa: anche se fosse economicamente e psicologicamente indolore o perfino positivo, cosa che l’aborto non è in alcun modo, l’atto di soppressione di un bambino non ancora nato rimarrebbe comunque, senza eccezione alcuna, moralmente inaccettabile. Il punto è che non si tratta “solo” – com’è stato definito dal Concilio Vaticano II – di un abominevole delitto, ma pure di una realtà, come giustamente sottolineato da mons. Negri, con pesanti ricadute negative anche in termini economici. Il motivo deriva dal fatto che, unitamente a variabili quali la flessione dei matrimoni celebrati, l’instabilità coniugale, la mentalità contraccettiva e la tendenza femminile, talvolta, a sovrastimare la propria fertilità futura, l’aborto procurato concorre in modo significativo al calo delle nascite; molto significativo: dal 1978 al 2013, stando alle relazioni ufficiali, ne sono stati effettuati 5.538.322. Ora, è possibile pensare che, se si trovasse senza gli abitanti di regioni come Trentino, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise e Basilicata, l’economia italiana non ne uscirebbe mortificata?

Eppure è esattamente questo che decenni di aborto legale, piaccia o meno, hanno determinato per l’Italia; ed è precisamente questo, ancora, che chi contesta le parole del vescovo di Ferrara, forse senza rendersene conto, sta sostenendo. Quanto alla correlazione fra calo delle nascite e stagnazione economica – e quindi fra invecchiamento della popolazione e difficoltà di crescita – è francamente imbarazzante che vi sia ancora chi ne dubiti dopo le conferme, fra gli altri, di premi Nobel come Gary Becker e Amartya Sen, e dopo che non un cardinale o un vescovo di simpatie tradizionaliste bensì un professore stimato come Tyler Cowen, intervistato oltretutto dal maggiore quotidiano del Paese, ha dichiarato che quando pensa alla crisi italiana ciò lo «rende più pessimista» non «è l’euro», ma «il tasso di natalità, che in Italia è dell’1,3%». Un dato che sarebbe da tenere in massima considerazione, ha aggiunto Cowen, perché «se l’Italia facesse più figli, le sue prospettive economiche sarebbero migliori. Invece un Paese con una popolazione in declino alla fine non potrà ripagare i suoi debiti».

Dove stia lo scandalo nelle parole di mons. Negri rimane dunque un mistero. In attesa che qualcuno lo chiarisca vale la pena, rimanendo in tema, sottolineare un altro aspetto preoccupante e sistematicamente rimosso allorquando – e capita già di rado – si affronta il tema dell’aborto. L’aspetto preoccupante sta nel fatto che non solo la pratica abortiva concorre a diffondere povertà, ma si sta rilevando – anche se può sembrare paradossale – un micidiale strumento di eliminazione dei poveri: eliminazione fisica, s’intende. Impressionano, in tal senso, i dati di una ricerca a cura di studiosi del Guttmacher Institute, nota organizzazione abortista e dunque non sospettabile di faziosità pro-life, dai quali si evince come negli Stati Uniti, mentre fra il 2000 ed il 2008 si registrava un lieve calo (-0,8%) dei tassi di aborto complessivi, si sia verificato un aumento, peraltro notevole (+ 17,5%), di aborti da parte di una specifica categoria di donne: quelle povere (Obstetrics & Gynecology, 2011).

Davanti ad una realtà simile, in teoria, il buon senso di chiunque dovrebbe portare a ribellarsi. E se non accade, è perché l’abitudine all’aborto legale ha favorito, prima di quelle economica e demografia, una povertà peggiore. Una povertà radicata in quell’indifferenza che la presunta autodeterminazione porta con sé, una povertà che, mentre quella materiale allontana le cose che hanno un prezzo, comporta la privazione di quelle che hanno un valore. Una povertà drammatica, dunque; ma che, se ci pensiamo bene, può essere cancellata semplicemente dallo sguardo di un bambino appena nato e dalla consapevolezza che, per nove mesi, quello sguardo aspettava solo di incrociare il nostro. Per questo non vale la pena arrendersi e continuare la battaglia per la vita: ne va, prima di tutto, della riscoperta della realtà, di ciò che è davvero buono e davvero giusto. Ed una volta che avremo ritrovato questa fondamentale ricchezza le altre, possiamo contarci, non tarderanno ad arrivare.

Giuliano Guzzo (pubblicato anche su “La Croce”). 

