La percezione della nostra finitudine e altri segni per accorgersi del Mistero

Viandante 
di Angelo Scola*
*arcivescovo di Milano

 
anticipazione del libro Capaci di infinito (Marcianum Press 2015)

 

Quando introduciamo la parola, mistero, ci riferiamo a un dato che è proprio dell’uomo come tale, del cuore dell’uomo di ogni tempo. Ovviamente, la modalità con cui questo proprium viene percepito muta a seconda del clima culturale in cui l’uomo vive ed agisce.

Io credo che l’uomo di oggi sia chiamato a guardare fino in fondo i tratti fondamentali dell’esperienza umana. Il primo e più importante è la capacità di cogliere il senso della realtà: la realtà è intelligibile e chiede di essere ospitata dalla nostra intelligenza. Già questo implica una trascendenza, cioè un andare oltre l’immediato. Io posso “possedere” questo tavolo – lo dicevano già i grandi classici – e cioè posso ospitarlo dentro di me conoscendolo; è chiaro, quindi, che non lo “possiedo” nel senso di poter introdurlo materialmente nel mio io, però, con la mia intelligenza, posso dire che “questo è un tavolo” e con ciò guadagno un certo livello di verità, ossia di corrispondenza tra l’intelligenza della realtà di cui sono capace e la cosa. Questo è il primo e il più elementare modo con cui noi, quotidianamente, facciamo una certa esperienza del mistero.

Il secondo modo, che pure è decisivo, in un certo senso, ancora più decisivo del primo, è la relazione, il rapporto. Che cosa dice il sorriso di un bimbo alla mamma o il sorriso della mamma al bambino? Dice che c’è qualcosa che va oltre il proprio io. La relazione buona e positiva mi induce ad uscire da me e diventa, nello stesso tempo, decisiva e costitutiva per il mio benessere. L’essere in relazione è quindi il secondo modo costitutivo attraverso il quale io esco da me e vado verso il mistero.

C’è poi almeno un terzo modo, di capitale importanza, di cui incominciamo a renderci conto più chiaramente quando entriamo nella fase della maturità. È il modo legato alla percezione della nostra finitudine. Siamo capaci di infinito e tuttavia, quando agiamo, siamo sempre prigionieri della finitudine. L’uomo, da sempre, ha dato espressione a questo paradosso che lo costituisce con una parola: “salvezza”. Un termine che, pur in diverse accezioni, è presente in tutte le religioni. Esso esprime in un certo senso l’invocazione di essere liberati da questo limite la cui barriera invalicabile è la morte. Sono capace di infinito, ma sono costretto alla finitudine. Chi mi libererà da questa condizione? È la via verticale alla scoperta del mistero.

Dall’interno della concretezza della vita di tutti i giorni, l’uomo ha quindi mille segni per accorgersi del mistero. In una cultura in cui la relazione buona non è coltivata, in cui si dice che la verità non esiste o, per lo meno, che non è raggiungibile, questo sarà più difficile. In una cultura in cui uno pensa di potersi salvare da solo o pensa di potersi accomodare tranquillamente nella finitudine, è inevitabile – lo diceva Nietzsche già più di un secolo fa – che ci si accontenti di «una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte». Ci togliamo di dosso le speranze elevate e ne diventiamo facilmente calunniatori. Arriviamo a tarparci le ali con le nostre stesse mani. La grande sfida, quindi, è costruire, in questa società, relazioni buone e pratiche virtuose che lascino emergere, dall’esperienza di tutti i giorni, i mille segni che indicano questo Quid misterioso, un Quid con la “q” maiuscola che la grande tradizione di tutti i popoli chiama Dio.

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Se “love is love” come rifiutare il matrimonio poligamico?

PoligamiaSi sostiene il matrimonio omosessuale parlando di discriminazione verso una relazione romantica basata sul reciproco consenso (love is love). Lo stesso si può dire anche di un gruppo poligamico. Se si apre alla nozze gay non si può più chiudere a nessuno e si distruggono le fondamenta del matrimonio.

 
 
 

Due anni fa lanciavamo una provocazione ai sostenitori delle nozze gay.

Se è sufficiente una relazione romantica, basata sul consenso reciproco, per essere riconosciuti come coppia da parte dello Stato, con che diritto si dovrebbe dire “sì” a due omosessuali e “no” ad un padre e ad un figlio (maggiorenne o minorenne) che intendono veder riconosciuta la loro relazione romantica-sessuale, godendo dei conseguenti privilegi?

Non è forse anch’essa una distinzione e dunque una discriminazione?

E con quali argomenti limitare il numero a “due”?

Forse “l’amore” che lega sei (o trentaquattro, perché mettere limiti discriminatori?) persone vale meno di quello di due omosessuali? Perché discriminare i gruppi amorosi vietando loro il matrimonio poligamico?

 

Il matrimonio poligamico avanza al pari delle nozze gay.

Affermazioni assurde? Non proprio, esattamente un anno fa Ugo Ruffolo, ordinario di Diritto Civile presso l’Università di Bologna, condivise la stessa preoccupazione: «Se il matrimonio (o il patto di convivenza) diventa “pour tous”, eliminando le discriminazioni per sesso, perché allora resta limitato solo alle “coppie”, mantenendo invece la discriminazione per numero?», si è domandato.

«La disciplina prossima ventura delle unioni di fatto rischia dunque d’essere, in prospettiva, il cavallo di Troia per rivendicare la legalizzazione di unioni anche poligamiche?», ha chiesto il giurista. «Potrà sembrarci retrogrado ed antistorico, ma non sarà facile, in lungo periodo, negarne la estensione alle tante famiglie poligamiche immigrate, le quali volessero essere da noi giuridicamente regolate, almeno, come «famiglie di fatto».

Il giudice federale dello Utah, Clark Waddoups, ha infatti scelto la coerenza abrogando alcune norme che proibivano la poligamia nello stato.

Il “New York Times” ha spiegato che la battaglia per il riconoscimento legale della poligamia non è infatti così diverso da quella per il riconoscimento dei matrimoni gay.

A forza di “diritti civili” siamo arrivati alla poligamia, ha spiegato Mario Giordano, una volta distrutte le fondamenta del matrimonio non c’è più nessuna ragione valida per limitarne l’accesso a qualunque tipo di unione tra uomini.

Se limitare è discriminatorio  (vietato vietare insegnano i sessantottini), allora non si dovrebbe limitare più nulla: in Norvegia, infatti, le nozze gay sono legalizzate da tempo ed è stato il partito del Progresso, formazione di destra, a chiedere che la poligamia venga anch’essa legalizzata attraverso «una legge neutrale che affermi che ognuno può sposare chiunque voglia e quante persone voglia».

 

Se si “apre” alle nozze gay poi “entrano” tutti.

Ricordiamo anche che l’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), istituito all’interno del Dipartimento per le Pari Opportunità) ha pubblicato le direttive del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa in cui si invitano gli Stati membri ad abrogare «qualsiasi legislazione discriminatoria ai sensi della quale sia considerato reato penale il rapporto sessuale tra adulti consenzienti dello stesso sesso, ivi comprese le disposizioni che stabiliscono una distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali».

Il delegato d’aula del Movimento 5 stelle, Carlo Sibilia, ha invece proposto, oltre al matrimonio omosessuale, anche la discussione «di una legge che dia la possibilità di contrarre matrimonio (o unioni civili) anche tra specie diverse purché consenzienti».

In tutto questo c’è una coerenza ultima: se il matrimonio viene concepito come un contratto privato tra soggetti consenzienti legati da una relazione romantica, chi e con quali argomenti si potrà vietare di riconoscere la poligamia, l’incesto, la pederastia (a patto che lo psicologo accerti la maturità di intenzioni del minore, come avviene già per i minorenni che chiedono l’eutanasia in Belgio) e la zooerastia (quando gli animalisti riusciranno a far definire gli scimpanzé persone legali)?

