Perché il mondo Lgbt ha bisogno di negare l’esistenza della teoria del gender?

Teoria genderAccantonata in fretta la bufala dell'”emergenza omofobia” -martellata per mesi sui quotidiani- che caratterizzerebbe il nostro “cattolico” Paese tanto da necessitare una apposita legge (talmente urgente che il ddl Scalfarotto è stato dimenticato da tutti, senza problemi), il mondo Lgbt si è dato una nuova priorità: negare a tutti i costi l’esistenza della teoria del gender.

Bisogna dar loro atto che, effettivamente, non hanno mai definito le loro idee come una “teoria” vera e propria, tuttavia è legittimo parlarne in questi termini dato che quel che sostengono è ben definibile tramite due precisi convincimenti. La prima affermazione della teoria del gender è che esisterebbe una sessualità specifica (o “dato biologico”) e un distinto genere (o “dato psicologico”). In sintetiche parole: si può essere maschi-uomini (o femmine-donne) in caso di coincidenza tra sesso biologico e genere (si parlerebbe in questo caso di cisgender, altro neologismo Lgbt per identificare il 99% della popolazione mondiale), così come si potrebbe essere maschi-donne (o femmine-uomo) nel caso in cui sesso biologico e genere non coincidano. Ovviamente è tutto presentato come “normale”, parola che fa sempre con insistenza capolino nella terminologia Lgbt. La seconda affermazione della teoria del gender è che sarebbe possibile scegliere autonomamente il genere sessuale “preferito” (o “sentito”), ovviamente prescindendo dal dato biologico. Finora sarebbe stata la società a indirizzarci nei rispettivi generi sessuali facendoli forzatamente coincidere al dato biologico, d’ora in poi bisognerebbe invece prendere coscienza di ciò e far crescere i bambini “liberi” da questi “stereotipi” per dar loro la possibilità di decidere “liberamente” (altro termine abusato) attraverso un’educazione gender-neutral.

Come si evince chiaramente, entrambi i ragionamenti sono complessi sofismi complottisti e anti-fattuali, teorizzati a tavolino per legittimare sopratutto il transessualismo (sessualità mutevole), ovvero la liquidità sessuale in nome dell’utopica autonomia di scelta della propria identità sessuale (accompagnata o meno dal cambiamento chirurgico dell’aspetto esteriore). Perché c’è necessità di questa ufficiale apologia? Perché la scienza medica ritiene questi convincimenti una patologia mentale definendo il transessualismo come “disturbo d’identità di genere” (DIG) nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), spiegandolo come «il desiderio persistente verso le caratteristiche fisiche e ruoli sociali che connotano il sesso biologico opposto». Secondo il DSM, dunque, esiste solo il sesso biologico, come d’altra parte ognuno di noi sa di se stesso, mentre il desiderare altro da quel che naturalmente si è appare come sintomo di un disturbo più profondo.

Il mondo Lgbt (formato da diversi omosessuali e molti eterosessuali prestati alla causa), tuttavia, si è accorto che se la società identifica così chiaramente i loro convincimenti, riconducendoli ad una precisa “teoria”, diventa allora più difficile riuscire ad entrare nelle scuole e instillare queste idee nella futura società. Sopratutto se se ne sente parlare in modo tanto negativo dalla principale autorità morale, ovvero Papa Francesco che ha condannato, per l’ennesima volta, tale ideologia nell’udienza generale di ieri. Di conseguenza, l’associazionismo omosessuale è corso ai ripari ed ecco così spiegato perché in queste ore si sta scatenando in questa direzione, sostenendo che tale teoria sarebbe stata inventata dal Vaticano, dagli ultrafanatici religiosi, dai fascisti, dai bigotti e da altri cattivoni.

La cosa più curiosa, tuttavia, è che queste persone mentre negano l’esistenza della teoria del gender ne definiscono contemporaneamente i contenuti. L’esempio più palese in queste ore è quello della filosofa Chiara Lallinostra vecchia conoscenza: da letterale tuttologa è passata a sostenere che l’anima non esiste, che l’istinto materno non è una naturale e innata competenza femminile, che in fondo abortire è bello, finendo col legittimare il “regalo di neonati” (pratica subdolamente chiamata “gestazione per altri”). L’impostazione ideologica la si capisce dunque immediatamente. Si è lanciata nella negazione della teoria del gender con un articolo dove ha ridicolizzato Papa Francesco, mostrando orgogliosa come la lobby Lgbt sia riuscita a far modificare gli articoli sulla spiegazione del gender sia del Corriere della Sera (guarda caso quotidiano con cui collabora) che de La StampaI fatti sono stati commentati anche sul blog “Nelle note”Più interessante un secondo articolomolto confusionario e con pochissima sostanza (ma con moltissime citazioni di teologi e filosofi, così come di blog e siti web “clericali”), con il quale ha voluto spiegare che la teoria del gender è «un nemico che hanno immaginato, o che hanno costruito».

Peccato che, come abbiamo anticipato, la Lalli abbia descritto esattamente la teoria del gender -seppur senza chiamarla così- presentandola come fosse verità scientifica. La biologia, ha infatti sostenuto, non ci dividerebbe come maschio/femmina, «ma ci sono anche molte possibilità intermedie». Esse sarebbero l’ermafroditismo, la sindrome di Morris, la sindrome di Swyer, la sindrome di Turner e la sindrome di Klinefelter. Già, peccato che non sono affatto “possibilità intermedie” all’essere maschio/femmina, ma tutte patologie genetiche (come indica il termine “sindrome”) e, alcune, riguardanti il sistema riproduttivo di un maschio o di una femmina. Una patologia non è una possibilità intermedia, così come chi è affetto da sindrome di Down non è una possibilità alternativa di essere uomo. Dopo questa prevedibile gaffe, nel tentativo di dimostrare che anche la sessualità biologica sarebbe fluida, la Lalli si è spesa nel cercare di teorizzare l’esistenza del genere sessuale distinto dalla sessualità biologica: «Si può essere di sesso M e avere una identità sessuale maschile oppure femminile (oppure ambigua, oscillante, cangiante). Nulla di tutto questo è intrinsecamente patologico o sbagliato e soprattutto ciò che è femminile e maschile è profondamente determinato culturalmente, tant’è che i ruoli maschili e femminili cambiano nel tempo e nello spazio». Dunque Chiara Lalli ha ben definito cosa sia la “teoria del gender”, seppur non voglia chiamarla teoria (dell’articolo tralasciamo le frasi a favore del relativismo accompagnati contraddittoriamente da aggettivi come “giusto” o “sbagliato”).

Ironia della sorte, tale spiegazione è coincidente a quella data da Benedetto XVI nel 2012, quando disse: «Il sesso, secondo la filosofia gender, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela. Adesso vale che non è stato Dio a crearli maschio e femmina, ma finora è stata la società a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo».

Per un ulteriore approfondimento si può interrogare l’Enciclopedia Treccani la quale dà una definizione più precisa della teoria del gender: «La cultura del gener conduce all’idea che la differenza maschile-femminile non coincide necessariamente con la differenza maschio-femmina, poiché le caratteristiche di genere (o stereotipi) sarebbero frutto di una costruzione culturale.  La contrapposizione tra sesso e genere segna il passaggio da una visione unitaria dell’identità sessuale dell’individuo – che, a partire dalla consapevolezza di una corporeità maschile o femminile, sviluppa gradualmente un’identità psichica definita (mascolinità o femminilità) – a una visione dualistica della sessualità, non solo distinguendo, bensì separando gli elementi biologici dell’identità sessuale (sesso) dal complesso di ruoli, funzioni e identità appresi e culturalmente strutturati (femminilità e mascolinità). Emerge così una concezione autonoma dell’appartenenza di genere, pensata come il risultato di una scelta culturale dell’individuo, distinta dalla propria corporeità».

Una teoria sbagliata e pericolosa, si legge ancora nella voce della Treccani«La prospettiva del gender mette così in discussione il fondamento biologico-naturale della differenza fra i sessi: femminilità, mascolinità, eterosessualità e maternità non vengono più considerati stati naturali, ma stati ‘culturali’, non definitivi e in alcun modo determinanti. In altre parole, l’uso del termine gender in luogo del termine sex dischiude la possibilità di non definire più la persona a partire dalla sua struttura biologica (corpo), potendosi viceversa definire in base alla sua ‘autocomprensione’ psico-sociale. Ne deriva che con l’identificazione esclusiva della persona come gender, piuttosto che come essere sessuato a partire da una corporeità, si giunge alla neutralizzazione dell’identità sessuata. La persona, così, non viene più valorizzata nella sua individualità sessuata, nel suo essere uomo o donna, bensì appiattita nell’ambito di un’indifferenza di gender, nella quale uomini e donne vengono percepiti come semplicemente ‘uguali’ e tutte le differenze biologiche, di ruolo, di caratteri vengono annullate, dimenticando il significato essenziale della bipolarità sessuale e la sua struttura oggettiva». Si riconosce in questo l’origine del gender nell’ideologia comunista. Invece, «la realizzazione dell’identità sessuata dell’individuo, che si manifesta nel suo essere uomo o donna e che si esplicita nelle finalità stesse della sessualità (la riproduzione e la continuità intergenerazionale), presuppone necessariamente una dimensione corporea definita, sulla base della quale il soggetto possa sviluppare un’identità psichica, in grado di percepire il valore della diversità sessuale e di confrontarsi con essa».

Papa Francesco ha delegittimato coraggiosamente questa tesi pseudoscientifica davanti al mondo intero, noi siamo chiamati ad imitarlo anche aiutando i sostenitori di queste sciocchezze a iniziare ad amarsi veramente per come si è stati creati. Cambiare non si può, lasciamo perdere le utopie dell’autodeterminazione totale e riflettiamo piuttosto sul perché di questo impellente bisogno della società moderna di sognare ed evadere da se stessi. Magari autolegittimandosi “scientificamente” con l’invenzione ad hoc di strampalate teorie.

La redazione

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Pio XII e gli ebrei? Levi e Alberto Melloni sbagliano bersaglio

Pio XIIIn un editoriale del Corriere della Sera firmato da Riccardo Franco Levi e Alberto Melloni intitolato “Domande scomode sull’antisemitismo”, i due autori partendo dalla strage di Parigi durante la quale perirono, oltre agli editorialisti di Charlie Hebdo, anche quattro ebrei, si pongono delle riflessioni sull’antisemitismo italiano auspicando una conoscenza maggiore della storia passata, per superare gli stereotipi di comodo che vedono gli italiani come “brava gente”, le leggi razziali imposte dall’alleato tedesco e la Chiesa Cattolica come «avversaria del regime e impegnata, sotto la guida di Papa Pio XII, a difesa e a protezione degli ebrei».

«Cosi non fu» dicono gli autori, «Non in questi termini, non senza sfumature, oscillazioni e codardie che è troppo facile sospingere fuori dalla storia», facendo poi riferimento al disprezzo provato dai cristiani verso gli ebrei. Non si può negare che la Chiesa dell’epoca nutrisse verso gli ebrei un pregiudizio antigiudaico che scomparve solo con il Concilio Vaticano II, ma gli interventi di Pio XII a difesa e protezione degli israeliti non sono un’invenzione di comodo, ma sono ampiamente confermati dalle proteste del pontefice contro le deportazioni, dalla sua attività per offrire aiuti e rifugi agli ebrei (confermata anche da prelati che ricevettero il titolo di “Giusto delle Nazioni” come Pietro Palazzini, don Aldo Brunacci o Pierre Marie-Benoit) e dalle testimonianze di ringraziamento che importanti personalità ebraiche rivolsero al papa durante e dopo la guerra (basta pensare al premier di Israele Golda Meir o al rabbino di Roma, Elio Toaff).

Alcune di queste testimonianze si possono trovare nel libro del giornalista Luciano GaribaldiO la Croce o la svastica” che tratta del rapporto più generale tra la Chiesa e il nazismo: mentre nei suoi primi mesi di governo Hitler si impegnò formalmente a “difendere il cristianesimo” e a stipulare un Concordato con la Chiesa Cattolica, ben presto però, una volta ottenuto il potere assoluto, il dittatore tedesco rivelò le sue vere intenzioni violando il trattato e perseguitando il clero cattolico al punto che Pio XI emanerà nel 1937 l’enciclica “Mit Brenneder Sorge” per denunciare la situazione della Chiesa all’interno del Reich. Anche Pio XII fu un tenace avversario del nazismo tanto che il gerarca nazista Reynard Heydrich lo definì in un rapporto segreto «schierato a favore degli ebrei, nemico mortale della Germania e complice delle potenze occidentali». Non di deve dimenticare del resto, che circa quattromila sacerdoti caddero vittime della barbarie nazista e che centinaia di migliaia di israeliti furono messi in salvo grazie all’azione della Chiesa.

Anche i fascisti guardarono con ostilità al pontefice a causa della sua opposizione alla Repubblica di Salò. Una testimonianza di questo disprezzo lo si può vedere in un rapporto del Miniculpop inoltrato dal Ministero degli Interni della Repubblica di Salò che denunciava un complotto del Vaticano volto all’«internazionalizzazione dell’Urbe» al fine di garantire una maggiore protezione e un’efficace opera di soccorso a favore dei civili (un’attività questa vista come «antinazionale» dai fascisti, nonostante il loro stato fosse di fatto succube dei tedeschi). Nel rapporto, datato il 1 agosto 1944 e «visto dal Duce», si legge: «A Roma si continuerebbe con un ritmo intenso la politica per internazionalizzare l’Urbe. Fautore è il Vaticano e il principe Marcantonio Pacelli, fratello del Papa, sarebbe uno dei massimi esponenti», facendo poi il nome di alcune nobili famiglie romane coinvolte nel progetto, continua: «Tutti vorrebbero che il potere del Papa si estendesse in tutta la città a qualsiasi costo (…)Ad essi interessa mantenere l’attuale posizione di signorotti e di spadroneggiatori e, insieme al fasto, che non manchino quelle provvigioni che lo straniero non fa mancare alla corte vaticana». Secondo questa informativa in questa attività vi sarebbero coinvolti anche alcuni «elementi ebrei», lasciando così configurare questa attività, come nei soliti canoni lessicali fascisti, nei termini di un «complotto giudaico-vaticano» (Il complotto di Pio XII per salvare Roma).

Vi possono essere delle “ombre” sulla figura o le azioni svolte all’epoca da Pacelli, ma queste “dilemmi” riguardano tutti i personaggi della storia (ad esempio, Giorgio Perlasca a cui fu giustamente dato il titolo di “Giusto delle Nazioni” per aver salvato la vita di migliaia di ebrei, fu inizialmente un convinto fascista). Molti interrogativi sono stati fatti riguardo al rapporto tra Pio XII e l’Olocausto, ma le domande fondamentali sono: il pontefice è stato un avversario del nazismo? Ha aiutato gli ebrei? C’era il timore di peggiorare la situazione con una pubblica denuncia? Se la risposta a queste domande è affermativa (ed ormai è acclarato che è così), le polemiche sul silenzio di Pio XII non hanno ragione d’essere.

Mattia Ferrari

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La cintura di castità: un mito usato contro il Medioevo

Cintura castità 
 
di Federica Garofalo*
*laureata in Beni Culturali, studiosa del Medioevo e blogger

 
dal blog Il Palazzo di Sichelgaita
 

«In tempo d’estate, un mattino, giaceva la Dama accanto al meschino. La bocca gli baciò e il viso, poi così gli disse: “Bello e dolce amico, il mio cuore dice che vi perderò: colti saremo e scoperti. Se voi morrete, io voglio morir; e se vivo potrete partire, voi troverete un altro amore e io rimarrò nel dolore. – Dama, fece lui, manco il dite! Ch’io non abbia gioia né pace, se ad altra lo sguardo volgerò! Non abbiate di ciò alcuna paura! – Amico, di ciò m’assicurate! La vostra camicia mi date; nel lembo di sotto farò un nodo: libertà vi dono, ovunque voi siate, d’amare colei che lo scioglierà e che disfar lo saprà.” Egli gliela dà, così l’assicura. Un nodo ella fece in tal misura che donna alcuna scioglierebbe se la forbice o il coltello non vi metta. La camicia gli dona e rende. Egli la riceve ad una condizione, che anch’ella lo renda sicuro; con una cintura a sua volta la sua carne nuda cinge, attorno ai fianchi forte la stringe; chi la fibbia potrà aprir senza spezzarla né strapparla, il solo sarà ch’ella potrà amare. Poi la bacia, e così rimane». E pensare che questa scena d’amore così delicata, tratta dal Lai de Guigemar di Maria di Francia, ha suscitato le congetture più assurde da parte degli storici dell’Ottocento e dei primi del Novecento.

Cos’altro avrebbe potuto fare il cavaliere in esilio Guigemar, parto di quel Medioevo così oscuro e misogino, per garantirsi la fedeltà assoluta della sua dama, se non serrarla in una morsa di ferro che castrasse chiunque osasse toccarla, così che appartenesse a lui soltanto? Sembra che a nessuno degli storici di cui sopra sia passato per la testa che quello evocato da Maria di Francia fosse semplicemente un giuramento di fedeltà incondizionata l’uno all’altra, suggellato da un gesto concreto, uno di quei segni di cui la società feudale (stavolta sì) non può fare a meno: il nodo con cui sono legati sia la camicia del cavaliere sia la cintura della dama, infatti, richiama i tre nodi che si vedono sulle cinture di tessuto portate dai novizi degli ordini religiosi, tre quanti sono i voti che dovranno pronunciare, tra cui anche quello della castità. Non solo, il nodo e la fibbia che rappresentano il legame tra i due amanti saranno anche il mezzo che permetterà loro di ritrovarsi alla fine della storia.

A leggere le affermazioni degli storici dell’Ottocento (e anche gli articoli su certe riviste “divulgative” con tanto di titoloni a caratteri cubitali), c’è davvero di che far venire la pelle d’oca: secondo quanto si legge, a fare uso della cintura di castità sarebbero stati soprattutto i crociati, i quali, partendo per liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli, si sarebbero premurati di evitare qualsiasi rischio di ritrovarsi al ritorno in patria con un bel paio di corna, chiudendo letteralmente in cassaforte “l’onore” delle mogli; cosa che non ha molta consistenza già di per sé, perché l’obbligo di tenere un arnese di ferro a così stretto contatto con le parti intime avrebbe presto provocato una strage di donne per setticemia o per tetano.

Per giunta, nessuna delle fonti sulle Crociate, nemmeno da parte musulmana o bizantina, fa mai riferimento a questa pratica. Al contrario, Anna Comnena, nella sua Alessiade, sottolinea come, all’indomani dell’appello di papa Urbano II nel 1089 per difendere il Santo Sepolcro e i Cristiani di Gerusalemme dalle vessazioni dei Turchi, non sono solo gli uomini a mobilitarsi, ma anche le donne: «Si produsse allora un movimento di uomini e di donne come non si ricorda di averne mai visto l’uguale: le persone più semplici erano davvero animate dal desiderio di venerare il Sepolcro del Signore e di visitare i Luoghi Santi. […] L’ardore e lo slancio di questi uomini era tale, che tutte le strade ne furono coperte; i soldati franchi erano accompagnati da una moltitudine di gente senz’armi più numerosa dei granelli di sabbia e delle stelle del cielo, che portava palme e croci sulla spalla: uomini, donne e bambini che lasciavano i loro paesi».

Dunque non solo non c’è traccia di “segregazioni”, ma è documentato che le donne possono perfino seguire i mariti nei “pellegrinaggi armati”, come vengono chiamate all’epoca le Crociate; a volte intere famiglie di alto lignaggio partono per la Terra Santa. Ed esempi ne abbiamo a iosa: nel 1147, ad esempio, Eleonora d’Aquitania, regina di Francia, è al fianco del marito Luigi VII nella seconda crociata, portandosi dietro un seguito monumentale che fa storcere il naso a parecchi. Fanno tappa a Costantinopoli, e lo storico Niceta Coniata annota come al seguito di questa “dama dagli speroni d’oro” vi siano nobildonne in abiti maschili, e per giunta abili nel maneggiare la lancia e l’ascia da guerra. Non basta, troviamo donne fin sui campi di battaglia, come nella battaglia di Dorileo, durante la prima crociata, dove rischiano la vita per portare l’acqua ai combattenti spossati dal caldo di giugno; i cronachisti arabi, soprattutto durante la terza crociata, riportano perfino di nobildonne a cavallo, rivestite della cotta di maglia, armate di tutto punto, che si gettano nella mischia, combattendo come uomini e a fianco di uomini. È pur vero che molte restano in patria, ma non certo per starsene chiuse in casa: in assenza dei loro uomini, sono loro “il capofamiglia”, signore dei feudi e responsabili dei vassalli, e come tali sono trattate.

C’è da dire, comunque, che la cintura compare sì nei testi medievali in riferimento alla castità, ma in maCintura fedeltàniera del tutto simbolica: ad esempio nel Decretum Gratiani, raccolta di norme di diritto canonico risalente al XII secolo, in una delle cui miniature che riguardano il matrimonio, vediamo consegnare alla sposa una cintura (una cintura assolutamente comune), come segno del suo nuovo stato di “consacrata” allo sposo, un simbolo simile a quello che si scambiano come pegno di fedeltà reciproca gli amanti del Lai de Guigemar. La scelta della cintura come simbolo di castità, per le donne ma soprattutto per gli uomini, non è casuale: la predicazione del XIII secolo cerca di dire chiaro e tondo che il matrimonio è un sacramento, un “ordine sacro”, la cui importanza è pari a quella degli ordini religiosi, e che dunque ha anch’esso delle regole, molto esigenti, sia per l’uomo sia per la donna.

La prima menzione di qualcosa che somiglia alla “cintura di castità” come la concepiamo noi, cioè come arnese
per impedire rapporti sessuali, è del 1405, e viene dall’ingegnere militare tedesco Konrad Kyeser von Eichstätt, che la inserisce all’interno di un trattato sulle varie tecniche di guerra, il Bellifortis; ad un certo punto troviamo il disegno di una specie di mutandoni di metallo, accompagnato da una scritta in Latino, “Est florentinarum hoc bracile dominarum ferreum et durum ab antea sic reseratum”, “Queste sono le brache di ferro pesante delle donne fiorentine chiuse sul davanti in questo modo”. La cosa viene presentata dunque come un’usanza specifica delle donne di Firenze, e per giunta descritta nel contesto di un trattato militare. C’è da capirle, le povere Fiorentine: la guerra, in pieno Quattrocento, è divenuta affare di bande di mercenari comandate da capitani di ventura, e, quando una città cade nelle loro mani, ci si può aspettare ogni tipo di barbarie, compresa quella di veder violentate perfino le monache; ancora peggio, poi, se si tratta della Toscana, dove infuria la guerra tra le grandi famiglie come i Cavalcanti, i Pazzi, i Medici. A mali estremi, estremi rimedi, e le donne di Firenze, perlomeno, possono contare su questa specie di “armatura” per evitare se non altro le conseguenze dei saccheggi nella propria carne.

Presto la notizia di questi arnesi si diffonde, e diventa materia succulenta per la letteratura satirica tanto di moda soprattutto nella Francia del Cinquecento: le cinture di castità sono le armi comiche dei soliti Barbablù da novella che alla fine si ritrovano immancabilmente “cornuti e mazziati”, ad esempio nella raccolta Le dame galanti di Brantôme o nel romanzo Pantagruele di Rabelais. Il guaio è che queste storielle finiscono per esser prese alla lettera da letterati e storici di Settecento e Ottocento, e la storia di signori del Medioevo dispotici e violenti che, partendo per la guerra, impongono alle mogli la cintura di castità, della quale soltanto loro hanno la chiave, per scongiurare qualsiasi tradimento, viene data per buona; non solo, alimenta un mercato di “riproduzioni” ad uso dei collezionisti (in realtà veri e propri falsi inventati di sana pianta), sostanzialmente quelle che riempiono ancora oggi i vari “musei della tortura” sparsi per l’Europa. Nel 1889, addirittura, l’archeologo austriaco Maximilian Anton Pachinger annunciò la scoperta di una tomba femminile a Linz, da lui datata tra il Cinquecento e il Seicento, il cui scheletro avrebbe avuto l’osso pelvico cinto da una fascia di cuoio e ferro chiusa da ben due lucchetti, e possiamo facilmente immaginare quali fantasie avesse suscitato all’epoca un simile ritrovamento; purtroppo lo scheletro, con relativo arnese, è andato perduto, ma qualcuno ha recentemente ipotizzato che la defunta soffrisse semplicemente di una qualche deformazione al bacino e che la “cintura di castità” fosse in realtà soltanto una protesi per sostenerlo.

L’unico esemplare autentico conosciuto dibraga de fero” è custodito nell’armeria del Palazzo Ducale di Venezia, e si dice appartenuto ai da Carrara, signori di Padova (XV-XVI secolo): la sua analisi ha permesso di chiarire molte cose. La sua fattura corrisponde in pieno alle braghe di ferro fiorentine anti-stupro descritte dal von Eichstätt: una fascia “a croce” relativamente sottile che avvolgeva sia la vita sia il pube, rivestita di cuoio per una maggiore comodità. Interessante è il fatto che la braga in questione sia chiusa da un lucchetto cosiddetto “romano”, fermato cioè da una sorta di fibbia, completamente inadatta ad una “cassaforte” ma che non permette un’apertura immediata. Insomma, questo arnese non poteva certo esser strappato con violenza di dosso a colei che lo indossava da un potenziale stupratore, ma, a emergenza passata, la signora avrebbe potuto toglierselo da sola in tutta tranquillità.

 

Bibliografia:
Albrecht Classen, The Medieval Chastity Belt: A Myth-Making Process, New York, Palgrave Macmillan, 2007;
Régine Pernoud, La femme au temps des croisades, Parigi, Librairie generale francaise, 1992;
James A. Brundage, Law, Sex, and Christian Society in Medieval Europe, University of Chicago Press, 2009;
Umberto Franzoi, L’armeria del Palazzo ducale a Venezia, Treviso, Canova, 1990.

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L’intervento di Vittorio Messori: «sull’islam giusta la prudenza di Francesco»

vittoriomessoriIn queste ore il mondo si sta confrontando con le dure e coraggiose parole di Papa Francesco nei confronti del genocidio armeno che hanno creato un conflitto diplomatico con la Turchia, così come nei giorni scorsi si è a lungo commentato l’appello che la direttrice (atea) dell’Huffington Post, Lucia Annunziata, ha rivolto alla sinistra italiana perché il Pontefice non sia lasciato solo nella difesa dei cristiani dalla persecuzione che stanno ricevendo in diverse aree geografiche. Eppure -sembra difficile crederci- c’è chi contemporaneamente continua ad accusare Papa Bergoglio di timidezza e pavidità nei confronti dei responsabili dei massacri cristiani in Medioriente.

Come stanno le cose? E’ molto semplice, Francesco condanna continuamente gli attentati (e i genocidi) ai cristiani, ma preferisce evitare di addossare le colpe all’Islam in generale o al mondo musulmano, come vorrebbero i suoi critici, parlando invece giustamente di “terrorismo religioso”. Esattamente come fece Papa Ratzinger che mai incolpò il mondo islamico nei suoi ripetuti interventi (come abbiamo dimostrato) a seguito dei diversi attentati ai cristiani che caratterizzarono anche il suo pontificato (il discorso di Ratisbona fu un’eccezione, come eccezione è stata per Papa Francesco la richiesta «ai leader religiosi, politici e intellettuali specialmente musulmani» perché «condannino qualsiasi interpretazione fondamentalista ed estremista della religione, volta a giustificare tali atti di violenza»).

Ci è sembrata molto significativa la pubblica presa di posizione di Vittorio Messori il quale, scrivendo dei cristiani perseguitati, ha criticato coloro che accusano di “silenzio” Papa Francesco: «in certi settori ecclesiali c’è malcontento verso papa Francesco, sospettato di reagire in modo tiepido, timido, a questa mattanza di figli della Chiesa di cui pure è pastore. Verità imporrebbe di riconoscere che il rimprovero non sembra giustificato: in effetti, qualcuno ha potuto compilare una sorta di antologia delle denunce al proposito del pontefice. E’ comunque curioso: proprio coloro che lodano (e giustamente) la prudenza di Pio XII verso coloro che seguivano il Mein Kampf, si lagnano della prudenza del suo attuale successore soprattutto verso coloro che seguono, fino alle estreme conseguenze, un altro libro, il Corano. Il realismo cattolico ha portato i papi a firmare concordati con Napoleone, con Mussolini, con Hitler, e con molti altri tiranni. E’ lo stesso realismo che li ha indotti poi a una Ost Politik che scandalizzava i puri e duri dell’anticomunismo, che ha portato Giovanni XXIII a negoziare con i sovietici il silenzio del Concilio sul comunismo in cambio di una mitigazione della persecuzione e che porta ora Bergoglio a non ignorare il problema, ma a muoversi con prudenza obbligata. Obbligata, certo, come fu sempre quella ecclesiale coi tanti persecutori della storia: non dimenticare ma, al contempo, tutelare le pecorelle minacciate dai lupi, cercando di porre limite alla loro ferocia o con trattati o, almeno, non eccedendo con la protesta pubblica. Facili, edificanti, virtuose le altisonanti denunce al riparo delle mura vaticane. Non altrettanto benvenute per chi debba poi, in lontani Paesi, subirne la conseguenze». Un esempio palese è l’immediata paura di vendetta subito percepita dalla comunità cattolica e armena della Turchia dopo le parole del Papa sul genocidio armeno, così come si evince dall’allarmismo di mons. Pelatre, vicario apostolico di Istanbul e Ankara.

Un intervento importante quello di Messori, anche perché molto stimato dai ratzingeriani e tradizionalisti, così come dal leader degli antipapisti Antonio Socci. Proprio quest’ultimo, gennaio scorso lo aveva difeso quando Messori manifestò delle perplessità verso alcuni aspetti del pontificato di Francesco (esposte con prudenza e rispetto, dunque assolutamente legittime), creando parecchie polemiche. Peccato che Messori criticò anche gli accusatori di Francesco, ecco cosa scrisse: «ho scelto, per quanto mi riguarda, di osservare, ascoltare, riflettere senza azzardarmi in pareri intempestivi se non addirittura temerari. Capo unico e vero della Chiesa è quel Cristo onnipotente e onnisciente che sa un po’ meglio di noi quale sia la scelta migliore, quanto al suo temporaneo rappresentante terreno. E a chi volesse giudicare, non dice nulla l’approvazione piena, più volte ripetuta – a voce e per iscritto – dell’attività di Francesco da parte di quel «Papa emerito» pur così diverso per stile, per formazione, per programma stesso?».

I “critici” di Francesco sono un piccolo micro-ambiente, ancor più ridimensionatosi nell’ultimo mese. Alcuni ci hanno scritto di aver aperto gli occhi anche grazie al nostro lavoro, erano semplicemente disinformati ed aprioristicamente fiduciosi verso alcuni giornalisti “tradizionalisti”. In realtà, ad aiutare queste persone a recuperare fiducia nel Pontefice, è stato sopratutto l’evidente sostegno manifestato da Benedetto XVI, tramite sue parole dirette e tramite frequenti interviste concesse ai media da parte del suo segretario personale, mons. Georg Gänswein, dove quest’ultimo non scorda mai di formulare aperto apprezzamento a Francesco e rispondere alle calunnie contro di lui (stasera andrà in onda una nuova intervista su Retequattro, al programma “La strada dei miracoli”, dove mons. Georg parlerà delle minacce ricevute da Francesco da parte dei fondamentalisti).

A portare avanti questa sterile diatriba sono rimasti, almeno sui media ufficiali, soltanto sporadici giornalisti di Italia Oggi e, più insistentemente, il ratzingeriano Antonio Socci. Giusto per aggiornarsi: nei giorni scorsi il giornalista di Libero ha addirittura sostenuto che Papa Francesco si sarebbe pubblicamente scusato per essere stato complice del massacro dei cristiani a causa del suo silenzio. «E’ una drammatica ammissione», ha commentato. Socci si riferisce ad una semplice preghiera letta da Francesco durante la Via crucis nel venerdì santo dove, parlando a nome del popolo cristiano, ha invocato l’aiuto di Dio per la nostra conversione: «Nel tuo corpo scarnificato, squarciato e dilaniato, noi vediamo i corpi dei nostri fratelli abbandonati lungo le strade, sfigurati dalla nostra negligenza e dalla nostra indifferenza. Nella tua sete, Signore, noi vediamo la sete del Tuo Padre misericordioso che in Te ha voluto abbracciare, perdonare e salvare tutta l’umanità. In Te, divino amore, vediamo ancora oggi i nostri fratelli perseguitati, decapitati e crocifissi per la loro fede in Te, sotto i nostri occhi o spesso con il nostro silenzio complice».

Francesco, secondo Socci, si sarebbe dunque personalmente scusato attraverso queste parole per aver taciuto sui cristiani perseguitati. Eppure, subito dopo, il giornalista si è contraddetto precisando: «In seguito, anche grazie alle pressioni dei media, il papa ha parlato pure molte volte. I tifosi compilano pure un elenco di dichiarazioni di papa Bergoglio sui cristiani perseguitati, ma purtroppo sono quasi tutti interventi “innocui”, dove non si chiamano mai per nome i carnefici». Dunque: il Papa avrebbe taciuto e per questo si sarebbe scusato. Anzi no, in realtà ha parlato “molte volte” ma solo a causa della pressione dei media ed in modo innocuo, ovvero senza incolpare l’Islam in generale (cosa per altro giustissima dato che la comunità musulmana è alleata ai cristiani contro il terrorismo religioso). Non smetteremo mai di manifestare il dispiacere nel vedere uno scrittore cattolico tanto illuminato in passato quanto oggi impantanato in queste tesi ridicole.

Se si legge la preghiera di Francesco come un suo personale “mea culpa”, allora il Papa avrebbe anche ammesso di essere personalmente complice e responsabile dei «fratelli abbandonati lungo le strade», per non parlare di quando afferma: «Insegnaci che la Croce è via alla Risurrezione. Insegnaci che il venerdì santo è strada verso la Pasqua della luce; insegnaci che Dio non dimentica mai nessuno dei suoi figli e non si stanca mai di perdonarci e di abbracciarci con la sua infinita misericordia». Se Papa Bergoglio parlasse in prima persona, come sostiene Socci, allora sarebbe ancora più grave, per un Papa, l’ammissione pubblica di non conoscere le basi del catechismo cattolico, tanto da chiedere a Dio di insegnargliele. Ovviamente Francesco -come spesso usa fare chi guida una comunità religiosa (parroco, vescovo, pontefice)- ha semplicemente letto una preghiera a Dio caricandosi sulle spalle le invocazioni e il pentimento del popolo che è chiamato a guidare in quanto successore di Pietro, non ha chiaramente utilizzato il plurale maiestatico per manifestare le sue dirette mancanze e colpe in specifici episodi.

Ritornando a Messori, condividiamo completamente la sua analisi, non a caso proprio su questo sito web è apparso un mese fa un ragionamento molto simile. I più attenti si saranno accorti che sia Socci che Messori hanno citato un documento in cui sono state radunate le dichiarazioni di Francesco in vicinanza e sostegno ai cristiani perseguitati: si tratta del nostro dossier nel quale, per l’appunto, abbiamo dimostrato che il Pontefice interviene quasi ogni settimana in ricordo dei nostri fratelli massacrati, invocando la comunità internazionale a non restare indifferente.

La redazione

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La vita religiosa ha un impatto positivo anche sul benessere della famiglia

Famiglia preghieraL’American Psychological Association negli ultimi mesi ha reso disponibili i risultati di una ricerca relativa ad un nuovo settore della psicologia, la “spiritualità relazionale”, così chiamata da Annette Mahoney della Bowling Green State University e da Annamarie Cano della Wayne State University, le due ricercatrici che hanno curato la pubblicazione di questi studi per il Journal of Family Psychology.

La “spiritualità relazionale” è l’influenza delle pratiche religiose, o relative alla spiritualità, all’interno dei nuclei familiari o dentro alle relazioni di coppia. Nel numero di ottobre del del Journal of Family Psychology sono comparse quattro ricerche riguardanti le modalità attraverso cui la fede religiosa può arricchire i rapporti matrimoniali o di coppia. Si tratta della “Partner-focused petitionary prayer” (PFPP) cioè la preghiera reciproca dei membri della coppia per il loro rapporto e benessere. Secondo gli studiosi, tale pratica non solo richiamerebbe un aspetto soprannaturale con il quale confrontare le loro vite, ma aumenterebbe nella coppia la qualità della relazione, richiedendo maggior impegno nel rapporto vissuto quotidianamente.

La sacralità del matrimonio, per alcuni ricercatori della Bowling Green State University, darebbe inoltre un apporto fondamentale alla stabilità della coppia: le persone sposate religiosamente hanno la certezza che il loro legame non è solo una “questione privata”, risultano perciò avere delle relazioni migliori rispetto alle coppie non religiose e questo risultato è particolarmente influenzato dalla sincerità e dal confronto su problemi e dubbi di carattere spirituale all’interno della coppia. Il numero di ottobre conteneva anche una sezione dedicata alle coppie anziane: la sacralità, la sfera religiosa su cui si fondano i loro matrimoni, molto percepita da queste coppie, permette sia alle mogli che ai mariti di essere più soddisfatti e di ritenersi più grati delle loro vite.

Nel numero di dicembre del Journal of Family Psychology, invece, sono comparsi cinque studi che presentavano interessanti spunti su come una vita religiosamente vissuta possa influenzare positivamente la crescita, l’educazione e lo sviluppo dei bambini, in particolar modo per quanto riguarda le famiglie afro-americane. Proprio in questi nuclei familiari, infatti, si è constatato non solo che i figli crescono con una sana vita religiosa grazie alla ricezione di valori critici da parte degli adulti (spesso presenti anche i nonni), ma anche che le madri riescono meglio a vivere la loro vita sociale se loro stesse conducono una vita religiosa.

Altrettanto interessanti le seguenti scoperte, elencate in singoli articoli della rivista: la frequenza ai riti religiosi con i genitori garantisce al bambino un maggior benessere psicologico (perché favorirebbe l’attaccamento ai genitori e la vicinanza ad/di una intera comunità, entrambi fattori positivi nella crescita del bambino fino al quindicesimo anno di età); gli adolescenti con accesso a pratiche religiose risultano essere meno inclini all’assunzione di sostanze stupefacenti; «La religiosità può avere il potenziale di annullare l’impatto di elevati livelli di stress associati alla presenza di genitori ossessivi e migliorare la salute degli adolescenti, oltre che garantire il benessere all’interno delle famiglie», secondo gli psicologi autori di questo studio (J.K. Spoon, P. Farley, C.J. Holmes della Virginia State University e G.S. Longo dell’University of Montevallo). Infine, nell’ultimo articolo, si trova uno studio sugli adolescenti e il loro rapporto con Dio: più è sviluppato tale rapporto e meno risultano problemi di interazione sociale.

Come abbiamo scritto nel nostro apposito dossiernon bisogna cadere nell’errore di ridurre la religiosità agli effetti benefici di una vita religiosamente vissuta. Queste ricerche rilevano semplicemente la positività della fede cristiana (gli studi sono svolti su credenti cristiani) anche a livello di salute e benessere psicofisico, come tali vanno prese. Inoltre, le stesse curatrici si sono augurate che «la pubblicazione di questi articoli spronerà ad approfondire la ricerca sui modi in cui la religione e la spiritualità possono aiutare le coppie in difficoltà».

La redazione

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Passione, morte e risurrezione di Gesù: fatti accertati anche dalla storia

gesùLa Pasqua è la festività più importante per i cristiani: senza risurrezione Gesù sarebbe stato soltanto uno dei tanti saggi profeti apparsi nella storia, forse il più ammirabile, forse ispirato dallo Spirito Santo, ma senza la capacità di sconvolgere l’umanità e la vita di miliardi di persone.

Risorgendo è restato nel mondo, si è reso incontrabile da chiunque, ha espresso la volontà del Padre di mischiarsi tra gli uomini, donando loro il senso ultimo della vita: l’attesa di infinito che ognuno di noi vive dentro di sé non è un inganno della natura, ma è una promessa che verrà certamente mantenuta. La vita è il percorso della libertà dell’uomo, chiamato a riconoscere questo, a testimoniarlo e ad attendere il mantenimento di tale promessa vivendo già un anticipo, qui e ora, di compimento.

Ma cosa dice la storia di quei tre giorni che sconvolsero l’umanità? La passione, la morte e la risurrezione di Gesù hanno lasciato tracce storiche? Per rispondere a questa domanda ci affidiamo principalmente a due autorità internazionali: John P. Meier, docente di Nuovo Testamento alla Notre Dame University e unanimamente riconosciuto il più eminente studioso vivente della storicità del cristianesimo, e Bart D. Ehrman, direttore del dipartimento di studi religiosi dell’Università del North Carolina e studioso di Nuovo Testamento. Quest’ultimo è una figura di secondo piano rispetto ai più importanti esperti del tema ma ha la particolarità di essere un non credente, molto spesso onesto e oggettivo. In realtà la posizione personale non dovrebbe contare nulla in quanto il metodo scientifico non si basa sul principio di autorità e, sia il cattolico Meier che l’agnostico Ehrman, sono chiamati a dimostrare le loro tesi in modo oggettivo alla comunità scientifica e solo su questo si basa la loro autorevolezza. Tuttavia, preferiamo considerare anche il suo punto di vista essendo, per molti che non fanno questo ragionamento, una fonte imparziale in quanto non cristiano e non credente.

 

Consideriamo i principali eventi che hanno caratterizzato gli ultimi giorni della vita pubblica di Gesù:

ULTIMA CENA. L’ultima cena tra Gesù i suoi discepoli non è oggetto di discussione tra gli studiosi, si accetta la sua storicità ma solitamente ci si divide sul fatto se sia stata o meno un banchetto pasquale. Questo perché i sinottici sembrano apparentemente affermare che Gesù volle celebrare la pasqua ebraica, al contrario di quanto riporta il Vangelo di Giovanni. Il prof. Meier, nel suo celebre “Un ebreo marginale”, ha tuttavia evidenziato che non c’è nessuna contraddizione tra le due fonti perché «se si separano dai racconti sinottici della passione i riferimenti, posteriori o redazionali, alla pasqua presenti attualmente, comprendiamo che l’ultima cena nella tradizione sinottica soggiacente non è un banchetto pasquale analogamente a quanto avviene per l’ultima cena nel vangelo secondo Giovanni» (p. 397). Gesù, infatti, non celebrò la Pasqua ebraica con i suoi discepoli durante l’ultima cena ma, sentendosi braccato dalle autorità ebraiche e romane, «organizzò un solenne banchetto d’addio con la cerchia più intima dei suoi discepoli immediatamente prima della pasqua […] nella casa di qualche sostenitori benestante di Gerusalemme il giovedì verso il tramonto, quando cominciava il quattordicesimo giorno di nisan […]. Se ammettiamo la fondamentale storicità del racconto eucaristico, dobbiamo ammettere che Gesù nell’ultima cena disse alcune cose sorprendenti e senza precedenti che non possono essere spiegate semplicemente ipotizzando il contesto di un banchetto rituale giudaico […], non sorprende che quanto fece durante il suo ultimo banchetto con la cerchia più intima dei suoi discepoli non coincida esattamente con nessuno rito religioso convenzionale del tempo». Questo è uno dei diversi casi con i quali solitamente si dimostra che il Vangelo di Giovanni, seppur scritto posteriormente e basato su altre fonti indipendenti, spesso risulta essere più affidabile storicamente rispetto ai sinottici.

TRADIMENTO DI GIUDA. Il processo a Gesù inizia in seguito al tradimento da parte di Giuda, secondo il prof. Ehrman, «ci sono ottime ragioni per credere che Gesù sia stato tradito da uno dei suoi discepoli, Giuda Iscariota. Ovviamente, il dato è attestato da una molteplicità di tradizioni indipendenti: il Vangelo di Marco, la Fonte M, il Vangelo di Giovanni e il libro degli Atti. Inoltre, la tradizione sembra soddisfare il criterio della dissomiglianza e non dà l’idea di essere un’invenzione cristiana successiva» (B.D. Ehrman, “Did Jesus Exist?”, HarperCollins Publishers 2012 p. 335).

PROCESSO A GESU’. Per quanto riguarda la descrizione analitica del processo, il prof. Ehrman fatica a trovarlo storicamente affidabile in quanto non c’è nessun testimone nei Vangeli che affermi di aver assistito in prima persona agli eventi descritti (non la pensano così celebri studiosi, come N.T. Wright). Quello su cui può pronunciarsi, tuttavia, è il motivo per cui venne messo in croce: «Un elemento anomalo dei racconti evangelici che narrano la morte di Gesù è che Pilato l’abbia condannato alla crocifissione per essersi definito “re dei giudei”. L’attestazione è multipla e presente in tutte le tradizioni, inoltre soddisfa il criterio della dissomiglianza, perché, da quanto ne sappiamo, è un appellativo che i primi cristiani non usarono mai per riferirsi a Gesù. Non possono aver fabbricato ad arte l’accusa che gli fu effettivamente rivolta, e sembra probabile sia stato quello il suo crimine» (p. 336).

EPISODIO DI BARABBA. Pilato, indeciso sul da farsi, domanda alla folla se preferisce liberare Gesù o Barabba, noto malfattore della città. E’ un episodio molto conosciuto, soddisfa il criterio della molteplice attestazione e, secondo il prof. Meier e molti altri studiosi, «è uno dei più antichi strati del primitivo racconto della passione» (p. 399). E’ giusto per questo considerare la sua alta probabilità storica, sopratutto dopo che numerosi studiosi -come Richard L. Merritt– hanno rilevato che nel mondo antico era abbastanza diffuso l’uso di liberare qualche prigioniero in occasione delle feste. Il prof. N.T. Wright, tra i principali studiosi del Nuovo Testamento del mondo anglosassone, ha sostenuto -tramite i testi dello storico romano Tito Livio- la certezza storica dell’uso di liberare prigionieri a Pasqua. I governatori romani si comportavano così per accontentare le folle e mostrare rispetto verso le feste ebraiche (N.T. Wright, “Gli ultimi giorni di Gesù”, San Paolo 2010, p.28).

CROCIFISSIONE. Nessuno studioso serio nega la storicità della crocifissione di Cristo, il prof. Ehrman ha infatti spiegato che «è assai improbabile che i primi seguaci di Gesù, essendo ebrei palestinesi, abbiano inventato di sana pianta l’idea del messia crocifisso, il criterio della dissomiglianza è perciò soddisfatto. L’asserzione trova molteplici attestazioni in tutte le nostre tradizioni (Vangelo di Marco, Fonti M e L, Vangelo di Giovanni, epistole paoline, testi di Giovanni Flavio e di Tacito). Se ciò di cui siamo alla ricerca sono solide probabilità, questa è una tradizione che vanta un alto grado di probabilità. Gesù è stato crocifisso!» (p. 191).

MORTE E SEPOLTURA. Per quanto riguarda la datazione, possiamo dire che la data più probabile della morte di Gesù secondo la maggioranza degli studiosi è il 7 aprile del 30 d.C., i motivi sono diversi e accenniamo soltanto al fatto che si è arrivati a questa conclusione sopratutto scartando le ipotesi meno probabili (il confronto solitamente avviene tra il 29, il 30, il 32 e il 33 d.C.). Il prof. Ehrman ha riconosciuto che, grazie alle lettere paoline scritte verso la metà degli anni Trenta, le notizie sui fatti che hanno caratterizzato la morte e la sepoltura di Gesù così come li conosciamo oggi, «risalgono probabilmente a un paio di anni circa dopo la morte di Gesù» (p. 132), ovvero vicinissime agli eventi. Secondo il prof. Jacob Kremer, ritenuto il più importante biblista del 20° secolo, «la maggior parte degli esegeti considera saldamente affidabili le dichiarazioni bibliche relative al sepolcro vuoto» (J. Kremer, “Die OsterevangelienGeschichten um Geschichte”, Katholisches Bibelwerk 1977, pp. 49-50). Il prof. Raymond Brown, docente emerito presso l’Union Theological Seminary di New York, ha più volte mostrato l’alta probabilità storica della sepoltura organizzata da Giuseppe d’Arimatea, «dal momento che una creazione cristiana immaginata dal nulla sul fatto che un membro Sinedrio ebraico abbia fatto una cosa così onorevole è quasi inspiegabile, conoscendo l’ostilità nei primi scritti cristiani verso le autorità ebraiche, responsabili della morte di Gesù. Mentre l’alta probabilità non corrisponde a certezza, non vi è nulla nelle fonti pre-evangeliche sulla sepoltura di Gesù da parte di Giuseppe d’Arimatea che potrebbe non farla considerare storica» (R. Brown, “The Death of the Messiah”, 2 vols. Garden City 1994, 1240-1241).

RISURREZIONE. Abbiamo mostrato qualche tempo fa che c’è la possibilità di avanzare prove indirette a conferma della storicità della risurrezione di Gesù, mentre per quanto riguarda le prove dirette occorre riconoscere che in linea generale i miracoli possono essere affermati con certezza per sola fede. «Benché sia un avvenimento reale avvenuto a Gesù Cristo», ha spiegato il prof. Meier, l’evento della risurrezione «non è avvenuto nel tempo e nello spazio e perciò non dovrebbe essere chiamato storico» (p.186). Possiamo però approcciarci ad esso indirettamente attraverso vari argomenti: è noto agli storici, ad esempio, che quello della risurrezione di Cristo è un racconto molto antico, come spiegato dal prof. Ehrman quando ha ammesso la testimonianza di esso nelle lettere di San Paolo, scritte prima dei Vangeli. Lo studioso americano ha inoltre usato numerose pagine contro i negatori della storicità dei Vangeli, spiegando che l’evento della risurrezione da loro descritto è unico e originale in tutta la storia della letteratura precedente: «La morte e la resurrezione di Gesù sono un evento unico, tra le antiche divinità del Vicino Oriente non si riscontra nulla di simile. Chiunque pensi che Gesù si stato plasmato prendendo a modello tali divinità deve portare qualche prova -di qualunque genere- che gli ebrei palestinesi furono influenzati» da quei racconti. In ogni caso, «le differenze tra Gesù e gli dei di morte e rinascita dimostrano che Gesù non fu plasmato con le loro caratteristiche, persino nel caso che ai suoi tempi ci fossero persone che parlavano di quelle divinità» (p. 234,235). Uno studioso, ben poco cristiano come il teologo Hans Küng, ha riconosciuto che «non fu la fede dei discepoli a risuscitare Gesù ma fu il resuscitato a condurli alla fede» (H. Küng, “Essere cristiani”, Rizzoli 2012, p.421).

 

Arrivati alla fine di questo piccolo resoconto possiamo concludere che gli eventi che ricorderemo e celebreremo questa settimana sono il cardine della fede cristiana e contemporaneamente fatti documentati e incarnati nella storia (per la risurrezione parliamo di documentazione storica indiretta), sostenuti da un ampio grado di attendibilità e probabilità.

Auguriamo buona Pasqua a tutti i lettori e alle loro famiglie. L’aggiornamento quotidiano del sito web UCCR ricomincerà dal 12 aprile 2015.

 

Qui sotto il bellissimo cortometraggio di E. Groth: anche noi viviamo la Pasqua con questa intensità!

 

La redazione

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A guidare l’evoluzione non è il caso ma «precisi percorsi interni»

CasualitàIl prof. Stuart A. Newman, docente di Biologia presso il New York Medical College, ha spiegato che il «gradualismo adattazionista, anche se ancora popolare in alcuni ambienti scientifici, è sempre più messo in discussione e trovato difettoso dai biologi evoluzionisti che lavorano in un set esteso di discipline». Questo perché, ha scritto ancora, «lo scenario fisico-genetico per l’origine delle forme multicellulari complesse non è affatto aperto e senza limiti», ma risponde a vincoli interni pre-esistenti.

Diversi altri evoluzionisti, da diverso tempo, stanno riconoscendo una direzionalità interna all’evoluzione biologica, mettendo da parte quella casualità estrema assunta a divinità da certi polemisti antiteisti. Ad esempio, lo zoologo dell’Università di Pisa Ludovico Galleni, ha parlato del «chiaro segno della presenza di vincoli interni, morfologici e/o genetici che, una volta raggiunta una soluzione morfologica, condizionano i passi successivi, ben al di là del gioco sconnesso mutazione-selezione» (L. Galleni in “Complessità, evoluzione, uomo”, Jaca Book 2011, pag. 162).

Insomma, a guidare l’evoluzione (anche umana) non è soltanto casualità ma, sopratutto, una misteriosa direzionalità. La celebre rivista “New Scientist” si è occupata di questo nell’ultimo numero -ripreso anche sui media– raccontando come «il caso domina il nostro mondo» e come, in ultima analisi, esso appaia sempre meno casuale. Lo ha fatto dando la parola a Andreas Wagner, biologo dell’Università di Zurigo e del Santa Fe Institute che da dieci anni studia le mutazioni casuali dell’evoluzione ed è giusto a questa conclusione nel suo libro “Arrival of the Fittest: Solving Evolution’s? Greatest Puzzle” (Current 2015): più che di «sopravvivenza del più adatto» bisognerebbe parlare di «arrivo del più adatto». Un arrivo non derivato dal frutto della casualità su un numero enorme di tentativi, ma da precisi «percorsi» attraverso i quali l’evoluzione trova l’innovazione in modo più efficiente e sempre più lontano dalla casualità.

Ritornano alla mente le parole del celebre biologo e genetista statunitense Richard Lewontin, quando ha spiegato che «il segreto, ancora largamente misterioso dell’evoluzione, risiede senz’altro in proprietà interne, nell’organizzazione dei sistemi genetici, non nella selezione naturale». Il principale argomento della propaganda scientista, questo vorremmo far notare, è dunque semplicemente una vecchia ed errata credenza. «La selezione naturale è l’orologiaio cieco, cieco perché non vede dinanzi a sé, non pianifica conseguenze, non ha in vista alcun fine», scriveva Richard Dawkins nel 1996. Erano affermazioni anacronistiche già allora, figuriamoci oggi.

Ma anche se avesse avuto ragione Dawkins, se l’evoluzione biologica non fosse teleologica, dove sarebbe il problema? Non ci sarebbe, come ha spiegato il filosofo tedesco Robert Spaemann, della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco: «non è necessario che il processo evolutivo venga inteso come processo teleologico, vale a dire che in esso il generatore del nuovo non sia il caso. Ciò che è il caso visto dal punto di vista della scienza naturale, può essere intenzione divina tanto quanto ciò che è riconoscibile per noi come processo orientato verso un fine. Dio agisce tanto attraverso il caso quanto attraverso leggi naturali» (R. Spaemann, “Dio oggi. Con Lui o senza lui cambia tutto”, Cantagalli 2010, p.75).

La redazione

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Convivenza? Il matrimonio è una sicurezza per figli e genitori

MatrimonioI giovani hanno meno probabilità di essere vittime di reato se vivono con due genitori piuttosto che in famiglie monoparentali, ha rilevato il National Crime Victimization Survey. Crescere con i due genitori biologici è il contesto migliore per la crescita dei bambini, è un riscontro comune della letteratura scientifica come abbiamo mostrato nel nostro apposito dossier.

Tuttavia è stato dimostrato che anche quando le famiglie vivono in quartieri a rischio, i bambini in famiglie con due genitori sposati hanno meno probabilità di essere esposti a crimini violenti rispetto ai bambini di genitori non sposati o divorziati. In particolare, per ogni 1.000 bambini in famiglie con genitori sposati 36 hanno assistito o subito violenze. Al contrario, tra i bambini che vivono con una madre non sposata, il tasso di esposizione a crimini violenti era quasi tre volte superiore: 102 bambini su 1.000. Tra i bambini che vivono con madre separata o divorziata, il tasso di esposizione è stato più che doppio rispetto a quello per i figli di genitori sposati: 89 bambini su 1.000.

Si potrebbe pensare che l’assenza di un maschio adulto in casa a proteggere la famiglia sia la chiave per spiegare questi alti tassi di vittimizzazione nelle famiglie monoparentali. Eppure, i bambini che vivono con un genitore biologico e un genitore acquisito hanno anch’essi mostrato un tasso elevato di esposizione alla violenza: 84 bambini su 1.000. Lo stesso dicasi per i bambini che vivono con entrambi i genitori biologici che sono conviventi e non sposati: 60 bambini su 1000. Lo psicologo Nicholas Zill ha spiegato questi dati concludendo che «molte madri compiono grossi sacrifici personali per garantire che i loro figli non diventino vittime della criminalità. E la maggior parte sicuramente ci riesce. Ma i dati dell’indagine mostrano che la migliore forma di sicurezza domestica per i bambini è un matrimonio stabile».

Secondo uno studio del 2013, inoltre, quasi nove su dieci bambini nati da genitori conviventi hanno la probabilità di veder divisa la loro famiglia all’età di 16 anni, mentre la metà di loro non vivrà con entrambi i genitori naturali quando raggiungeranno l’adolescenza. Nel 2013 solo il 9% dei bambini nati da coppie conviventi avrà ancora i loro genitori che vivranno insieme quando ne avranno 16.

Ma il matrimonio non è un bene soltanto per i bambini, ma anche per gli stessi genitori. Sul “Journal of Marriage and Family Study” è stato mostrato infatti che le coppie conviventi hanno dalle quattro alle otto volte più probabilità di interrompere il loro rapporto rispetto a coloro che sono sposati. Ma -secondo un altro studio– anche una volta sposati, coloro che hanno convissuto prima del matrimonio hanno più probabilità di separarsi o divorziare (il 33% in più, in particolare) rispetto a chi non ha convissuto.

Un altro studio ancora ha mostrato che gli uomini conviventi tendono a guadagnare meno soldi rispetto ai loro omologhi sposati e questi ultimi, una volta raggiunta l’età del prepensionamento, si è rilevato che hanno prodotto più ricchezza di coloro che hanno convissuto (il 78% in più). Lo stesso è stato rilevato da un altro studio per quanto riguarda le donne. Infine, le persone conviventi hanno riportato maggiori elevati livelli di depressione rispetto a quelle sposate, secondo una ricerca. Infine, un altro studio, ha evidenziato che gli individui conviventi avevano tre volte più probabilità di relazione tra loro e problemi di consumo di alcol rispetto alle persone sposate e il 25% di probabilità in più rispetto alle persone single che non convivono.

Ecco alcune ragioni “laiche” a sostegno della posizione della Chiesa, come ha ricordato Papa Francesco: «Nel nostro tempo il matrimonio e la famiglia sono in crisi. Viviamo in una cultura del provvisorio, in cui sempre più persone rinunciano al matrimonio come impegno pubblico. Questa rivoluzione nei costumi e nella morale ha spesso sventolato la “bandiera della libertà”, ma in realtà ha portato devastazione spirituale e materiale a innumerevoli esseri umani, specialmente ai più vulnerabili. È sempre più evidente che il declino della cultura del matrimonio è associato a un aumento di povertà e a una serie di numerosi altri problemi sociali che colpiscono in misura sproporzionata le donne, i bambini e gli anziani. E sono sempre loro a soffrire di più, in questa crisi».

La redazione

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Da “casa Ratzinger” un’altra approvazione a Papa Francesco

Mons Georg e Benedetto XVITerzo mese dell’anno e terza intervista che il segretario personale di Benedetto XVI, padre Georg Gaenswein, ha concesso ai giornalisti. Questa volta alla rivista “Oggi”, nella quale ha raccontato la giornata di Benedetto XVI: mons. Georg lo accompagna a passeggiare nei Giardini vaticani e concelebra la messa con lui tutte le mattine.

Nell’intervista il segretario personale dal 2003 del Papa emerito ha esaltato l’annuncio di Papa Francesco del Giubileo 2016: «Con l’annuncio dell’Anno santo straordinario, Papa Francesco ha dato un’altra prova della sua capacità di sorprendere. Papa Francesco è una persona autentica: è come appare a chi lo guarda da lontano o in tv. C’è chi magari non ha la sua stessa visione, ma non si può dire che Papa Francesco sia ostacolato o contrastato».

Ha anche risposto ad una domanda sul linguaggio per immagini di Francesco, così come a espressioni discusse come il famoso “pugno”: «Nel mondo anglosassone e tedesco si è creata una discussione accesa, anche un po’ esagerata. Bisogna contestualizzare le sue parole e inquadrarle nel suo stile comunicativo diretto, specialmente quando parla a braccio. Lui ama parlare in modo chiaro e aperto. Magari, dopo certe reazioni, che possono dipendere anche dalle diverse sensibilità di popoli e Paesi, potrebbe cambiare marcia. Magari metterà la terza, al posto della quarta». Ancora una volta ha tenuto ha ribadito l’ottimo rapporto tra Benedetto XVI e Francesco: «l’atteggiamento accogliente di Papa Francesco verso Benedetto XVI è stato, ed è, esemplare. Tra i due c’è davvero un rapporto molto cordiale e rispettoso». Secondo Gainswein, al Sinodo, non vi sarà «un cambiamento sostanziale rispetto alla tradizione ecclesiale» e, a tal proposito, la Chiesa sta compiendo un percorso per «tenere insieme la sana dottrina e stare accanto a chi ha un cuore ferito».

 

Occorre riflettere su queste numerose interviste concesse da mons. Georg, il quale non si è mai esposto così tante volte ai giornalisti come nell’ultimo anno. Riteniamo che in questo vi sia la volontà del Papa emerito di mostrare il suo appoggio al pontificato di Papa Francesco, prendendo le distanze dai sedicenti ratzingeriani che criticano il Papa attuale nel nome del pontificato precedente.

Le date sono significative, prestiamo attenzione: il 24 gennaio 2014 Benedetto XVI ha scritto al teologo Hans Küng: «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera». La lettera è stata in seguito confermata come autentica dallo stesso Papa emerito.

Pochi giorni dopo, il 12 febbraio 2014, Antonio Socci, a capo degli antibergogliani italiani (seppur negli ultimi giorni ha abbassato decisamente i toni), ha iniziato a teorizzare l’invalidità delle dimissioni di Ratzinger: «Il problema della validità canonica delle sue dimissioni è enorme». Il 18 febbraio 2014 è arrivato l’intervento di Benedetto XVI che, rispondendo ad alcune domande del vaticanista Andrea Tornielli, ha scritto: «Non c’è il minimo dubbio circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino» e le «speculazioni circa la invalidità della mia rinuncia sono semplicemente assurde».

Il 25 febbraio 2014 in un’intervista al“Washington Post”, mons. Georg Gaenswein ha affermato: «La stima di Benedetto [per Papa Francesco] è molto alta, ed è aumentata per il coraggio del nuovo papa, settimana dopo settimana. All’inizio, non si conoscevano molto bene. Ma poi Papa Francesco gli ha telefonato, gli ha scritto, si reca a trovarlo e lo ha invitato [a riunioni private], in modo che il loro contatto è diventato molto personale e riservato».  Nel dicembre 2014, sempre a mons. Georg Gaenswein, è stata posta questa domanda: “Che cosa pensa di quanti oggi affermano che in realtà il Papa legittimo sia ancora Benedetto, che non avrebbe rinunciato al papato, ma solo all’esercizio attivo di esso?”. Il prefetto della Casa Pontificia ha replicato: «Ritengo che sia una sciocchezza teologica e anche logica. Il testo della rinuncia di Benedetto XVI, pronunciato l’11 febbraio 2013 nella Sala del Concistoro, è inequivocabilmente chiaro. Non c’è niente da “interpretare”. Alla rinuncia seguiva la Sede vacante, poi il Conclave e alla fine l’elezione del nuovo Papa. Il Papa legittimo si chiama Francesco».

Un anno fa ha raccontato ancora «Non è un segreto che fra i due Papi c’è una buona relazione. Si parlano, si scrivono, si telefonano… Quello che si dicono faccia a faccia non posso saperlo. Ci sono state diverse visite di papa Francesco da noi, al monastero Mater Ecclesiae, e anche papa Benedetto è stato invitato a Santa Marta, da papa Francesco».

Nel gennaio 2015 mons. Georg si è lasciato ancora una volta intervistare, affermando: «Non conosco dichiarazioni dottrinali di Francesco che siano contrarie a quelle del suo predecessore». Nel febbraio 2015 nuova intervista, nella quale ha nuovamente ha smentito il complottismo di chi ritiene che dietro le dimissioni di Ratzinger vi siano poteri occulti e pressioni di qualunque tipo. Aggiungendo: «Benedetto e Francesco sono diversi, talvolta molto diversi, i modi di espressione. Ma li accomuna la sostanza, il contenuto, il depositum fidei da annunciare, da promuovere e da difendere. Chi dubita di Papa Francesco ha poco senso della Chiesa».

E’ evidente che chi intende giudicare il pontificato di Francesco, contrapponendolo al precedente, non può più eludere il sostegno che continuamente arriva da “casa Ratzinger” al Papa attuale.

La redazione

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Alberto Melloni e le controverse tesi del progressismo cattolico

MatrimonioIl progressismo è stato definito da Papa Francesco come la «tentazione di scendere dalla croce, per accontentare la gente, di piegarsi allo spirito mondano invece di purificarlo e piegarlo allo Spirito di Dio». Cedere al «progressismo adolescente», ha affermato ancora, significa seguire i valori più accattivanti proposti dalla cultura dominante.

In Italia il “progressisimo cattolico” è incarnato dai cosiddetti martiniani, i figli spirituali del card. Carlo Maria Martini. Dipendenti dall’approvazione del mondo, facevano i leoni del dissenso durante il pontificato di Benedetto XVI mentre con Francesco si guardano bene dal manifestare qualunque critica. Eppure di mal di pancia ne hanno parecchi, basti pensare alla lontananza di vedute, ancora una volta, sui temi bioetici tra loro e il Santo Padre. Abbiamo già fatto l’esempio concreto di come Francesco guardi con ammirazione il coraggio di Paolo VI di chiudere violentemente la porta ad aborto e metodi contraccettivi con l’enciclica “Humanae Vitae”. Documento da sempre osteggiato dai martiniani (card. Martini compreso).

Altri due martiniani di ferro sono lo storico Alberto Melloni e il vaticanista del “Corriere” Luigi Accattoli, il primo autore del libro “Amore senza fine, amore senza fini” (Il Mulino 2015) e l’altro recensore del libro sul quotidiano per cui scrive. La tesi di Melloni, come si evince dalla recensione estasiata di Accattoli, è sinteticamente questa: il mondo oggi fatica ad accogliere la proposta dottrinale della Chiesa sul matrimonio? Allora è la Chiesa che deve cambiare la dottrina. Il che ricorda molto l’appunto di Papa Francesco: «il progressismo è la tentazione di scendere dalla croce per accontentare la gente».

Oggi, scrive Melloni, in una coppia prima viene la «consumazione» del rapporto, cui segue la convivenza e infine il figlio, dopo l’arrivo del quale si va allo «sposalizio solenne», che imita in tutto quello cristiano, “tranne” nel fatto che arriva per ultimo, mentre prima veniva per primo e legittimava il resto. Per questo lo storico chiama alla necessità di «pensare la sponsalità fuori dal regime di cristianità»: le Chiese lo dovrebbero fare prendendo atto che il regime cristiano non esiste più («siamo indietro di duecento anni» disse il cardinale Martini). C’è un equivoco però: il bene proposto dal cristianesimo al mondo è tale soltanto se si è all’interno di una società cristiana? No, la Chiesa propone uno specifico percorso ai fidanzati cristiani perché ritiene che sia un bene per la loro vita, indipendentemente dal consenso che ottiene tale proposta nel mondo o nella società in cui viene attuata. Essa rimane valida indipendentemente dal fatto che il “regime cristiano” non ci sia più o che a causa della perdita dei valori la porta, citando il Vangelo, si sia fatta molto più stretta per chi decide di vivere seriamente il proprio percorso.

Ne ha parlato proprio Papa Francesco domenica scorsa ai giovani napoletani, ricordando però che la famiglia è in crisi anche perché è sotto attacco: «ci sono le colonizzazioni ideologiche sulle famiglie, modalità e proposte che ci sono in Europa e vengono anche da Oltreoceano Poi quello sbaglio della mente umana che è la teoria del gender, che crea tanta confusione. Così la famiglia è sotto attacco». Melloni ha la stessa lettura della realtà sociale del Santo Padre, il quale ha spiegato: «La famiglia è in crisi: questo è vero, non è una novità. I giovani non vogliono sposarsi, preferiscono convivere, tranquilli e senza compromessi; poi, se viene un figlio si sposeranno per forza». La diagnosi è identica, è la risposta a cambiare: Francesco invita a curare maggiormente la preparazione al matrimonio dei fidanzati e ha chiesto a questi ultimi di accostarsi al matrimonio concentrandosi sul sacramento e non su tutto il contorno (la tradizione, il vestito ecc.): «Tu che vieni a sposarti, lo fai perché davvero vuoi ricevere dal tuo fidanzato e dalla tua fidanzata il Sacramento, o tu vieni perché socialmente si deve fare così? Ma dimmi: con che fede ti sposi?».

Ma è andato anche oltre indicando nella «testimonianza dell’amore» degli sposi cristiani davanti al mondo la soluzione dei problemi. «Così bisogna vivere la vita matrimoniale e questo si fa con la preghiera, molta preghiera e con la testimonianza, affinché l’amore non si spenga. La famiglia è in crisi, e non è facile dare una risposta, tuttavia occorrono la testimonianza e la preghiera». Il Sinodo sulla Famiglia è nato anche per trovare risposte sul come uscire da questa crisi.

Il poco feeling tra Alberto Melloni e il pontefice argentino è emerso sul Concilio Vaticano II, come ha rilevato Sandro Magister. Per non parlare del divertente episodio sulla “Marcia per la Vita”: nel maggio 2012 lo storico bolognese l’ha definita così: «Più che una iniziativa di stampo cattolico mi pare soprattutto una trovata dal sapore politico. Con la Chiesa questa marcia ha ben poco a che fare». Pochi mesi dopo Papa Francesco non solo ha “benedetto” i partecipanti, non solo ha invitato tutti ad imitarli nella difesa della vita, ma è anche intervenuto politicamente a sostegno del riconoscimento giuridico dell’embrione, intrattenendosi assieme ai promotori dell’iniziativa. Così ha fatto nel 2014 e nel 2015, proprio sabato scorso ha inviato il suo sostegno anche alla Marcia per la Vita svoltasi in Perù.

«Lo spirito della mondanità che anche oggi ci porta a questa voglia di essere progressisti, al pensiero unico», ha detto qualche tempo fa. Coloro che dicono: «Non ci chiudiamo. Siamo progressisti» stanno vivendo «lo spirito del progressismo adolescente» secondo il quale, davanti a qualsiasi scelta, si pensa che sia giusto andare comunque avanti piuttosto che restare fedeli alle proprie tradizioni. «Si pensa che «dobbiamo essere come tutti, dobbiamo essere più normali, come fanno tutti, con questo progressismo adolescente». E lo «spirito di mondanità ci porta all’apostasia».

La redazione

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