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il postmodernismo di Gianni Vattimo? E’ la metafisica che libera l’uomo

postmodernismoIn un recente articolo il filosofo italiano Gianni Vattimo ha riproposto un inno al pensiero debole sostenendo che il più grande valore dell’Occidente è «la relativa mancanza di valori», augurandosi che anche nel mondo islamico si diffonda «quel secolarismo e quella “fede debole” (e edonismo, consumismo, superficialità…) che tanto spesso ci viene rimproverata. Questo è forse il solo Occidente che merita di diffondersi nel mondo».

Il post modernismo è la proclamazione della fine dei valori e delle conquiste filosofiche/scientifiche della modernità, in particolare sarebbero superate le nozioni di “verità” e di “fondamento” sopratutto in senso metafisico. Sostenere una verità assoluta (“l’amore esiste”, “Dio è buono”, “tutti siamo fratelli” ecc.), sostengono, significa proclamare un “pensiero forte”, dunque autoritario e contrario alla democrazia: «Un pensiero che vuole a tutti i costi unificare in nome di una verità ultima […] urterebbe contro ogni ideale democratico» (G. Vattimo, “Dopo la cristianità”, Garzanti 2002, p.8).

Vattimo cita Heiddegher e Nietzsche come principali ispiratori del pensiero postmoderno, eppure -come ha rilevato il filosofo Roberto Timossi«i nazisti costruttori del campo di sterminio di Auschwitz non hanno forse riconosciuto nell’anticristiano Nietzsche un antesignano della loro ideologia aberrante? E non è stato l’antimetafisico Heiddeger tra i primi sostenitori della dittatura hitleriana?» (R. Timossi, “L’illusione dell’ateismo”, San Paolo 2009, p. 54). Per non parlare di David Hume che in nome del suo scetticismo antimetafisico propose l’atto intollerante di bruciare tutti i testi teologici e metafisici. Il “pensiero debole” antimetafisico è lui stesso un sostenitore di una verità (“non esistono verità!”) e dunque un “pensiero forte” ed è necessariamente contraddittorio. Affermare che la verità assoluta non esiste è lei stessa un’affermazione di verità assoluta.

Il pensiero debole non è soltanto un’utopia, la sua affermazione ha prodotto anche gravi conseguenze. Lo ha spiegato Giovanni Giorgio, docente di Filosofia Teoretica alla Pontificia Università Lateranense: «A me sembra che la ‘ubriacatura postmoderna’, come qualcuno l’ha chiamata, stia oramai tramontando. Pur contro i nobili desideri di emancipazione dalle varie ‘metafisiche’ ideologicamente orientate a destra e a sinistra, il postmoderno ha dato la stura a derive di senso che, alla fine, nella moltiplicazione delle differenze di prospettive sulle cose, ha ratificato l’indifferenza delle differenze. Si tratta di un naufragio! In questa sostanziale equivalenza universale in cui si è quasi perso ogni criterio per distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto abbiamo assistito a due processi concomitanti. Dall’un lato ognuno è stato rimandato a se stesso come arbitro del valore, arrivando ad una atomizzazione etica di massa: ognuno la pensa come gli pare, formando piccole ‘tribù etiche’ nel cyberspazio. Questo è il lato privato della vita delle persone, in cui l’emotivismo etico, articolato anche come ‘etica dell’autenticità’ è dominante. Dall’altro la vita sociale — che pure deve trovare qualche orientamento ora che i metaracconti della Modernità sono decaduti — ha trovato nel valore utilità il suo faro». Il prof. Giorgio parla giustamente di «sonno dogmatico in cui il nuovo ‘sacro’ è costituito dalla inviolabilità del ‘secondo me/noi’». E questo produce soltanto la frammentazione dell’io e il dubbio come unico valore immobilizzante, incapace di costruire una società unita e stabile.

Per questo la prof.ssa Paola Ruminelli ha invocato «un Nuovo Umanesimo che ridia fiducia agli uomini del presente, i quali invano cercano nella tecnologia la risposta ad ogni loro richiesta. Un umanesimo che, prendendo atto della lezione del moderno (cui si deve la messa a fuoco del valore esistenziale della libertà) e stimolato a trovare risposte adeguate alle incoerenze del postmoderno, evidenzi come la metafisica sia un’esigenza costitutiva dell’uomo, presente in ogni momento del pensare e del sentire umano. Questo nello sforzo di superare lo stato confusionale in cui versa oggi la nostra società, che non permette di distinguere il positivo dal negativo, per orientare e sorreggere l’esistenza secondo verità e saggezza».