 

Attacco alle fondamenta del matrimonio.

Ancor di più si capisce che “difendere la famiglia” significa proteggere le fondamenta giuridiche del matrimonio.

Come ha ricordato la docente di Diritto pubblico presso l’Università di Rennes, Anne-Marie Le Pourhiet, lo scopo dell’istituzione legale del matrimonio è quello di «garantire la stabilità della coppia e la tutela della loro prole».

Allo Stato interessa la stabilità della coppia perché si crei un luogo equilibrato e adeguato per la crescita di un nuovo cittadino. Questo è  l’unico senso giuridico del matrimonio, il resto è un attacco alla sua stabilità giuridica creando un danno all’intera società.

Ha quindi aggiunto, la giurista: «La pretesa della lobby gay tende a distorcere la definizione del matrimonio per fargli perdere il suo significato e la sua funzione. L’amore non ha nulla a che fare con il codice civile. Questo argomento è sciocco, ma anche pericoloso, perché può essere usato contro tutte le norme che regolano il matrimonio. Se un uomo ama tre donne, si sosterrà che il divieto di poligamia è discriminatorio, lo stesso se un fratello e una sorella si amano, si toglierà il divieto di matrimonio tra adolescenti ecc».

La redazione

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Scuole paritarie: 44 deputati avvicinano l’Italia al resto d’Europa

Scuola paritariaCi ritroviamo abbastanza spesso a svelare le ipocrisie e l’irragionevolezza delle tesi del cosiddetto “mondo di Repubblica”, quel sottobosco culturale guidato dal quotidiano diretto da Ezio Mauro, quasi inesistente nella società reale ma il padrone di casa nel mondo mediatico.

In queste ore il “mondo di Repubblica” è in fibrillazione perché ben 44 deputati della maggioranza hanno osato inviare al premier Matteo Renzi una lettera aperta sul tema della buona scuola. E lo hanno voluto fare dal quotidiano “Avvenire”. I deputati hanno scritto: «Dall’unità nazionale in poi, si è discriminato l’accesso alla scuola pubblica non statale da parte delle famiglie meno abbienti, si è trasformata una scuola a vocazione comunitaria in una scuola per ricchi e si sono costrette le famiglie che decidono di optare per la scuola non statale a una doppia imposizione, quella della tassazione generale e quella delle rette».

Hanno anche ricordato l’enorme risparmio per lo Stato grazie all’esistenza delle scuole paritarie: «Ciononostante, la scuola paritaria accoglie ancora oltre un milione di alunni. Tale sistema costa allo stato solo 470 milioni di euro/anno, pari a circa 450 euro/anno/alunno per la scuola dell’infanzia e primaria, mentre lo stanziamento per le secondarie di I e di II grado è praticamente inesistente. Il resto è a carico delle famiglie e del volontariato delle comunità. Evidente il risparmio per la finanza pubblica, visto che il costo standard dello studente è stato calcolato dal Miur in circa 6.000 euro/anno, oltre ai costi dell’edilizia scolastica».

Nonostante siano passati 15 anni dall’approvazione della Legge Berlinguer, «che ha riconosciuto in Italia un unico sistema nazionale dell’istruzione pubblica, composto da scuole statali e paritarie», ancora oggi non esistono «strumenti concreti per favorire la parità scolastica». Per questo propongono «un sistema fondato sulla detrazione fiscale, accompagnato dal buono scuola per gli incapienti, sulla base del costo standard, potrebbe essere un primo significativo passo verso una soluzione di tipo europeo». I firmatari sono cinque di Area popolare, cinque del Centro democratico, uno di Scelta Civica, trentadue deputati del Partito Democratico tra cui Simona Malpezzi, tra i responsabili scuola del partito. La quale ha affermato: «Sono profondamente laica e credo che tutti debbano essere liberi di scegliere. Le paritarie quasi sempre suppliscono ai posti non creati dallo Stato. Non possiamo investire, come faremo, 100 milioni nelle materne e poi non consentire alle paritarie di fare la loro parte. Ho vissuto all’estero: in Francia la parità tra pubbliche e private è completo».

E’ comparso anche l’intervento di Luigi Berlinguer, ex ministro della Pubblica Istruzione che equiparò le paritarie alle statali: «I documenti europei dicono che l’Italia è fuori dall’Europa in fatto di pluralismo educativo. Che diventa indispensabile per stare al passo con i tempi, per rispondere alla quantità dei saperi che continuamente crescono e ai quali lo Stato non può rispondere. Perché lo Stato trasforma in carta, cioè in burocrazia, tutto quanto tocca. Cattiva è l’affermazione di chi contesta la parità economica fra tutte le scuole pubbliche, e dice che si tolgono soldi alla statale per darli a quella privata». In un’intervista ha dichiarato: «è davvero arrivato il tempo di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste, non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse. Basta guardarsi in giro e si scopre che l`insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessionali in una sana gara a chi insegna meglio».

Il sondaggio sul sito de “La Stampa” ha ancora una volta rivelato la schiacciante maggioranza a favore delle paritarie (77% vs 23% questa mattina). Non sapendo chi trovare, “Repubblica” ha fatto replicare ai ventenni comunisti dell’“Unione degli Studenti” che hanno definito l’iniziativa «offensiva». Ma come, il cavallo di battaglia dei piccoli marxisti in campo bioetico non è mica quello del “siamo lontani dall’Europa”? Perché allora non adeguarci al resto d’Europa per quanto riguarda la libertà d’educazione? Ipocrisie quotidiane del “mondo di Repubblica”.

La redazione

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Papa Francesco “liquida” i cristiani perseguitati? No, è la stessa prudenza di Pio XII

Asia BibiEnnesimo attacco a Papa Francesco da parte del giornalista di “Libero” Antonio Socci che, dopo un momento iniziale di curiosa attenzione mediatica, è sempre meno seguito e considerato. Noi preferiamo però proseguire a smontare i suoi ingenui e pretestuosi attacchi, dai feedback che riceviamo è un lavoro utile a molti che effettivamente ci hanno confessato essersi ritrovati intrappolati nel rancore dell’antipapismo, vivendo una dissociazione tra la fede cattolica e il cristianesimo adulto proposto dal tradizionalismo conservatore.

Nel nuovo articolo Socci ha rinunciato a snocciolare i “peccati” di Papa Francesco, si è limitato alla riciclata accusa di ignorare i cristiani perseguitati. Secondo il giornalista sarebbe l’ora di «grandi iniziative di solidarietà e di aiuto», di «un instancabile intervento diplomatico della Santa Sede presso l’Onu e gli Stati democratici in difesa delle minoranze cristiane e della libertà religiosa. Ma in Vaticano tutto tace. Si dovrebbe tuonare ogni giorno dalla Cattedra di Pietro per difendere il gregge dai lupi. Invece niente di tutto questo». Quelle di Bergoglio sarebbe «sporadiche e imbarazzate dichiarazioni» dove «si limita a esprimere “dispiacere”, guardandosi bene dal fare qualsiasi riferimento all’Islam e dal fare alcun appello alla comunità internazionale per fermare le violenze con l’uso della forza».

Ironia della sorte, esattamente due giorni dopo è arrivata la testimonianza dell’arcivescovo Jacques Behnan Hindo, capo dell’arcieparchia siro-cattolica di Hassakè-Nisibi che ha annunciato la liberazione dei 19 cristiani assiri presi in ostaggio dai jihadisti dello Stato Islamico (Isis). Mentre Socci ha ridicolizzato i tentativi di dialogo e negoziato con l’Isis proposti da Francesco («Io mai do per persa una cosa: mai. Forse non si può avere un dialogo, ma mai chiudere una porta», ha detto il Santo Padre), l’arcivescovo Behnan Hindo ha proprio spiegato che i capi delle Chiese e delle comunità locali cercano invece di tenere aperti i contatti e i negoziati con i miliziani dell’Is attraverso la mediazione di alcuni leader tribali musulmani locali.

Se Socci accusa il Vaticano di non “tuonare” contro l’Islam, mons. Behnan Hindo, fisicamente a fianco dei cristiani perseguitati, ha affermato: «Il momento è delicato e ogni iniziativa o parola non calibrata e presa senza ponderazione può aumentare i rischi per tutti». E’ dunque evidente che se in Vaticano si prendessero sul serio i consigli dei giornalisti di “Libero”, i cristiani in Medioriente sarebbero esposti a gravissime ripercussioni.

Socci lo sa benissimo, è la stessa accusa che fecero a Pio XII quando scelse la prudenza nei confronti degli ebrei. Come ci ha scritto un nostro lettore, lo stesso giornalista difese Papa Pacelli in un convegno: «Socci era moderatore dell’incontro e ha affrontato il medesimo problema (relativo a Pio XII) senza la veemenza accusatoria che oggi lo contraddistingue, ma con la ragionevole volontà di capire». Infatti, diede la parola al vaticanista Andrea Tornielli, il quale spiegò: «L’attitudine di Pio XII è quella dello stile papale in tempo di guerra: non gettare benzina sul fuoco, tenere aperti tutti i possibili canali diplomatici, e salvare più vite possibili. Al Papa non interessava compiere un gesto clamoroso che gli avrebbe portato una fama sicura nei secoli futuri, ma la salvezza delle vite umane». Era guidato dalla prudenza, per non provocare mali peggiori magari per vendetta. Lo stesso che chiede oggi di fare l’arcivescovo di Hassakè-Nisibi. La stessa prudenza di Benedetto XVI, che ha sempre condannato gli attentati e la persecuzione dei cristiani senza mai parlare di colpe dell’Islam o generalizzare sulla fede musulmana ma piuttosto accusando la strumentalizzazione della religione (sfidiamo chiunque a trovare un solo intervento di condanna del Papa emerito di qualche strage in cui tira in ballo l’islam o l’islamismo). Tanto che nel 2009 la Chiesa di Benedetto XVI fu accusata dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, di avere “reazioni ammiccanti all’islam”.

E’ evidente che il Vaticano non ignora la sorte di Asia Bibi, la stessa donna ha scritto a Papa Francesco chiedendogli semplicemente di pregare per lei (e non di esprimersi pubblicamente), aggiungendo: «ti esprimo tutto il mio ringraziamento per la tua vicinanza». Vicinanza? Evidentemente la vicinanza del Pontefice alla donna arriva in Pakistan attraverso vie nascoste ai media.

Allo stesso modo non c’è alcuna dimenticanza dei cristiani perseguitati, chi si interessa dei pronunciamenti di Papa Francesco sa bene che ne parla ogni settimana. Lo ha fatto ieri incontrando i vescovi nordafricani: «mi unisco ai fedeli delle vostre diocesi, portate loro l’affetto del Papa e la certezza che egli resta vicino a loro e li incoraggia nella generosa testimonianza che rendono al Vangelo di pace e di amore verso Gesù. Vorrei in particolare rendere omaggio al coraggio, alla fedeltà e alla perseveranza dei Vescovi in Libia, come pure dei sacerdoti, delle persone consacrate e dei laici che rimangono nel Paese nonostante i molteplici pericoli. Sono autentici testimoni del Vangelo». Domenica scorsa ha detto: «non cessano, purtroppo, di giungere notizie drammatiche dalla Siria e dall’Iraq, relative a violenze, sequestri di persona e soprusi a danno di cristiani e di altri gruppi. Vogliamo assicurare a quanti sono coinvolti in queste situazioni che non li dimentichiamo, ma siamo loro vicini e preghiamo insistentemente perché al più presto si ponga fine all’intollerabile brutalità di cui sono vittime. Insieme ai membri della Curia Romana ho offerto secondo questa intenzione l’ultima Santa Messa degli Esercizi Spirituali, venerdì scorso. Nello stesso tempo chiedo a tutti, secondo le loro possibilità, di adoperarsi per alleviare le sofferenze di quanti sono nella prova, spesso solo a causa della fede che professano». Così come più volte fatto appello ai leader islamici perché condannino il terrorismo religioso e si dissocino da esso.

Per interventi più specifici è evidente che il Vaticano si stia muovendo su binari riservati (contatti diplomatici, contatti personali, lettere, telefonate) e non è certo a noi che deve rendere conto. Come ha spiegato l’esperto vaticanista John L. Allen, «papi e funzionari del Vaticano hanno sempre pesato le parole con attenzione, per paura che dire qualcosa di provocatorio possa peggiorare le cose. In questo contesto si apprezza il fatto che il Vaticano possa preferire operare dietro le quinte».

La redazione

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I 6 argomenti della campagna pro-eutanasia di “Repubblica”

Repubblica bufalaL’offensiva mediatica e politica a favore dell’eutanasia in corso in Italia – che vede marciare compatto un organizzato schieramento che va da Le Iene al quotidiano La Repubblica, dal mondo radicale a quello di taluni cosiddetti vip, molto abili a maneggiare gli slogan – è sotto gli occhi di tutti. Decisamente meno visibili, quando non del tutto occulte, risultano invece essere le strategie costantemente impiegate per orientare il dibattito, e che vanno sempre più assumendo gli avvilenti contorni di una propaganda.

Per questo è importante isolare ed esaminare da vicino, sia pure in estrema sintesi, gli argomenti – che poi, in realtà, sono sempre gli stessi da qualche anno – proposti e riproposti per creare consenso attorno alla “dolce morte” benché assai fallaci, per non dire palesemente falsi e finalizzati non già a far ragionare la gente sul tema oggettivamente delicato del fine vita, bensì a smerciare ragionamenti preconfezionati, per così dire, e quindi manipolatori.

La prima tattica è quella dei sondaggi: non c’è vera campagna a favore dell’eutanasia, fateci caso, senza massiccio ricorso ad indagini demoscopiche. Peccato che detti sondaggi da un lato siano esaltati come dogma e, dall’altro, presentati in modo parziale. Non è corretto, per esempio, scrivere – come ha fatto nei giorni scorsi il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari – che «secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes il 64,6% degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia» (La Repubblica, 26.2.2015). Premesso che ogni sondaggio sul tema è difatti da prendersi con massima cautela per via delle divergenze, talvolta perfino fra gli stessi medici, sulla definizione di eutanasia, con una rapidissima verifica si scopre come «secondo l’ultimo Rapporto Italia» i favorevoli all’eutanasia siano in realtà il 58,9%, cioè il 5,7% in meno rispetto al 2013 (64,6%) ed oltre il 9% in meno – sempre attenendosi ai dati Eurispes – al 68% del 2007. La vera notizia è quindi che gli Italiani, anno dopo anno, sono sempre più contrari all’eutanasia: ma questo, guarda caso, nessuno lo dice.

Una seconda strategia è quella di puntare il dito sulla piaga della clandestinità. E’ un vecchio trucco già usato con l’aborto: negli anni precedenti la legge si diceva fossero da 1,5 a 3 milioni (Corriere della Sera, 10.9.1976) oppure addirittura 4 milioni (L’Espresso, 9.4.1967), poi si scoprì che erano stime ingigantite in modo esponenziale, talvolta persino del 4.000%. E lo stesso accade adesso con l’eutanasia: da un lato si intervistano medici che riferiscono fatti curiosamente non verificabili e, dall’altro, si dice che in Italia i casi clandestini di “dolce morte” sarebbero addirittura 20.000, numero presentato come esito di una ricerca dell’Istituto Mario Negri. Se si va sul sito degli autori della ricerca, opera del Gruppo Italiano per la Valutazione degli interventi in Terapia Intensiva, si trova però una netta presa di distanza da siffatta interpretazione della stessa. «I dati di quella importante ricercasi leggesono stati riportati in maniera distorta e scorretta» e non può che essere «frutto di ignoranza, di superficialità o peggio di malafede porre sullo stesso piano l’eutanasia e la desistenza da cure inappropriate per eccesso, come purtroppo si è visto fare».

Un terzo argomento, collegato al precedente, è quello di quanti sostengono che già oggi, colpevolmente ignorate dallo Stato, oltre 1.000 persone malate l’anno si tolgono la vita ed altrettante tentano di farlo. Perché non offrire a costoro – è il ragionamento dei promotori dell’eutanasia legale – che comunque sono sofferenti e stanchi di vivere, strutture e reparti dove poter morire con dignità? A parte che fra il morire e l’essere uccisi, fino a prova contraria, sussiste un’abissale differenza pratica, etica e giuridica, c’è un aspetto che va ancora una volta tenuto presente: la fonte dei dati, ossia l’Istat (2008). Ebbene, esaminando i dati si scopre che, se è vero che vi sono stati 1.316 suicidi aventi la malattia come movente, è altrettanto vero come la gran parte di questi riguardi malattie psichiche (1.010) e non malattie fisiche (306); stesso discorso per i 1.382 tentativi di suicidio: quasi tutti causati da malattie psichiche (1.259) anziché da quelle fisiche (123). Come mai si nasconde questo dato? Forse perché scomodo e perché sarebbe dura mettere associare il suicidio di chi ha problemi psichici con l’osannata libertà di scelta?

Quarto argomento: il dolore insopportabile. Chi è contro il diritto a morire – è la tesi sostenuta – vuole imporre o prolungare la sofferenza. Ora, sarebbe interessante scoprire l’identità di soggetti tanto spietati da voler infliggere ai pazienti dolore. Di certo non lo vogliono infliggere i cattolici, che invece auspicano che a ciascun malato sia assicurata piena assistenza farmacologica ed umana e, quando colpito da forti sofferenze, il massimo alleviamento del dolore attraverso la somministrazione di opportune cure. Ne parlava già Papa Pacelli (1876-1958) il quale, nel lontano 1957, si spinse a precisare che se anche se «la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita» essa è da ritenersi «lecita». Analogamente il Catechismo spiega che «l’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile» (2279).

Il quinto argomento pro eutanasia è strumentalizzare singoli casi di malati gravi; si fissano obbiettivi e microfoni sul volto di chi è purtroppo colpito da patologie incurabili quasi ricattando i telespettatori col seguente messaggio: se costui è costretto a rimanere in vita soffrendo la colpa è vostra. Le scorrettezze di simili strumentalizzazioni sono varie. Anzitutto non si dice che quel dolore, più che fisico, è spesso psicologico e spirituale. In secondo luogo, prendere il caso limite per discutere un tema è sbagliato trattandosi, appunto, di caso limite: è come se si facesse un’inchiesta sulle condizioni di estrema povertà che fanno arrivare alcuni rubare. La disperazione che porta a commettere reati dovrebbe forse spingerci a depenalizzare il furto? No, ovvio: dovrebbe spingerci invece a contrastare quella povertà; così il grido di chi chiede di morire non deve portarci a depenalizzare l’omicidio del consenziente ma a riflettere, all’insegna della vicinanza umana, sulla genesi di quel grido.

L’ultimo inganno è dire che l’eutanasia riguarderebbe il singolo, mentre invece avvierebbe una tendenza: in Olanda e Belgio, nel giro di pochi anni, le “morti legali” son cresciute a dismisura. Ma anche questo non si deve sapere, altrimenti la gioiosa macchina pro morte potrebbe incepparsi.

Giuliano Guzzo (pubblicato anche su “La Croce”). 

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«La Chiesa rispetta le donne», la musulmana diventa cattolica

Sabatina JamesLa Chiesa ed il rispetto delle donne. La musulmana Sabatina James, da sempre ribelle verso la legge islamica, lo riconosce e si converte. Oggi vive sotto scorta in Germania.




In questa nostra “Storia di una capinera”, la protagonista, a differenza di quella di Verga, è riuscita a volare verso la libertà, seppur a un prezzo altissimo.

Oggi si nasconde sotto lo pseudonimo di Sabatina James, ha 31 anni ed è costretta a vivere sotto scorta della polizia 24h al giorno, cambiando regolarmente località della Germania.

La sua storia è stata ripresa anche da Newsweek: all’età di dieci anni la sua famiglia musulmana sunnita si trasferisce da Lahore (Pakistan) ad un piccolo paesino dell’Austria.


Da sposa bambina all’incontro con un cristiano.

A 17 anni la sua famiglia torna in Pakistan perché i genitori vogliono celebrare le sue nozze con un cugino cui era stata promessa in sposa da bambina. Lei si ribella e viene segregata in una scuola coranica sunnita affinché impari ad essere una “pakistana decente”.

La durezza delle condizioni la piegano così i genitori, credendo di averla trasformata, la lasciano tornare in Austria affinché termini gli studi per poi ritornare in Pakistan per sposarsi. Raggiunti i 18 anni Sabatina scappa e l’amicizia con un compagno di scuola evangelico la conduce ad un percorso di conversione, oscillando tra il protestantesimo e il cattolicesimo.

Sempre presente è in lei il monito della comunità islamica che l’ha cresciuta: tra i cristiani non vi sono santi, le loro chiese sono vuote e i loro postriboli pieni. Eppure, ciononostante, i simboli cattolici l’attraggono, l’immagine di Dio che sceglie di soffrire in croce la commuove. La prima considerazione è che il timor di Dio professato dai cristiani, basato sull’amore, è diverso dal timor di Dio professato dai musulmani, basato sulla paura. L’amico cristiano le legge passi della Bibbia che le danno pace e serenità, come mai il Corano aveva fatto.


La Chiesa ed il rispetto per le donne, Sabatina si converte.

Sabatina ricorda così quei giorni: «Cristo mostrava misericordia verso le donne adultere, mentre Maometto permetteva che fossero lapidate. Più leggevo il Corano, più odio sentivo verso coloro che erano diversi; invece, come cristiana, provo amore per queste persone e desidero che ricevano lo stesso amore che ho provato io attraverso Gesù».

Si confida con un sacerdote cattolico ma non riceve molta attenzione, le viene detto che anche Maometto è stato un profeta, troppa paura di offendere l’islam. Più confusa di prima, si orienta verso l’evangelismo subendo oltretutto le minacce dei genitori: se non torna sui suoi passi verrà uccisa. La polizia non la aiuta, lo fa invece la Chiesa evangelica.

Eppure continua a percepire una mancanza: rimane il fascino dell’esperienza cattolica,  dentro sé sente che Sabatina James 2è quella “la Chiesa vera”, è una chiamata interna, così si accosta ai grandi Padri della Chiesa, quali Agostino, Ignazio di Antiochia e Ireneo.

Le minacce aumentano, ma la forza della nuova conversione, al cattolicesimo, le dona il sorriso e la pienezza della vita. L’incontro con Cristo è reale adesso, rimane affascinata da questo passo: “Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia […] perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” (Isaia 42,7-8).

Sabatina comprende che la sua missione è sostenere le donne musulmane che si rivolgono a lei perché picchiate e segregate dai mariti, che vogliono deportarle nei Paesi d’origine. E noi cattolici, lamenta Sabatina, «insegniamo che tutte le religioni sono uguali, e così otteniamo che i cattolici si convertono all’islam e vanno a combattere la Jihad in Iraq».

Con la fondazione di cui è diventata ambasciatrice, Terre des Femmes, oggi si batte per l’uguaglianza delle donne musulmane. «Migliaia di donne sono torturate e assassinante in nome di Allah; negli ultimi anni, solo in Pakistan più di 4000 donne sono state bruciate vive», ha scritto nel suo libro “Mi lucha por la fe y la libertad” (Ed. Palabra, 2013).

Oggi, piena di quella gioia che solo lo Spirito, al di là di ogni consolazione umana, può dare, ha deciso di donare tutto ciò che ha ricevuto da Cristo alle capinere che, come lei, hanno vissuto in un gabbia, affinché volino libere.

La redazione

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Perché pregare se Dio conosce già i nostri pensieri?

pregareSull’interessante sito web del noto filosofo e apologeta cristiano William Lane Craig è apparsa recentemente una domanda sull’utilità della preghiera, sopratutto partendo dal fatto che Dio conosce già i nostri pensieri. Non rischia di essere ridondante?

E’ una domanda che molti ci pongono anche per e-mail e a cui abbiamo già risposto. Ma cogliamo l’occasione della risposta di Lane Craig per approfondire. Il filosofo americano, come spesso fa, procede per metafore: porsi questa domanda, scrive, è come domandarsi che utilità ha dire “Ti amo” alla propria ragazza o moglie. Forse pensiamo che lei non lo sappia già? Dire “Ti amo” fa parte della costruzione di un rapporto intimo con l’altro, che è anche una delle intenzioni della preghiera. Una forma di preghiera, ha proseguito Lane Craig, è anche dire semplicemente “Grazie Signore!”. «Potete immaginare qualcuno così ottuso da dire: “Io non devo ringraziare John per quello che ha fatto per me, perché sa già che gli sono grato“?”, oppure: “Io non devo chiedere scusa a Susan perché sa già mi dispiace”?».

Pregare, infatti, significa manifestare consapevolmente e liberamente la propria fede e la propria intenzione di fondare un rapporto di intimità con Dio. Possiamo dire che la preghiera è un esercizio di libertà e di cosciente affidamento. Recentemente Papa Francesco ha proprio risposto a questo quesito: «Dio non conosce già le nostre necessità? Dio ci invita a pregare con insistenza non perché non sa di che cosa abbiamo bisogno. Al contrario, Lui ascolta sempre e conosce tutto di noi, con amore. Nel nostro cammino quotidiano, specialmente nelle difficoltà, nella lotta contro il male fuori e dentro di noi, il Signore non è lontano, è al nostro fianco; noi lottiamo con Lui accanto, e la nostra arma è proprio la preghiera, che ci fa sentire la sua presenza accanto a noi, la sua misericordia, anche il suo aiuto. C’è una lotta da portare avanti ogni giorno; ma Dio è il nostro alleato, la fede in Lui è la nostra forza, e la preghiera è l’espressione di questa fede».

Si può pregare per chiedere una guarigione fisica (e gli studi effettivamente dimostrano l’utilità della preghiera in questi casi), ma essa non ha lo scopo di cambiare i progetti di Dio. Semmai di chiedere a Dio di aiutarci ad accettare il Suo progetto su di noi. Domandare di sentirci peccatori, di essere aiutati a capire che non siamo padroni della nostra vita ed avere la forza di affidarci a Lui: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22, 42). Queste parole di Gesù in croce sono l’apice del pregare. Come ha scritto Sant’Agostino, «la creatura ragionevole offre preghiere a Dio per costruire se stessa, non per istruire Dio» (De gratia Novi Testamenti ad Honoratum liber unus, 29).

E’ ovvio che ci si riferisce a preghiere dette con il cuore, non la ripetizione meccanica di formule imparate a memoria. L’entusiasmo della preghiera è dire: “Dio, rivelati a me! Io scelto di aprire il mio cuore e la vita a Te”. Ma la preghiera è anche un momento di silenzio, senza parole. «Noi pensiamo che dobbiamo pregare, parlare, parlare, parlare. No! Lasciati guardare dal Signore. Quando Lui ci guarda, ci dà forza e ci aiuta a testimoniarlo», ci ha spiegato il Papa.

La redazione

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Caro procuratore Roberti, la Chiesa ha fatto tanto contro la mafia

MafiaIl procuratore nazionale Franco Roberti ha recentemente affermato: «Sono convinto che la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie e gran parte delle responsabilità le ha proprio la Chiesa perché per secoli non ha fatto niente. Penso al discorso di Giovanni Paolo II fatto alla Valle dei Templi ma dopo quello? Silenzio assoluto. Zero reazioni, nonostante omicidi come quello di Padre Puglisi, fino al 2009 quando la Conferenza Episcopale ne parlò. Oggi dopo altri sei anni Papa Francesco ne parla apertamente e parla di scomunica».

Innanzitutto è difficile che la Chiesa non abbia fatto niente “per secoli”, dato che l’esperienza mafiosa per fortuna non copre il contesto temporale di oltre duecento anni. In secondo luogo, è una menzogna affermare che la Chiesa non abbia detto nulla fino al 1993, con il discorso di Giovanni Paolo II, e poi nulla ancora fino al 2009. E poi ancora silenzio fino ad oggi. Sono affermazioni sbagliate e gravi, tanto più se dette da un’autorità importante come quella di Roberti. La scomunica ai mafiosi è stata comminata numerose volte, soltanto l’episcopato siciliano lo ha fatto nel 1944, nel 1955 e nel 1982. Una critica a Roberti è arrivata da Tonio Dell’Olio, membro dell’ufficio di presidenza di “Libera”, l’associazione italiana contro gli abusi delle mafie.

Certo, ci furono episodi di omertà e di collusione di sacerdoti con la mafia ma non si possono dimenticare i continui pronunciamenti della Chiesa dagli anni ’50 in poi. Nemmeno si possono evitare di citare figure come il card. Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, nonché presidente della Conferenza Episcopale Siciliana e vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana che unì la sua presenza pubblica a quella della aperta battaglia alla mafia. Proprio il card. Pappalardo spiegò che i ritardi nella comprensione del fenomeno mafioso furono all’epoca di tutta la società e di gran parte della stessa magistratura, non soltanto della Chiesa. Riconoscendo, certamente, che «non sempre, forse, nel passato sono state chiaramente percepite l’intrinseca gravità e le nefaste conseguenze tanto sociali che ecclesiali del fenomeno mafioso, fino a ingenerare l’impressione che certi diffusi silenzi o non troppo esplicite ed articolate condanne potessero essere segno di insensibilità o di tacita convivenza» (citato in M. Lancisi, “Don Puglisi, il Vangelo contro la mafia”, Piemme 2013). Tuttavia, specialmente dagli anni ’70 in poi, «non mancò la voce della Chiesa che di volta in volta condannava inequivocabilmente i delitti commessi e le oscure trame mafiose che ne erano all’origine. Anche se sulla loro consistenza, qualificazione ed estensione non si avevano allora le informazioni e le prove» divenute chiare soltanto all’inizio degli anni Ottanta, grazie ai pentiti.

La questione dunque non è così semplice come si vorrebbe far credere. Tuttavia, è sufficiente una veloce ricerca per scoprire che già agli inizi degli anni Cinquanta i vescovi italiani riuniti a Palermo per il primo sinodo del dopoguerra, bollarono i mafiosi come uomini senza morale e senza Dio.

Furono gli anni Sessanta, però, a far conoscere la mafia all’Italia intera, in particolare con la Strage di Ciaculli del 1963. In questo decennio effettivamente la Chiesa non ebbe ancora una chiara coscienza della portata del problema, ma d’altra parte nemmeno i media e lo Stato lo capirono. Come ha spiegato lo studioso Francesco Michele Stabile, «i vescovi non ebbero il coraggio di denunziare con chiarezza la incompatibilità tra mentalità mafiosa e professione di fede cristiana. La condanna morale delle azioni criminali, che sempre ci fu, non si esplicitava nella condanna della mafia come organizzazione criminale» (F.M. Stabile, “I consoli di Dio”, Caltanissetta-Roma 1999). Tuttavia due mesi dopo i fatti di Ciaculli, il sostituto della segreteria di Stato Vaticano, Angelo Dell’Acqua, inviò una lettera al cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, invitandolo a valutare se non fosse «il caso, anche da parte ecclesiastica, di promuovere un’azione positiva e sistematica con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità della cosiddetta “mafia” da quella religiosa e per confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana» (A. Chillura, Coscienza di chiesa e fenomeno di mafia, Palermo 1990). Nel 1964 il card. Ruffini, inizialmente poco cosciente del problema, intervenne con una lettera pastorale esponendo un excursus sull’origine dei termini “mafia” e “mafiosi”, riferendosi in particolare al mondo agricolo dove l’organizzazione nacque e aumentò il suo potere e criticando il fatto che gli abusi mafiosi sono divenuti «consuetudini perché tutelati dall’omertà degli onesti, costretti al silenzio per paura, e dalla debolezza dei poteri ai quali spettavano il diritto e l’obbligo di prevenire e di reprimere la delinquenza in qualsiasi momento e a qualunque costo».

Ma la pressa di coscienza avvenne nel decennio successivo. Sul sito web dedicato a padre Pino Puglisi, il sacerdote ucciso da Cosa nostra per il suo impegno sociale e antimafioso, si legge che durante gli anni Settanta una delle questioni centrali per la Chiesa siciliana fu proprio l’emergenza mafiosa e la collusione con essa di alcune correnti della Democrazia Cristiana, così come l’uso dei riti religiosi per legittimare davanti al popolo la propria potenza. Il 10 ottobre 1974 i vescovi siciliani pubblicarono un documento sui “mali sociali” dell’Isola, tra cui condannarono la «fosca macchia della mafia, che presume da una parte di risolvere i problemi della giustizia e dell’onore con le forme più grossolane e delittuose mentre, dall’altra, si accampa nei settori dell’industria edilizia e dei mercati con sistemi aggiornati di gangsterismo».

Gli anni Ottanta videro il cardinale Salvatore Pappalardo guidare la diocesi di Palermo (e ottenne la vicepresidenza dei vescovi italiani), lui stesso nel 1981 celebrò nel duomo quella che viene ricordata come la “Messa antimafia”, in cui si rivolse direttamente ai mafiosi dicendo: «Il profitto che deriva dall’omicidio è maledetto da Dio e dagli uomini. E quand’’anche riusciste a sfuggire alla giustizia degli uomini, non riuscirete mai a sfuggire a quella di Dio». Nell’autunno del 1982, dopo la strage di via Isidoro Carini, i vescovi siciliani spiegarono che la scomunica ai mafiosi colpisce non solo i responsabili diretti degli omicidi ma anche tutti coloro che collaborano. In occasione della morte del generale Dalla Chiesa da parte di Cosa Nostra, di fronte ai più importanti politici siciliani e italiani, il card. Pappalardo accusò violentemente la politica nella celebre “omelia di Sagunto”, che ha segnato una svolta nella lotta contro la mafia.

Non era certo una voce isolata, negli anni ’80 comparvero anche i cosiddetti “preti antimafia”, che istituirono centri sociali nei quartieri, in cui la popolazione povera e bisognosa riusciva a trovare un punto di appoggio. In questi centri prestavano e prestano tuttora servizio, come volontari e a titolo onorifico, sociologi, psicologi, teologi e medici, che offrono aiuto, sia materiale che ideale, con, ad esempio, svariati programmi di formazione e cultura. Obiettivo dei centri sociali era ed è promuovere, in maniera civile, una cultura politica e democratica che opponga resistenza alla penetrazione della mafia nella vita sociale. Nell’agosto del 1982 i parroci siciliani delle cittadine di Bagheria, Casteldaccia, Villabate e Altavilla Milicia (un quadrilatero particolarmente esposto alla mafia), decisero di lanciare assieme appelli dello stesso tenore: i mafiosi non sono gente d’onore ma trafficanti di droga e assassini su commissione, gente che un buon cristiano deve evitare come la peste. Nel 1983 don Giacomo Ribaudo, parroco di Villabate, riuscì a creare il Movimento Nuova Sicilia sollecitando i democristiani locali a presentare liste senza candidati in alcun modo associabili alla mafia. Nel novembre 1982 Papa Giovanni Paolo II si recò in Sicilia ma non pronunciò la parola “mafia” (i motivi non si conoscono), ma vi fece ampio riferimento nella visita a Palermo: «I fatti di violenza barbara che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida città offendono la dignità umana…Occorre ridare forza alla voce della coscienza, che ci parla della legge di Dio».

Gli anni Novanta conobbero la durissima presa di posizione di Giovanni Paolo II, nel 1991 davanti ai diciotto vescovi della Sicilia parlò di “una Chiesa di frontiera” con la missione di avversare lo strapotere della Piovra (della mafia): «Come non condividere le vostre apprensioni per l’espandersi della criminalità organizzata di stampo mafioso, sempre più seminatrice di vittime e delitti? Tale piaga sociale rappresenta una seria minaccia non solo alla società civile, ma anche alla missione della Chiesa, giacché mina dall’interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliano. Nel corso di questi anni, di fronte a fatti di grave inquietudine, voi giustamente avete fatto sentire la vostra voce di pastori, preoccupati della sorte del gregge a voi affidato». Nel 1992 i vescovi italiani espressero ufficialmente nel Sinodo di Caltanissetta che «la scomunica dei mafiosi è latae sententiae, cioé automatica». Non occorre un pronunciamento formale, come una condanna o una incriminazione della magistratura. Si è quindi continuato: «La nostra Chiesa per combattere il fenomeno della mafia intende ispirare la sua azione al principio dell’incarnazione della fede nella storia concreta del nostro popolo, calandosi nella sua situazione con i suoi problemi, i suoi condizionamenti, i suoi valori». Dopo un invito ai sacerdoti ad agire con rinnovata incisività, i vescovi indicarono la parrocchia come «il luogo in cui chi subisce intimidazioni trova solidarietà e concreto aiuto per non soccombere», invitando i cristiani «a prendere le distanze dai mafiosi e spogliarsi dell’abito mentale mafioso che si concretizza principalmente nell’omertà, nel ricatto, nella sfiducia nel potere costituito, nel ricorso sistematico alle raccomandazioni, nella tendenza a costituirsi in gruppo di amici per gestire direttamente la propria difesa, nel distorto senso dell’onore, nella scarsa considerazione dei beni della comunità».

Il 9 maggio 1993 Giovanni Paolo II lanciò dalla Valle dei Templi di Agrigento il durissimo anatema contro la mafia, che ebbe anche il potere di convertire il sicario Salvatore Grigoli, omicida di don Puglisi. Nel novembre 1995 Papa Wojtyla ripetè il suo anatema alla mafia, parola per parola. Dalla metà degli anni ’90 in poi si cominciò anche a condannare pubblicamente la mafia puntando sulla sua inconciliabilità con il Vangelo, fino ad arrivare ai continui appelli degli ultimi 15 anni.

Don Luigi Ciotti, fondatore dell’Associazione Libera contro i soprusi delle mafie, ha ricordato recentemente: «c’è stata una Chiesa che ha sempre saputo essere attenta alle mafie. Magari numeri piccoli, ma c’erano sacerdoti e vescovi che condannavano questo male. Una Chiesa che ha reagito, ha parlato. Ma c’è stato anche chi per tiepidezza, prudenza, ignoranza, superficialità è stato dall’altra parte. Non possiamo nasconderlo, ci sono state delle risposte, dei sacrifici, del coraggio, ma anche dei grandi vuoti. Come Chiesa abbiamo un patrimonio molto importante, una storia fatta di storie. Certo con fasi alterne. E io sono andato a scoprire proprio queste oscillazioni della Chiesa in alcuni momenti attenta, in altri distratta». Ha comunque ricordato che fin dal 1877 il giornale “La Sicilia cattolica”, organo della curia vescovile di Palermo, denunciava la collusione tra la buona società e il crimine organizzato: «Che vale essere avvocato, sindaco, proprietario e perfino deputato se delle loro proprietà e titoli se ne servono a proteggere il malandrinaggio. Per giungere ad alcunché di positivo bisogna non transigere con la mafia». Ha commentato don Ciotti: «noi ne parliamo oggi ma qualcuno se ne era già accorto allora». Ha citato anche la scomunica dei vescovi siciliani del 1° dicembre 1944, «il testo ufficialmente non menziona il termine mafia, ma dal contesto si capisce che si riferisce a fatti e circostanza che riguardano la mafia. Dunque i vescovi siciliani c’erano già da allora su questi temi».

Dunque la storia come sempre è complessa, la Chiesa non ha taciuto mai semmai, a volte, ha scelto la prudenza, altre volte il silenzio, altre volte ha sottovalutato il problema. Ma, come ha detto il mafioso Leonardo Messina: «La Chiesa ha capito prima dello Stato che doveva prendere le distanze da Cosa nostra». Il procuratore Franco Roberti dovrebbe, perciò, indirizzare le sue accuse innanzitutto allo Stato, e citare meno riduzionisticamente e anticlericalmente la storia degli ultimi sessant’anni. Lo ha infatti criticato lo stesso don Ciotti: «Nella Chiesa noi abbiamo davanti agli occhi tanti esempi di chi vive il Vangelo con radicalità e senza accomodamenti. Pronti a dare la vita per combattere le mafie. Come è capitato in passato, capita oggi e capiterà in futuro.  Se dobbiamo parlare di silenzi – che ad onor del vero nella Chiesa ci sono stati, comprese anche alcune connivenze – dobbiamo, però, parlare anche dei silenzi, delle complicità, delle reticenze, da parte di ampi settori della politica, della società civile e di organizzazioni istituzionali del nostro Paese che hanno colpe pesantissime. Questo è il vero problema. La Chiesa ha le sue fragilità ma anche testimoni bellissimi come don Pino Puglisi, per citarne solo uno».

La redazione

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Senza Dio non si può credere nemmeno nei diritti umani

Argomento morale“La Chiesa si è comportata male, “abortire è un diritto della donna”, “la laicità è un bene per la società”, “i cittadini hanno il diritto di scegliere come morire” ecc. Queste sono alcune delle affermazioni che spesso si sentono spesso dire da anticlericali e non credenti in Dio. Ma l’ateismo non riesce a giustificare l’esistenza di diritti umani oggettivi e assoluti.

Le dichiarazioni appena lette sono infatti una contraddizione, il motivo lo ha spiegato recentemente Frank Furedi, professore emerito di Sociologia presso l’Università di Kent, nonché membro della “British Humanist Association”. «Esistono veramente il bene e il male?», si è chiesto. Si parla di “nuovi diritti”, «ma chi dice che quelli sono i diritti? In base a quale criterio oggettivo l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’adozione dello stesso sesso sono diritti morali? Non esiste una norma morale nell’universo materialista dell’ateismo. Così gli atei sono costretti a rubare i diritti morali oggettivi da Dio, mentre sostengono che Dio non esiste».

E’ il cosiddetto “argomento morale” che abbiamo già trattato in passato. Ovviamente non si vuole sostenere che chi non crede in Dio è costretto all’immoralità, tanti non credenti sono chiaramente persone di buona volontà, al contrario di tanti altri credenti. Il problema non é questo, la questione è semplicemente che «gli atei non possono giustificare la moralità». Infatti, solitamente, confondono «il sapere ciò che è giusto con il giustificare ciò che è giusto. Si dice ad esempio che “è giusto” amare. Sono d’accordo, ma perché “è giusto da amare”? Il problema non è sapere o no ciò che è giusto, ma in primo luogo sapere perché esiste uno standard autorevole del giusto».

Violentare i bambini è ritenuto un male assoluto e oggettivo, nessuno direbbe che è un male relativo al periodo storico, alla società o al volere della maggioranza. Ma come può esistere un male assoluto oggettivo? Come giustificarne l’esistenza? Chi ha deciso cosa è bene e cosa è male oggettivamente ed eternamente? I credenti rispondono che è Dio ad avere infuso dentro l’uomo una legge morale a cui far riferimento, ma i non credenti cosa possono rispondere? La loro posizione, ha proseguito Furedi, è come chi «ha in mano un libro e ne conosce il contenuto, ma contemporaneamente nega l’esistenza del suo autore. Naturalmente è lecito farlo, ma non ci sarebbe nessun libro se non ci fosse l’autore. In altre parole, gli atei possono conoscere la morale oggettiva e contemporaneamente negare l’esistenza di Dio, ma se Dio non esiste non hanno alcuna capacità di giustificare la loro posizione», ovvero di adottare una posizione razionale (o ragionevole).

Senza Dio «è tutta una questione di opinione, non esistono diritti umani e morale oggettiva». Chi sostiene il contrario è chiamato a giustificare l’esistenza di un bene e un male assoluti che prescindono l’uomo stesso, lo precedono. Una risposta però potrebbe essere: «”Nel nostro paese abbiamo una Costituzione che la maggioranza ha approvato. Non abbiamo bisogno di fare appello a Dio”. E’ vero», ha replicato l’umanista inglese, «non c’è bisogno di fare appello a Dio per scrivere le leggi, ma si deve fare appello a Dio se le si vuole giustificarle come qualcosa di diverso dall’opinione». Altrimenti la Costituzione andrebbe cambiata ad ogni sondaggio oppure ad ogni intervento di un giudice interventista. Se la morale è relativa chi è l’arbitro esterno che decide che la morale relativa di un giudice anti-gay, ad esempio, è oggettivamente sbagliata? La maggioranza? Ma la maggioranza ha davvero l’autorità di far diventare qualunque abominio un comportamento etico? E se la morale è l’opinione maggioritaria di un dato contesto culturale, chi può dire che i Paesi africani che hanno votato a maggioranza le leggi anti-gay hanno una morale sbagliata? Sbagliata rispetto a cosa? A quale assoluto? E con quale pretesa imporre la nostra morale relativa ad un popolo che decide in maggioranza qual è la morale che vuole seguire?

«Ecco spiegato perché», ha proseguito Furedi, «la nostra Dichiarazione di Indipendenza motiva i diritti citando il Creatore. Riconosce il fatto che anche al cambiamento della legge o dell’ordine politico, alcuni diritti non possono cambiare perché vengono da Dio, non dall’uomo. La questione è che senza Dio non ci sono diritti umani oggettivi, non vi è alcun diritto di aborto o matrimonio omosessuale». In altre parole, ha scritto provocatoriamente, «non importa in quale lato della navata politica si è o quanto appassionatamente si crede in certe cause o diritti, senza Dio sarebbe tutto privo di fondamento. I diritti umani sarebbero semplicemente preferenze soggettive, così gli atei possono credere e lottare per i diritti di aborto, del matrimonio omosessuale e dei contribuenti, a patto che non giustifichino questi come diritti oggettivi». Se ci spingiamo ancora oltre, «non si può nemmeno credere che qualcuno abbia mai effettivamente cambiato il mondo in meglio. Una buona e oggettiva riforma politica o morale sarebbe impossibile se l’ateismo fosse vero. Il che significa che abolire la schiavitù o il razzismo non è stato qualcosa di buono, è stato solo diverso. Si può solo credere che il salvataggio degli ebrei dai forni crematori non era oggettivamente meglio del loro dell’omicidio, ed il matrimonio gay non è meglio che colpire un gay. Così come questo significa che amare gli altri non è meglio che stuprarli», senza un bene o male assoluti questo è semplicemente “diverso”. In un paradigma relativista l’etica è soltanto un fatto privato, un’opinione personale.

Molti sicuramente penseranno che invece razzismo, omicidio, aggressione e stupro sono oggettivamente sbagliati e le persone hanno il diritto a non essere danneggiate. «Sono d’accordo», ha replicato il sociologo, «ma questo è vero solo se Dio esiste. In un universo ateo non c’è nulla di oggettivamente sbagliato, non ci sono limiti. Se sei arrabbiato con me per queste riflessioni, allora stai ammettendo che i comportamenti e le idee non sono tutte uguali ma che alcune sono più vicine alla verità morale oggettiva rispetto ad altre. Ma qual è la fonte di quella verità oggettiva? Non può essere variabile, decisa di volta in volta da fallibili esseri umani come voi o me. Essa può essere solo Dio, la cui natura immutabile è la base di ogni valore morale. È per questo che gli atei stanno inconsapevolmente rubando da Dio ogni volta che rivendicano un diritto».

Siamo d’accordo con Frank Furedi, d’altra parte questa posizione è dimostrata dai grandi intellettuali non credenti. Peter Singer, il noto bioeticista ateo dell’Università di Princeton ha detto questo a proposito della pedofilia: «Se a te piacciono le conseguenze allora è etico, se a te non piacciono le conseguenze allora è immorale. Così, se ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora questo è etico, se non ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è immorale». Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, nel suo “An Amoral Manifesto” ha scritto: «ho rinunciato del tutto alla moralità. Da tempo lavoro su un presupposto non verificato, e cioè che esiste una cosa come giusto e sbagliato. Io non credo che esistano, mi sono convinto che l’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare l’amoralità. Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione: senza Dio, non c’è moralità. Ma essi non sono corretti, credo ancora infatti che non vi sia un Dio. Quindi, credo, non c’è moralità. Anche se parole come “peccato” e “male” vengono usate abitualmente nel descrivere per esempio le molestie su bambini, esse però non dicono nulla in realtà. Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché non c’è Dio letteralmente e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità».

Il cosiddetto “argomento morale” mostra che escludere Dio dalla realtà comporta anche delle conseguenze nei propri convincimenti e, se si ama la coerenza, questo obbliga ad assumere una posizione necessariamente amorale di fronte al mondo: nessuna morale laica, nessun bene e nessun male, soltanto opinioni e sensazioni personali. In caso contrario, la propria posizione non potrà essere ritenuta ragionevole/razionale. Tanto meno razionalista.

La redazione

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Lo psichiatra P.R. McHugh «Cambiare sesso? Per la scienza è un disturbo»

GenderIl noto psichiatra americano Paul R. McHugh, professore Emerito di Psicologia presso la prestigiosa Johns Hopkins University School of Medicine, dove è stato presidente del Dipartimento di Psichiatria, è intervenuto qualche tempo fa sul “Wall Street Journal” sul tema dei transgender, offrendo su esso il punto di vista della comunità scientifica.

Ha anche rivolto una critica ai media, accusandoli di complicità nel promuovere e valorizzare quel che invece, afferma McHugh, è considerata una grave problematica quella di pensarsi nati in un “corpo sbagliato”. Oltretutto, ha proseguito, nemmeno l’operazione chirurgia cambia le carte in tavola: «I responsabili politici e i media non stanno facendo alcun favore né al pubblico né ai transgender, trattando le loro confusioni come un diritto bisognoso di essere difeso piuttosto che come un disturbo mentale che merita comprensione, trattamento e prevenzione», ha spiegato. «Questo intenso bisogno di essere transgender costituisce un disturbo mentale per due aspetti: il primo è che l’idea di disallineamento sessuale è semplicemente sbagliata e non corrisponde alla realtà fisica. Il secondo è che può portare a risultati psicologici cupi». Lo psichiatria ha quindi approfondito in modo tecnico i motivi per cui la medicina considera la transessualità un disturbo mentale, in modo simile a coloro che soffrono di anoressia o bulimia nervosa. «Questi disturbi», ha proseguito, «si verificano in soggetti che hanno iniziato a credere che alcuni dei loro conflitti o problemi psico-sociali saranno risolti se potrà cambiare il modo in cui essi appaiono agli altri».

«Per il transgender», ha proseguito, «la propria sensazione di “genere” è un cosciente senso soggettivo che, essendo nella mente, non può essere messo in discussione da altri. L’individuo cerca spesso non solo la tolleranza della società di questa “verità personale”, ma anche l’affermazione di essa. Questo spiega il supporto per “l’uguaglianza transgender” e le richieste di pagamento da parte del governo per trattamenti medici e chirurgici e per l’accesso a tutti i ruoli e privilegi pubblici basati sul sesso». Ma in questo modo non si aiutano le persone. Per quanto riguarda i giovani, «i trattamenti devono iniziare con la rimozione del giovane dall’ambiente suggestivo che lo confonde, offrendo a lui un contro-messaggio in terapia familiare». Ma, sopratutto, «gli psichiatri devono sfidare il concetto solipsistico che ciò che è nella mente non può essere messo in discussione. I disturbi della coscienza, dopotutto, rappresentano il dominio della psichiatria. La maggior parte dei pazienti trattati chirurgicamente hanno descritto se stessi come “soddisfatti” dai risultati, ma i loro adattamenti psico-sociali successivi non erano migliori di quelli precedenti l’intervento chirurgico. Per questo alla Johns Hopkins abbiamo interrotto gli interventi chirurgici per cambiare sesso».

Lo psichiatra ha citato anche una serie di ricerche, come quella del 2011 svoltosi presso il Karolinska Institute in Svezia: uno studio a lungo termine (30 anni) durante il quale sono stati seguite 324 persone che hanno avuto un intervento chirurgico per cambiare sesso. Lo studio ha rivelato che dopo l’intervento “normalizzatore” queste persone hanno cominciato a sperimentare crescenti difficoltà mentali e maggiori rischi di suicidio. Evidentemente si erano costruiti artificialmente un “corpo sbagliato”, che non era quello “giusto” in cui erano nati. La conclusione del dott. McHugh è che «il “cambiamento di sesso” è biologicamente impossibile. Le persone che si sottopongono ad un intervento chirurgico per cambiare sesso non cambiano da uomini in donne o viceversa. Piuttosto, essi diventano semplicemente uomini o donne femminizzati o mascolinizzati. Affermare che questa è materia per i diritti civili e incoraggiare l’intervento chirurgico è, in realtà, collaborare e promuovere un disturbo mentale».

Nessuno può emanciparsi dal suo dato biologico, nemmeno travestendosi o cambiando esteticamente il suo corpo. Come è stato spiegato, questa disforia tra sessualità biologica e desiderio mentale è definito “disturbo d’identità di genere” (DIG), patologia inserita nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (tanto che Vladimiro Guadagno, in arte Luxuria, da anni cerca di modificare le decisioni dell’OMS tramite referendum di cittadini). I dizionari medici la definiscono “disturbo mentale”, per i teorici Lgbt è invece “teoria del genere” da insegnare nelle scuole: “ognuno è quel che vuole essere”. Bisognerebbe tenerne conto quando si arriva a decisioni politiche, come quella del Comune di Roma che intende creare un badge con il nome che vogliono auto-conferirsi i dipendenti transessuali.

In ogni caso il parere della comunità scientifica -giusto o sbagliato che sia (le “verità” scientifiche sono soggette al mutamento, sopratutto per la psicologia, l’attuale punto di vista sull’omosessualità, ad esempio, è l’opposto di quello condiviso dalla comunità scientifica quarant’anni fa)- lo lasciamo volentieri agli esperti. A noi cattolici, infatti, interessa di più il giudizio morale su questi comportamenti: come cristiani siamo chiamati alla vicinanza, alla compassione, alla capacità di restituire la speranza perduta a queste persone, spronandole ad un cammino di accettazione di sé (superando, invece, l’utopia sessantottina dell’emancipazione da se stessi pensando così di “essere liberi”). Senza mai scandalizzarci e senza diventare complici o sostenitori delle loro difficoltà per un mal compreso buonismo. Non faremmo, altrimenti, il loro vero interesse.

La redazione

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