Il card. Camillo Ruini: «per criticare Francesco bisogna essere ciechi»

Camillo Ruini«Bisogna essere ciechi per non vedere l’enorme bene che papa Francesco sta facendo alla Chiesa e alla diffusione del Vangelo». A dirlo in un’intervista è il card. Camillo Ruini, leader della “cordata conservatrice” in Curia, secondo le superficiali etichette mediatiche.

A chi sta dando del “cieco” il grande collaboratore di Papa Wojtyla e di Benedetto XVI? Ai cosiddetti stalker di Papa Francesco, il gruppetto di cattolici («si professano cattolici», direbbe il Papa) che da due anni ha intrapreso una battaglia quotidiana contro il Pontefice, minacciando scismi, annunciando catastrofi, recitando l’Apocalisse, coinvolgendo la massoneria, sbrodolando fiumi di profezie dell’Antico Testamento, sforzandosi di interpretare messaggi di qualche mistico o mistica piegandoli senza pietà alla realtà attuale. Molti li definiscono “tradizionalisti”, noi preferiamo “socciani”, in onore del loro “riferimento spirituale” Antonio Socci.

Giusto qualche esempio. La riflessione più matura dell’ultimo periodo del giornalista di Libero (quotidiano del famoso titolo ben poco evangelico “Bastardi islamici”, da cui Socci non ha ancora preso le distanze) è stata sciorinare un lenzuolo di profezie, tagliandole e incollandole a piacere le une alle altre per sostenere che l’Islam distruggerà Roma e il Vaticano. Una performance onestamente imbarazzante, malamente derisa dai suoi colleghi giornalisti (anche qui). Dello stesso livello l’articolo di due giorni fa dove ha messo in bocca a Francesco una frase virgolettata che non ha mai detto: «La Chiesa non adori la “santa tangente”». Così lo ha accusato di «sputtanare pubblicamente» vescovi e cardinali di corruzione, sospettandoli di pagare tangenti. Lo avrebbe fatto, secondo l’intellettuale di Libero perché «vuole vendicarsi di essere stato messo in minoranza in ben due Sinodi e non aver potuto imporre» la comunione ai divorziati e le nozze gay. «Così adesso la fa pagare al mondo ecclesiastico». Ognuno può percepire da solo il livello delle critiche che deve subire il Papa, acriticamente riprese dai socciani su Facebook. Se si legge il testo dell’omeliail Papa mette semplicemente in guardia la Chiesa a non cadere nella mondanità, cioè nel fascino del potere e del denaro, ricordando quando gli scribi e i farisei vennero redarguiti da Gesù perché adoravano la “santa tangente”.

Sintomatico il pensiero di chi osserva tutto questo dall’esterno, come Giuseppe Caldarola, ex direttore dell’Unità: «Sono abbastanza stupito e scandalizzato dal modo in cui ferventi cattolici trattano papa Francesco. Chi ha la ventura e la pazienza di leggersi le omelie su “Libero” di Antonio Socci, ispirato, e sempre sudato, giornalista diventato dirigente Rai nei primi anni del centrodestra al potere, scoprirà che siamo passati, nel giro di pochi mesi, da una avversione quasi epidermica verso il papa argentino all’organizzazione, ovvero al tentativo di organizzare un movimento anti-papale. Quel che il suo linguaggio, in politica diremmo “stalinista”, sembra evocare è uno scisma della “parte cattolica” contro la “parte non cattolica”. Uomini e donne che invitano i fedeli alla dottrina e all’obbedienza si mettono alla testa di una rivolta che dovrebbe concludersi con la cacciata dell’infedele, in questo caso il buon Francesco».

Eppure molte delle persone che i socciani chiamano abitualmente in causa per contrapporli a Francesco sono i primi sostenitori del suo pontificato. L’ultimo esempio è proprio quello del card. Camillo Ruini«Non ho difficoltà a riconoscere che tra papa Francesco e i suoi predecessori più vicini ci sono differenze, anche notevoli», ha affermato recentemente. «Io ho collaborato per vent’anni con Giovanni Paolo II, poi più brevemente con papa Benedetto: è naturale che condivida la loro sensibilità. Ma vorrei aggiungere alcune cose. Gli elementi di continuità sono molto più grandi e importanti delle differenze. E fin da quando ero uno studente liceale ho imparato a vedere nel Papa prima la missione di successore di Pietro, e solo dopo la singola persona; e ad aderire con il cuore, oltre che con le parole e le azioni, al Papa così inteso. Quando Giovanni XXIII è succeduto a Pio XII, i cambiamenti non sono stati meno grandi; ma già allora il mio atteggiamento fu questo. Bisogna essere ciechi per non vedere l’enorme bene che papa Francesco sta facendo alla Chiesa e alla diffusione del Vangelo».

E’ la testimonianza di un vero cattolico, che non pone i suoi pensieri e i suoi ragionamenti prima della fede, della fiducia nel successore di Pietro, che prega di riuscire a chiarire gli eventuali dubbi e perplessità che ha, senza dare scandalo e minare la fede altrui. Il card. Ruini, inoltre, ha condiviso apertamente il documento di riforma del processo canonico sulle dichiarazioni di nullità del matrimonio presentato da Papa Francesco, affermando che la «decisione di papa Francesco, che molti di noi —me compreso —auspicavano, non ha niente a che fare con» il “divorzio cattolico”, come invece sostenuto da alcuni antipapisti.

 

Ricordiamo anche le parole di Benedetto XVI («Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiere»), oppure gli interventi pubblici (almeno tre) del segretario personale del Papa emerito, mons. Georg Gänswein, a sostegno di Papa Francesco e contro i suoi critici (chi dubita di Bergoglio, ha affermato «ha poco senso della Chiesa»). Ricordiamo anche l’intervento del ratzingeriano Vittorio Messori, quando ricordò che -anche in presenza di legittime perplessità- «capo unico e vero della Chiesa è quel Cristo onnipotente e onnisciente che sa un po’ meglio di noi quale sia la scelta migliore, quanto al suo temporaneo rappresentante terreno. E a chi volesse giudicare, non dice nulla l’approvazione piena, più volte ripetuta – a voce e per iscritto – dell’attività di Francesco da parte di quel “Papa emerito” pur così diverso per stile, per formazione, per programma stesso?». Lo stesso nuovo pupillo dei socciani, il guineano card. Robert Sarah (la cui caratteristica principale, secondo Antonio Socci, è «l’assoluta fedeltà alla dottrina della Chiesa»), ha affermato: «cosa pensare di un figlio o di una figlia che critica pubblicamente il padre o la madre? Come potrebbe la gente rispettare quella persona? Il Papa è nostro padre. Gli dobbiamo rispetto, affetto e fiducia (anche se le critiche non sembrano dargli fastidio). Per via di certi scritti o di certe dichiarazioni, alcuni potrebbero avere l’impressione che egli potrebbe non rispettare la dottrina. Personalmente, ho piena fiducia in lui ed esorto ogni cristiano a fare lo stesso». Proprio ieri il card. Sarah, presentando il suo bellissimo libro “Dio o niente” ha parlato del prossimo viaggio di Francesco in Uganda: «la sua visita sarà un incoraggiamento per tutta l’Africa a restare fedele a Cristo».

La redazione

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Il fisico Roberto Cingolani: «se penso all’Universo annuso la trascendenza»

Roberto CingolaniSegnaliamo una bella intervista del giugno scorso a Roberto Cingolani, fisico italiano e direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT).

Il noto scienziato si è soffermato sui contenuti dell’enciclica di Francesco, “Laudato sì”, nella quale il Papa ha riflettuto anche sul ruolo della scienza e della tecnologia, nonché di argomenti come il clima, l’ecologia e l’inquinamento che rovinano la Creazione di Dio. «Chi trova strano che un Papa parli di scienza non ha letto l’enciclica, perché io, al contrario, vi ho riscontrato un atteggiamento molto scientifico», ha spiegato Cingolani. Nemmeno «vedo un atto d’accusa in quanto l’obiettivo della scienza non era la deriva che il Papa descrive e che è sotto gli occhi di tutti. Semmai, l’accusa ricade sullo sciagurato uso che l’uomo fa delle conoscenze scientifiche e sulla mancanza di una cultura della sostenibilità».

C’è spazio anche a una riflessione più personale da parte del fisico italiano, autore del recente libro Umani e umanoidi. Vivere con i robot (Il Mulino 2015). «Io non ho la grande fede del Papa, ma il mio concetto di trascendenza è quello del disagio dell’ignoranza: cioè sentirsi impotentemente ignoranti di fronte a misteri che sono fuori dalla portata del nostro cervello e rispetto ai quali ciascuno trova il suo disegno del divino. Io lo trovo in questo limite, che, beninteso, è una sconfitta per chi come me crede che tutto sia nella conoscenza. Come nanotecnologo mi impressiona l’idea di un Architetto che con sei atomi ha fatto tutto quello che c’è di organico e di biologico: io, lei, un mobile, un cavallo… cambia solo la disposizione nello spazio di questi atomi. Chi l’ha fatto era un genio di portata illimitata. Di fronte a questa trascendo. Se poi penso all’universo devo accettare l’esistenza di un infinito insondabile o di un nulla – pre Big Bang – altrettanto irraggiungibile dalla mente. E mi trovo a trascendere anche lì. In quei momenti annuso la trascendenza».

E’ sempre bello poter sfatare il mito -nato nell’illuminismo scientista- degli scienziati asettici, privi di stupore e incapaci o disinteressati a riflessioni sul senso della vita e su Dio. Rimaniamo anche colpiti da come tantissimi scienziati, impegnati seriamente nel loro lavoro, “annusino la trascendenza” anche in assenza di una fede personale (la quale non nasce da riflessioni o studi ma da un incontro, un’esperienza personale). Fu anche l’esperienza di Albert Einstein che più volte si accorse, studiando l’universo, di non poter negare la convinzione di uno «spirito immensamente superiore»: «La convinzione profondamente appassionante della presenza di un superiore potere razionale, che si rivela nell’incomprensibile universo, fonda la mia idea su Dio» (citato in Isaacson, “Einstein: His Life and Universe”, Simon e Schuster, pag. 27).

La redazione

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Curzio Maltese, il kompagno vuole il Vaticano povero ma intasca il doppio stipendio

Curzio MalteseI terribili attentati di Parigi hanno giustamente concentrato l’opinione pubblica su tematiche alte, come l’immigrazione, l’accoglienza, il rapporto con le religioni. Argomenti che però non interessano molto agli anticlericali di professione, come l’editorialista di Repubblica Curzio Maltese, il quale è subito tornato alla passione del moralizzatore dello Stato del Vaticano e delle sue spese.

In particolare il suo cavallo di battaglia riproposto oggi è l’attico del card. Bertone. Eppure l’ex segretario di Stato Vaticano ha più volte ribadito di aver ristrutturato l’appartamento (che non è suo) a sue spese, non possiede alcun terrazzo con vista San Pietro dato che è di proprietà dell’intero condominio, ha spiegato di vivere in un palazzo storico che ha necessariamente ha appartamenti grandi e antichi, di alloggiare in modo sobrio -come ha testimoniato anche un giornalista dell’Huffington Post– di abitare non da solo, ma con delle suore e una segretaria che lo aiutano nella scrittura della biografia degli ultimi Papa. Di aver concordato con Papa Francesco il tutto. Alla ristrutturazione dell’appartamento avrebbe contribuito anche il presidente della Fondazione Bambin Gesù, Giuseppe Profiti, il quale ha spiegato del progetto di marketing: aumentare le donazioni alla Fondazione, cosa che infatti si è verificata.

Sinceramente ci sembra che la vicenda del card. Bertone, ridimensionata nei suoi corretti confini, non sia così scandalosa da dovervi martellare fiumi di inchiostro per mesi, desta sicuramente perplessità ma lasciamo il populismo ad altri. E’ sinceramente più curiosa la morbosità degli anticlericali per questo argomento che non il contenuto in sé, sopratutto se usano il fantomatico “attico di Bertone” per invocare l’abolizione dell’8×1000 (ma cosa c’entra?), come ha fatto appunto Curzio Maltese.

Si, proprio lui. Noto al grande pubblico non certo per la sua decennale carriera giornalistica, di cui avremmo tutti fatto volentieri meno, ma per uno scoop di Dagospia del 2014: «Curzio Maltese, il Savonarola doc di Largo Fochetti non ci pensa a mettersi in aspettativa da “Repubblica” dopo l’elezione all’Europarlamento nella lista Tzipras, e intasca felice il doppio e ricco stipendio». Eh si, così è nata la vicenda del furbone in redazione.

Dal “para-guru” Maltese, come soprannominato dai media, sempre con il ditino alzato sui doppi incarichi e i conflitti d’interesse, ci si sarebbe aspettata «una sobria aspettativa che non faccia pensare che dietro la maschera del reporter d’assalto ci sia solo un furbacchione pronto ad arraffare il doppio stipendio. E tra il salvare la faccia e salvare il conto corrente, cosa pensate abbia fatto lo tsipriota Curzio Maltese?». Nonostante la redazione di “Repubblica” abbia cercato di allontanarlo, ovviamente il compagno comunista che predica la povertà s’è tenuto i diecimila euro che gli versa ogni mese “Repubblica” e anche i diecimila euro che gli bonifica ogni mese il Parlamento europeo. Ventimila euro al mese per scrivere contro le ricchezze del Vaticano. Oltretutto è stato pure criticato per il forte assenteismo all’Europarlamento, avendo presenziato soltanto un giorno (la Lista Tzipras è miseramente fallita dopo un solo anno di vita).

Maltese ha lasciato passare un po’ di tempo, ha fatto placare le acque e poi è tornato ad alzare il ditino sulla mancata coerenza (altrui), sulla necessaria sobrietà (altrui), sulla auspicabile povertà (rigorosamente altrui). Come è stato commentato a proposito della colossale prova di ipocrisia che lo ha eternamente segnato: «nulla di nuovo se non fosse che per anni, il buon Maltese, ha bacchettato cani e porci rinfacciando loro proprio questa discrasia, questo non far coincidere la propria condotta con l’interesse collettivo. Uno squilibrio che, da buon moralista, evidentemente poco avvezzo alle gioie e ai dolori del mondo, riteneva appartenere solo agli altri e non anche a se stesso».

La redazione

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I bambini religiosi sono meno generosi? Analisi critica di uno studio inaffidabile

bambini religiosiLe Scienze Sociali sono un campo estremamente complesso per via della immensità delle variabili presenti e dell’impossibilità di isolarle o spesso anche solo definirle. Per esempio, si può notare che in un gruppo di persone una caratteristica X è spesso associata ad una caratteristica Y: vuol dire che X può causare Y o viceversa? O c’è un fattore Z non ancora noto che può causare X e Y, se non un’immensa quantità di fattori Z che interagiscono in modi imprevedibili? O è, alla fine dei conti, solo un caso?

Rispondere a domande simili è spesso nei fatti impossibile, il ché porta chiunque voglia portare avanti con serietà la conoscenza umana in questi campi ad essere estremamente cauto nelle sue conclusioni. Naturalmente questo non accade se si vuole portare avanti una “propria agenda”. È il caso della ricerca The Negative Association between Religiousness and Children’s Altruism across the World, pubblicata su Current Biology (inspiegabilmente, visto che non tratta di Biologia). In base ad un paio di semplici esperimenti effettuati sui bambini e a dei questionari somministrati ai genitori, si conclude che -come riportato per esempio da La Stampa, Le Scienze e l’Huffinton Post, “la religiosità delle famiglie dei bambini è inversamente predittiva del loro altruismo e positivamente correlata con le loro tendenze punitive“.

 

Naturalmente si è verificata una corsa a condividere la “scoperta” da parte di personaggi anti-religiosi, commentando che è chiaro, loro lo sapevano già. Tuttavia se avessero effettivamente letto la ricerca avrebbero potuto notare almeno uno dei seguenti problemi, che di fatto la rende inaffidabile nelle conclusioni:

– I ricercatori hanno presentato ai bambini delle situazioni in cui una persona faceva del male ad un’altra, così la “durezza nel giudicare” è stata “misurata” in base a quanto negativa è stata la reazione dei bambini e quanto forte è stata la punizione da loro richiesta. I bambini cresciuti da famiglie religiose ceteris paribus reagivano peggio e richiedevano punizioni maggiori. Quindi…i bambini di famiglie religiose hanno un maggiore senso della giustizia? Sorprende invece notare come, ribaltando qualsiasi logica, nel sommario i ricercatori affermano che questo loro risultato contraddice il fatto che i genitori di famiglie più religiose ritengono che i loro bambini abbiano maggiore empatia e senso della giustizia.

– Quello che più ha fatto scalpore nei media e viene presentato dallo stesso titolo della pubblicazione è che i bambini da famiglie religiose sono meno altruisti! I ricercatori hanno definito “l’altruismo” facendo scegliere 10 figurine ad ogni bambino dicendo che, vista la mancanza di tempo per fare l’esperimento a tutti i compagni, poteva condividerne “segretamente” qualcuna mettendola in una busta. Il numero di figurine condivise è il punteggio di “Atruismo” (sic!). Tutto qui. Questa è la misura scientifica dell’Altruismo™.

– Nell’esperimento viene rilevata, assai più chiaramente rispetto agli effetti della “religiosità”, la maggiore propensione al dono di figurine nei bambini più grandi. Grande “altruismo” o probabile poco interesse dei dodicenni alla collezione di figurine? C’è anche chi le ha lasciate tutte: è un santo o, molto probabilmente, non era interessato granché?

– Molti hanno lodato il campione “numeroso” usato dallo studio: 1170 bambini. Eppure nell’analisi questi vanno divisi fra vari punteggi differenti di “religiosità” (o 3 principali denominazioni religiose), 6 città di nazioni molto diverse fra loro, un ampio spettro di età (5-12 anni, perché mai non studiare una singola età?) e vari livelli di educazione della madre (nell’articolo viene chiamato semplicemente SES familiare, Status Socio Economico, finché uno non legge nelle scritte in piccolo alla fine che invece si tratta solo di questo!). Il campione non sembra più così grande… Inoltre, persino nelle Supplemental Information non è possibile sapere come sia stato scelto il campione, se sia rappresentativo etc, il ché è un problema tutt’altro che banale (tutto lascia supporre che il campione non sia rappresentativo, visto che viene da una singola città per nazione “da scuole etnicamente/socialmente omogenee“. Questo è un problema perché facilità l’introduzione di forti bias nei dati.).

– All’infuori della scelta di sostituire il grado di istruzione materno allo status socio-economico, c’è un’importante variabile che i ricercatori non hanno controllato: il numero di fratelli. Come spiegato dal dr. Miceal Blume, studioso di Evolutionary Studies of Religiosity and Religions, è ben attestato che le famiglie religiose sono più numerose, quindi i bambini che provengono da esse considerano più spesso anche fratelli e sorelle nelle quote di figurine.

– Compare inoltre il noto problema del “misurare l’incommensurabile“, in cui la “religiosità” viene normalizzata su una scala numerica da -1 a +1 che combina arbitrariamente i risultati di 2 diversi questionari (“frequenza delle strutture religiose” vs “esperienza del divino”) per poi effettuare un’analisi lineare (il ché non può che spingere a chiedersi: la differenza fra una “religiosità” di 0 con una di 0.8 è davvero il doppio rispetto ad una 0.4 e l’opposto di una -0.8?). Oltretutto i ricercatori hanno preso i questionari da un articolo che avverte nel suo stesso abstract di non combinare i punteggi, ma analizzarli solo separatamente.

– Come breve nota tecnica, l’ipotesi di distribuzione gaussiana è stata usata a sproposito persino per variabili discrete (il numero di figurine lasciate).  Mancano punteggi di consistenza interna dei questionari, qualsiasi sorta di analisi non lineare (vedi sopra), e qualsivoglia tentativo di validare la regressione fatta con un’analisi dei residui. Gli autori cercano di convincere della predittività della “religiosità” rispetto alla condivisione di figurine mostrando un plot che non controlla su tutte le altre variabili, ergo è inutile anche nel contesto dello studio stesso. Così come appaiono due istogrammi anch’essi non controllati sulle altre variabili (figure 1,3,4).

 – Nonostante tutte queste analisi rilevino effetti della religiosità molto piccoli, i ricercatori enfatizzano questo dato ignorando la fondamentale massima statistica “correlazione non implica causalità”, parlando invece in termini causali, senza considerare i limiti della ricerca o interpretazioni alternative.

– Va anche osservato come il primo autore dello studio, il dr. Decety, abbia sentito l’impellente bisogno di commentare su Forbes cose come: “Non è che uno debba essere molto religioso per essere una buona persona. La laicità – ovvero avere le proprie regole basate sul pensiero razionale e sulla ragione, piuttosto che su libri sacri – è meglio per tutti. Più in generale, [questi risultati] mettono in dubbio l’idea che la religione sia vitale per lo sviluppo morale, supportando l’idea che la secolarizzazione del dibattito morale non ridurrà la bontà umana — infatti, farà proprio l’opposto.. C’è quindi da considerare anche un atteggiamento di mancata imparzialità e distacco.

 

Mentre questa ricerca ha avuto ampia diffusione, su quotidiani nazionali e social network, le analisi critiche, come questa, non hanno la possibilità di ottenere simile visibilità. Eppure sono numerose le evidenze che portano a concludere per l’inaffidabilità delle conclusioni offerte al pubblico. Purtroppo, anche i giornalisti avrebbero fatto bene a controllare invece di riportare ciecamente, ma il primo fallo è dei reviewer che hanno acconsentito alla pubblicazione. Ma ahimè accade questo e altro.

Lorenzo Barattini

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“Difenderemo i nostri valori”: ma il dogma laico non era il relativismo?

attentato parigi 
 
di Giovanni Maddalena*
*docente di Filosofia Teoretica presso l’Università del Molise
 
da Il Foglio, 15/11/15

 
“Difenderemo i nostri valori”. Così Hollande, così Obama, così Cameron. Renzi ha detto che vinceremo di sicuro, tanto questi valori sono buoni e giusti. Ma miei cari presidenti, quali valori?

È da quando ho cinque anni e ho cominciato ad andare a scuola che mi dicono che non esistono valori assoluti, che i valori sono solo prospettive, che il peggior crimine è pensare di mettere una maiuscola alla parola Verità, che non bisogna avere certezze ma coltivare dubbi, che le certezze sono sempre ideologie. E adesso, all’improvviso, scopriamo di avere valori assoluti con i quali fare una guerra? Se non avere dei valori è l’unica grande verità (che è assoluta ma si scrive senza maiuscola, chissà perché), non dovremmo convincere tutti? Non dovremmo aver già convinto quelli tra i terroristi che sono nati e cresciuti nelle nostre repubbliche, con tanto di educazione al dubbio?

Quali valori?, mi chiedo mentre cresce il nervoso per il mare di parole vuote che si contrappone a quella sete di vita assoluta dei ragazzi del Bataclan appesi alle finestre per non morire. Liberté, fraternité, égalité, ha detto Obama. E per spiegarlo meglio Valls, il primo ministro francese, ha specificato “libertà e diritti umani”. Già. Peccato che l’uguaglianza delle affermazioni e il diritto di sostenere qualsiasi cosa entrino in crisi non appena uno sostiene che mi vuole uccidere. Vale davvero lo stesso dell’affermazione della pace o della bontà? Può dirlo o non dirlo?

Più seriamente, un giornalista americano, Gareth Whittaker, ci ha detto che cosa sono questi valori: “godere della vita terrena in mille modi: una tazza di caffè profumato con un croissant imburrato, belle donne in vestiti corti che sorridono liberamente” e poi profumi, vino, “il diritto di non credere a nessuno dio” e di “flirtare, fumare, godere del sesso fuori dal matrimonio, fare vacanze, leggere libri, andare a scuola gratis”, eccetera. Non ha tutti i torti, ma se è così bisogna dirsi con chiarezza che stiamo parlando di difendere l’edonismo di una classe piccolo-medio-alto borghese e stiamo dicendo che questi piaceri sono i valori universali per i quali vivere e morire. Non è un po’ poco? Non c’era stato anche Marx in Europa, a insegnare la cecità delle universalizzazioni che ciascuna classe fa di se stessa? E soprattutto, ancora una volta, non dovremmo allora cercare di convincere questi signori dell’assoluta (sic) convenienza di questi nostri piaceri? Proviamo a riempirne le banlieues parigine, e quelle di tutto il mondo. Ma non ci abbiamo già provato senza molto successo? Non è proprio questo vuoto edonismo che ci rimproverano?

La terza via, signori presidenti, sarebbe forse tornare a pensare quali valori abbiamo davvero, da dove nascono i diritti umani e questa nostra passione per l’estetica e la cultura della vita, con tutti i piaceri inclusi. Forse sarebbe l’ora di riconsiderare davvero le radici dell’Europa di una Costituzione che non abbiamo mai voluto approvare: quelle greche e latine, quelle cristiane incredibilmente taciute e osteggiate, quelle della scienza, e anche quelle della rivoluzione francese. Di tutta questa storia forse occorre però cambiare la lettura scettica.

Vi proporrei quella del filosofo americano Peirce che sosteneva che la verità evidentemente c’è, anche se dobbiamo riconoscere che la limitatezza di ciò che conosciamo fa sì che sia parziale. Ma parziale non vuol dire arbitraria – non si possono dare tutte le interpretazioni di qualunque cosa e non sono tutte uguali – e, soprattutto, non vuol dire dubbia. Non facciamo finta di dubitare in filosofia (e in pedagogia, in arte, in politica) di ciò di cui non dubitiamo nei nostri cuori”, è una frase riassuntiva di Peirce che spinge a rispettare il senso comune di tanta gente normale che in queste ore ha soccorso chi scappava, individuando in fretta che cosa fosse umano e giusto, e che cosa non lo fosse. Forse così non consegneremo l’Europa a vecchi nazionalismi e nuovi populismi. E, contrariamente a quanto dice la bella e infausta Imagine di John Lennon che qualcuno ha suonato nei luoghi dei crimini, troveremo un motivo per valido per vivere e per morire, se necessario.

Non si può “difendere” nulla, né “vincere” nulla, senza che ciò per cui ci si deve battere valga la pena effettivamente, come contenuto, come concetti e come piacere. Soprattutto, senza che ciò per cui ci si batte riempia di contenuto pieno di vita le parole altrimenti vuote e retoriche, che dobbiamo presentare come risposta a quei ragazzi appesi dalle finestre del Bataclan.

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“Parrocchie da incubo”, il manuale da regalare al tuo parroco

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di Stefano Fontana*
*da La Nuova Bussola Quotidiana, 13/11/15

 

Don Andrea  Brugnoli è un sacerdote di Verona, parroco a San Zeno alla Zai. Da molto tempo ormai si è messo sulla strada del rinnovamento pastorale della Chiesa. Ha fondato le Sentinelle del Mattino e il Café teologico presente in altre diocesi e anche all’estero. E ha creato Una luce nella notte. Ha scritto libri sulla rivitalizzazione pastorale ed è stato invitato da varie Conferenze episcopali – dalla Spagna a Taiwan – a parlare ai preti di nuova evangelizzazione e pastorale giovanile.

Ora egli dà alle stampe un libro che ha chiamato nel sottotitolo Manuale per cambiare stile di Chiesa. Il titolo suona truce e terrificante: Parrocchie da incubo (Fede & Cultura 2015). Ma all’interno di terrificante non c’è nulla. Certamente non è un libro tenero, che accarezzi, il nostro don Andrea è deciso e tagliente nelle sue valutazioni e coraggioso e originale nelle proposte. Il suo motto è «o si cambia o si muore». Non apprezza le «nostre riunioni verbose» e i «nostri catechismi antropologici» che, secondo lui, «hanno formato ben pochi cristiani veri, testimoni impegnati a portare le persone in Paradiso».

Secondo don Andrea bisogna cambiare anche i luoghi delle nostre parrocchie. «La chiesa», dice, «è la casa di Dio e Lui solo deve parlare. Non di noi, delle nostre attività: la gente deve vedere che in chiesa si entra per dare gloria a Dio e a Dio solo» Ce l’ha, don Andrea, con le bacheche disordinate, le candele elettriche, i volantini e gli avvisi sparsi ovunque, con il Tabernacolo messo in disparte perché «dopo il Concilio, al posto di Gesù, si sono messi i preti con la loro sedia», lo «scempio»– come lui lo chiama –  dei due altari («mai una chiesa ha avuto due altari nello stesso presbiterio»), l’altare rivolto al popolo «così la liturgia si è ridotta da dialogo dell’uomo con Dio a un dialogo tra di noi», l’eliminazione della balaustra dove inginocchiarsi per la Comunione, le aule del catechismo sporche e disadorne, con sedie scomode.

Nella sua chiesa di San Zeno alla Zai a Verona – spiega don Andrea – la facciata è pulita, la bacheca ordinata e c’è solo una grande scritta: “Benvenuto a casa!”. In chiesa c’è sempre una musica di sottofondo in gregoriano, le candele sono di cera, al centro dell’altare c’è un grande crocefisso verso cui si rivolgono sia il celebrante sia i fedeli. Il Tabernacolo è posto al centro. Non è stata ripristinata la balaustra, ma viene data la possibilità di prendere la Comunione in ginocchio, con degli inginocchiatoi mobili, e il 95 per cento dei suoi fedeli fa così.  Don Andrea non è un patito della messa antica. Dedica un capitolo del libro alla Messa di Paolo VI, che è stata ed è la sua messa. Però auspica una ulteriore riforma liturgica che unifichi i due riti

La Chiesa ha come ultimo scopo – dice don Andrea – di dare gloria al Signore. Per fare questo ha un obiettivo interno: edificare i discepoli, ed uno esterno: evangelizzare quelli che non conoscono Gesù. Tutto deve essere orientato al grande mandato di fare discepoli. Si incontra Gesù tramite l’incontro con dei cristiani che lo hanno già incontrato, ossia con dei discepoli-missionari. Bisogna formare persone in grado di evangelizzare e per questo, dice don Andrea, ci vuole una “visione”. Quella che lui propone è «Risvegliamo la Chiesa!» e tutta la vita della parrocchia vi ruota attorno, perché la visione deve essere conosciuta da tutti ed espressa in modo conciso e chiaro come la destinazione sul display di un autobus.

La cosa principale è formare una équipe. Anche da zero se necessario, mentre la vita della parrocchia intanto procede. Sono le persone che fanno la differenza, non le attività. Si fanno le attività in base alle persone e non il contrario. Il cristiano modello oggi è il filantropo. Deve tornare a essere l’apostolo che evangelizza. «Vedo diocesi», scrive don Andrea, «dove si organizzano costosi festival, convegni su ogni argomento, assemblee dove il microfono viene dato ai pagani e nemici della Chiesa, presentati come profeti e maestri di quello che dobbiamo fare noi». Ecco che anche il catechismo «si limita a un blando richiamo ai valori antropologici e a un moralismo terzomondista che persino un extracomunitario troverebbe risibile e anti-storico».

A proposito di catechismo. Nel suo libro-manuale don Andrea si sofferma molto sul catechismo, sulla preparazione ai sacramenti, sulla liturgia. Il catechismo – dice – è fatto per chi ha già incontrato il Signore. La catechesi non è l’annuncio, viene dopo di esso. Prima di tutto bisogna suscitare l’atto iniziale di fede nei confronti di Gesù Salvatore. Bisogna pensare a fare il primo annuncio ai bambini e ai ragazzi, tenendo conto che il test per sapere se l’annuncio è arrivato a destinazione è vedere se il bambino (o adulto) adora Gesù, se si inginocchia davanti al Tabernacolo e Gli parla. Se questo c’è, allora la catechesi diventa un cammino di discepolato.

Don Andrea è anche contro la “pastorale del ricatto”, che è l’esatto opposto del primo annuncio: approfittare del fatto che i genitori vogliono battezzare il figlio per obbligarli a un certo numero di incontri. Anche qui: prima ci vuole la fede e la conversione, poi la Chiesa forma i suoi figli. Ci sono tanti tipi di parrocchie. C’è la Parrocchia Addams, dove tutto è in disordine e piuttosto lugubre; c’è la Parrocchia Social, brulicante di volontari, tutti con la barba, i sandali ai piedi e dove si fa un sacco di cose: lavoretti per il Terzo mondo, raccolte equosolidali, vendita di prodotti missionari; c’è la Parrocchia Milàn, dove i preti recitano la messa con l’i-Pad e si fanno progetti pastorali con organigrammi e votazioni in Consiglio pastorale; c’è la Parrocchia Asilo, dove si ospitano i bambini quando i genitori lavorano, si organizzano campi scuola e grest quando le scuole sono chiuse, si fanno feste di compleanno e si ospitano riunioni condominiali e comitati di quartiere.

Don Andrea cerca di costruire una parrocchia diversa. Il suo sogno lo esprime con chiarezza alla fine del libro: «Sogno una Chiesa tutta protesa a formare gli evangelizzatori. Dove tu vai a Messa una domenica e senti un’aria di famiglia; dove tutti si conoscono perché tutti condividono la passione per portare le persone all’incontro con Gesù e quelli che sono nuovi, lì per la prima volta, vengono accolti con un bel sorriso e comprendono subito che quella può essere la loro casa».

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Se il cristianesimo diventa la salvezza per marxisti e borghesi secolarizzati

Dello spirito liberoDello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (Il Saggiatore 2015). Così si intitola l’ultimo libro di Mario Tronti, noto filosofo e politico italiano, fondatore dell’operaismo teorico degli anni sessanta, membro del PCI fino a quando si distaccò dal pensiero di Antonio Gramsci, puntando ad un rinnovamento del marxismo tradizionale. Si riavvicinò al partito comunista nell’epoca di Enrico Berlinguer, divenendone membro del Comitato centrale.

Negli ultimi anni il filosofo marxista ha teorizzato la necessità di una teologia politica come forma di congiunzione fra gli insegnamenti del cattolicesimo romano e la teoria politica classica. Ha respinto il progressismo e la società borghese che lo vive, ma non sappiamo se a questo cambiamento è seguita una reale conversione: «Cari amici, care amiche, compagne e compagni», ha scritto a Natale 2013 ai membri della Fondazione Crs (Centro per la Riforma dello Stato) di cui è presidente, «come avrete notato anche negli anni precedenti, vi dico solo buon Natale, non anche buone feste, tanto meno felice anno nuovo. Considero queste due ultime espressioni, auguri borghesi. Il Natale, invece, il mistero del Dio incarnato, che rovesciò il mondo degli uomini, dal sotto al sopra e una volta per sempre, ci appartiene. Non è necessario credere, per appartenere all’Avvento». Il suo nome è stato citato durante il pontificato di Benedetto XVI tra i marxisti-ratzingeriani (Giuseppe Vacca e Pietro Barcellona gli altri due), autori di una denuncia dell’“emergenza antropologica” che rischia di affondare la nostra civiltà, individuando nel magistero della Chiesa il punto di resistenza più forte e profondo all’attuale “dittatura del relativismo” e della tecnocrazia, riconoscendo da un punto di vista laico che la Chiesa è depositaria di un sapere sull’uomo che salva la sua libertà, la sua dignità e la sua integralità dalla pretesa della tecnologia e della scienza su ciò che è umano.

Il suo ultimo libro, citato all’inizio, è stato recensito da Ernesto Galli della Loggia, storico italiano ed editorialista del Corriere della Sera, dalle posizioni politiche diametralmente differenti da quella di Tronti. Ed infatti ha mostrato di non concordare affatto con parecchie ricostruzione e tesi contenute nel libro, tuttavia ha scritto: «a parte le perduranti ingenuità della mitografia leninista, a parte tutte le ormai francamente insopportabili supponenze “rivoluzionarie” che le costellano, le pagine di Tronti esprimono al fondo qualcosa di profondamente vero: un disagio, un malessere, che ormai appaiono i tratti di un’intera fase storica. Quella che stiamo vivendo. Sopra le nostre società, infatti, la democrazia sembra avere steso una cappa di grigio buon senso, sembra ormai identificarsi con l’assenza di speranze, di ideali e di progetti forti, con una sorta di narcosi della mente e dello spirito che troppo spesso ci impedisce di vedere il male e l’ingiustizia che sono tra noi, e di chiamarli con il loro nome. Ma una fase storica che, proprio per questo, forse prepara un’inaspettata ripresa del pensiero antagonista, della divisione e dell’opposizione politiche oggi spente. E insieme prepara, forse, un ruolo nuovamente attivo del Cristianesimo sul piano sociale, una sua rinnovata capacità di richiamo. La storia non è finita, ogni partita può essere sempre riaperta».

Sia Tronti (marxista) che Galli della Loggia (anti-marxista) condividono la percezione di una «insofferenza che sta crescendo nelle società secolarizzate dell’Occidente per un modello di vita che, enfatizzando all’estremo tutti gli aspetti materiali dell’esistenza, facendo dell’economia e delle sue compatibilità un metro pressoché assoluto, relegando nell’insignificanza le grandi domande di senso, infligge quotidianamente ferite profonde a quella sostanza umana che ancora è la nostra. Ferite tanto più profonde in quanto non sembrano aver diritto ad alcuna adeguata rappresentazione pubblica. Certamente ha il forte valore di un sintomo la direzione verso cui Tronti spinge la sua ricerca di una possibile alternativa: […] verso una politica che si dimostri capace di accettare come sua parte essenziale la spiritualità. La spiritualità oggi, infatti, si presenterebbe come l’unico argine possibile alla “crescente volgarizzazione della vita”; di più: essa costituirebbe la sostanza per eccellenza di un vero e proprio “linguaggio della crisi”. Dove alla fine spiritualità significa null’altro che la religione, e per essere più chiari il Cristianesimo».

Secondo Tronti, infine, la contrapposizione tra cristianesimo e comunismo «”è stata una sciagura per la modernità: una differenza è stata trasformata in una incompatibilità”; e la colpa è stata del comunismo stesso, il quale invece di scegliere Feuerbach — come esso ha fatto seguendo Marx (il cui vero e massimo errore fu secondo Tronti quello di prevedere per l’appunto la fine della religione) — avrebbe piuttosto dovuto scegliere Kierkegaard. Sta di fatto che la libertà dal potere promessa dai liberali, leggiamo, non porterà mai alla libertà dello spirito, e dunque non sarà mai “vera libertà umana”. Solo la libertà del cristiano è, sì, “libertà dei moderni rispetto a quella degli antichi, ma, nel Moderno, è libertà radicale, dirompente degli equilibri dati, sovversiva dell’ordine costituito, libertà liberante l’umanità fin qui oppressa”».

La redazione

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Chiesa indietro di 200 anni? La risposta di Francesco: «non ci interessa adeguarci al mondo»

Francesco papa«Che la Chiesa sempre abbia l’identità disposta da Gesù Cristo; che tutti noi abbiamo l’identità che abbiamo ricevuto nel battesimo, e che questa identità per voler essere come tutti, per motivi di ‘normalità’, non venga buttata fuori». Queste le parole di ieri mattina del Santo Padre, durante l’omelia a Santa Marta, che rilevano ancora una volta l’adeguatezza del Pontefice nel mantenere la giusta rotta della Chiesa, emarginando contemporaneamente alcune correnti gnostiche che la stanno infestando, tra cui il progressismo-sessantottino e il tradizionalismo-socciano.

Leggendo queste parole ci è venuta subito in mente la famosa intervista al card. Carlo Maria Martini: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni». La sua critica fu sopratutto rivolta al non adeguamento al mondo della morale sessuale, «dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?», si chiese. Così come parlò delle “famiglie allargate” e dei divorziati: «La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?».

Il compianto cardinale fu un uomo di grande spessore intellettuale e morale e il suo pensiero fu giustamente oggetto di riflessione. A lui rispose il card. Camillo Ruini: «A mio parere, occorre distinguere due forme di distanza della Chiesa dal nostro tempo. Una è un vero ritardo, dovuto a limiti e peccati degli uomini di Chiesa, in particolare all’incapacità di vedere le opportunità che si aprono oggi per il Vangelo. L’altra distanza è molto diversa. È la distanza di Gesù Cristo e del suo Vangelo, e per conseguenza della Chiesa, rispetto a qualsiasi tempo, compreso il nostro ma anche quello in cui visse Gesù». Ci sembra una risposta corretta e adeguata.

Rispetto alla prima distanza, la persona di Papa Francesco è diventata certamente un antidoto al peccato e allo scandalo causato da molti sacerdoti. La Chiesa, nonostante venga scalfita mediaticamente quasi quotidianamente da notizie terribili che riguardano uomini di Chiesa, riesce comunque a mantenere una stima generale e un’autorità morale a livello mondiale. Questo è dovuto certamente al fatto che i sacerdoti e i vescovi con cui i fedeli hanno a che fare quotidianamente nella loro vita parrocchiale sono veri uomini di Dio, le notizie sui giornali di qualche mela marcia non riuscirà mai a mettere in difficoltà chi ha un’esperienza personale positiva. Inoltre, come dicevamo, anche chi non vive un’esperienza di fede riesce comunque a guardare positivamente alla Santa Sede proprio grazie alla luminosità di Francesco, il quale, con il suo stile, ha il dono di far sentire il Vangelo attuale e interessante per le domande di tutti.

Lo stesso Santo Padre, nell’omelia di ieri già citata sembra aver indirettamente risposto al card. Martini, spiegando che l’interesse per la Chiesa è quella di mantenere un’identità cristiana, indipendentemente dai tempi in cui vive, da ciò che dice la “normalità” del momento. La mondanità, ha detto commentando una lettura del Libro dei Maccabei, è dire: «Mettiamo all’asta la nostra carta d’identità; siamo uguali a tutti. La mondanità ti porta al pensiero unico e all’apostasia. Non sono permesse, non ci sono permesse le differenze: tutti uguali. E nella storia della Chiesa, nella storia abbiamo visto, penso ad un caso, che alle feste religiose è stato cambiato il nome – il Natale del Signore ha un altro nome – per cancellare l’identità».

«Mi ha sempre colpito», ha aggiunto Papa Francesco, «che il Signore, nell’Ultima Cena, in quella lunga preghiera, pregasse per l’unità dei suoi e chiedesse al Padre che li liberasse da ogni spirito del mondo, da ogni mondanità, perché la mondanità distrugge l’identità; la mondanità porta al pensiero unico. Incomincia da una radice, ma è piccola, e finisce nell’abominazione della desolazione, nella persecuzione. Questo è l’inganno della mondanità, e per questo Gesù chiedeva al Padre, in quella cena: ‘Padre, non ti chiedo che di toglierli dal mondo, ma custodiscili dal mondo’, da questa mentalità, da questo umanismo, che viene a prendere il posto dell’uomo vero, Gesù Cristo, che viene a toglierci l’identità cristiana e ci porta al pensiero unico: ‘Tutti fanno così, perché noi no?’. Questo, di questi tempi, ci deve far pensare: com’è la mia identità? E’ cristiana o mondana? O mi dico cristiano perché da bambino sono stato battezzato o sono nato in un Paese cristiano, dove tutti sono cristiani? “Ma, facciamo come tutta la gente, non siamo tanto differenti’, si cerca sempre una giustificazione, e alla fine contagia, e tanti mali vengono da lì». Ed infine: «Che la Chiesa sempre abbia l’identità disposta da Gesù Cristo; che tutti noi abbiamo l’identità che abbiamo ricevuto nel battesimo, e che questa identità per voler essere come tutti, per motivi di ‘normalità’, non venga buttata fuori. Che il Signore ci dia la grazia di mantenere e custodire la nostra identità cristiana contro lo spirito di mondanità che sempre cresce, si giustifica e contagia». Una bella risposta a tutti coloro che vorrebbero “adeguare” la Chiesa alla volontà del mondo, alle mode del momento, allo spirito dei tempi così da abbellirla e avvicinare ingannevolmente le persone (come fa qualche oratorio riempiendo le sale ludiche di videogiochi).

E’ vero, Papa Francesco ha scritto una bella introduzione all’opera omnia del card. Martini uscita un mese fa, nella quale ha valorizzato le riflessioni dell’ex arcivescovo di Milano e la sua predisposizione al dialogo. Tuttavia sappiamo anche che quest’ultimo ha pesantemente criticato l’enciclica Humana Vitae di Paolo VI, in cui venne riproposta la morale sessuale tradizionale della Chiesa, nonostante la pressione subita da spiriti progressisti. «Il Gesù dei Vangeli non avrebbe mai scritto l’Humanae vitae», disse il card. Martini, «Paolo VI sottrasse consapevolmente il tema ai padri conciliari. Saper ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo e di sicurezza. La Chiesa riacquisterà credibilità e competenza».

Ed invece Papa Francesco ha deciso di proseguire le orme di Benedetto XVI, non soltanto rendendo beato Paolo VI, ma anche valorizzando pubblicamente la sua contestata enciclica: «Penso al Beato Paolo VI. In un momento in cui si poneva il problema della crescita demografica, ebbe il coraggio di difendere l’apertura alla vita nella famiglia. Lui guardò anche oltre: guardò i popoli della Terra, e vide questa minaccia della distruzione della famiglia per la mancanza dei figli. Paolo VI era coraggioso, era un buon pastore e mise in guardia le sue pecore dai lupi in arrivo». E nel marzo 2014: «la sua genialità fu profetica, ebbe il coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale, di esercitare un freno culturale, di opporsi al neo-malthusianesimo presente e futuro». Aggiungendo: «Paolo VI non è stato un arretrato, un chiuso. No, è stato un profeta, che con questo ci ha detto: guardatevi dal neo-Malthusianismo che è in arrivo».

Soltanto le persone libere sanno mantenere la direzione mentre tutti gli altri corrono dalla parte opposta, prendendosi gioco di loro e facendo caricature sulle loro idee e convinzioni. Grazie a Papa Francesco per la sua adeguatezza nel guidare questa Chiesa aderente a Gesù Cristo, indietro di 2015 anni.

La redazione

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Il grande tabù sociale della sindrome post-aborto

La voce sottile 
 
di Antonella Perconte Licatese*
*scrittrice

 

La voce sottile nasce da un desiderio profondo: quello di tentare di raccontare, attraverso le pagine di un romanzo, uno spaccato di realtà. Italo Calvino nelle sue “Lezioni americane”, spiega con maestria e semplicità quel momento cruciale in cui si trova lo scrittore dinanzi alla pagina bianca: “E questo è il momento della scelta: ci è offerta la possibilità di dire tutto, in tutti i modi possibili; e dobbiamo arrivare a dire una cosa, in un modo particolare.” Volevo dire una cosa e questa cosa era che esiste una sofferenza post-abortiva; la volevo dire in un modo particolare e questo modo è diventato Anna e il suo mondo, Anna e la sua storia.

Fin dal momento esatto in cui ho iniziato a documentarmi per poter scrivere di un argomento così delicato, complesso e difficile, ho intuito l’enormità del compito che mi ero assunta. Sì, perché il tipo di dolore di cui mi sono fatta carico era ed è del tutto particolare: nei salotti televisivi e tra le pagine delle riviste patinate si può parlare delle violenze subite dalle donne in ogni tempo e luogo, delle disparità di trattamento sul lavoro, ma non è consentito in nessun modo aprire un serio dibattito su come “l’evento traumatico aborto” abbia causato e continui a causare conseguenze irreparabili sul delicato equilibrio psico-fisico della donna.

E questo accade perché Anna, e quelle come lei, fanno paura; perché quando si parla di aborto si tocca un nervo scoperto di tutta una società e perché Anna è viva e presente nelle famiglie, nei condomini, per le strade; o forse accade anche perché Anna, molto più semplicemente, in un modo o nell’altro, siamo noi stessi quando con il silenzio e l’indifferenza contribuiamo a questa forma di rimozione. Ne “La voce sottile” ho inventato una storia, perché è così che funziona, perché l’arte ha il dovere di restituirci il vero attraverso la finzione, ma in realtà ho tenuto conto di molte esperienze reali, documentate. Perché la sindrome post-aborto è avvalorata da una mole immensa di studi e testi scientifici e perché per fortuna ci sono donne che hanno avuto il coraggio di testimoniare di come l’aborto le abbia cambiate per sempre, e di come, se solo potessero, tornerebbero indietro.

Quando, però, mi sono decisa a scrivere, ho intuito non solo l’enormità e la difficoltà del compito che mi ero assunta, ma anche la sua importanza. Che le donne non siano sufficientemente informate sui rischi che una “interruzione di gravidanza” può avere sulla loro salute, lo considero infatti una delle ingiustizie più gravi perpetrate ai loro danni. In tal senso, quindi, “La voce sottile” è diventato uno strumento di denuncia di una realtà scomoda. Ma non solo: durante il lavoro di scrittura ho sentito con forza la mia “vocazione artistica” come al servizio della vita nascente.

La voce del titolo, infatti, non è solo la voce della coscienza, che parla ad Anna e a tutti noi, non è solo la voce della ragione che ci inchioda di fronte all’evidenza dell’ingiustizia dell’aborto, non è solo la voce del rimpianto e dell’amarezza per un gesto che, lungi dal “tutelare la maternità”, non fa altro che mortificarla, ma è soprattutto la voce sottile di quei figli che non hanno avuto, che non hanno e che non avranno la possibilità di farsi sentire e di gridare la loro volontà di venire al mondo. Questo romanzo, infine, rappresenta anche un “piccolo miracolo”. Quasi paradossalmente è sembrato voler “nascere” a tutti i costi. Il personaggio di Anna mi ha costretta ad affondare nelle viscere di una sofferenza che non mi apparteneva, e questo, lo dico da donna, mi è costato una fatica immensa, tanto che più di una volta sono stata tentata di abbandonare tutto.

Ma ho resistito e sono arrivata fino in fondo. E se c’è un momento in cui io e Anna ci assomigliamo è nel finale, perché (e questo è il messaggio di speranza contenuto nel romanzo) anche lei troverà il modo di svelare la verità con un gesto coraggioso. Io non so quante persone leggeranno il mio libro, se avrà la diffusione che spero, o se rischierà di passare inosservato come il dolore che denuncia. Ma se un giorno dovesse accadere che una donna, anche una sola, incontrandomi per caso, o in un qualsiasi altro modo, mi confidasse di essersi decisa per la vita di suo figlio dopo aver letto, o anche solo sentito parlare del mio libro, allora “La voce sottile” non sarebbe stata scritta invano, e tutto avrebbe avuto un senso.

 

La redazione UCCR segnala il link attraverso cui acquistare il libro, il sito web e la pagina Facebook di “La voce sottile”. 

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Il laicismo europeo è il terreno fertile per le cellule terroristiche islamiche

islamiciLa nostra posizione l’abbiamo espressa ieri: bando al buonismo, l’Islam ha un enorme problema di convivenza e connivenza con la violenza e, tuttavia, bando alle odiose generalizzazioni: milioni di islamici vivono la loro fede in modo pacifico, in diversi casi in difesa dei cristiani perseguitati dai terroristi dell’Isis. E’ a questo “islam moderato” che dobbiamo allearci, spronandolo a condannare ancora di più l’uso distorto di Dio fatto dai fondamentalisti e aiutandolo ad isolare e denunciare le cellule violente.

Occorre però anche conoscere davvero l’Islam, al di là delle semplificazioni mediatiche. Lo ha ricordato Laura Guazzone, docente di Storia contemporanea dei paesi arabi presso l’Istituto italiano di Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma: bisogna «sapere che esistono movimenti e istituzioni che danno un’interpretazione moderata alla sharia, che non è un testo o un codice di legge, ma una collazione dei precetti dal 600 d.C. a oggi che sono stati dedotti dal testo del Corano e della Sunna, la vita del profeta. Da questi sono stati tratti dei precetti, che possono essere interpretati in modo diverso. L’Islam moderato predica la necessità di contenere e al massimo prevede un allontanamento dall’apostata dalla comunità, anche in senso puramente culturale e religioso ma senza nessuna conseguenza di pena, tanto meno capitale». Così, «se non capiamo la prospettiva interna, mettiamo nello stesso calderone movimenti che intendono agire in quanto musulmani, finiamo per mettere l’islam moderato con i movimenti più insurrezionalisti, in particolare del mondo arabo».

Questo differente modo di interpretare l’Islam spiega la gioia di gruppi islamici alla notizia dell’attentato a Parigi e contemporaneamente le dure condanne di una parte del mondo islamico. Così come fa piacere osservare imam musulmani e rabbini ebrei pregare assieme per le vittime del terrorismo vicino a Bataclan, uno dei luoghi colpiti dagli attentati di venerdì scorso. Fanno riflettere le parole di Sami Salem, imam della moschea di via della Magliana a Roma: «Una piena condanna. Senza sé e senza ma. Questo non è Islam, ma terrorismo. È arrivato il momento di unire le forze per affrontare questo mostro. È fondamentale spiegare prima di tutto che nell’islam non ci sono appelli alla violenza, né è contemplata la possibilità di uccidere il prossimo. Musulmani e Cristiani hanno delle radici in comune. Si tratta di atti in cui la religione non c’entra niente, viene strumentalizzata da persone che danno interpretazioni fanatiche e sbagliate delle sacre scritture in generale. Non riesco a comprendere come possano fare, e quali strumenti utilizzino per trasformare persone, troppo spesso giovani, in mostri telecomandati. I musulmani d’Italia, di Roma, come tutti i musulmani nel mondo, devono incarnare l’autentico messaggio dell’Islam. Dare il buon esempio. Devono essere onesti, corretti nei loro rapporti con tutte le persone senza distinzioni di fede o nazionalità. Chi commette atti criminali come quelli di Parigi o ha atteggiamenti estremisti è un criminale e basta».

Secondo il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar, direttore di ricerca dell’EHESS di Parigi e studioso dell’immigrazione islamica in Europa, la crisi che porta i giovani alla rottura con le società occidentali non deriva tanto dal rifiuto dei valori che queste offrono a loro, ma piuttosto nel vuoto di regole morali che li accoglie. L’Occidente amante del pensiero debole, del relativismo, del non senso della vita, del sessantottismo, della borghesia cinica e indifferente, dell’individualismo esasperato. Guarda caso, effettivamente, i giovanissimi terroristi musulmani nascono e vivono in Europa, sopratutto in Francia, Belgio, Danimarca, Svezia e Germania. Ovvero i Paesi attualmente più secolarizzati dell’Occidente. Il laicismo del vecchio e stanco Occidente è davvero il terreno fertile del proliferare di queste cellule terroristiche?

Gli stessi complici degli attentatori di venerdì sono stati fermati in Belgio, due dei quali erano cittadini francesi. Proprio il Belgio, nonostante i suoi soli 11 milioni di abitanti, è lo Stato europeo che conta, proporzionalmente, il più alto numero di cittadini volontari partiti per combattere tra le file dell’Isis. A Bruxelles esiste proprio un quartiere islamico definito Belgistan, la culla del jihadismo europeo, la centrale di reclutamento dei giovani terroristi in Europa.

Il rettore della moschea francese di Courcouronnes, Khalil Merran, ha spiegato che a plagiare i giovani musulmani europei c’è un imam potentissimo, ovvero Google. «Questi ragazzi non sanno nulla di religione. Sono schiavi di Internet, plagiati dalla rete. Io ho visto i siti islamisti. Sono fatti molto bene. Promettono denaro, donne, armi, potere e gloria imperitura. Ti fanno sentire parte di qualcosa». Ragazzi disperati per il vuoto morale attorno a loro, che si sentono isolati e vagano su internet in cerca di risposte, di appartenenza, ovvero di identità. L’Occidente ha rifiutato le sue radici cristiane, così come ha ricordato Claudio Magris, una scuola arriva a vietare una visita artistica che include un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò possa offendere i non cristiani. Questo è il vuoto identitario che favorisce lo sviluppo del fondamentalismo religioso.

Papa Francesco lo ha spiegato benissimo davanti al Parlamento europeo: «un’Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose, sapendone cogliere la ricchezza e le potenzialità, può essere anche più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente, perché è proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza». E’ l’oblio di Dio a generare la violenza, parole profetiche. Così ha commentato Lucetta Scaraffia, docente di Storia contemporanea presso La Sapienza di Roma, «questa interpretazione, molto più sottile e acuta di quelle che siamo abituati a leggere e ascoltare, rivela come sia fallace la speranza di affrontare questo problema enfatizzando la laicità, ricacciando le religioni nel sommerso e nell’indicibile. E al tempo stesso apre nuove responsabilità -ma anche nuove possibilità- all’azione delle donne e degli uomini di fede».

La redazione

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