La fede è la “stampella” contro le avversità? Un falso mito smontato in sei punti

Tutti conosciamo la sfida comune fatta alle persone credenti da parte dei convinti atei, secondo i quali Dio sarebbe nient’altro che un’idea proiettata della mente per aiutare la persona attraverso le difficoltà e le crudeltà della vita. Feuerbach, ad esempio, sosteneva che la religione è «il sogno della mente umana», Marx la definì «oppio dei popoli», Freud affermava che l’impulso religioso derivava dai desideri inconsci per «mitigare le paure dei pericoli della vita».

Si chiama “argomento della stampella” e ne ha parlato Paul Copan, professore di Filosofia ed Etica presso la Palm Beach Atlantic University, in Florida. Analizzando questo argomento ha voluto criticare la tendenza a “psicologizzare” le persone credenti in Dio e ha confutato l’accusa del mondo laicista.

 

1) Innanzitutto lo stesso Sigmund Freud ha riconosciuto che la sua “psicoanalisi” della religione non aveva alcuna evidenza clinica a sostegno. Nel 1927, infatti, confessò a Oskar Pfister, uno psicoanalista e pastore protestante, che «le mie sono solo opinioni personali» e il suo punto di vista sulla proiezione religiosa aveva ben poco a che fare con l’esperienza psicoanalitica di persone credenti (S. Freud and O. Pfister, Psychoanalysis and Faith: The Letters of Sigmund Freud and Oskar Pfister, Basic Books 1962, p.117).

 

2) In secondo luogo, questo argomento cade nella cosiddetta fallacia genetica, che è l’errore di attribuire verità o falsità di una credenza in base alla sua origine e alla sua genesi. Ad esempio, anche se hai imparato l’italiano da un professore che poi è stato incriminato per falsa testimonianza, questo non significa che tu non sappia coniugare i verbi in modo corretto. E dunque, anche se fosse vero che tutte le persone credenti credono a Dio per motivi “psicologici” e non razionali, questo ancora non riesce a smentire l’esistenza di Dio. Può semmai far riflettere su quanto le proprie convinzioni siano adeguatamente fondate, ma di certo non dice nulla sulla loro verità o falsità.

 

3) In terzo luogo, si deve distinguere tra la razionalità della fede e la psicologia della fede. La psicologia della fede (come le persone arrivano a credere in Dio) è una questione distinta dalla razionalità della fede (perché ci sono buone ragioni per credere in Dio). Si può arrivare a credere in Dio per qualunque motivo, anche per semplice inconsapevole imitazione delle convinzioni dei propri genitori e, tuttavia, acquisire via via delle buone ragioni per continuare a credere in Lui. E anche se non si sanno (ancora) dare buone ragioni, questo non significa comunque che le nostre convinzioni siano sicuramente false (si veda il punto 2).

 

4) Quarto punto, è errato e assolutamente arbitrario affermare che tutto ciò che porta conforto e sollievo è necessariamente falso o inventato a questo scopo. Acquistare un’auto, ad esempio, aumenta certamente il confort di vita ma potrebbe non essere questo il motivo per cui la si è comprata, ma semplicemente perché la sede del nostro nuovo lavoro è lontana dalla nostra abitazione. Allo stesso modo, bere a colazione un tazza di tè in una giornata fredda aiuta certamente a scaldarci, ma non è detto che sia questo il motivo per cui l’abbiamo bevuta, semplicemente potevamo aver terminato le scorte di caffè. La fede porta conforto dalle difficoltà della vita? Anche in questo caso, il sollievo potrebbe essere una delle conseguenze secondarie e non il motivo principale per cui si ha fede in Dio. Perché decidere che una credenza deve essere sbagliata se risulta essere anche confortevole? E’ stato dimostrato, inoltre, che le persone in situazioni di stress spesso si rivolgono alla scienza, ma ovviamente nessuno avrebbe il coraggio di dire che la scienza nasce con il motivo di diminuire lo stress delle persone.

 

5) In quinto luogo, l’eventuale bisogno di sollievo e protezione che si trova nella fede potrebbe essere previsto dal Creatore stesso perché non ci allontanassimo troppo da Lui. Se siamo stati fatti per beneficiare di Dio e trovare in Lui pace e appagamento, allora non dovremmo essere sorpresi che Dio stesso abbia inserito questa esigenza di Lui dentro di noi. Come Sant’Agostino esprimeva: “Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché in te non riposa”. Questo desiderio, dunque, si rivela essere un supporto al teismo, non un argomento contro di esso. Così, il benessere sperimentato nell’esperienza di fede non solo può essere una delle tante conseguenze della religione, ma un progetto di Dio stesso per facilitarci l’arrivo a Lui.

 

6) In sesto e ultimo luogo, se vogliamo davvero “psicologizzare” le persone per smentire le loro convinzioni, allora paradossalmente è più facile farlo con i non credenti, psicoanalizzando il loro rifiuto di Dio. Il docente di Psicologia presso la New York University, Paul Vitz, ha infatti sostenuto: «Se guardiamo la vita dei più famosi leader atei e degli scettici del passato notiamo una cosa in comune: a quasi tutti mancava un modello di ruolo paterno positivo o proprio la presenza del padre» (P. Vitz, “The Psychology of Atheism” Truth 1985, p. 29–36).

Effettivamente basta dare un’occhiata alla loro biografia:
Voltaire (1694-1778): respinse con forza il rapporto con il padre, tanto da vantarsi di essere un figlio illegittimo.
David Hume (1711-1776): il padre del famoso scettico scozzese morì quando Hume aveva solo 2 anni.
Barone d’Holbach (1723-1789): il noto ateo francese rimase orfano all’età di 13 anni.
Arthur Schopenhauer (1788-1860): il padre si suicidò quando lui era in età adolescenziale.
Ludwig Feuerbach (1804-1872): quando ebbe 13 anni il padre lasciò la famiglia per vivere con un’altra donna in un’altra città.
Friedrich Nietzsche (1844-1900): perse il padre all’età di 4 anni.
Sigmund Freud (1856-1939): suo padre Jacob fu una grande delusione per lui, passivo e debole. Freud stesso ha anche ricordato che il padre era un pervertito sessuale e che i figli hanno sofferto per questo.
Bertrand Russell (1872-1970): il padre morì quando lui aveva 4 anni.
Albert Camus (1913-1960): il padre morì quando lui aveva 1 anno di età.
Jean-Paul Sartre (1905-1980): il padre morì prima della sua nascita.
Madeleine Murray-O’Hair (1919-1995): la fondatrice dell’associazione American Atheist (uccisa da D.R. Waters, ex direttore dell’“American Atheist”) odiava il padre e cercò di ucciderlo con un coltello (lo ha raccontato lei stessa in W.J. Murray, “My Life Without God”, Thomas Nelson 1982, p.7).
Daniel Dennett (1942-): suo padre morì quando aveva 5 anni di età.
Christopher Hitchens (1949-2011): ebbe un rapporto molto freddo con il padre tanto che disse: «Sono piuttosto arido di ricordi paterni» (C. Hitchens, “Hitch-22: A Memoir”, Large Print Edition 2010, p.69).
Richard Dawkins (1941-): non ebbe rapporti con il padre fino all’età di 8 anni a causa della guerra, ha rivelato di essere stato molestato da un insegnante di sesso maschile all’età di 11 anni, molestie che non si sente di condannare perché avvenute nel passato.
Umberto Veronesi (1925-): perse il padre all’età di 6 anni.
Michel Onfray (1959-): è stato abbandonato dai suoi genitori in un orfanotrofio all’età di 10 anni.

 

Dovremmo quindi considerare la fondatezza degli argomenti a favore e contro l’esistenza di Dio, senza indugiare maliziosamente sulle motivazioni che avrebbero portato ad una precisa convinzione questa o quella persona. E se si volesse continuare a usare il vecchio “argomento della stampella” come forma di riduzionismo verso la fede dei credenti, allora ad esso si potrebbe e dovrebbe opporre “l’argomento del padre”, sostenendo che si giunge a rifiutare Dio come atto di fuga/ribellione dall’autorità a causa di un mancato o negativo rapporto con il padre, come la biografia dei principali atei dimostra.

La redazione</p”>

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Il cattolico che rivoluzionò il parto cesareo salvando anche la madre

E si salvò anche la madre 
 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
da La Croce, 19/10/15.
 

C’è un campo in cui la scienza sperimentale, frutto dell’intelligenza umana indagatrice della natura, diventa particolarmente utile e benigna per l’uomo: la medicina. Accade allora che ci si trovi di fronte a grandi uomini, che comprendono perché amano. Che amando, comprendono. Sono i grandi medici che nel corso dei secoli, mossi dalla loro compassione e misericordia per i malati, hanno indirizzato la loro intelligenza, dedicato il loro tempo e le loro forze, per trovare nuovi rimedi ai mali dell’umanità.

Paolo Mazzarello, docente di storia della medicina all’Università di Pavia, ha appena pubblicato “E si salvò anche la madre. L’evento che rivoluzionò il parto cesareo” (Bollati Boringhieri 2015): una biografia del grande ginecologo di fine Ottocento, Edoardo Porro, e del suo servizio a tante madri destinate, senza di lui, alla morte per parto.

[….]. Per millenni le levatrici hanno fatto ciò che potevano, ma la storia moderna dell’ostetricia incomincia solo nel Settecento. E’ il papa Benedetto XIV, grande protettore della scienza, a promuovere la prima cattedra pubblica di Ostetricia, inaugurata a Bologna nel 1757, e affidata prima a Giovanni Antonio Galli -che aveva rinnovato la tecnica didattica per le levatrici e studenti in Chirurgia avvalendosi, fin dal 1734, di modelli in cera e in argilla-, e poi al suo discepolo, il terziario francescano e padre degli studi sull’elettricità animale Luigi Galvani. Sempre a Bologna, nel 1768, viene pubblicata la prima rivista di ostetricia italiana, Dell’arte ostetrica, mentre nel 1765 Luigi Calza, (1737-1784), bolognese di nascita e allievo del Galli, fonda a Padova il primo Gabinetto Ostetrico avviando la cattedra: “De morbis mulierum, puerorum et artificum”.

Nel 1876, anno in cui è ambientato in particolar modo il libro di Mazzarello, le donne continuano a morire di parto in numero molto elevato. A Pavia, dove Edoardo Porro lavora, l’insegnamento autonomo dell’ostetricia data dal 1818. E la morte relativa al parto in ospedale, è assai frequente […]. Il parto cesareo esiste da molti secoli. Praticato dall’antichità, sin dal IV secolo d. C. è raccomandato dalla Chiesa, sulle donne incinte già morte, per salvare almeno il bambino ed impedire che sia sepolto vivo con la madre, e che muoia senza battesimo. E’ solo dopo il 1500 che viene talora praticato anche sulle madri ancora in vita, quando il parto naturale è impossibile, con lo scopo di salvare madre e figlio. “Il taglio cesareo su donna viva -scrive Mazzarello- rimane un intervento eccezionale, ripetuto pochissime volte sino alla fine del Settecento”: con esiti pressoché sempre infausti, per la donna.  E’ dunque durante l’Ottocento che si concentra la crescita del ricorso al cesareo con gli alti costi propri di un epoca in cui non si conoscono l’asepsi, le suture dell’utero e dell’addome. Qui, in quest’epoca, dobbiamo collocare l’impegno di Edoardo Porro.

Nel 1876 gli si presenta il caso decisivo: ha davanti a sé, gravida, la giovane Giulia Cavallini, di bassa statura, affetta da rachitismo, con varie problematiche uterine che le avrebbero impedito un parto naturale. Porro ha solo due possibilità: “eseguire il taglio cesareo salvando il bambino e quasi certamente sacrificando la madre, oppure risparmiare la gravidanza eseguendo la fetotomia (uccisione del feto, ndr). Tertium non datur”. In verità non vi è neppure questa duplice possibilità, essendo quasi impossibile la fetotomia “per l’assoluta difficoltà di accesso al feto”, nel caso specifico. Porro decide di provare una strada nuova, pensata e ripensata in precedenza: taglio cesareo, e in più, per salvare la Cavallini, asportazione dell’utero e delle ovaie, “eliminando così un terribile focolaio settico e una incontenibile fonte di sanguinamento”. L’operazione funziona, la bimba nasce, la madre, dopo una serie di peripezie, è salva! Il cesareo non è più una sentenza di condanna a morte quasi certa. Il Patriota, giornale della città di Pavia, il I luglio 1876 esulta: “L’esito di sì ardita operazione, la prima di simil genere siasi fatta in Europa, non mancherà di fare un ben meritato rumore tra gli intelligenti della scienza”.

In verità il rumore non sono solo gli applausi, ma anche le critiche, da parte di alcuni colleghi che attaccano Porro sostenendo che l’embriotomia è da preferire alla sicura sterilità futura della donna (la quale andrebbe, inoltre, avvertita previamente). Pavia non è più la città cattolica che a inizio Settecento ha visto all’opera il gesuita Gerolamo Saccheri, padre delle geometrie non euclidee, e che a fine Settecento ha annoverato nella sua università la presenza quasi contemporanea di don Lazzaro Spallanzani, detto il “Galilei della biologia”, Alessandro Volta, padre della pila, padre Ruggero Boscovich, grande fisico e fondatore dell’osservatorio astronomico di Brera, e di tante altre glorie della Chiesa e della fede (vedi Paolo Mazzarello, Pavia e le svolte della Scienza). E’ vero, il padre della geologia e della paleontologia italiana, il sacerdote Antonio Stoppani, insegna proprio a Pavia, ma la scena è occupata da nuove idee di stampo materialista e il più celebre dei professori è il criminologo Cesare Lombroso. L’intento della cultura dominante non è più quello cristiano di assistere i poveri e i malati, di avere compassione delle piaghe dell’umanità, ma quello positivista: catalogare sani e malati, adatti (fit) e inadatti (unfit), riusciti e malriusciti.

Porro, però, è un cattolico fervente, accusato di essere “clericale”, perché sostiene la necessità delle suore di Carità negli ospedali e perché non vede di buon occhio la cremazione (Francesco Giarelli, Vent’anni di giornalismo, A.G. Cairo, 1896, p.61), ed ha scrupoli di coscienza. Si rivolge allora al vescovo di Pavia, Lucido Maria Parocchi, un vescovo intransigente, sulla linea di Pio IX, noto per l’ortodossia, che non ha neppure ricevuto l’autorizzazione governativa ad esercitare la funzione episcopale. Parocchi dà il suo responso, affermando il “diritto di sacrificare una parte per la salute del tutto”, e la possibilità di permettere un “male minore per evitare un male peggiore”. Tanto più che per la Chiesa la sterilità femminile non costituisce, come nel mondo antico, ma anche per molti illuministi, una causa di nullità matrimoniale o di possibilità, per il marito, di ripudiare la consorte.  L’intervento di Parocchi conferma Porro, ma anche tanti altri medici italiani.

Intanto il nome di Porro diventa famoso in Europa e l’operazione “di Porro” si diffonde in tutto l’occidente. Usato ancora oggi per le emorragie uterine severe, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, per salvare le madri, rimarrà fondamentale sino alla scoperta della sutura uterina per realizzare un cesareo senza asportazioni. Porro diviene così l’ostetrico italiano “più famoso del mondo”. “Era un medico– rammenta Mazzarello- disinteressato all’aspetto economico della sua professione. Chiamava “commercianti della scienza e dell’arte salutare” quei medici che subordinavano tutta la loro attività ai soldi e si facevano pagare anche da chi lottava ‘contro tutte le difficoltà della vita’… anziché farsi pagare, quando era colpito dalle condizioni di povertà, ‘vi lasciava l’obolo provvidenziale e mandava poi cibi, il vino, gli indumenti che facevano difetto”.  Porro muore il 17 luglio 1902: “un amico sacerdote portò l’estrema unzione, tanto desiderata, e poco dopo Edoardo Porro morì di edema polmonare… Al capezzale erano presenti la moglie, la figlia, il genero, un altro sacerdote e il suo medico personale”.

Pochi giorni dopo viene aperto il suo testamento, che contiene parole come le seguenti: “Davanti al terribile pensiero dell’eternità chi di me vuole ricordarsi preghi Dio che mi protegga con la sua infinita misericordia. Mai come sullo scorcio della mia vita la credenza in Dio, il pensiero della vita futura, hanno campeggiato davanti a me. Coloro che dicono la scienza essere destinata a materializzarsi s’ingannano o vogliono ingannare… Chi più studia, chi più cerca di approfondire un segreto della natura, tanto più vi scorge la sapienza infinita del Creatore e trovo assurdo che il caso, la natura, possano aver coordinato e fatto la mirabile organizzazione che si ammira nel regno animale, vegetale e nell’inorganico. Se poi si passa a considerare la ragione dell’uomo, si trova qui tanto da restare sorpresi della sapienza del sommo Iddio, che, formando all’uomo la mente, lo volle distinto da tutti gli altri esseri e metterlo in grado di capire quanto poco egli conosca o sospetti del moltissimo che non ha potuto e che forse non potrà mai spiegarsi… Dio, che mi vedi e per cui il mio spirito è invaso di amore e di terrore, salvami e fa salve le anime dei miei parenti, dei miei amici e di quelli che credono. Come siamo piccini davanti all’eternità e come appare immenso ciò che riguarda Dio!”.

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Uno dei miracoli di Lourdes: tumore scomparso e articolazione ricostruita

radiografiaIl caso di Vittorio Micheli inizia il 4 giugno 1962 quando gli fu diagnosticato un sarcoma dell’anca (osteosarcoma del bacino), cioè un tumore primario dell’osso. Totalmente incurabile. L’evoluzione è rapida e in breve tempo diviene totale la distruzione della articolazione coxo-femorale, con sbriciolamento dell’osso, dei tendini e dei muscoli.

Mario Botta, cardiochirurgo dell’ospedale Niguarda di Milano, ha certificato: «La gamba del signor Micheli era attaccata al corpo solo attraverso la pelle», come mostrano le radiografie e altri esami radiologici, nonché l’esame istologico effettuato da tre Scuole di anatomopatologia. All’uomo non sono state somministrate medicine antitumorali e non è stato neanche sottoposto a radioterapia, in quanto gli specialisti avevano ritenuto che sarebbe stato del tutto inutile.

Così, nel 1963 convinto dalla madre, il giovane Micheli si reca a Lourdes, ingessato e sotto morfina. Non accade nulla di particolare, ma ritornato a casa si sente meglio, il dolore lentamente sparisce e ricomincia a “sentire” la gamba dilaniata dal tumore. I medici gli sospendono la morfina e tolgono l’ingessatura. Vengono immediatamente effettuati degli esami ma, forse a causa del legittimo scetticismo, sono interpretati e ritenuti del tutto identici ai precedenti. Soltanto dopo 6 mesi i medici si rendono conto che lo stato generale è eccellente, che i dolori sono cessati. Dagli esami successivi -come la radiografia del 2 aprile 1969- emerge chiaramente che l’osso, i muscoli e i tendini si sono inspiegabilmente formati ex novo, tanto che l’uomo ha ripreso a camminare e a condurre una vita normale. Nessuna ricaduta nei successivi 50 anni. Dal viaggio a Lourdes seguono 10 anni di attente e rigorose analisi delle cartelle mediche precedenti e successive e il Comitato Medico Internazionale di Lourdes nel 1973 ha definito la guarigione di Vittorio Micheli inspiegabile. Nel 1976 la Chiesa si è pronunciata a favore del miracolo.

Nessuno ha mai saputo dimostrare né la possibilità di una ricostruzione ossea, muscolare e tendinea a seguito di un tumore in così breve tempo e senza terapie particolari e, sopratutto, l’incredibile coincidenza che questa auto-guarigione si sia innescata esattamente dopo il viaggio a Lourdes. Le uniche obiezioni arrivano da Francesco D’Alpa, dell’UAAR, secondo cui ci sarebbe «un evidente sfasamento temporale fra il miglioramento soggettivo percepito dopo l’immersione nella piscina di Lourdes e la riparazione dell’articolazione coxo-femorale verificata radiologicamente sei mesi dopo. Secondo la Commissione Medica Internazionale, in questo caso il miracolo consisterebbe in una “guarigione in un tempo di molti mesi”, a meno che non si voglia considerare come miracolo “istantaneo” proprio l’inizio della guarigione». D’Alpa non ha alcuna obiezione al caso specifico, ma sembra piuttosto avanzare una critica tra una presunta contraddizione del modus operandi della Commissione Medica di Lourdes per la quale una “guarigione valida” dev’essere istantanea. Ma lui stesso offre già la risposta: il “miracolo” non diventa tale dal giorno in cui vengono effettuate le analisi mediche di verifica, ma dal momento (o dall’inizio) della guarigione inspiegabile. Le radiografie effettuate sei mesi dopo indicano infatti un processo di auto-ricostruzione dell’articolazione iniziato già da tempo prima, coincidente allo stato di benessere percepito da Vittorio Micheli appena rientrato da Lourdes.

Ricordiamo infine che il dossier medico-scientifico di Vittorio Micheli, così come di tutti coloro che hanno ricevuto un miracolo (per la Chiesa) e una guarigione scientificamente inspiegabile (per la scienza), può essere consultato liberamente (non c’è nulla di segreto!), ovviamente previa autorizzazione dei soggetti responsabili. Così come qualunque medico, dopo essersi dimostrato tale, può entrare nel Bureau Médical di Lourdes e visitare i pazienti che affermano di essere guariti.

 

Qui sotto la storia del miracolo da un servizio di TV2000.

 
La redazione

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Il “diritto d’amore” di Stefano Rodotà nega sia l’amore che il diritto

Stefano Rodotà 
 
 
 
di Aldo Vitale*
*dottore di ricerca in Storia e Teoria generale del diritto presso l’Università Tor Vergata

 

 
La storia del diritto occidentale, così ricca di stratificazioni e sfumature, si può, tuttavia, racchiudere nella dialettica tra le due grandi correnti di pensiero che l’hanno maggiormente caratterizzata: il giuspotivismo da un lato e il giusnaturalismo dall’altro.

In estrema e, ovviamente, non esaustiva sintesi per questioni di spazio: secondo il giuspositivismo il diritto si esaurisce interamente nella norma, anzi, nella legge secondo l’equivalenza per cui la legge è sempre diritto e il diritto non può che esser legge e in essa condensarsi; secondo il giusnaturalismo, invece, la legge può essere e deve essere solo espressione del diritto, diritto che è naturale, cioè pre-esistente alle norme dell’ordinamento, quelle positive, cioè poste dallo Stato, dal legislatore, e che come tale non si esaurisce dunque nella mera datità del fenomeno legislativo.

Nella tragedia sofoclea si esprime tutto ciò, nel confronto tra Antigone e Creonte in cui, sotto la nobile arte del verso poetico del celebre tragediografo, si mette in scena l’antico quesito: veritas facit legem o auctoritas facit legem? Si sostanzia, in definitiva, l’interrogativo già posto da Platone nell’Eutifrone: il santo, santo perché lo amano gli dei o perché lo amano gli dei è santo? Insomma, il diritto è giusto perché lo è di per sé, o soltanto quando giusto lo si ritiene? O meglio, il diritto è giusto di per sé o è giusto solo perché così vuole il legislatore? O ancora, la legge, è legge solo se è giusta, o è giusta solo perché è legge?

Hans Kelsen riterrebbe che la giustizia di una legge è priva di importanza, poiché lo sarebbe solo la sua validità, cioè non la sua sostanza, ma soltanto la sua forma. Hegel, per parte sua, risponderebbe, invece, che è il diritto è rectum, solo perché è directum, cioè che solo perché esprime il giusto, esso può essere diritto. S. Agostino, del resto, aveva precisato che lex esse non videtur quae iusta non fuerit, cioè non sarebbe legge quella che non fosse giusta, ovvero quella che non concorda, insegna S. Tommaso d’Aquino, con la retta ragione che è l’elemento costitutivo della natura umana. A questi due orientamenti contrapposti (giuspositivismo e giusnaturalismo), nell’ultimo decennio, sembra essersi aggiunto, con gradualità, in sordina, quasi impercettibilmente, un terzo polo del tutto inedito e nuovo nella storia del pensiero giuridico, cioè quello che si potrebbe definire come gius-sentimentalismo.

Il gius-sentimentalismo si basa sulla convinzione per cui i sentimenti in genere e l’amore in particolare, che per tradizione sono sempre stati estranei al diritto (si pensi proprio ad Antigone che vuole seppellire il fratello morto Polinice non per amore, ma per giustizia), debbano acquisire una rilevanza giuridica, fino a legittimare gli istituti giuridici o l’applicazione degli stessi. A quanto pare, illustre e primario esponente di questo nuovo indirizzo di pensiero giuridico, almeno in Italia, è Stefano Rodotà che, per l’appunto, ha teorizzato, niente di meno che un vero e proprio diritto all’amore. Lo stesso Rodotà se da un lato ammette, in una intervista , che «basta ripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto per un lungo periodo ha sancito l’irrilevanza dell’amore», per altro verso ritiene che occorre prendere atto dei mutamenti storici e sociali e cambiare idea facendo diventare l’amore giuridicamente rilevante.  Vi sarebbe da riflettere anche sui rapporti tra diritto e tempo, e soprattutto sulla circostanza che Rodotà considera assodata e non problematica, cioè che l’istituto matrimoniale sia e debba essere, perfino, oggetto di modifica in relazione ai mutamenti storico-sociali che nel tempo si succedono; tuttavia, lo spazio e il tempo in questa sede richiedono di focalizzarsi sulla questione principale.

Il problema, dunque, si pone in tutta la sua evidenza. Quali rapporti esistono tra diritto e amore? L’amore è un bene giuridico? Quali conseguenze discendono dalla giuridificazione dell’amore? Quali conseguenze per l’amore? Quali per il diritto? Rodotà, come chi dovesse sposarne la visione, non sembra scorgere gli effetti nefasti di una simile prospettiva che viola sia lo statuto ontologico dell’amore, sia soprattutto quello del diritto. Per Rodotà, infatti, come si legge nel suo libro, non solo esiste il diritto d’amore, ma «la negazione del diritto d’amore e la sua sottoposizione a vincoli obbliganti ci mostrano una persona alla quale vengono negate, insieme, libertà e dignità. Il diritto d’amore si iscrive così in un orizzonte giuridico che non entra in contraddizione con esso, e trova il suo fondamento nel rispetto dovuto alla persona. La negazione di quel diritto diviene così pure negazione di un ordine giuridico finalmente liberato dall’obbligo di impradonirsi della vita delle persone» (Diritto d’amore, Laterza 2015, pag. 23 ).

Secondo Rodotà non si può più negare il diritto d’amore, cioè non si può più evitare l’ingresso dell’amore nella dimensione giuridica. Tuttavia, come lo stesso Rodotà riconosce «il diritto d’amore, via via che molte resistenze vengono superate proprio attraverso leggi e sentenze, non può essere più negato con argomenti giuridici» (pag. 80); l’argomento, dettaglio che a Rodotà con tutta evidenza sfugge, non è, infatti, meramente giuridico, ma gius-filosofico, poiché attinente non solo alla natura, all’essenza dell’amore, ma soprattutto alla natura e all’essenza del diritto.

La problematica è senza dubbio complessa e articolata e non può essere risolta in così breve spazio, ma si possono comunque delineare i perimetri della stessa per coglierne le proporzioni. In prima battuta occorre riconoscere che amore e diritto hanno degli elementi in comune: sono entrambi umani ( il resto del creato non prova amore e non si serve del diritto); sono entrambi espressione della natura relazionale dell’uomo che supera la sua individualità; sono entrambi manifestazione della razionalità umana, per questo l’amore umano non è solo istintualità come nelle altre creature e il diritto non è mera violenza o sopraffazione (anzi, semmai è proprio l’opposto). Ciò nonostante, amore e diritto sono profondamente diversi e proprio a causa di questa loro ontologica ed insanabile differenza non solo sono non interscambiabili, poiché la realtà umana necessita sia dell’amore che del diritto, ma soprattutto non sono sovrapponibili, nel senso che l’amore non può essere giuridificato e il diritto non può essere amato (semmai può esserlo la giustizia che del diritto è la verità).

Come precisa, con la sua autorevolezza e la sua consueta chiarezza, il filosofo del diritto Sergio Cotta, occorre distinguere sei forme coesistenziali riconducibili a due grandi famiglie: quella delle relazioni integrativo-escludenti (amicale, politica, familiare) e quella delle relazioni integrativo-includenti (ludica, giuridica, caritativa). L’amore che è alla base della relazione amicale e famigliare, dunque, ha una natura opposta rispetto a quella del diritto, poiché l’amore esclude, mentre il diritto include. Del resto, essendo un sentimento, come l’odio e l’amicizia, non può che essere indifferente per il diritto il quale rischia di essere violato nella sua stessa propria natura qualora si dovesse piegare a simili velleità per giuridificare l’amore. Il diritto, infatti, in una simile evenienza tanto auspicata da Rodotà, sarebbe ridotto a mero strumento di formalizzazione dei desideri e delle nuove esigenze socio-storiche, sia di quelle giuridiche, sia di quelle a-giuridiche, sia di quelle anti-giuridiche, che si vengono a determinare lungo il corso del tempo. Una simile visione del diritto è espressamente delineate proprio dallo stesso Rodotà: «La legge, come opera consapevole dell’uomo, rimane nella sua disponibilità, può essere modificata. E’ uno strumento, prima ancora che un vincolo» ( pag. 19 ).

La legge, in cui Rodotà sembra identificare l’interezza del diritto, allora, diventa il mezzo a disposizione della assoluta volontà prometeica dell’uomo in genere e del legislatore in particolare, divenendo, insomma, non più espressione della ragione e della giustizia, ma solo strumento per la soddisfazione dell’egoistico desiderio individuale del sovrano o del più forte; riemerge con chiarezza quella antica visione volontaristica del diritto che aveva Trasimaco: «Io affermo dunque essere il giusto non altro che l’utile del più forte» e che già il pensiero di Platone e Arisotele aveva consentito di abbandonare non solo in quanto arcaica, ma soprattutto in quanto barbarica e non effettivamente giuridica. A fronte della sorpassata prospettiva di Trasimaco (su cui, ahinoi, Rodotà sembra fondare la propria), infatti, la cultura giuridica romana aveva già avuto modo di celebrare la sacralità della effettiva natura del diritto tramite il riconoscimento pieno del diritto di natura, come si evince dalle parole di Cicerone che così ragionevolmente puntualizza: «Non su una convenzione, ma sulla natura è fondato il diritto».

Rodotà, inoltre, non rende conto di quale amore debba essere giuridificato, poiché ammette che non si può definire l’amore (pag. 92 e ss), anche se, poco più avanti riconosce che «il problema, o l’inciampo, diviene quello dell’estensione dell’accesso al matrimonio alle coppie di persone dello stesso sesso» (pag. 102). Precisa, infatti, che occorre accettare l’ingresso dell’amore nella dimensione del diritto per affrancarsi dai modelli sociali fino ad ora accettati e non più prevalenti: «L’amore entra nella società, per sconvolgerla, ma in essa si insedia incidendo sulle sue dinamiche con modalità difficilmente riconducibili a quel denominatore comune che storicamente si era voluto creare attraverso il matrimonio monogamico, indissolubile, eterosessuale» (pag. 99). Insomma, si evince con chiarezza dalle parole di Rodotà, il modello del matrimonio monogamico, indissolubile, eterosessuale non costituisce più il paradigma della relazione giuridicamente tutelabile.

Se una simile prospettiva deve essere presa sul serio, come sul serio è presa da chi legge il suo volume, allora, occorre riconoscere la possibilità, non più semplicemente ipotetica, di legalizzare, sulla base esclusiva del fondamento amoroso che il diritto dovrebbe riconoscere, anche tutte le unioni diverse dal matrimonio monogamico, indissolubile, eterosessuale, le quali, fondandosi sul sentimento dell’amore, necessitano di una identica tutela e protezione giuridica; in quest’ottica devono essere legalizzate, dunque, le unioni come la poligamia (poliandria e poliginia), il poliamore, e perfino l’amore incestuoso. Rodotà lungo tutto il suo saggio lamenta l’impossessamento dell’amore da parte del diritto che pone limiti e divieti, ma non riesce a cogliere che la sua proposta è altrettanto fallace in quanto si limita semplicemente a ribaltare (anche ammesso che la sua analisi circa la funzione “predatoria” del diritto nei confronti dei sentimenti sia corretta) la dinamica appena descritta, facendo sì che sia l’amore ad impadronirsi del diritto.

Si tratta, dunque, di un fraintendimento totale della natura e del ruolo del diritto, oltre che di una generale sovversione degli istituti giuridici in generale e del matrimonio in particolare, poiché quest’ultimo non è la celebrazione del sentimento e non è pensabile al di fuori del rapporto monogamico, come, tra i tanti – anche non cattolici – insegna Hegel: «La conclusione del matrimonio è dunque la solennità con cui l’essenza di questo legame viene pronunciata e constata come entità etica innalzata sopra l’accidentalità del sentimento e dell’inclinazione particolare […]. Il matrimonio è essenzialmente monogamia. E’ infatti la personalità, cioè l’immediata singolarità esclusiva, a darsi e a collocarsi in questo rapporto: la verità e intimità di questo rapporto, quindi, procede solo dalla dedizione reciproca e indivisa di questa personalità». E sebbene non sembri attenersi ai propri stessi consigli, come quando giustamente intima che «le citazioni di Hegel, in questa materia, devono essere usate con molta prudenza» ( pag. 4, nota 5 ), così Rodotà non potrà non convenire che gli stessi accorti e prudenti riguardi devono essere a maggior ragione usati nei confronti delle categorie giuridiche le quali se non devono essere plasmate e alterate da ragioni politiche o ideologiche, a maggior ragione non possono neanche essere storpiate da ragioni puramente e banalmente sentimentalistiche.

 
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Mons. Luigi Negri diffamato dal “Fatto”, Loris Mazzetti vince due querele

Mazzenti negriLa macchina del fango ha fatto un salto di qualità: per colpire i nemici ora basta che anonime fonti origlino presunte conversazioni avvenute su un treno, spifferando i contenuti al giornalista-avvoltoio che imbastirà abilmente un articolo, con tanto di virgolettati, attribuendo alla vittima parole e pensieri con l’intento di denigrarlo pubblicamente.

E’ quanto accaduto a mons. Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, voce intellettualmente importante della Chiesa italiana, legato a Comunione e Liberazione e coraggioso critico del laicismo secolare. Ingredienti giusti per essere uno dei bersagli preferiti dall’anticlericalismo, ed infatti ha ricevuto ieri un attacco mediatico dalle colonne del Fatto Quotidiano, quotidiano diretto dal misogino Marco Travaglio il cui figlio rapper, Alessandro Trava Dj, ritiene il padre e Fabri Fibra «due pilastri di cultura». E questo la dice lunga sul concetto di “cultura” che circola in casa Travaglio. Non stupisce, quindi, che Il Fatto venga considerato perfino degli editorialisti di Repubblica (che hanno ben poco da bacchettare) come «la casa nobile dell’indecenza».

Indecente è, infatti, l’articolo realizzato in prima pagina da tale Loris Mazzetti contro mons. Negri, al quale ha fatto dire (virgolettandolo): «Speriamo che con Bergoglio la Madonna faccia il miracolo come aveva fatto con l’altro», sostenendo che l’arcivescovo di Ferrara si augurava la morte di Papa Francesco come avvenne per Papa Luciani, morto dopo 33 giorni di pontificato. Mazzetti sostiene di aver scritto ciò che gli è stato riferito da anonimi testimoni oculari, presenti sul treno Roma-Termini mentre origliavano le conversazioni tra mons. Negri e il suo segretario. Il quale avrebbe anche insultato i neo-vescovi di Bologna e Palermo, Matteo Zuppi e Corrado Lorefice, rincarando la dose in una telefonata, avvenuta sempre sul treno, al giornalista Renato Farina.

Frasi e pensieri che chiaramente non appartengono a mons. Negri il quale, proprio due mesi fa, ha spiegato di vivere «un incremento di gratitudine verso il Santo Padre Francesco». L’autore di questa vile operazione mediatica, Loris Mazzetti, è incredibilmente docente di “Teoria e tecnica del linguaggio televisivo” all’Università di Modena e Reggio Emilia. Se ai suoi studenti insegna i metodi e le tecniche di informazione che ha usato in questa vicenda, degne delle dittature staliniste, il rettore Angelo Andrisano dovrebbe porsi qualche domanda. A livello mediatico Mazzetti è noto per due controversi episodi: essere stato l’ideatore del grande spot pro-eutanasia in prima serata con la trasmissione “Vieni via con me” e aver chiesto di impedire fisicamente a Matteo Salvini di parlare in televisione vestendo delle felpe con scritto “Ruspe in azione”.

Tornando alla macchina del fango, il quotidiano “Repubblica” non è stato a guardare e ha ripreso la notizia introducendo tutti i possibili condizionali (“mons. Negri avrebbe detto…”) ma usando lo stesso modus operandi: «Anche se ufficialmente nessuno commenta le parole, in ambienti CEI trapela stupore e amarezza alla lettura della notizia. Sgomento per posizioni che si ritengono personali, isolate ed estranee al sentire della Chiesa italiana». “Trapela”, da chi? Anonimato costante, ecco come è facile inventarsi fonti inesistenti. Nel frattempo mons. Negri ha subito emesso un primo comunicato assicurando assoluta fedeltà a Papa Francesco, aggiungendo di avergli chiesto un incontro personale «sollecitato dalle recenti gravi affermazioni attribuitemi sulla stampa». E’ intervenuto anche Renato Farina, tirato in ballo da Mazzetti, smentendo nel modo più assoluto le parole di mons. Negri, annunciando querela verso Travaglio (che, pavidamente, è corso a scusarsi) e verso il giornalista.

Un secondo articolo è apparso ancora oggi sul Fatto in cui, sempre Mazzetti, ha riproposto i contenuti diffamatori etichettando mons. Negri come «l’anti-bergoglio» e sostenendo che sarebbe rabbioso verso Papa Francesco perché nel Sinodo il Pontefice sarebbe riuscito «per soli due voti, ad ottenere la comunione per i divorziati non sposati come già avviene in altri Paesi». Una frase emblematica dell’ignoranza di Mazzetti, dato che i divorziati non sposati possono da sempre ricevere l’Eucarestia mentre al Sinodo si è discusso, semmai, dei divorziati risposati e nelle conclusioni sottoposte a Francesco non compare alcuna votazione (tanto meno per due voti) a favore o contro l’accesso al Sacramento.

Se al telefono mons. Negri ha risposto: «Sono cose inventate, da ricovero alla neurodeliri», in un comunicato apparso nelle ultime ore ha annunciato anche lui querela verso i diffamatori: «La preoccupazione di rivolgere primariamente alla mia chiesa un messaggio di chiarimento riguardo alle affermazioni apparse su “il Fatto Quotidiano” del 25 novembre scorso, non può prescindere da una seconda, doverosa e necessaria azione nei confronti di chi ha così gravemente leso la mia dignità umana ed ecclesiastica e anche quella della chiesa. “Il Fatto Quotidiano” ha operato in spregio delle più elementari norme deontologiche del giornalismo, attribuendomi frasi virgolettate che non ho mai detto ed estrapolandone altre dai loro contesti originari per ricavarne contenuti opposti a quanto si stava dicendo, trasformando così l’ipotesi del giornalista in certezza. E’ profondamente scorretto sul piano della professione e deontologia del giornalista».

Entrando più nello specifico, l’arcivescovo di Ferrara ha precisato: «La cosa più grave riguarda la prima pagina: “Francesco deve fare la fine di quell’altro Papa”. Il terribile titolo virgolettato, infatti, riporta una frase mai pronunciata da me, e prova ne è che poi tale frase non è più rintracciabile nel corpo dell’articolo. Quello che risulta chiaro è che si virgoletta l’interpretazione che “il Fatto” ha voluto dare alla vicenda, crocifiggendomi così ad una frase mai pronunciata. E’ una procedura di gravità inaudita. E che dire infine dell’utilizzo di frasi sottratte senza il permesso della persona interessata e senza chiedere, al momento in cui sono state pronunciate, il loro reale significato e non riportate nella loro completezza? Oltre dunque a riservarmi di far valutare ai miei legali ogni misura a tutela dell’onorabilità della Chiesa e della mia persona, chiedo all’opinione pubblica e all’Ordine dei Giornalisti se questo è il modo di svolgere il lavoro informativo. Ma chiedo anche alla comunità ecclesiale e civile di non rendersi complice di tali operazioni».

 

Aggiornamento 09/12/15
Mons. Matteo Zuppi, vescovo di Bologna, ha rivelato in un’intervista: «Negri mi ha chiamato subito dopo la pubblicazione di quelle parole. Mi ha chiarito e lunedì alla riunione della Conferenza episcopale ci siamo abbracciati».

La redazione

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Crediamo ancora di essere grossi scimpanzé per il 98% dei geni in comune?

ScimpanzèE’ vero, condividiamo il 98% dei nostri geni con le scimmie antropomorfe. Peccato che questa informazione non venga usata strettamente nell’ambito evolutivo, come si dovrebbe invece fare, ma per anni è stata strumentalizzata per fini riduzionistici, ovvero filosofici: l’uomo non è nient’altro che -celebre formula lessicale del riduzionismo- una scimmia poco più evoluta, perciò la creatura non ha nulla di speciale e quindi non esiste alcun Creatore.

Questa è l’estrema sintesi dell’ateismo scientifico (anche se platealmente non esiste più) che abusa dell’evoluzione biologica per cercare di sostenere conclusioni teologiche. Nessuno nega che vi sia una parentela evolutiva con i primati, ma è indubbio che l’uomo abbia misteriosamente ed improvvisamente effettuato un salto ontologico (non soltanto quantitativo, dunque) rispetto ai suoi antecedenti, che lo rende unico, irriducibile, un sistema complesso dove i componenti sono tutti connessi e interdipendenti e il sistema non è dato dalla somma delle parti. Altrimenti non si spiegherebbero tante altre informazioni, fortemente nascoste dai riduzionisti di professione, come quella che abbiamo anche il 90% dei geni in comune con i coralli marini, abbiamo parecchi geni uguali a quelli delle ostriche, il 95% dei nostri geni sono simili a quelli della fragola, l’80% del nostro Dna è in comune con un verme di 1 mm (il Caenorhabditis elegans), mentre per il 50% è condiviso con quello della banana. Abbiamo lo stesso numero di geni della gallina e la nostra composizione atomica non è differente da un ficus. Dunque saremmo scimmie poco più grosse, ma anche grandi ostriche, coralli, topi, fragole e per metà anche delle banane. Se non si vuole cadere nel ridicolo bisognerebbe comprendere che evidentemente l’uomo “non si spiega” nei suoi geni.

Sembra però non tenerlo in considerazione purtroppo Danilo Mainardi, famoso etologo e divulgatore scientifico italiano, nonché presidente onorario dell’Unione Atei Agnostici Razionalisti (insieme a Odifreddi, Nonna Papera e al Gabibbo). In un recente articolo contro la sperimentazione sugli scimpanzé, Mainardi ha infatti sostenuto che essi soffrono tanto quanto l’uomo poiché abbiamo il 98% dei geni in comune con loro. Eppure, Mainardi lo sa bene, l’uomo condivide anche il 97,5% di DNA con il ratto, perché allora non invoca il divieto di ogni tipo di sperimentazione anche sui topi, bloccando quindi tutta la ricerca scientifica e farmacologica (senza contare che anche gli ortaggi “soffrono”)? Perché probabilmente si è più interessati, per motivi filosofici, a umanizzare sui media soltanto le scimmie antropomorfe, per i motivi ateologici ricordati poco sopra. Non a caso tutti coloro che si battono pubblicamente per concedere diritti umani agli scimpanzé sono contemporaneamente militanti anti-teisti, come ad esempio il bioeticista Peter Singer e l’ex zoologo Richard Dawkins.

E’ comunque possibile e giusta una sperimentazione etica, senza sofferenza o sofferenza prolungata per gli animali, così come hanno ribadito in questi anni i più autorevoli scienziati e ricercatori internazionali, come anche laicissimi divulgatori scientifici, da Gilberto Corbellini e Michele De Luca fino al vegetariano Umberto Veronesi. Posizioni, quelle dell’animalismo radicale e del riduzionismo ateologo, che andrebbero abbandonate secondo i colleghi di Mainardi, come ha spiegato Enrico Alleva, già presidente della Società Italiana di Etologia e direttore del Reparto di Neuroscienze comportamentali all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, o il neuroscienziato Vittorio Gallese.

Condivisibile l’intervento di qualche mese fa dell’epistemologo Mauro Ceruti, docente di Filosofia della scienza all’Università Iulm di Milano, che ha criticato la divulgazione scientifica che sui quotidiani diffonde i miti del “gene dell’intelligenza”, del “gene della fedeltà” ecc. «Penso a quante volte si continui a dare un’immagine addirittura falsa e fuorviante degli sviluppi più interessanti della genetica. Quasi ogni giorno leggiamo della scoperta del gene dell’intelligenza o del talento musicale o dell’aggressività o di qualunque altra caratteristica si voglia enfatizzare». Ed invece, ha proseguito il filosofo, «la scienza richiede l’elaborazione di una cultura in grado di concepirne il senso e di utilizzare appieno le sue straordinarie potenzialità, superando le barriere che frammentando le conoscenze frammentano il reale, rendono incapaci di considerare il ‘contesto’ e il ‘complesso’, rendono incoscienti e irresponsabili dinanzi alle conseguenze delle nostre azioni proprio perché diamo arbitrariamente per scontato di essere capaci di prevederle e di controllarle». «Per inerzia», invece, «anche da parte di molti suoi comunicatori, il modo in cui la scienza viene rappresentata è tornato positivista fuori tempo massimo, per così dire, ignorando come ormai da più di un secolo la scienza abbia cambiato paradigma abbandonando l’idea di essere autosufficiente. Anche nel campo dell’epistemologia permangono vive le tendenze riduzioniste, secondo le quali il compito della scienza sarebbe quello di scoprire in modo oggettivo, assoluto, un codice semplice nascosto dietro l’’apparente’ complessità del mondo».

Nel 2007, sempre il noto filosofo italiano, elogiò il proficuo dialogo tra scienza e fede, criticando oltre ai creazionisti anche i «tenaci oppositori che ritengono che i sostenitori di una visione scientifica dovrebbero essere necessariamente atei, ed anzi fare opera di proselitismo per condurre le persone “infantili” alla “maturità”. Così, il biologo inglese Richard Dawkins e il movimento dei “nuovi atei” auspicano che le persone “ragionevoli” dicano basta alle religioni, giudicate “nocive” al “pensiero indipendente”. Parlano di autosufficienza della scienza in virtù di una presunta “maturità”, e mettono sotto tiro anche le tradizioni umanistiche. Ma tali affermazioni rischiano di danneggiare soprattutto le scienze, perché entrano in collisione col loro pluralismo, con la loro libertà di interrogazione»

La redazione

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Gay si diventa? Domanda lecita, tutti siamo orientati all’altro sesso

Difesa matrimonioGay si nasce o si diventa?. Da anni la tematica dell’omosessualità è al centro del dibattito sociale e, seppur poco interessati, anche noi non ci siamo sottratti dal considerarla. Abbiamo sempre preferito occuparci, tuttavia, non tanto dell’inclinazione in sé ma piuttosto dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, delle adozioni, del diritto per chi prova attrazioni omosessuali indesiderate di cercare aiuto terapeutico per affrontare la sua situazione, e dei due estremi: omofobia e omofascismo.

Il tema dell’omosessualità in quanto tale, sopratutto della sua genesi, lo ha aperto in questo periodo Simon LeVay, diventato famoso una ventina di anni fa sostenendo un’ipotesi genetica (la regione Xq28 del cromosoma X) alla base dell’orientamento sessuale, anche se poi ha rettificato: «sono stato indicato ripetutamente come colui che “ha dimostrato il fondamento genetico dell’omosessualità” […]. Non ho mai asserito questo. Io non ho dimostrato che l’omosessualità è genetica, o trovato una causa genetica dell’essere gay. Non ho mostrato che gli uomini gay sono nati così, questo è l’errore più comune che si fa interpretando il mio lavoro» (The Sexual Brain, p. 122).

Nel suo ultimo libro, “Gay si nasce?” (Cortina edizioni 2015), ha analizzato i vari tentativi scientifici di individuare l’origine dell’omosessualità, arrivando però a concludere che non siamo in grado di capirlo. Non c’è nessun gene gay. Recensendo il libro, lo psicologo filo-Lgbt Vittorio Lingiardi, ordinario presso La Sapienza di Roma, ha giustamente negato che «il gene rappresenti una grandezza irriducibile e immutabile e che tra un gene potenzialmente attivo e un comportamento complesso esista una relazione causa-effetto, cosa lontana da ciò che presumibilmente accade». L’origine dell’omosessualità è quindi da trovarsi in un’influenza reciproca e continua tra espressività genetica e contesto ambientale.

La cosa più interessante è che Lingiardi si è dimostrato spazientito dal fatto che tutti si domandano se si “nasce o si diventa gay”, questa è «l’immancabile domanda, che (al)l’etero non si pone, “quando e perché sono diventato così?”». Innanzitutto osserviamo finalmente una presa di coscienza: “etero si può diventare”, dice Lingiardi, mentre fino ad ora è sempre stato vietato sostenere che qualcuno potesse uscire dall’omosessualità e “diventare” eterosessuale. Quando gli andava bene veniva accusato di omofobia e subiva un linciaggio mediatico, accusato di mentire, di sostenere che i gay sono malati o di non essere mai stato omosessuale. Questo perché, sostengono ancora oggi molti militanti Lgbt, gay si può diventare in qualunque momento ma nessuno può (o deve) “passare” all’eterosessualità.

La seconda riflessione che vorremmo fare è che la domanda se si nasce o si diventa gay se la pongono effettivamente tutti, anche gli stessi omosessuali: non a caso lo stesso LeVay -omosessuale dichiarato- addirittura ha realizzato una ricerca scientifica per tentare di rispondervi. Non bisogna affatto stupirsi di questo, come invece fa Lingiardi: che la nostra corporeità, fin dalla nascita, indichi oggettivamente una predisposizione naturale all’incontro con un sesso diverso dal nostro, è sotto gli occhi di tutti. Siamo tutti naturalmente (cioè anatomicamente, geneticamente e fisiologicamente) orientati verso l’altro sesso, comprese le persone omosessuale, tant’è che esse  -al di là dei loro comportamenti sessuali- abitano comunque un corpo orientato e finalizzato all’incontro con l’altro sesso, che continuerà sempre a funzionare fisiologicamente come un “corpo eterosessuale”. Il fatto che in loro vi sia una contraddizione tra orientamento fisiologico corporale e l’auto-percezione psicologica è da ritenersi un’eccezione (anche dal punto di vista meramente statistico) misteriosa. Lo stesso Catechismo cattolico afferma: «La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile».

L’uomo e la donna sono esseri complementari, cioè si completano a vicenda, sono orientati naturalmente ad incontrarsi ed unirsi, lo dice la struttura anatomica e fisiologica del corpo ma anche l’espressione caratteriale e genetica, come efficacemente spiegato da Platone con il paragone delle due metà della mela. La nostra natura è orientata verso la complementarietà sessuale e le persone con tendenza omosessuale non hanno una natura diversa dalla nostra. Hanno tendenze e comportamenti diversi, ma essi non costituiscono l’identità personale, la natura della persona. Chi ha una bella voce non ha una identità cantante, ma è una persona che canta; chi nasce con una malformazione fisica non ha una identità malformata, ma è una persona con una malformazione; chi nasce con una tendenza ad essere timido non ha un’identità o una natura timida, ma è una persona che sperimenta timidezza. Così, le persone omosessuali non hanno una natura omosessuale, dunque in contraddizione con il loro corpo e il loro orientamento naturale anatomico e fisiologico, ma semmai hanno tendenze e comportamenti omosessuali. La differenza è profonda.

Questo ci porta a concludere che non c’è alcuna stranezza a domandarci da dove nasca l’omosessualità nelle persone, mentre sarebbe assurdo porci delle domande sulla genesi della nostra eterosessualità. Essa è iscritta nella profondità dell’uomo, nelle regole della natura (nell’evoluzione della specie, direbbero i biologi) tanto che basta osservare il nostro corpo (anche quello delle persone con tendenze omosessuali) e il suo funzionamento per capirlo. Un corpo che è inscindibile dal nostro vissuto psicologico, tanto che chiunque si aspetta una coerenza tra corpo e mente. Esistono evidentemente casi di incoerenza (o contraddizione) tra orientamento del corpo e sensazioni psicologiche, cioè in chi vive tendenze omosessuali, ma questo non significa affatto che queste persone abbiano una natura omosessuale. La quale resterà sempre orientata in coerenza con la proprio corporeità.

 

Difesa matrimonio

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Proseguono le vittorie contro la cultura dello scarto (marzo-ottobre 2015)

prolifeCon la ripartenza dell’aggiornamento del nostro sito web riprendono anche le nostre rubriche, oggi ci occupiamo delle piccole conquiste contro la “cultura dello scarto” che si sono verificate nel mondo nel periodo tra marzo e ottobre 2015.

Innanzitutto, cos’è la cultura dello scarto? Il termine è stato coniato da Papa Francesco in moltissimi suoi discorsi: «Una diffusa mentalità dell’utile, la “cultura dello scarto”, che oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti, ha un altissimo costo: richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli», ha ad esempio detto nel 2013. «La nostra risposta a questa mentalità è un “sì” deciso e senza tentennamenti alla vita. Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente ad essere abortito, ha il volto di Gesù Cristo, ha il volto del Signore, che prima ancora di nascere, e poi appena nato ha sperimentato il rifiuto del mondo. Non si possono scartare, come ci propone la “cultura dello scarto”! Per questo l’attenzione alla vita umana nella sua totalità è diventata negli ultimi tempi una vera e propria priorità del Magistero della Chiesa, particolarmente a quella maggiormente indifesa, cioè al disabile, all’ammalato, al nascituro, al bambino, all’anziano, che è la vita più indifesa. Mentre si attribuiscono alla persona nuovi diritti, a volte anche presunti diritti, non sempre si tutela la vita come valore primario e diritto primordiale di ogni uomo. Il fine ultimo dell’agire medico rimane sempre la difesa e la promozione della vita».

 

A causa della nostra assenza non siamo riusciti a ricostruire il panorama completo, ci sono state però riferite diverse notizie incoraggianti. Eccole elencate:

In Irlanda del Nord è stata aperta la prima clinica anti-aborto (così definita dai media), ovvero una clinica americana (la Stanton Healthcare) che fornisce un aiuto concreto alle donne che affrontano crisi durante la gravidanza. E’ un’alternativa gratuita all’aborto, portata avanti in modo volontario da donne che sono state a loro volta aiutate a portare avanti la gravidanza e a non scartare i loro bambini: «Crediamo che le donne e i loro bambini non ancora nati meritano qualcosa di meglio dell’aborto. Questa clinica fornirà la migliore cura e sostegno pratico per le mamme aiutandole a superare gli ostacoli e a scegliere la vita per il loro bambino».

In Florida è stata approvata una legge che impone almeno 24 ore di attesa dalla richiesta di aborto alla sua realizzazione, offrendo alle donne un tempo di riflessione sul grave gesto che stanno per farsi procurare. Diverse statistiche mostrano che più tempo passa tra la richiesta e l’intervento e più donne cambiano idea.

Nel Wisconsin il governatore Scott Walker ha firmato un disegno di legge che vieta tutti gli aborti oltre le 20 settimane di gravidanza, facendo un’eccezione solo per le emergenze mediche.

Nel Michigan sta per essere approvata una legge che prevede il carcere per i medici che durante l’intervento abortistico «deliberatamente e intenzionalmente utilizzano qualsiasi strumento, dispositivo o un oggetto per smembrare il feto vivente, disarticolando gli arti o decapitando la testa, per cercare di rimuovere il corpo e le sue parti dall’utero materno». Pochi sanno, infatti, che spesso il feto -spesso ancora vivente- viene decapitato o amputato per poterlo così estrarre dal corpo della madre. Nel Michigan 2.264 aborti sono stati effettuati con questo metodo, chiamato “Dilatazione ed evacuazione”.

In India è stato approvato un decreto restrittivo sull’utero in affitto, che potrà essere fornito solo a coppie sposate di cittadini indiani. Alle 350 cliniche per la fertilità che operano nel Paese, quindi, è stato ingiunto di non accettare clienti stranieri. Meglio di niente, insomma.

In Texas, a Houston, un referendum popolare ha cancellato l’ordinanza che aboliva le distinzioni per sesso nei bagni pubblici “per rispetto dei trans”. La norma era infilata in un pacchetto di misure antidiscriminazione fortemente sostenuto dalla comunità Lgbt.

In Italia, a Reggio Calabria, il consiglio comunale ha approvato una mozione che propone di istituire una giornata ad hoc per festeggiare la “famiglia naturale”.

Il Kansas è diventato il primo stato a vietare l’aborto con smembramento (“dilatazione ed evacuazione”), descritto poco sopra. Il 9% degli aborti avveniva in questo modo, la legge approvata è divenuta un modello per altri Stati. La legge è stata temporaneamente bloccata da un giudice, ma i difensori della vita hanno già presentato appello. In ogni caso l’Oklahoma sta per approvare un provvedimento simile.

In Spagna il Senato ha approvato una riforma restrittiva della legge sull’aborto introdotta dal governo Zapatero nel 2010, che richiede obbligatoriamente la decisione dei genitori dei minorenni per acconsentire o meno l’intervento di uccisione del bambino non ancora nato. Minima vittoria, in questo caso.

Nel Texas una clinica abortista di proprietà di Planned Parenthood è stata costretta a chiudere e al suo posto si è insediato un centro di aiuto alle donne, di assistenza alla gravidanza e di ispirazione pro-life.

In Italia una recente norma ha rivoluzionato il concetto di adozione, la quale è prevista solamente da coppie sposate e non da single o da coppie di fatto.

Nel Wisconsin la commissione del Senato ha approvato un disegno di legge a favore della vita dirottando i fondi federali della Pianificazione familiare lontano da Planned Parenthood, ovvero la lobby abortista più potente del mondo. La decisione è stata presa sulla scia di una serie di 10 video che mostrano funzionari di Planned Parenthood che vendono i bambini abortiti e le loro parti del corpo.

In Polonia la Corte costituzionale ha confermato il diritto dei medici ad astenersi da pratiche che contrastano con la propria coscienza e ha inoltre riconosciuto loro il diritto di rifiutarsi di indicare alle donne che vogliono abortire un medico non obiettore.

Nell’Ohio è stata respinta, con il 65% di voti contrari e il 35% favorevoli, la proposta di legalizzare l’uso della Marijuana a scopo ricreativo.

In Irlanda del Nord è stata rifiutata l’istituzione del matrimonio gay. Decisivo al respingimento della proposta è stato il veto posto dal Dup (Partito Unionista Democratico) di Peter Robinson.

In America segnaliamo con soddisfazione l’angoscia del Guttmacher Institute, il braccio medico di Planned Parenthood, ovvero la lobby abortista più potente nel mondo, emersa durante la relazione annuale riferita al periodo 2010-2014: negli USA sono state approvate 231 leggi restrittive sull’aborto; più della metà degli Stati Uniti è guidato da una giurisdizione che protegge la vita dei bambini e delle madri; 27 stati hanno introdotto severe restrizioni sull’aborto, di cui 18 con più di cinque leggi restrittive; nel 2014 ci sono stati 341 disegni di legge per difendere la vita, 26 di essi sono diventi legge; in diversi stati sono stati chiusi tutti i centri abortisti a causa di leggi restrittive; in molti stati è stato anche limitato il finanziamento all’aborto.

 

La redazione

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Vatileaks 2: giusto il processo ai corvi e ai giornalisti Nuzzi e Fittipaldi

TribunaleLa magistratura vaticana ha rinviato a giudizio cinque persone al termine dell’inchiesta sulla sottrazione e la diffusione dei documenti riservati della Santa Sede (Vatileaks2), nella quale sono stati arrestati monsignor Lucio Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, che saranno processati da domani insieme ai giornalisti Gianluigi Nuzzi, Emiliano Fittipaldi e a Nicola Maio, ex collaboratore della Commissione referente sulle strutture economiche e amministrative della Santa sede (Cosea). Il processo per indagare le eventuali responsabilità dei “corvi” e dei loro “ricettatori” è giusto e lecito, anche perché si sospettano atti di pressione da parte dei giornalisti sulle loro fonti vaticane In ogni caso le severe leggi sulla divulgazione di notizie e documenti riguardanti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede dell’indipendente Stato Vaticano sono ed erano note sia ai corvi che ai giornalisti stessi, inutile lamentarsi ora e piagnucolare vittimismo strappalacrime su Repubblica (vedi il furbo Fittipaldi).

Per capire meglio il motivo per cui sosteniamo il procedere di un giudizio di responsabilità di eventuali reati pubblichiamo la condivisibile opinione di Franco Monaco, giornalista e senatore del Partito Democratico pubblicata su “Avvenire”, e la relativa risposta del direttore Marco Tarquinio.

 

Caro direttore,
lungi da me la presunzione di mettere lingua nel coacervo di problemi sollevati dai due libri di cui tanto si parla di Nuzzi e Fittipaldi, ora che il promotore di giustizia vaticano li ha rinviati a giudizio. Problemi relativi alle finanze vaticane, al patrimonio immobiliare degli enti in vario modo riconducibili alla Santa Sede, alla riforma della Curia romana, allo stato dell’arte dell’azione avviata da papa Francesco per assicurare trasparenza e sobrietà nel rapporto con i beni materiali da parte di uomini e istituzioni della Chiesa. Basti osservare che, quale che sia il giudizio su tali inchieste giornalistiche, al fondo, il problema è quello del rapporto tra mezzi e fine nella missione della Chiesa, e di vigilare affinché quel rapporto non si inverta. Un’impresa non facile e da non dismettere mai se si considera che la Chiesa è istituzione anche umana.

Vorrei piuttosto spendere una parola su un “dogma laico” secondo il quale i giornalisti avrebbero un solo e assoluto dovere: quello di pubblicare i documenti di cui entrano in possesso. Naturalmente dopo avere accertato la veridicità di essi. Spero non sia vietato muovere obiezioni sul punto. Primo: davvero il giornalista può/deve procedere alla pubblicazione di notizie quand’anche consapevole che esse siano state illecitamente trafugate? Non so se sia reato di ricettazione. Di sicuro, a mio avviso, è comportamento censurabile, sotto il profilo dell’etica professionale.

Secondo: davvero il giornalista è tenuto a pubblicare sempre, nell’assoluta indifferenza per le implicazioni e gli effetti della notizia? Domando, per esempio, perché giustamente si censurano immagini truci e cruente come le decapitazioni, se non perché ci si preoccupa responsabilmente dei loro effetti? Sia nel turbare e ferire la sensibilità dei telespettatori, sia nel dare così una mano ai terroristi. Eppure anche in questo caso la notizia sotto forma di immagine ci sarebbe tutta. Può l’operatore dell’informazione non contestualizzare le notizie, non domandarsi se esse complessivamente accreditino una visione almeno unilaterale della realtà di cui riferiscono, in questo caso la vita della Chiesa?

Terzo: i suddetti giornalisti, anche per giustificare il ricorso a fonti oscure e controverse, sostengono che le loro inchieste verrebbero utili all’azione riformatrice del Papa. Prendiamola per buona (non lo è, ma ci è utile ai fini del nostro ragionamento). Dunque, per loro stessa ammissione, non è così vero che si è indifferenti all’effetto della loro pubblicazione; non è vero che tutta l’etica del cronista si risolve nel dovere di dare le notizie sempre e comunque, quale che sia il loro contenuto e la fonte da cui sono tratte. Quarto: se non le notizie in sé, l’interesse pubblico di esse, nel caso in oggetto, starebbe nella denuncia dello “scandaloso” scarto tra predicazione della povertà e comportamenti in vistoso contrasto con essa. Problema serissimo, intendiamoci, che non può essere esorcizzato quando i fatti parlano. Ciò detto, è difficile non rilevare nella stampa un accanimento mirato verso gli uomini di Chiesa, cui si domanda un ascetismo specialissimo. Quasi per il gusto di prenderli in castagna. La loro incoerenza, in certo modo, ci alleggerisce un po’ tutti nelle incoerenze nostre. Qui il discorso non è limitato ai giornalisti, ma a noi tutti: l’enfasi compiaciuta sulle miserie degli uomini di Chiesa ci fa sentire autorizzati ad essere vieppiù indulgenti con le miserie nostre. Se persino loro…

Insomma, mi sentirei di confutare la tesi sbrigativa secondo la quale il giornalista ha un solo dovere: quello di pubblicare le notizie. Tutto il resto non lo riguarderebbe. Una idea specialistica e selettiva dell’etica dell’informatore francamente limitata e deresponsabilizzante, che rifiuteremmo di sicuro se applicata ad altre professioni, quali ad esempio il medico, l’insegnante, il politico. Franco Monaco

 
 

Grazie, caro Monaco, per gli interrogativi che pone e per il modo in cui lo fa. Da giornalista e anche da politico (visto che attualmente è deputato eletto nelle liste del Pd). Ma prima di tutto, a mio parere, da cittadino. Un cittadino che sa di che cosa parla e si pone in modo seriamente critico davanti a derive che sono in corso (anche) nel nostro Paese e che minacciano di condurre a un profondo snaturamento e a una ulteriore perdita di credibilità dell’informazione, strumento invece essenziale per una vita civile e per una democrazia degne di questi nomi.

Il cosiddetto caso “Vatileaks 2” (ovvero l’attacco all’opera di riforma che papa Francesco sta portando avanti anche nelle strutture centrali della Chiesa) ha sottolineato di nuovo il problema, e così certi approcci informativi alla guerra che chiamiamo “terroristica” e che sta conoscendo una nuova acutissima fase. E lei, caro Monaco, si concentra su un gran nodo: davvero è assoluto dovere del giornalista pubblicare tutto ciò che entra nella sua “disponibilità” professionale, a prescindere dai modi con i quali determinati documenti e informazioni sono stati ottenuti e senza considerare le conseguenze di questo operato?

Anche la mia risposta è, in sostanza e per principio, “no”. I cronisti possono scrivere tutto e devono valutare tutto, ma non tutto è assolutamente pubblicabile. E questo perché so – l’ho scritto e sostenuto apertamente senza temere smentite – che chi fa con libertà e responsabilità il mestiere che faccio anch’io, non può diventare (né in senso morale, né in senso materiale) ricettatore e/o ricattatore e neanche un “violentatore” della vita delle persone. Perché so che i cronisti anche quando scrivono libri, a meno che non si tratti di romanzi o di favole, hanno l’«obbligo» di garantire a lettori e spettatori «il rispetto della verità sostanziale dei fatti» (e dunque non possono offrire ricostruzioni parziali, edulcorate o esacerbate, comunque falsanti di nessun avvenimento, di nessuna vita personale, di nessuna realtà umana e religiosa). E infine perché so che il dovere di «buona fede» e di «lealtà» che grava su ogni giornalista comprende, senza se e senza ma, la non–cooperazione a crimini e propagande criminose.

Mi rendo conto di aver scritto «non–cooperazione» (che somiglia tanto al coraggio “che uno si sa dare” e alla schiena diritta e alle tasche trasparenti “che uno si può permettere”), ma voglio dire e dico – all’unisono con colleghi che mi sono stati maestri di professione – «resistenza attiva» al cospetto di crimini di qualunque natura. Cioè, noi cronisti non possiamo e non dovremmo mai diventare complici e amplificatori – supini o maliziosi – di operazioni di oscura disinformazione, di spaccio di sporcizie o, come ho scelto di titolare in prima pagina giovedì scorso, di una qualche «congiura della paura». Il tempo che stiamo vivendo ci sta mettendo in modo drammatico davanti a tale problema. Che è permanente, ma che già in altre fasi della nostra storia civile (penso, come è ovvio, soprattutto agli “anni di piombo”), abbiamo vissuto in modo lancinante e risolto, alla fine, con scelte sagge e coraggioso senso del limite e del bene più grande.

Credo infatti che il metro della correttezza – ovvero del rispetto dato e ricevuto – nei confronti di chi ci legge, ci ascolta e ci guarda imponga a noi giornalisti di non aderire a logiche e modalità informative che non servono la verità, mortificano la libertà e danno più forza a mascalzoni o, peggio, ad assassini. Marco Tarquinio

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Progetto Pioneer: educazione sessuale che valorizza la diversità uomo-donna

Progetto pioonerConsideriamo il Progetto Piooner un’ottima iniziativa non solo di contrasto all’inserimento dell’ideologia gender nelle scuole, ma anche un progetto propositivo per educare al rispetto valorizzando la differenza sessuale. Abbiamo così chiesto ai responsabili una presentazione sul nostro sito web e ne approfittiamo per invitare sindaci, assessori, consiglieri comunali, presidi, insegnanti e genitori ad interessarsi a questo progetto innovativo, inserendolo nelle scuole delle loro città. 
 
 
lo staff Progetto Pioneer*
*www.progettopiooner.it

 
I nostri bambini sono in pericolo. Siamo in un’epoca in cui si può finalmente sperimentare la vera libertà. L’educazione gender è un abominio. L’educazione gender è un’invenzione, non esiste. Il fine di una nuova educazione sessuale è abolire ogni forma di discriminazione. Il fine di questa eduzione sessuale è portare avanti un’ideologia.

In piazza il 20 giugno c’erano più di un milione di persone. In piazza erano veramente pochi, non l’hanno neanche riempita tutta. È questo lo scenario che sembra emergere leggendo la rappresentazione che stanno costruendo i media di questo importante momento di dibattito culturale: due poli opposti. La polarizzazione delle posizioni invece che alimentata, va evitata, poiché potrebbe creare una distorsione cognitiva e l’inasprimento dei toni. Paradossalmente, poi, nella dinamica di allontanarsi l’uno dall’altro, i poli finiscono inevitabilmente per prendere distanza anche da ciò che sta fra di loro: la questione, i fatti e le persone concrete. É questo lo scenario in cui molti genitori, insegnanti e professionisti si interrogano cercando di capire come sia meglio muoversi, cercando di svolgere con coscienza il proprio ruolo con l`impegno di rimettere al centro i veri protagonisti: i bambini.

Ci presentiamo. Siamo il Progetto Pioneer, un’associazione di promozione culturale attiva dal 2014 come risposta alle numerose richieste pervenute da parte del contesto civile e sociale, per fornire servizi e strumenti operativi specifici per i contesti educativi e formativi. La nascita di questa associazione è legata anche al contributo e al consenso raccolto dal libro “Educare al femminile e al maschile” (T. Cantelmi e M. Scicchitano, 2013), attraverso il quale si è tracciato il sentiero di un percorso articolato e in continuo sviluppo, che ha portato alla formazione del nostro team di lavoro. I professionisti del nostro gruppo provengono da diversi ambiti disciplinari: siamo psicologi e psicoterapeuti, ricercatori clinici, educatori e formatori, artisti, fumettisti, web designer, esperti in comunicazione.

Perché Pioneer? Questa la storia: nel 1972 gli Stati Uniti hanno spedito nello spazio una navicella con l’intenzione di farla uscire dal Sistema Solare, chiamata appunto Pioneer10. I responsabili della missione ebbero un’idea, in collaborazione con la Nasa: “Nella remota possibilità che questa navicella venga trovata da qualche essere extra terrestre, non sarebbe bene dare qualche informazione sull’origine della sonda spaziale?”. Sulla sonda sarebbe stata inserita una placca, contenente delle informazioni per eventuali incontri alieni. Vennero quindi inserite le informazioni sulla posizione della Terra rispetto al sistema solare e poi due figure, b con una mano alzata in segno di saluto o di pace, e una donna. Solo 40 anni fa abbiamo spedito questo messaggio in giro per lo Spazio per descrivere chi siamo. Noi del progetto Pioneer riteniamo che la differenziazione sessuale dell’essere umano, maschile e femminile, sia una realtà da accogliere, valorizzare e far fruttare.

Arriviamo quindi a quello che è l’obiettivo principale del Progetto Pioneer: promuovere il benessere della persona (bambino, giovane o adulto, uomo o donna), nel suo essere globale formato da corpo, mente, credenze, aspettative e cultura, a partire dall’identità sessuata. Che vuol dire a partire dall’identità sessuata? Vuol dire fondare un modello educativo sul riconoscimento, il rispetto e la valorizzazione della differenza tra uomini e donne, e tra maschile e femminile, non come realtà monolitiche e predeterminate, ma come elementi che trovano nella natura il loro fondamento primo, e negli apprendimenti successivi il modo con il quale la natura (umana) trova gli ambiti per il suo pieno sviluppo.

La nostra idea è che una buona educazione sessuale debba tener necessariamente conto di queste differenze, e non possa avere come primo presupposto quello di promuovere l’indifferentismo sessuale o la sessualizzazione a ogni livello dell’educazione stessa. È proprio partendo da questa complessità che abbiamo strutturato progetti formativi che lavorino non solo, e nemmeno primariamente, sulla sessualità del bambino, ma su tutte le direttrici dello sviluppo: cognitiva, emotiva, fisica, relazionale e così via. Questi progetto formativi, quindi, non operano solo sull’educazione sessuale, in senso stretto, ma anche su altri fattori che in natura – come dimostrato anche dalla letteratura scientifica – sono correlati con una sana sessualità infantile e adulta, sebbene con le loro profonde differenze. Riteniamo, inoltre, che un ruolo primario in un’area così delicata dell’educazione lo abbia la famiglia. I nostri progetti formativi, quindi, tendono ad instaurare un patto tra la famiglia, la scuola e i professionisti.

Per questo, abbiamo sviluppato progetti rivolti non solo ai bambini, ma anche a genitori e insegnanti. I laboratori dedicati a bambini e ragazzi sono dei percorsi formativi che hanno l’obiettivo di promuovere la conoscenza e il rispetto di sé e degli altri, a partire da aspetti corporei, emotivi e relazionali. Sono organizzati in cicli di 6-8 incontri con una durata complessiva di 4-5 mesi. I laboratori sono suddivisi per fascia d’età, dalla scuola dell’Infanzia alle scuole secondarie superiori e riguardano aspetti rilevanti e idonei per quella fascia d’età specifica. In particolare per i ragazzi delle scuole superiori abbiamo ideato un progetto formativo da svolgere per tutti e cinque gli anni, al fine di supportare i ragazzi nelle sfide che ogni anno si trovano ad affrontare per giungere alla costruzione della loro identità personale in modo sano e soddisfacente.

La formazione è rivolta anche a docenti, insegnanti e genitori ed ha l’obiettivo di promuovere una didattica e uno stile educativo consapevole su temi quali: lo sviluppo (in particolare lo sviluppo sessuale, affettivo e relazionale), la differenziazione maschile e femminile nella didattica e nell’eduzione, le strategie educative e didattiche differenziate per maschi e femmine, le emozioni (in particolare come riconoscerle, comprenderle e gestirle). Inoltre, parte del nostro lavoro, è dedicata ad elaborare progetti educativi volti a dare risposta alle richieste provenienti dalle istituzioni e dal contesto scolastico come progetti contro la discriminazione e per la promozione del riconoscimento, del rispetto e della valorizzazione delle differenze di genere. Come ben espresso dal nostro motto, promuovere una sana e salda identità è il miglior presupposto per favorire nei nostri ragazzi personalità accoglienti ed aperte.

Il nostro impegno costante è quello di fondare le nostre idee e i nostri progetti sulle solide basi della ricerca e delle letteratura scientifiche più aggiornate. Per chi fosse interessato a comprendere il nostro sistema teorico di riferimento rimandiamo alla lettura del libro di recente pubblicazione “Nati per essere liberi” (Cantelmi, 2015). Per quanto riguarda, invece, la conoscenza del modo con il quale decliniamo e realizziamo questo modello teorico di riferimento nei vari ambiti di applicazione (educazione scolastica, educazione famigliare, relazione di coppia e così via), invitiamo a contattarci e a chiedere direttamente informazioni. E speriamo, poi, che se questi alieni, un giorno, dovessero davvero arrivare, non pensino di aver sbagliato pianeta e siano in grado di riconoscere la nostra razza. La razza umana.

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