Papa Francesco ha chiesto di fare attenzione alla proposta di Vattimo e dei post-modernisti, «perché lo spirito del mondo non ci vuole popolo: ci vuole massa, senza pensiero, senza libertà», ha affermato. «Vuole che andiamo per una strada di uniformità, ci tratta come persone non libere. Il pensiero uniforme, il pensiero uguale, il pensiero debole, un pensiero così diffuso. Lo spirito del mondo non vuole che noi ci chiediamo davanti a Dio: “Ma perché questo, perché quell’altro, perché accade questo?”. O anche ci propone un pensiero prêt-à-porter, secondo i propri gusti: “Io penso come mi piace!”. Ma quello che lo spirito del mondo non vuole è questo che Gesù ci chiede: il pensiero libero, il pensiero di un uomo e di una donna che sono parte del popolo di Dio e la salvezza è stata proprio questa!».

E’ proprio il pensiero metafisico che libera autenticamente l’uomo mentre l’assenza di valori ci rende soltanto più omologati e dipendenti dal potere, dunque schiavi del più forte. Come ha ricordato ancora il Santo Padre: «a volte si pensa che portare la verità del Vangelo sia fare violenza alla libertà. Paolo VI ha parole illuminanti al riguardo: “Sarebbe un errore imporre qualcosa alla coscienza dei nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza di Gesù Cristo con piena chiarezza e nel rispetto assoluto delle libere opzioni che essa farà è un omaggio a questa libertà“. Dobbiamo avere sempre il coraggio e la gioia di proporre, con rispetto, l’incontro con Cristo, di farci portatori del suo Vangelo».

La verità non si può imporre perché non la si possiede: la si è incontrata ed è Lei che possiede noi. E’ questo che ci rende liberi di fronte al mondo.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Lo psicologo Guido Crocetti: «i bambini esigono padre e madre»

I bambini vogliono la coppia«Da trent’anni lavoro sui disagi psichici dei bambini e do voce ai loro bisogni». A parlare è un celebre psicologo italiano, il dott. Guido Crocetti, professore di Psicologia clinica presso “La Sapienza” di Roma e direttore del Centro italiano di Psicoterapia psicoanalitica per l’Infanzia e l’Adolescenza.

«I bambini vogliono la coppia», ha affermato il dott. Crocetti, «la esigono imprescindibilmente, e la vogliono insieme, unita. Imperativo categorico è che sia formata da un padre e una madre: è questa la garanzia di cui hanno bisogno per esistere. Poi i bambini sopravvivono sempre, anche alle guerre, alle carestie, agli abusi e alle violenze, ma questo – appunto – è sopravvivere, non vivere nel pieno dei loro diritti. Posso citare almeno un secolo di studi internazionali che lo dimostrano». Le parole sono tratte da un’intervista del 2013 rilasciata ad “Avvenire” che ci è stata recentemente segnalata e, nonostante sia passato diverso tempo, abbiamo deciso comunque di parlarne.

«Oggi viviamo in una cultura che tende ad azzerare sempre più le diversità, persino quelle biologiche, fisiche, incontestabili. L’essere maschio e femmina non è un’invenzione, parte da un dato biologico, e come tale va anzi valorizzato», ha affermato il docente, autore anche del libro “I bambini vogliono la coppia. Per una genitorialità responsabile” (Elledici 2012).

La nostra identità non è un’invenzione, lo sa bene oggi Matthew Attonley, un uomo che , dopo aver cambiato chirurgicamente sesso per tentare di diventare donna, ha chiesto al servizio sanitario di riportarlo indietro.  «Mi sento come se stessi vivendo una bugia», ha affermato. «Ho sempre desiderato essere una donna, ma nessuna operazione chirurgia mi può dare un vero corpo femminile. Mi sono reso conto che sarebbe stato più facile smettere di combattere il mio modo di guardarmi e accettare che sono nato naturalmente e fisicamente come uomo». 

Il dott. Crocetti ha proseguito: «La nostra cultura da ambivalente – basata sul binomio maschile/femminile – sta diventando ambigua, a tutti i livelli: nelle relazioni uomo/donna, ma anche padre/madre e figli. Questa continua ambiguità confonde i ruoli, le funzioni, i codici comportamentali, gettando nel caos soprattutto i più fragili, quei bambini che invece chiedono, vogliono, esigono un papà e una mamma, ognuno dei due con un suo ruolo e le sue proprie funzioni».

Eppure tanti fingono che l’ovvio non esista, ma «tutte le combinazioni sono a misura delle esigenze più o meno sane, più o meno perverse, degli adulti, che accomodano la realtà del minore alle proprie aspettative narcisistiche. O recuperiamo regole e limiti strettamente correlati ai valori, o la psicopatologia infantile avrà sempre più piccoli pazienti da curare».

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace