I girotondini di Micromega e il loro ultimo appello religioso

micromega appello 
 
di Paolo Bracalini*
*da Il Giornale, 20/05/15

 
Erano due settimane che non firmavano un appello e le mani già iniziavano a prudere, meno male che poi al capobrigata Flores d’Arcais, uno che ha firmato più appelli lui che autografi Justin Bieber, è venuta un’idea geniale per provare a riaffiorare dall’oblio: una firma per la Chiesa valdese.

Ma che c’entra Micromega, circolino della sinistra movimentista-girotondina-popolo viola sotto forma di rivista (dove si esibiscono gli intelletti di Barbara Spinelli, Gianroberto Casaleggio, Stefano Rodotà, Erri De Luca e altri numi) con i cristiani evangelici valdesi? Ma niente, è che gli scappava un appello, e visto che è tempo di 730 e 8 per mille hanno trovato questa e gli è sembrata buona (nel sito compare anche un grosso banner della Chiesa valdese, ma non sarà certo una pubblicità). Si vede che il reclutamento tra i nuovi editorialisti di Micromega di Valentina Nappi, pornostar molto apprezzata in diverse materie, non è bastata per rianimare gli abbonamenti della rivista filosofica del gruppo Espresso, più affollata di firme che di lettori.

Ecco dunque l’appello per «Un 8 per mille democratico», quello ai valdesi, mentre antidemocratico e decisamente reazionario sarebbe l’8 per mille alla Chiesa cattolica: «Di fronte all’offensiva clericale volta a limitare irrinunciabili libertà e diritti civili degli individui che andrebbero invece decisamente ampliati, e alla subalternità e passività dello Stato nelle sue istituzioni parlamentari e governative – è il testo dell’appello -, invitiamo tutti i cittadini democratici a devolvere l’otto per mille alla Chiesa Evangelica Valdese che le libertà e i diritti civili degli individui ha sempre rispettato e anzi promosso».

Ma il bello è nella composizione del gruppo di saggi che ha apposto le prime prestigiose firme all’appello evangelico pro Chiesa valdese. Tra loro, alcuni professionisti dell’appello, compulsivi della raccolta firme, firmatori d’eccellenza come Gustavo Zagrebelsky, laicissimo presidente onorario di Libertà e giustizia, come  il romanziere già girotondino Andrea Camilleri, ateo («Non sono credente, però sono molto legato a san Calogero»), anche lui qui nell’insolita veste di promoter della Chiesa valdese. Laici, atei, ma pure cattolici come l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli (che sulla trattativa Stato-mafia si è scazzottato verbalmente con Sabina Guzzanti, una di casa nel salotto radical chic di Micromega), e persino sacerdoti nell’allegra brigata di improvvisati valdesi. Preti no global come don Vitaliano Della Sala o come don Raffaele Garofalo (presente al raduno anti-Berlusconi organizzato sempre dalla rivista di D’Arcais), e pure altri insospettabili simpatizzanti del rigorismo etico della Chiesa valdese, come la scrittrice Dacia Maraini, il fotografo tuttologo Oliviero Toscani, l’inevitabile Lella Costa. E pure l’altrettanto inevitabile olimpionico dell’appello, Moni Ovadia, ebreo sefardita.

Tutti sedotti dall’ultima trovata di Micromega. Magari tira più questa di Valentina Nappi.

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No, non fu Paolo il vero fondatore del cristianesimo

Pietro e paoloA volte ritornano, direbbe Stephen King. Parliamo della schiera degli orgogliosi laici di Repubblica ossessionati dal cristianesimo. Pensiamo, ad esempio, alla coppia Augias-Flores D’arcais, autori di molteplici libri scandalistici intenti a convincere della falsità delle origini del cristianesimo, resuscitando le tesi degli oppositori pagani dei primi secoli.

In questi giorni è riemerso anche Eugenio Scalfari, un altro fanatico del laicismo che ha trascorso la sua vita a parlare di religione. In un articolo per l’Espresso ha elogiato l’ultimo libro dello scrittore e regista Emmanuel Carrère, Il Regno (Adelphi 2015), una rivisitazione romanzata delle origini del cristianesimo. Un altro non studioso, dunque, oltretutto distrutto dalla critica: Gesù viene paragonato a Che Guevara e sono talmente tante le sciocchezze scritte che perfino chi ha recensito il libro ha ammesso di aver «fatto un po’ fatica, a finirlo» (senza contare, tra un commento e l’altro sull’evangelista Giovanni, la descrizione dettagliata del suo video pornografico preferito). Luigi Walt, ricercatore a Ratisbona, ha sottolineato la «distanza di Carrère da un approccio realmente critico, e dunque storico, al problema delle origini cristiane». «Una specie di sufflé moscio e insipido» è stato definito da un altro recensore.

Tornando a Scalfari, osserviamo la sua calcolata insistenza a definire i Vangeli dei “romanzi” e, sopratutto, a sostenere che San Paolo «si autonominò apostolo e fu quello che dettò legge su tutti gli altri, a cominciare da Pietro, al quale secondo i Vangeli Cristo aveva affidato la Chiesa. Quella designazione fu da tutti rispettata, ciononostante la prima polemica di Paolo avvenne proprio con Pietro che guidava la comunità ebraico-cristiana di Gerusalemme», il quale concepiva la «comunità cristiana di Gerusalemme come una delle varie “letture” dell’ebraismo. Il cristianesimo era visto da Pietro come una delle varie sette, innestata come le altre sul robusto tronco della tradizione mosaica e del racconto biblico su Abramo e la sua discendenza. Fino a quando arrivò Paolo. La sua polemica con Pietro fu proprio su quel punto: secondo Paolo il cristianesimo era una religione del tutto diversa dall’ebraismo e doveva essere predicata e diffusa tra i “Gentili”, cioè i pagani, a Roma, in Egitto, in Grecia, nelle città greche della costa anatolica. Pietro accettò, uscì dall’ebraismo ed anche da Gerusalemme, fondò anche lui come Paolo comunità nel Medio Oriente e sulla costa africana; arrivò a Roma come Paolo e lì, come Paolo ma in anni diversi, fu giustiziato. Da allora il vero fondatore del Cristianesimo è stato considerato Paolo. E lo fu». La fiction di Scalfari finisce così.

Quella di Paolo come il vero fondatore del cristianesimo è una tesi vecchissima, con il preciso scopo di convincere che il cristianesimo è una religione nata “a tavolino”, del tutto aliena alla predicazione di Gesù (la sosteneva anche Nietzsche e perfino Alfred Rosenberg, l’ideologo nazista di Hitler). Oggi è forse la convinzione più diffusa tra gli scettici appassionati del cristianesimo (nessuno studioso vero, ovviamente), tanto che perfino Benedetto XVI ne ha parlato: «L’importanza che Paolo conferisce alla Tradizione viva della Chiesa, che trasmette alle sue comunità, dimostra quanto sia errata la visione di chi attribuisce a Paolo l’invenzione del cristianesimo: prima di evangelizzare Gesù Cristo, il suo Signore, egli l’ha incontrato sulla strada di Damasco e lo ha frequentato nella Chiesa, osservandone la vita nei Dodici e in coloro che lo hanno seguito per le strade della Galilea».

Il prof. Romano Penna, biblista e già ordinario di Origini Cristiane presso la Pontificia Università Lateranense, ha spiegato: «Il tema di Paolo come “secondo fondatore del cristianesimo” è piuttosto trito, anche se ha avuto una certa presa nel Novecento in ambito luterano. Si tratta di una concezione che però bypassa un elemento importante, cioè che tra Gesù e Paolo non c’è una continuità “gomito a gomito”. Paolo è “gomito a gomito” con la Chiesa di Gerusalemme e con le Chiese, al plurale, della Giudea. Lui stesso dice: “Io vi ho trasmesso quel che anche io ho ricevuto”. Quello che voglio dire è che c’è una fede delle origini che è assolutamente pre-paolina, la sua originalità ermeneutica elabora il dato della fede, che è anteriore a lui. Per questo quella contrapposizione non ha, alla fine, nessun senso. Si tratta di un giudizio affrettato, semplificatorio, superficiale». Il contributo innovativo di Paolo, in altre parole, è davvero minimo rispetto alle convinzioni dei primi discepoli. Lo stesso ha spiegato il già citato Luigi Walt, docente di Nuovo Testamento presso l’Università di Ratisbona: «La contrapposizione netta tra Gesù e Paolo, innanzitutto, risulta essere uno dei tanti miti dell’esegesi storica otto-novecentesca […], l’idea servì a slegare Paolo, inteso come simbolo di una Chiesa istituzionale, visibile, gerarchica, dall’eredità di un Gesù percepito come maestro inoffensivo (e frainteso) di morale. In breve, essa fu il risultato di un a priori ideologico, non di un’indagine storica rigorosa. Paolo non agì come un outsider, non piombò dal nulla in mezzo ai primi seguaci di Gesù, né le sue posizioni possono essere valutate come del tutto originali e solitarie». Esistono infatti «altri documenti del cristianesimo nascente, in maniera del tutto indipendente dall’apostolo, sembrano condividerne alcune linee ideali. L’importanza di Paolo, in altri termini, non va esagerata, nel suo immediato contesto di azione. Si faceva allusione, tempo addietro, alla necessità di considerare gli elementi pre-paolini in Paolo: ebbene, un’indagine in tal senso toglie immediatamente la terra sotto i piedi a chiunque voglia attribuire all’apostolo il ruolo di “autentico fondatore” del cristianesimo».

Molto simile il giudizio di Giorgio Jossa, professore di Storia del Cristianesimo e Storia della Chiesa Antica presso l’Università degli Studi di Napoli e la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale: «affermazioni relative alla persona di Gesù, che una volta venivano attribuite a Paolo sulla base di una sua provenienza dalla diaspora greca, possono essere già sorte prima di lui, non soltanto nella comunità di Antiochia ma anche in quella di Gerusalemme, e nella stessa componente aramaica di questa comunità. […] Paolo si colloca allora non all’inizio, ma al termine di uno sviluppo teologico che è stato in realtà incredibilmente rapido» (G. Jossa, Il cristianesimo ha tradito Gesù?, Carocci 2008, p. 115). Rainer Riesner, professore emerito di Nuovo Testamento presso l’Università Dortmund, ha anch’egli fatto notare che gli insegnamenti di Paolo «non erano frutto del suo pensiero, bensì della tradizione», della «comunità originaria che si era raccolta intorno all’apostolo Pietro a Gerusalemme». Si potrebbe andare avanti per giorni citando il pensiero degli studiosi (quelli veri, non i giornalisti di Repubblica) che hanno risposto alla tesi ottocentesca che vede Paolo il “vero” fondatore del cristianesimo. Molto chiaro, lo citiamo per ultimo, il giudizio di Heinrich Schlier, importante biblista che partecipò alla stesura della traduzione ufficiale della Bibbia: «cinque anni dopo la morte di Gesù esisteva in Siria una formulazione, già relativamente fissata e tramandata in greco, dei fatti di salvezza della morte e resurrezione di Gesù: ed è proprio quella che Paolo riprende» nella sua prima lettera, quella ai Corinzi. «Essa è alla base di ogni lettera paolina e di ogni fonte evangelica scritta» (H. Schlier, Il tempo della Chiesa. Saggi esegetici, EDB 1981, p. 345-346).

Eugenio Scalfari descrive inoltre Paolo come vero leader della Chiesa primitiva in opposizione a Pietro (ammette che, comunque, quest’ultimo è ritenuto dai discepoli l’autorità principale della chiesa primitiva): sarebbe stato Paolo a convincere i primi cristiani a diffondere il cristianesimo tra i pagani. Eppure negli Atti degli Apostoli, basati su tradizioni che circolavano negli anni 30-50 d.C., dunque a ridosso della morte di Gesù, si legge che è Pietro che, inspirato dallo Spirito Santo, decide di aprire la missione anche verso i pagani, incontrandoli e battezzandoli per primo dopo aver detto: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (At 10,34). Come ha spiegato il prof. Fabrizio Fabbrini, ordinario di Storia romana all’Università di Siena e di Storia del cristianesimo alla Pontificia Università: «Credo che si commetta un errore quando, parlando dei primi decenni del cristianesimo, si contrappone una linea “petrina” a una “paolina” quale differenziazione tra una Chiesa giudaica e una Chiesa aperta ai Gentili. L’impostazione teologica di Pietro (si vedano le sue bellissime Lettere) è caratterizzata dallo stesso universalismo di Paolo, la sua azione missionaria è altrettanto intensa ed ampia. Ed è Pietro che per primo si apre alla predicazione verso i Gentili (= pagani), dato che la conversione del centurione Cornelio è precedente a tutta l’azione paolina; e si legga negli Atti degli apostoli (At 11,1-18) la difesa che Pietro fa a Gerusalemme, dinanzi agli apostoli scandalizzati, della necessità della conversione dei pagani. È questa la prima teologia del “cristianesimo delle genti”, quella esposta da Pietro, il capo della Chiesa universale: il quale può dunque chiamarsi, esattamente come Paolo, “Apostolo delle genti”».

Infine, rispondendo alla convinzione di Scalfari che Pietro concepiva la comunità cristiana come una setta dell’ebraismo, basterebbe leggere le sue parole riportate, ancora una volta, negli Atti degli Apostoli per trovare moltissimi “voi” e “noi” quando si rivolge agli ebrei, concependo chiaramente una differenziazione. Senza considerare che la base di ciò che predicava -Dio incarnatosi in uomo, crocifisso e risorto da morte-, era assolutamente inconcepibile e intollerabile per gli ebrei, impossibile che i sostenitori di questo fossero accettati come una variante dell’ebraismo. I discepoli di Cristo erano in gran parte ebrei che riconobbero in Gesù il Messia annunciato da sempre nell’Antico Testamento, inevitabilmente si produsse una divisione rispetto agli ebrei che non lo riconobbero. Per questo, ha spiegato Eric Noffke, presidente della Società Biblica in Italia, «a cominciare dal Nazareno fino ad arrivare agli apostoli e ai loro discepoli, la nuova fede in Gesù è andata gradualmente costruendosi come una religione completamente nuova rispetto al giudaismo». Lo stesso Gesù, infatti, «aveva radicalizzato vari aspetti della fede ebraica, soprattutto l’attesa del Regno di Dio, predicato come una realtà in lui presente e operante […]. Gesù fu maestro, ma fu anche riconosciuto come il Messia atteso, nonostante che la sua predicazione e la sua morte in croce dovessero essere spiegate sovente contro la tradizione messianica mediogiudaica. Paolo, dunque, lungi dal tradire il Gesù profeta del Regno, fu di lui un discepolo fedele e un predicatore instancabile di quanto Dio aveva operato per suo tramite» (E. Noffke, Protestantesimo n.67, Claudiana Editrice 2012, pp. 125-141).

Essendo una tesi ancora molto diffusa, abbiamo sentito il bisogno di una risposta così esaustiva, al di là che sia stata formulata da Eugenio Scalfari. Il quale avrebbe dovuto essersi già accorto da tempo di non avere la competenza né la capacità necessaria per occuparsi di queste cose.

La redazione

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Nozze gay, nemmeno Adriano Sofri riesce a sostenerle con ragionevolezza

Adriano SofriCome dicevamo pochi giorni fa, dopo il referendum irlandese siamo costretti a sorbirci la prevedibile retorica degli epigoni di Mario Mieli, da Massimo Gramellini a Ferdinando Camon. Tra i primi a prendere la parola in Italia è stato Adriano Sofri, l’unico che ha saputo organizzare un discorso nonostante tutto sensato: il suo articolo su Repubblica è tuttavia colmo di classici luoghi comuni a sostegno del matrimonio omosessuale, per questo ci sembra utile offrire a lui e ai lettori una risposta.

Premettiamo che il giornalista di Repubblica parla di morale e di diritti dopo aver passato 22 anni di carcere per essere stato il mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi e uno dei responsabili del linciaggio mediatico contro di lui che ha incendiato l’opinione pubblica, umiliando Calabresi prima che venisse assassinato. Certo, le persone cambiano, Sofri ha pagato, ha chiesto perdono e ha ammesso le sue colpe, tuttavia bisognerebbe avere un po’ di prudenza prima di pontificare su argomenti morali, sopratutto guardando la propria biografia.

L’ex leader di Lotta Continua ha iniziato il suo articolo con il primo argomento, quello del “che male vi fa”: «C’è una differenza fra un valore perseguito per sé che si vuole imporre anche ad altri contro la loro volontà, e un valore cercato per sé che non tocca la libertà degli altri. Chi creda al matrimonio come un sacramento valido solo per la coppia di donna e uomo, resta libero di celebrarlo e viverlo, e non ha una vera ragione di sentirlo offeso dal fatto che altri abbiano scelto di dichiararsi ed essere riconosciuti sposati». Una tesi vecchia che si fa risorgere puntualmente, eppure già gli antichi greci sapevano che ogni legge ha una funzione pedagogica (fa costume, si dice) che va a modificare la società, con effetti anche verso chi è contrario ad essa. La ridefinizione del matrimonio (possibile soltanto modificando la Costituzione) va direttamente a minare le sue fondamenta essendo un’istituzione riconosciuta (nemmeno istituita!), come recita l’art. 29 della Costituzione, per stabilizzare la “famiglia naturale” in vista dell’arrivo dei figli (matrimonio deriva da matris, madre). Ecco cosa toglie il matrimonio omosessuale, come abbiamo già segnalato: toglie il significato e il fondamento giuridico del matrimonio e, dunque, la stabilità (non soltanto giuridica) della famiglia, che è anche quella intesa costituzionalmente.

Inoltre bisognerebbe ricordare a Sofri che se l’argomento pietistico del “che male vi fa?” fosse valido per permettere a chi vuole di sposarsi, allora bisognerebbe utilizzarlo anche per le coppie incestuose. Che male fanno agli altri? E che male fa, a chi non è d’accordo, ampliare il numero dei coniugi a 8, 29 o 35? Anche i gruppi poligamici, infatti, avrebbero diritto alle nozze se è valido l’argomento del “che male fa?”. Per non parlare di due semplici amici che vogliono beneficiare dei diritti del matrimonio, che male vi fanno se sono solamente amici? Ecco dunque una delle tante conseguenze della perdita giuridica dei fondamenti del matrimonio.

Il secondo argomento di Sofri è invocare un referendum anche in Italia, convinto che «senz’altro la “società civile” italiana è più avanzata della Chiesa cattolica», mentre quest’ultima è più avanzata nel «sentimento e nel trattamento nei confronti degli stranieri. La soluzione di compromesso sembrerebbe quella di stare con il papa sui migranti, contro sul matrimonio fra persone dello stesso sesso, con la libertà ultima di ciascuna donna sull’aborto, e così via». Come già detto, l’ex militante di Lotta continua non sembra la persona più indicata per spiegare all’Italia dove la Chiesa cattolica è moralmente avanzata o arretrata, inoltre, dichiarandosi ateo, dovrebbe prima giustificare l’origine del suo concetto di “bene”, “male” e “avanzato” (rispetto a cosa? Rispetto a quale assoluto?), impossibile in un paradigma relativista. In ogni caso, secondo una recente indagine, gli italiani sono maggiormente contrari alle unioni civili, figuriamoci al matrimonio omosessuale.

Il terzo e ultimo argomento di Adriano Sofri è cercare di confutare la posizione di chi è contrario al matrimonio gay, affermando che «a qualunque sesso e sessualità si appartenga si è favorevoli -cioè non ci si oppone- al matrimonio fra due persone perché si riconosce la bellezza e la serietà del loro reciproco desiderio. Ma il matrimonio, obiettano ancora i portavoce autorevoli dell’ortodossia cattolica, dipende dalla sua “naturale” destinazione generativa, inibita per sempre alla coppia omosessuale: se così fosse, daremmo per fallito e maledetto il matrimonio eterosessuale infecondo». Per quanto riguarda la prima affermazione, se la bellezza e la serietà della coppia sono i criteri per accettare il matrimonio di chiunque lo richieda, ritorna la solita obiezione: con quale giustificazione, allora, negarlo a un padre e un figlio amanti? O ad una madre e suo figlio? O alla nonna con il nipote? E con quale argomentazione discriminatoria, se si resta sul piano di Sofri, permettere il matrimonio a due sole persone? Forse cinque amanti desiderosi di sposarsi non sono belli e seri, secondo i criteri utilizzati da Sofri?

Infine, cade anche l’obiezione che le coppie sterili eterosessuali dimostrerebbero che il matrimonio non è istituito ai fini della genitorialità: come abbiamo già rilevato, mentre le relazioni omosessuali sono essenzialmente sterili, alcuni rapporti eterosessuali sono solo accidentalmente sterili a causa di una patologia, un’eccezione alla regola. Le coppie eterosessuali sterili rimangono potenzialmente procreative, al contrario delle coppie omosessuali: ecco perché la patologia di alcune coppie eterosessuali non può pregiudicare in alcun modo il significato del matrimonio contratto nella normalità e nella sanità fisica dei due coniugi.

Ancora una volta verifichiamo che non esiste alcuna tesi ragionevole a sostegno del matrimonio omosessuale, proprio per questo le associazioni Lgbt puntano quasi solamente su argomentazioni sentimentalistiche come “loveislove” e “viva l’uguaglianza”, senza mai entrare nel merito dei loro convincimenti. Legittimo ma inefficace verso chi riesce ancora a ragionare autonomamente senza accodarsi al pensiero comune.

La redazione

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Effetto Socci: demolizione della Chiesa dall’interno?

Antonio SocciAnche Antonio Socci ha commentato il referendum irlandese attraverso cui saranno legalizzate le unioni omosessuali. Alla disperata ricerca di un colpevole, prevedibilmente lo ha trovato in Papa Francesco, causa di tutti i mali del mondo secondo la corrente “cattolica” tradizionalista.

Poco importa se il suo vaticanista di riferimento, Sandro Magister (che ha già confutato l’accusa di Socci sulla presunta invalidità dell’elezione di Bergoglio facendo intervenire la canonista Geraldina Boni), abbia scritto che «lo stesso papa Francesco ha tuonato più volte contro le nozze gay, ma è come se parli al vento. “Non pervenuto”, si direbbe, a vedere come la grande stampa oscura ogni volta queste sue parole». Tutti gli interventi di Papa Bergoglio su questo argomento sono stati citati nel nostro apposito dossier. Il segretario di Stato Vaticano, mons. Pietro Parolin, ha affermato che il risultato del referendum irlandese «non è solo una sconfitta dei principi cristiani, ma di una sconfitta dell’umanità» (mons. Parolin ha preso posizione dopo l’incontro con Papa Francesco, il vaticanista progressista Luca Kocci ha scritto che Parolin è «uno dei prelati di Curia più vicini a Francesco, autorevole interprete del pensiero del papa»).

Nel suo ultimo articolo Socci resuscita il solito elenco della spesa di trite e ritrite accuse al Papa: Francesco avrebbe ridotto la Chiesa ad una «“agenzia religiosa” che sui grandi temi della vita si sottomette al diktat ideologico obamiano», quando invece tutti sanno quanto il Papa quotidianamente insista sulla bioetica della vita (avendo anche coniato il termine “cultura dello scarto” per indicare l’aborto, la ridefinizione del matrimonio e l’eutanasia), invitando addirittura le confessioni protestanti a non sottomettersi al pensiero comune, come ha fatto recentemente con l’arcivescovo luterano Antje Jackelen: «le tematiche attinenti alla famiglia, al matrimonio e alla sessualità non possono essere taciute o ignorate per timore di mettere a repentaglio il consenso ecumenico già raggiunto. Sarebbe un peccato se in queste importanti questioni si consolidassero nuove differenze confessionali», così come aveva detto nel dicembre scorso ricevendo una delegazione della chiesa luterana.

Francesco, secondo Socci, avrebbe «rinunciato al proselitismo e al “Dio cattolico” (“non esiste un Dio cattolico”, dice Bergoglio)». Ne sarà sicuramente contento Benedetto XVI dato che fu proprio lui ad avvertire: «La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione». E infatti Bergoglio ha ripreso esattamente il pensiero del Papa emerito: «La Chiesa non cresce nel proselitismo; Benedetto XVI ce lo ha detto; ma cresce per attrazione, per la testimonianza, per la predicazione. Quando la Chiesa perde questo coraggio apostolico, diventa una Chiesa ferma. Ordinata, bella; tutto bello, ma senza fecondità, perché ha perso il coraggio di andare alle periferie, qui dove ci sono tante persone vittime dell’idolatria, della mondanità, del pensiero debole». Anche su questo abbiamo riflettuto nel nostro dossier, raccogliendo tutte le dichiarazioni in merito di Francesco. Per quanto riguarda il “non esiste un Dio cattolico”, è una frase che non compare in alcun pronunciamento ufficiale (tranne un’intervista, rifiutata dalla Santa Sede, a Scalfari, il quale oltretutto ha ammesso di averla manomessa facendo dire al Papa frasi che non aveva detto).

Il giornalista di Libero, come sempre, ha anche attaccato Francesco accusandolo di sincretismo religioso (questa volta ha tirato fuori addirittura «l’ecumenismo massonizzato di Bergoglio»!), quando invece proprio nell’Evangelii Gaudium il Pontefice ha messo in guardia dal «sincretismo conciliante», definito come una forma di «totalitarismo», ricordando che la vera “apertura” «implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa». Non stancandosi inoltre mai di ripetere, alla faccia del sincretismo, che Gesù lo si incontra solo «nella Chiesa, nella nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica», che «non si può annunciare Cristo senza la Chiesa». Nel suo viaggio in Albania ha infine ricordato: «non si può dialogare se non si parte dalla propria identità. Ognuno di noi ha la propria identità religiosa, è fedele a quella. Ma il Signore sa come portare avanti la storia. Partiamo ciascuno dalla propria identità, non facendo finta di averne un’altra, perché non serve e non aiuta ed è relativismo».

L’elenco dei “peccati” del peccatore Bergoglio, condannati dal teologo Antonio Socci, si conclude con la denigrazione della prossima enciclica -nella qual Francesco invita a mettere al centro della società l’uomo e non il profitto-, riducendola a consigli sulla «spazzatura differenziata e pipponi assistenziali sui poveri». Nemmeno il peggior anticlericale si sarebbe ridotto ad un’accusa talmente insulsa.

Non può nemmeno mancare la solita  nostalgia dei bei tempi che furono, un classico del tradizionalismo conservatore: Socci rimpiange la messa in latino e la liturgia in voga prima del Concilio Vaticano II, la cui sostituzione con il novo ordo (il rito della Messa che tutti seguiamo oggi, in italiano) avrebbe fatto precipitare la Chiesa nel baratro. Un’enorme rivisitazione storica e sociologica condita, come sempre, con l’infinito elenco di citazioni prelevate senza contesto da frasi di innumerevoli santi e personaggi storici, il tutto per arrivare a teorizzare «un “papa emerito” autorecluso in Vaticano e “un vescovo vestito di bianco” che viene acclamato da tutti i nemici di sempre della fede cattolica». Certo, è chiaramente inusuale la presenza di Benedetto XVI in Vaticano, ma sappiamo bene che è stata una sua libera scelta, come ha ribadito anche recentemente criticando duramente chi teorizza complotti sulla sua abdicazione. Per quanto riguarda l’acclamazione di Francesco da parte di molti anticlericali, sappiamo invece che è una sorte che tocca da secoli, purtroppo, anche a Gesù: quanti anticattolici acclamano e hanno acclamato la sua figura contrapponendola a quella della Chiesa o quella di un Pontefice? E’ colpa dell’ambiguità di Gesù? O è una indebita strumentalizzazione? Oltretutto, anche Lui parlò spesso degli ultimi e degli emarginati, chissà se Socci ritiene anche quelli evangelici dei «pippotti assistenzialisti ai poveri».

Paolo VI denunciò “coloro che tentano di abbattere la Chiesa dal di dentro”. A noi sembra sempre più che il giornalista di Libero, sicuramente in modo inconsapevole, stia facendo lo stesso tanto convinto, com’è, che questo sciatto antipapismo verso il successore di Pietro sia un’opera valida per la verità e per la fede cattolica. Ben lontano dal riuscirci, tuttavia, non solo per il fatto che non ne azzecca una ma anche perché, guardando i commenti che girano sui social network, appare sempre più criticato e sempre meno apprezzato (oltre che completamente ignorato dalla Chiesa e dai cosiddetti “ratzingeriani”).

La redazione

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Papa Francesco sfoglia “Repubblica”. E la critica.

Repubblica francescoSe sono vere le parole riportate dal giornale argentino Voz del Pueblo, la notizia da commentare non è tanto che Papa Francesco legge La Repubblica – aspetto che ha attirato l’attenzione dei più –, bensì la scarsa stima che nutre nei confronti del nostro giornalismo. Se si fa attenzione sempre nella stessa intervista, rilasciata al quotidiano di Tres Arroyos, città della provincia di Buenos Aires, il Santo Padre si è infatti lamentato, peraltro in modo forte e inequivocabile, della scarsa professionalità dei giornali italiani: «I mezzi di comunicazione prendono una parola qui e una di là e la tolgono dal contesto […] contro nemici del genere non puoi fare nulla».

Ora, dato che il Papa ha specificato che legge esclusivamente il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari – «Leggo solo un giornale, la Repubblica» – e poiché, da decenni, non guarda la televisione – «La televisione non la guardo dal 1990» -, è più che legittimo supporre che quando critica «i mezzi di comunicazione» che «prendono una parola qui e una di là e la tolgono dal contesto» possa, in fondo, avere in mente anche (o proprio) la testata diretta da Ezio Mauro. Forse é per questo che nella traduzione italiana dell’intervista, Repubblica ha tolto proprio la frase sulla disinformazione dei media. Sul fatto che si riferisca precisamente al quotidiano di Scalfari sembra confermarlo l’esempio che lui stesso racconta per sottolineare la disinformazione dei media: «L’altro giorno ho visitato una parrocchia di Ostia, vicino Roma. Ho salutato un po’ di gente, e mentre passavo in una palestra ho detto: “che buffo, qui una volta giocavano i ragazzi e ora ci sono gli anziani e i malati. Comprendo queste persone perché sono anziano e anche io ho i miei acciacchi, sono un po’ malaticcio”. Il giorno dopo i giornali hanno titolato: “Il Papa rivela di essere malato”. Contro nemici del genere non puoi fare nulla». Guarda caso (come è stato fatto notare) proprio Repubblica, il giorno dopo la visita alla parrocchia di Ostia, ha titolato: “Papa Francesco a Ostia, folla in festa: “Pregate per me, sono un po’ anziano e malato”. 

Ma allora – ci si potrebbe chiedere – come mai legge proprio quel quotidiano? La risposta, anche qui, è nelle parole di Francesco: «E’ un giornale per il ceto medio». Il Papa ha cioè dichiarato che Repubblica, ben lungi dall’essere sorgente elitaria di cultura, altro non è che il foglio dell’uomo medio: fossi in uno dei tanti intellettuali e professori che ci scrivono pensando d’essere i migliori non lo prenderei esattamente come un complimento. E’ quindi plausibile che il Papa consideri Repubblica lo strumento migliore, oltre che per informarsi – quel quotidiano ha tanti difetti, ma è oggettivamente curato e denso di notizie -, per farsi un’idea sul pensiero dei più. E qui, in effetti, si potrebbe obiettare sul fatto che il quotidiano di Scalfari e Mauro rispecchi bene le posizioni della maggioranza evidenziando il rischio che il Papa possa, a causa di questa lettura, incorrere in errori di valutazione.

Ma ancora una volta è il Santo Padre stesso ad allontanare quest’ipotesi specificando il tempo che dedica alla lettura di Repubblica: «Non ci metto più di dieci minuti». Ora, chiunque abbia dimestichezza con la lettura dei quotidiani sa bene che con un giornale, in al massimo dieci minuti, si possono materialmente fare solo due cose: sfogliarlo, prestando attenzione ai titoli degli articoli, e leggerne uno. Punto. Del resto, si è calcolato come, per leggere tutte le pagine del Il Corriere della Sera – testata del tutto simile a Repubblica -, ci vogliano cinque o sei ore. Anziché esultare o dispiacersi perché Papa Francesco legge quel quotidiano, sarebbe quindi il caso di commentare la sola vera notizia: il Santo Padre di fatto sfoglia Repubblica. E la critica.

Giuliano Guzzo e redazione UCCR

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Il documentato miracolo accaduto nel sottomarino Pacocha…

sottomarino pacocha 
 
di Vittorio Messori*
*da Il Corriere della Sera, 18/05/15

 

Stando alle statistiche, sulla Grande Rete il tema religioso è tra i primissimi per presenza e partecipazione, spesso talmente appassionata da giungere talvolta sino al diverbio. Tra i temi più caldi e ricorrenti, vi è quello del «miracolo»: la possibilità, cioè, di «spiegare» eventi umanamente inspiegabili solo ipotizzando un intervento soprannaturale.

Sono molti, ovviamente, coloro che negano questa possibilità. Uno di questi scettici (un intellettuale piuttosto noto) in un forum internazionale mi ha amichevolmente sfidato, chiedendomi di portare un caso, anche uno solo, documentato in modo inoppugnabile e che fosse recente, non avvolto nelle nebbie di secoli lontani.

A lui e ai frequentatori del sito ho così raccontato una storia che si è svolta la sera del 26 agosto del 1988, a poche miglia dal porto di Callao, il maggiore del Perù, dove — al termine di una esercitazione — si stava dirigendo il sommergibile Pacocha. Lungo oltre 100 metri, dall’aspetto imponente, era in realtà un ferrovecchio: costruito nel 1943 per la marina degli Stati Uniti, era stato ceduto nel 1974 a quella peruviana, che lo usava per pattugliare le coste. Poiché l’attracco alla banchina del porto era imminente, tutti i portelli erano già aperti e sollevati. All’improvviso, la collisione con una baleniera giapponese in uscita: una grande nave con la prua corazzata per rompere il ghiaccio nella battute antartiche. Sventrato a poppa, il Pacocha imbarca subito un’enorme quantità di acqua e comincia ad inclinarsi verso il fondo. Intrappolati tra le paratie, muoiono tre marinai, tra i quali il comandante. Quello in seconda, il trentaduenne tenente di vascello Luìs Cotrina, ordina l’evacuazione attraverso il portello di prua, dal quale in effetti riescono a gettarsi in mare alcuni membri dell’equipaggio, prima del rapidissimo affondamento totale.

Quando il sommergibile è interamente coperto dalle acque, ci si rende conto che quel portello usato come via di fuga non si è chiuso e non può chiudersi: per l’urto, le leve di chiusura sono uscite dai loro alloggiamenti e ne impediscono la serrata. Resta aperta, così, una larga fessura, da dove entra una cascata di acqua la cui portata, a causa della pressione, diventa tanto più violenta quanto più il sommergibile scende verso il fondo. Intanto, il giovane Cotrina giace ferito sul pavimento: proprio mentre cercava di aiutare i suoi marinai ad uscire, è precipitato dalla scaletta. Ed ecco, proprio allora, l’imprevedibile.

Il tenente di vascello testimonierà poi, davanti alle commissioni militari e nei processi ecclesiastici cui sarà convocato, che fu investito da una «esplosione di luce», al centro della quale stava il volto sorridente di suor Maria di Gesù Crocifisso, nata nel 1892 in Croazia e morta a Roma nel 1966, fondatrice delle Figlie della Misericordia e il cui processo di beatificazione era allora aperto a Roma. L’anno prima, l’ufficiale era stato ricoverato all’ospedale di Lima e una delle suore infermiere gli aveva donato la biografia della religiosa. In quei momenti drammatici, il volto di suor Maria, visto sulla copertina del volume, gli appare come in un flash accecante e gli dà la certezza misteriosa di un aiuto risolutivo. Come investito da una forza sovrumana, pur ferito per la caduta e vincendo la forza dell’acqua che precipita, riesce ad arrampicarsi per la scaletta e a raggiungere il portello. In quel momento, il sommergibile è inclinato di alcune decine di gradi ed è alla profondità di oltre venti metri.

Come stabiliranno le inchieste della marina peruviana (affiancate da un’indagine della US Navy americana e passate infine al vaglio dei tecnici nominati dalla Congregazione per i santi) la pressione esercitata dall’acqua sul portello equivale a un minimo di cinque tonnellate, compensate per circa una tonnellata dalla pressione interna del sommergibile. Il giovane, dunque, deve sollevare quel portello, vincendo una spinta di quattro tonnellate, per permettere ai ganci di chiusura di rientrare nei loro alloggiamenti. Deve anche, nel frattempo, tenere una mano aggrappata a una maniglia per reggere alla violenza dell’acqua che rischia di travolgerlo. Inoltre, sanguina con abbondanza. A quanto pare, i massimi campioni di sollevamento pesi riescono a staccare dal suolo poco più di 450 chili. Ebbene, sotto le acque del porto di Callao il portello fu sollevato, i ganci furono fatti rientrare, la falla fu richiusa: il peso sollevato dal marinaio peruviano fu, dunque, di quasi dieci volte superiore ai primati olimpici.

Davvero un miracolo, oppure un fatto raro ma spiegabile in certe condizioni, quando l’istinto vitale può spingere a prestazioni straordinarie? Sia i tecnici peruviani che, in seguito, quelli degli Stati Uniti e poi quelli nominati dai tribunali vaticani, hanno discusso tutte le possibilità, giungendo alla conclusione che anche le condizioni più estreme non possono giustificare il sollevamento di 4.000 chili, per molti centimetri e per molti minuti, usando per giunta un braccio solo. Non a caso il Pacocha è stato recuperato e poi demolito, ma la torretta e il portello sono esposti davanti all’accademia navale del Perù, con una targa che non parla solo di valore di un militare ma anche —esplicitamente — di milagro . Di miracolo, insomma. Quel miracolo che, riconosciuto alla fine come autentico, ha permesso la beatificazione di suor Maria, avvenuta a Ragusa, in croato Dubrovnik, per mano di Giovanni Paolo II stesso, il 6 giugno del 2003.

Narrando questa storia, pur documentata come poche altre, non ho ovviamente vinto lo scetticismo del mio antagonista ma, forse, gli ho procurato almeno un attimo di esitazione. Gli ho comunque ricordato che gli archivi della Marina peruviana e americana e quelli della Congregazione vaticana per i Santi sono aperti e a sua disposizione.

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Cosa manca a Vito Mancuso per essere un teologo cattolico?

mancusoomosessualiSe ponessimo la domanda: “Che cosa manca a Vito Mancuso per essere un teologo cattolico”, molti risponderebbero ricordando il rifiuto dei principali teologi –come abbiamo mostrato– a considerarlo tale (compresi i suoi formatori). Altri ricorderebbero il suo credo gnostico e panteista: proprio recentemente ha sostenuto che «occorre approdare alla convinzione che la Terra sia un unico organismo vivente chiamato Gaia». Altri ancora si soffermerebbero sul suo ateismo filosofico dato che l’editorialista di Repubblica sostiene che i miracoli, compresi quelli evangelici, non sono opera di Dio ma «sorgono dal basso, dall’energia della mente umana».

In realtà quel che principalmente manca a Mancuso è proprio la fede cattolica, non aderendo a nessun fondamento del cattolicesimo (dal peccato originale al principio di autorità della Chiesa e della lettera biblica, fino alla negazione di «circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica» come ha scritto La Civiltà Cattolica). In secondo luogo manca a Mancuso la capacità di essere teologo, come ha spiegato il teologo e filosofo Antonio Livi: «è teologo nel senso che insegna Teologia ma l’effettivo contenuto e l’impianto metodologico» del suo pensiero «sono in netta contraddizione con l’idea stessa di teologia».

Un esempio è il suo ultimo articolo/relazione intitolato “Cosa manca alle religioni per accettare l’omosessualità” nel quale ha tentato di confutare gli argomenti delle religioni contrari ai comportamenti omosessuali. Un tentativo non riuscito, nel quale in realtà si è continuamente confuso tra persone omosessuali, inclinazione omosessuale e comportamento omosessuale. Prendiamo in considerazione la sua obiezione alla posizione della Chiesa cattolica: «In ambito cristiano gli argomenti contro l’amore omosessuale sono due: la Bibbia e la natura. Il primo si basa su alcuni testi biblici che condannano esplicitamente l’omosessualità, in particolare Levitico 18,22-23 e 1Corinzi 6,9-10. L’argomento scritturistico è molto debole, non solo perché Gesù non ha detto una sola parola al riguardo, ma soprattutto perché nella Bibbia si trovano testi di ogni tipo, tra cui alcuni oggi avvertiti come eticamente insostenibili. I testi biblici che condannano le persone omosessuali io ritengo siano da collocare tra questi, accanto a quelli che incitano alla violenza o che sostengono la subordinazione della donna. E in quanto tali sono da superare».

L’obiezione del teologo di Carate Brianza è molto debole: mentre i padri della Chiesa (partendo già dall’apostolo San Paolo) non hanno dato applicazione letterale alle immagini violente della Bibbia, mentre hanno progressivamente abbandonato un giudizio negativo sulla donna frutto della mentalità dell’antichità (extracristiana), non hanno invece mai attenuato la forte condanna dell’Antico Testamento verso i comportamenti omosessuali. C’è dunque un giudizio negativo continuo ed ininterrotto nella storia della Chiesa sull’omosessualità e non sarà certo il teologo di Repubblica ad interromperlo. Tanto meno va preso sul serio quando si erge a giudice universale su ciò che andrebbe superato o meno degli scritti biblici. Per quanto riguarda invece l’obiezione rispetto alla non menzione di Gesù, invece, ricordiamo che il Messia non parlò mai nemmeno contro poligamia e incesto, non condannò mai la schiavitù, la massoneria o l’uccisione deliberata degli animali ecc. Questo ovviamente non comporta che i cattolici debbano mettere in pratica questi comportamenti.

Passando al secondo argomento contro cui cerca di opporsi, ha affermato: «c’è un imprescindibile dato naturale che si impone alla coscienza al punto da diventare legge, legge naturale, il quale mostra che il maschio cerca la femmina e la femmina cerca il maschio, sicché ogni altra ricerca di affettività è da considerarsi innaturale. Personalmente non ho dubbi sul fatto che la relazione fisiologicamente corretta sia la complementarità dei sessi maschile e femminile, vi è l’attestazione della natura al riguardo, tutti noi siamo venuti al mondo così. Neppure vi sono dubbi però che anche il fenomeno omosessualità in natura si dà e si è sempre dato. Occorre quindi tenere insieme i due dati: una fisiologia di fondo e una variante rispetto a essa. Come definire tale variante? Le interpretazioni tradizionali di malattia o peccato non sono più convincenti: l’omosessualità non è una malattia da cui si possa guarire, né è un peccato a cui si accondiscende deliberatamente. Come interpretare allora tale variante: è un handicap, una ricchezza, o semplicemente un’altra versione della normalità? Questo lo deve stabilire per se stesso ogni omosessuale. Quanto io posso affermare è che questo stato si impone al soggetto, non è oggetto di scelta, e quindi si tratta di un fenomeno naturale. E con ciò anche l’argomento contro l’amore omosessuale basato sulla natura viene a cadere».

Ecco la confusione di Mancuso: è partito parlando di “ricerca dell’affettività”, dunque di comportamento omosessuale, ed è finito parlando di omosessualità come inclinazione che non è frutto di una scelta. Ha mischiato i piani probabilmente non conoscendo nemmeno la posizione della Chiesa: è vero che l’omosessualità è un’inclinazione della persona ma non è affatto ritenuta un peccato dalla Chiesa. Il problema sono invece i comportamenti omosessuali, quelli sì frutto di una scelta, e sono essi ad essere ritenuti un disordine affettivo dalla Chiesa, un’esplicita contraddizione tra l’orientamento fisiologico/anatomico della propria corporeità e la propria psicologia. Un peccato, cioè un inciampo al bene dell’uomo, vivere con questa dicotomia interna è un ostacolo alla propria realizzazione. Banale anche l’argomentazione dell’ex prete brianzolo sul fatto che l’omosessualità è presente in natura e dunque sarebbe una variante naturale dell’ordinario: in natura esistono anche un’infinità di inclinazioni dannose, disturbi e perversioni (anche sessuali) e non certo per il fatto che esistano debbono essere ritenute varianti naturali e/o equivalenti dell’ordinario.

La conclusione di Mancuso è la «piena integrazione sociale di ogni essere umano a prescindere dagli orientamenti sessuali. Accettare una persona significa accettarla anche nel suo orientamento omosessuale. Non si può dire, come fa la dottrina cattolica attuale, di voler accettare le persone ma non il loro orientamento affettivo e sessuale, perché una persona è anche la sua affettività e la sua sessualità». Ancora una volta Mancuso si confonde: la Chiesa accoglie qualunque persona con orientamento omosessuale, che compia atti omosessuali o meno. Il comportamento omosessuale, tuttavia, lo considera un peccato e invita il soggetto all’astinenza per un cammino ordinato con la sua vera identità, proposta accolta da tanti omosessuali che infatti hanno scoperto così la loro felicità (si veda, ad esempio, la testimonianza di Philippe Ariño).

Nessuna confutazione dunque, anche perché la posizione cristiana è il rispetto della volontà Dio nel crearci maschi e femmine e di donare all’uomo la compagnia della donna, e alla donna la compagnia dell’uomo perché fossero una cosa sola nel cammino della vita. Come ha spiegato Papa Francesco, «la Chiesa offre una concezione della famiglia, che è quella del Libro della Genesi, dell’unità nella differenza tra uomo e donna, e della sua fecondità». In ogni caso non ci aspettavamo poi molto da Vito Mancuso. Se un teologo è colui che è capace di «mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione», secondo la definizione data recentemente da Benedetto XVI, allora hanno ragione tutti coloro che rifiutano di riconoscerlo come tale.

La redazione

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Luzzatto e Prosperi non si arrendono: «la Sindone è un falso, capito? Un falso!»

SindoneLo ripetiamo spesso: gli unici liberi pensatori sono coloro che non sono affatto obbligati a credere ai miracoli, perché la loro fede non si basa su alcun prodigio, su alcuna apparizione, su alcuna guarigione miracolosa. Al contrario, chi non crede in Dio è obbligato a negare a prescindere ogni miracolo, non può concedere nulla ma ha bisogno di smentire sempre tutto altrimenti sarebbe costretto a cambiamenti esistenziali troppo sconvolgenti da accettare.

Per chi desidera un esempio concreto potrebbe leggere il divertente articolo contro la Sindone di Sergio Luzzatto, laicissimo docente di Storia moderna a Torino. E’ talmente alto il fastidio verso il sacro telo che non c’è spazio per alcuna prudenza: «è un falso», si legge già alla prima riga. «Basta. La verità sulla Sindone esiste, non c’è più alcun dubbio né alcun mistero. La Sindone è una fabbricazione medievale, è un finto sudario del I secolo d.C. approntato da un qualche falsario in una data compresa fra la metà del Duecento e la metà del Trecento». Più odio invece traspare nell’articolo anti-sindone di qualche giorno dopo dello storico (in pensione) Adriano Prosperi, secondo cui la Sindone è «un falso che trionfa col regno dei Savoia, li accompagna sul trono d’Italia fino al termine inglorioso del loro regno e si trasferisce poi nelle mani della curia di Torino e del Vaticano per la felicità di un popolo di feticisti».

Su cosa basano i due storici anticlericali la loro fiera sicurezza? Entrambi si appoggiano all’ultimo libro di Andrea Nicolotti, assegnista presso l’Università di Torino, anch’egli noto avversario dell’autenticità della Sindone. Eppure le tesi storiche avanzate da Nicolotti sono note da anni e decisamente scarse, alle quali oltretutto è stato più volte risposto in altrettanti libri. L’argomento principale di Nicolotti è l’opinione di un vescovo francese del 1389, Pierre d’Arcis-sur-Aube, secondo cui a Troyes ci sarebbe «una stoffa raffigurata con artifizio, su cui in modo abile è stata raffigurata l’immagine duplice di un uomo», che viene spacciata come quella che avvolte il corpo di Gesù Cristo dopo la crocifissione. Secondo il vescovo francese «quello in realtà non poteva essere il sudario del Signore, dal momento che il Santo Vangelo non fa alcuna menzione di un’impressione di tal fatta, mentre invece, se fosse vero, non è verosimile che sia stato taciuto od omesso dai santi evangelisti, né che sia stato nascosto od occultato fino a quel tempo». Tale vescovo avrebbe anche riferito che in passato un artista avrebbe ammesso di esserne stato l’autore, ovviamente rigorosamente anonimo e ovviamente senza spiegare come avrebbe fatto.

Tutto qui, Nicolotti crede all’opinione di un vescovo scettico del 1300. Eppure, è fin troppo facile ricordare che nel 1300 nessuno poteva sapere che l’immagine sindonica avrebbe manifestato tutta la sua incredibilità soltanto diversi secoli dopo grazie all’avvento della scienza moderna: l’immagine si comporta infatti come un negativo fotografico e contiene informazioni tridimensionali del corpo, caratteristiche eccezionali ma invisibili a occhio nudo. Se il vescovo francese avesse avuto modo di saperlo certamente non solo non avrebbe capito nulla -dato che non esisteva ancora né il concetto di negativo fotografico né la possibilità di creare immagini su stoffe con caratteristiche tridimensionali- ma sarebbe stato decisamente più cauto nelle sue affermazioni. Come ha spiegato mons. Giuseppe Ghiberti, presidente onorario della Commissione diocesana per la Sindone, proprio in risposta a Luzzatto, «una cosa però è ormai acquisita: l’immagine non è frutto di un intervento pittorico. Su questo punto la discussione dovrebbe dirsi chiusa e la letteratura è ormai abbondante. Le conseguenze sono importanti e orientative: non si potranno prendere in considerazione ipotesi che si muovano nel contesto di una origine pittorica. È la ragione che sottrae i presupposti alla diatriba sorta nel secolo XIV tra i canonici di Lirey, che custodivano ed esponevano la Sindone, e il vescovo di quella diocesi, Pierre d’Arcis. Il fatto che tale vescovo, per comprovare l’origine dolosa dell’immagine sul telo, affermasse che un suo predecessore ne avesse individuato l’autore, senza che peraltro venga fornito alcun dato per identificarlo, fa solo pensare o che si trattasse di un’altra realtà “sindonica” o che l’inganno stesse dalla parte degli informatori del vescovo. Su questo punto è possibile affermare che la ricerca scientifica ha detto una parola definitiva». E’ la scienza che ha l’ultima parola in questo caso, non la storia.

Anche l’obiezione che le Scritture non parlano dell’immagine sindonica è stata spiegata dagli scienziati moderni: i ricercatori dell’ENEA di Frascati hanno realizzato un’immagine similsindonica irraggiando un telo di lino con luce UV e VUV, l’immagine apparsa è simile a quella sacro lino anche se ancora non è possibile riprodurne tutte le incredibili proprietà (non riescono i laboratori di fisica oggi, figuriamoci gli artisti medievali). In ogni caso è stato rilevato che la luce UV e VUV è in grado di generare una colorazione invisibile, che appare soltanto dopo invecchiamento del tessuto: «Il processo di invecchiamento può provocare una colorazione dei fili nella sola area irraggiata dalla luce laser anche quando non appare nessuna colorazione subito dopo l’irraggiamento. In altre parole, è possibile ottenere una colorazione latente, che si manifesta uno o più anni dopo l’irraggiamento», ci ha spiegato il fisico Paolo Di Lazzaro. Se dunque si assume che la Resurrezione di Cristo abbia prodotto quell’esplosione di energia tale da irraggiare le fibre del tessuto, l’immagine sarebbe apparsa soltanto tempo dopo grazie al processo di invecchiamento del tessuto (andando direttamente a sfidare la cultura scientista del XX e XXI secolo). Dunque per questo, probabilmente (risposte certe non ce ne sono, a parte quelle degli scientisti), chi entrò nel sepolcro vuoto non si accorse di nulla.

Il secondo argomento, prevedibile, è la radiodatazione al carbonio del 1988 che stabilì l’origine medievale della Sindone. Peccato che più nessuno crede all’autenticità di questo test, e non soltanto perché il campione prelevato fu quello sull’angolo maggiormente contaminato. A prendere le distanze dal responso sono stati Harry Gove, il coordinatore degli scienziati per la datazione della Sindone (che ha cambiato idea mostrando in uno studio scientifico seri dubbi), il chimico Raymond N. Rogers, tra i maggiori esperti a livello internazionale in analisi termica, il responsabile di uno dei laboratori in cui è stata realizzata la datazione, Christopher Ramsey di Oxford, che ha affermato in un comunicato: «Ci sono un sacco di altre prove che suggeriscono a molti che la Sindone è più vecchia della data rilevata al radiocarbonio». Andrebbe citata anche la relazione della Società Italiana di Statistica, con la quale sono stati rilevati errori di calcolo e la fraudolenta modificazione di alcuni dati per arrivare al livello di attendibilità dall’1 al 5%, ovvero la soglia minima per poter presentare l’esame scientificamente. Un recente documentarioLa notte della Sindone, ha anche rivelato uno strano giro di denaro e numerose anomalie dietro l’operazione del 1988.

Queste sarebbero le due prove “definitive” che galvanizzano Prosperi ad insultare tutti i pellegrini che si recano a Torino (Papa Francesco compreso) e basterebbero per Luzzatto a smentire la «fucina di assurdità “autenticiste” non si sa se più esilaranti o più inquietanti». Su Avvenire giustamente hanno commentato: «Sergio Luzzatto, “lanciato” come sempre superbamente cellofanato nelle sue certezze di bronzo. Ma nelle 4 colonne seguenti, 200 righe e circa 8.000 battute, a giustificare la tesi del libro e la sua fede di recensore non trovi alcunché che giustifichi la tesi del falso. «Ma perché “falso”?» Perché è un falso!».

Come detto inizialmente comprendiamo il bisogno di Prosperi e Luzzatto di affrettarsi in questi giudizi perentori, non potrebbero fare altrimenti. Lo scettico di professione è costretto dal dogma a negare ad oltranza, senza accorgersi di avvallare tesi imbarazzanti: bisognerebbe infatti ricordare ai tre storici che se davvero credono in quello che affermano allora dovrebbero coerentemente iniziare ad insegnare nei loro corsi di storia che i principi della fotografia non sono nati nel 1800 ma ben cinquecento anni prima, inventati dal falsario della Sindone. Un artista anonimo, sparito nel nulla, talmente geniale che avrebbe inventato la fotografia (conoscendo la differenza tra immagine positiva e negativa), appunto, il microscopio (indispensabile per realizzare le micro-caratteristiche sindoniche), la possibilità di creare immagini tridimensionali su un tessuto invisibili a occhio nudo e irriproducibili con la moderna tecnologia e tante altre capacità e conoscenze impossibili per l’epoca storica medioevale (ad esempio la differenza tra sangue venoso e sangue arterioso ecc.). Tenendo tutto nascosto, ovviamente, e utilizzando il suo incredibile genio per produrre soltanto la Sindone (non esiste infatti alcun reperto neanche lontanamente simile).

Questo è ciò in cui credono Luzzatto e Prosperi inspirati da Nicolotti. Chi è che poco sopra parlava di “assurdità esilaranti”?

La redazione

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La cosmologa Wickman: «vi spiego perché la scienza moderna è God-friendly»

God e big bangSe qualcuno è interessato ad un bel libro in lingua inglese consigliamo l’ultimo lavoro della prof.ssa Leslie Wickman, astrofisico della NASA e direttore del Center for Research in Science presso la Azusa Pacific University. Il libro si intitola God of the Big Bang: How Modern Science Affirms the Creator (Worthy Publishing, 2015).

Dopo un decennio di scatenate pubblicazioni antiteiste, il mondo scientifico è tornato a riflettere seriamente delle implicazioni filosofiche e teologiche delle scoperte scientifiche. Il libro di Wickman è proprio un approfondimento sul fascino verso il creato offerto dalla scienza negli occhi di uno scienziato credente, che parte da questa affermazione: «Dal momento che Dio si rivela sia nei testi sacri che nella natura, essi non possono logicamente essere in contraddizione tra loro. Quindi la chiave per una più piena comprensione di chi è Dio sta nell’osservare come il messaggio della Scrittura e l’evidenza della natura si incastrano e si integrano».

In un’intervista recente l’analisi della realtà del dibattito pubblico che offre è lucida: «L’illusione di un conflitto tra scienza e religione può emergere solo a causa di una conoscenza incompleta ed errata delle Scritture o dei fatti della natura, o solo una generale mancanza di comprensione di come le due aree si integrano. L’illusione di un conflitto tra scienza e religione sembra essere perpetuata soprattutto dai fondamentalisti agli estremi poli di questa finestra di dialogo. Queste due posizioni estreme danno luogo ad un conflitto apparente tra scienza e religione, ma il vero conflitto è fra “scientismo” (una combinazione di scienza naturale e una visione del mondo secolare), e “creazionismo” (una combinazione di visione cristiana del mondo e un severo letteralismo biblico). Ma la scienza può essere praticata con successo senza una visione del mondo secolare, così come il cristianesimo può essere fedelmente praticato senza un’interpretazione della creazione in 6 giorni».

Dal punto di vista cosmologico ci sono alcuni argomenti che ben si integrano alla fede cristiana, «il modello del Big Bang dell’universo è molto più God-friendly rispetto al modello popolare prima di esso (il modello dello stato stazionario). Il Big Bang afferma che c’è stato un inizio per l’universo e, per effetto della logica, un inizio richiede una causa o un principio. Inoltre, contrariamente all’opinione popolare, il Big Bang non fu un’esplosione caotica ma piuttosto un evento finemente sintonizzato molto altamente ordinato».

Un secondo argomento interessante, anch’esso emerso grazie alla scienza moderna, è che «l’universo mostra un lungo e crescente elenco di caratteristiche che devono essere esattamente come sono per sostenere la complessità della vita, suggerendo fortemente che vi è una certa intelligenza creativa dietro tutto questo». E’ ciò che viene chiamato “fine tuning” o “regolazione fine” o principio antropico, l’evidenza cosmologica che ha portato alla conversione al deismo, ad esempio, il celebre fisico e divulgatore scientifico inglese Paul Davies.

Molti scettici obiettano all’argomento del “fine tuning” la tesi del Multiverso, ovvero l’esistenza di un innumerevole numero di universi rendendo molto meno speciale il nostro e il pianeta su cui viviamo. Ma, come ha spiegato il prof. Elio Sindoni, ordinario di Fisica Generale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca: «il principio antropico non è stato enunciato con intenti religiosi ma puramente scientifici. Contro di esso si pone la teoria del multiverso, un’ipotesi affascinante benché impossibile da confermare sperimentalmente, quindi inaccettabile come confutazione di questo principio, basato, comunque lo si voglia interpretare, su dati fisici» (E. Sindoni, Siamo soli nell’universo?, Editrice San Raffaele 2011, p. 141).

Sarebbe bello comunque un confronto serio su questo ma l’ideologia del creazionismo americano (e l’ideologia del naturalismo filosofico) infuoca il dialogo e svia l’attenzione. Come ha spiegato la prof.ssa Wickman «la Bibbia non è mai stata concepita per essere un libro di scienza, il suo messaggio è teologico. Gli scrittori hanno usato la scienza antica accettata dai loro contemporanei per descrivere la natura, altrimenti il loro messaggio sarebbe stato incomprensibile per coloro a cui si rivolgevano».

La redazione

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La testimonianza di Denzel Washington: «quel che ho avuto lo devo a Dio»

Denzel Washington Visits "Late Show With David Letterman"Bella testimonianza quella del celebre attore e regista americano Denzel Washington il 2 maggio scorso, in occasione della cerimonia di laurea presso la Dillard University di New Orleans (ateneo tradizionalmente legato alla comunità nera).

Washington, certamente tra i migliori volti del grande schermo degli ultimi vent’anni, ha scelto di motivare i neolaureati ad una religiosità autentica, a «mettere Dio al primo posto in tutto», a «inginocchiarsi e ringraziarLo» per quello che hanno ricevuto. L’attore, 60 anni, vincitore di due premi Oscar (nel 1989 e nel 2001) è membro di spicco della principale comunità pentecostale del paese. Si è sposato nel 1983, ha quattro figli e occasionalmente ha ammesso di aver pensato a diventare un predicatore, come lo era suo padre. In un’intervista ha detto di leggere quotidianamente la Bibbia.

Dopo alcune battute iniziali (qui il video dell’evento) è andato subito al sodo: «avrò solo due cose da dirvi. Tutto ciò che si vede in me, tutto quello che ho raggiunto, quello che credo di avere, tutto quello che ho avuto è per grazia di Dio. E’ un dono». «Non sempre Gli sono stato fedele», ha proseguito, «ma Lui mi è sempre stato fedele».

Nell’arido panorama mediatico non c’è spazio solitamente per posizioni così profonde. Per questo ci è sembrato giusto segnalarlo.

La redazione

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