Re biblico Ezechia, l’archeologia conferma l’esistenza

ezechiaFino a pochi decenni fa molti storici e studiosi concordavano sul fatto che le narrazioni bibliche che descrivono il tempo prima dell’esilio babilonese sarebbero state frutto della fantasia di scribi pii, mossi dall’obiettivo di giustificare le loro preoccupazioni sull’esilio attraverso la creazione di un passato a cui far riferimento.

E’ stata anche messa in dubbio l’esistenza di figure come i re Davide e Salomone, mentre alcuni studiosi oggi affermano che sarebbero esistiti ma soltanto come piccoli capi tribali, oggetto di successiva glorificazione. E’ stata l’archeologia a smentire queste convinzioni.

Proprio in questi giorni è stata annunciata la scoperta a Ophel, ai piedi della parete meridionale del Monte del Tempio, di un sigillo reale del re biblico Ezechia. Gli scavi, condotti dall’Università Ebraica di Gerusalemme sotto la direzione di Eilat Mazar, hanno portato alla luce questo reperto di forma ovale, sul quale compare un’iscrizione in alfabeto ebraico antico, che recita: “Hezkiahu (figlio di) Achaz re di Giudea“. Vi è inciso anche un sole con due ali rivolte verso il basso, affiancato dall’ankh simboleggiante la vita, che è l’emblema scelto dal monarca nella fase finale del suo regno, protrattosi negli anni 727-698 a.C. Ezechia è descritto favorevolmente nella Bibbia (Re2, Isaia, Cronache) come re intraprendente e audace: «Fra tutti i re di Giuda nessuno fu simile a lui, né fra i suoi successori né fra i suoi predecessori» (Re2 18,5).

Il ritrovamento va connesso a quelli emersi in questi anni rispetto agli altri re biblici, come Davide e Salomone. Ricordiamo ad esempio la scoperta di una città fortificata in Giudea al tempo di re Davide, che ha fatto concludere così gli studiosi: «le ipotesi di chi nega la tradizione biblica per quanto riguarda Davide e sostiene che egli era una figura mitologica, o un semplice capo di una piccola tribù, vengono ora dimostrate essere errate». I reperti di Khirbet Qeiyafa indicano, inoltre, che uno stile architettonico elaborato si era sviluppato fin dal tempo del noto re biblico, così come la formazione di uno stato e la creazione di una élite, con un certo livello sociale e urbanistico.

L’esistenza di Davide è stata anche confermata dalla stele di Tel Dan, trovata nell’odierno Israele settentrionale nel 1993-94, e datata all’incirca all’842 a.C.. L’iscrizione reca il nome di re Davide e descrive la sconfitta di Joram (o Jehoram), re del regno di Israele, e suo figlio Ahaziah (o Ahaziyahu), re del regno di Giuda, da parte del sovrano del regno di Aram Damasco all’inizio del 9° secolo a.C. Allo stesso tempo è stato trovato il palazzo di re Salomone e l’antica muraglia di Gerusalemme da lui fatta costruire.

Ci sono conferme anche sui personaggi più famosi e apparentemente più mitologici della Bibbia, come ad esempio Sansone. E’ stata ritrovata, infatti, una moneta dell’XII secolo a.C. in cui si descrive un grande uomo con i capelli lunghi che lotta contro un leone. E’ noto infatti il famoso episodio biblico della forza di Sansone che squarciò, come fosse un capretto, un leone che lo aggredì (Giudici 14,6). Gli studiosi sono infatti convinti che rappresenti il famoso giudice biblico.  Il prof. Lawrence Mykytiuk , della Purdue University, ha spiegato e mostrato che ad oggi l’archeologia ha confermato l’esistenza di almeno 50 personaggi biblici.

Rimandiamo un approfondimento su questa tematica ad un nostro dossier specifico sull’archeologia biblica. Ci teniamo tuttavia a ricordare che la prudenza è obbligatoria, tali scoperte vanno tenute in alta considerazione ma è sbagliato pensare all’Antico Testamento come fosse un testo storico o scientifico. Non è stato scritto con queste intenzioni ed è sbagliata una lettura letterale: il messaggio inspirato da Dio ha esclusivamente un significato salvifico, descrive la rivelazione pedagogica di Dio agli uomini e va bel al di là della narrazione dei fatti, molti dei quali sono effettivamente storici come oggi conferma l’archeologia. Sant’ Agostino, infatti, definiva la Bibbia come il libro della pazienza di Dio, che vuole condurre gli uomini e le donne verso un orizzonte più alto (I Comandamenti, p. 100).

La redazione

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La tristezza del trans Renée Richards: «sono un facsimile di donna»

Renèè richardsCi hanno colpito le recenti parole usate da Richard Raskind, noto tennista degli anni ’70 che nel mezzo della sua carriera subì un’operazione chirurgica per assumere le sembianze di una donna, ricevendo prima il rifiuto dell’United States Tennis Association a disputare i campionati femminili e poi lo storico permesso della Corte Suprema di New York nel 1977.

Si è così fatto chiamare Renée Richards e la sua voce su Wikipedia sintetizza bene la conclusione: «Dopo il trattamento ormonale, l’ampia consulenza psicologica e la riassegnazione chirurgica del sesso, il suo alter-ego Renée finalmente è diventato una realtà». Il termine alter-ego è quanto mai azzeccato: indica una seconda personalità all’interno dello stesso soggetto, creata a tavolino dopo il bombardamento ormonale, il trattamento psicologico e la modifica estetica esteriore del corpo.

Questa preoccupante doppia personalità emerge anche nell’intervista recente a Repubblica: «Io da Renée non cucino, né faccio giardinaggio, adoro lo stesso Bach che adoravo quando ero Richard. Come Renée non ho mai amato uomini e come Richard ho amato donne. E ora che sono invecchiata do ai vestiti molto meno importanza di una volta. Non odio Richard Raskind, è una parte di me, ho la sua stessa personalità». Viene a galla anche molto altro, una vita di rimpianti per le decisioni prese: «Ai giovani quando c’è conflitto tra il proprio sentire psichico e la condizione anatomica bisognerebbe lasciare tempo per decidere, non forzarli, a volte anche le circostanze sono un obbligo. Ci sono scelte personali che si fanno per sano egoismo, ma che coinvolgono anche gli altri. Mi sono allontanato per quattro anni da mio figlio, Nick, che in quel momento ha perso un padre: è una cicatrice che non sparisce. L’autorità paterna in gonna funziona meno. Per non parlare di certe scene, al supermercato, dove Nick mi chiama “papà, papà”, e la gente vede un omone in gonna e camicia che si avvicina a lui. Non è facile quando il tuo bimbo a nove anni ti chiede: papà hai i seni?».

Richard non è diventato un militante Lgbt, critica la spettacolarizzazione della propria sessualità, oltretutto sostiene il matrimonio come realtà unica tra uomo e donna. «Sono un facsimile di donna, non ho ovaie, né utero. Ma sto bene nella mia pelle. Richard era un bel tipo, però nel suo sguardo c’era tanta disperazione». Usa questo termine per descriversi: “facsimile di donna”, cioè una imitazione della donna, una finzione esteriore perché si possono ingannare i media e gli epigoni di Luxuria, ma non la propria natura profonda, che non si modifica con le sedute dallo psicologo, le botte ormonali, il silicone sugli zigomi e qualche milione da dare al chirurgo plastico. Essere donna è un’altra cosa.

Il più onesto di tutti è proprio il figlio, Nick Raskind, che oggi è un agente immobiliare di New York e continua a parlare di suo padre al maschile: «Mio padre potrebbe subire un cambiamento per diventare un elefante o un dromedario, ma sarebbe ancora mia padre». Renée non è mai esistita e mai esisterà, un esempio di quando i figli amano e rispettano di più i genitori di quanto essi facciano per loro stessi.

La redazione

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Il concetto di povertà cristiana che non capisce il (mal)conservatore Vittorio Feltri

Vittorio_FeltriIl direttore del Giornale, Vittorio Feltri, ha accusato di contraddizione Papa Francesco perché durante l’apertura della Porta Santa ha evitato di passare con la papamobile per le vie dello shopping d’alto bordo. «Ci limitiamo a osservare», ha scritto, «che se gli abbienti è meglio non frequentarli, probabilmente il primo luogo dove non mettere piede è la Città di San Pietro. Amen».

La Chiesa è ricca e parla dei poveri, questa è la nota obiezione. Premettendo che certamente la gestione economica della Curia romana ha parecchie falle, che Francesco e il Papa emerito hanno iniziato a correggere drasticamente, occorre ricordare che l’anticlericalismo vorrebbe una Chiesa davvero povera perché finalmente essa sparirebbe dalla scena pubblica e sociale, non potrebbe mantenere le diocesi, non potrebbe stipendiare i sacerdoti, perderebbe gli organi di informazione ecc.

Ma, sopratutto, come abbiamo già fatto notare, una Chiesa materialmente povera non aiuterebbe più le milioni di persone che ogni giorno nel mondo vengono assistite nelle centinaia dei centri missionari di carità. Lo stesso Papa Francesco ha spiegato: «la Chiesa è molto ricca […], i beni immobili della Chiesa sono molti, ma li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi». Ovvero, il problema non è non avere soldi ma come usarli.

La povertà di cui parla così spesso il Pontefice -tema affrontato nel nostro apposito dossier– non è soltanto una giusta sobrietà, ma sopratutto la povertà in senso cristiano: il non attaccamento al denaro, il non farne un idolo. «Il capitalismo e il profitto non sono diabolici se non si trasformano in idoli», ha spiegato Francesco. «Non lo sono se rimangono strumenti. Se invece domina l’ambizione sfrenata di denaro, il bene comune e la dignità degli uomini passano in secondo o in terzo piano, se il denaro e il profitto a ogni costo diventano un feticcio da adorare, se l’avidità è alla base del nostro sistema sociale ed economico, le nostre società sono destinate alla rovina».

Per questo, secondo un esempio che usiamo spesso, nell’ottica cristiana è più povero un ricco che dona ciò che ha a chi ne necessita, non essendo attaccato alle sue ricchezze, piuttosto che un povero geloso del poco che possiede. «L’attaccamento alle ricchezze è l’inizio di ogni genere di corruzione, dappertutto», ha chiarito in un’altra occasione il Pontefice. «L’attaccamento alle ricchezze ci dà tristezza e ci fa sterili. Dico ‘attaccamento’, non dico ‘amministrare bene le ricchezze’, perché le ricchezze sono per il bene comune, per tutti. E se il Signore a una persona gliene dà è perché li faccia per il bene di tutti, non per se stesso, non perché le chiuda nel suo cuore, che poi con questo diventa corrotto e triste».

Che il Vaticano sia ricco non è anti-evangelico: «Gesù non è contro le ricchezze in se stesse», ricorda Francesco. «Ma mette in guardia dal porre la propria sicurezza nel denaro che può fare della “religione un’agenzia di assicurazioni”». Certo, non è evangelico quando la Curia romana spreca o gestisce male il denaro, ma contemporaneamente bisogna ricordare che molta ricchezza viene da sempre usata a sostegno dei poveri nel mondo, come nessun’altra istituzione fa o ha mai fatto. La ricchezza è un bene se usata bene.

Purtroppo i polemisti anticlericali non hanno la capacità di cogliere la profondità della questione. Feltri si dichiara conservatore ma è ateo, quindi non può credere a valori sociali oggetti e tanto meno può, quindi, “conservarli” (e infatti combatte tutti i valori portanti della società, essendo a favore dell’eutanasia e della dissoluzione della famiglia). Oltretutto quando pontificano da un altare ben poco morale: il giornalista berlusconiano è infatti l’inventore del “metodo Boffo”, la vergognosa campagna di diffamazione contro l’ex direttore di Avvenire, Dino Boffo. Lo stesso Feltri nel 2014 ha augurato la morte per avvelenamento ad un cacciatore di funghi, reo di aver disturbato l’orsa Daniza che lo aggredì e venne per questo narcotizzata dai forestali. Nel 2004, invece, ironizzò senza rispetto sulla morte in Iraq del giornalista Enzo Baldoni, colpevole di essere antiberlusconiano.

Feltri che vuole sbertucciare il Papa è come un bisonte che si agita in una cristalleria. Quante volte il grande Indro Montanelli si sarà vergognato del suo successore?

La redazione

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Secondo l’Istat le donne sposate sono le meno esposte alla violenza

FemminicidioSe c’è un tormentone che, oramai da anni, viene ripetuto ossessivamente e che, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre scorso, è guarda caso tornato di attualità, è quello secondo cui la maggior parte delle violenze contro le donne avverrebbe «in famiglia», dove il marito-padre-padrone, confidando nel silenzio della consorte, si sentirebbe libero di scatenarsi in atti di violenza agendo di conseguenza.

E’ una tesi che si è liberi di sostenere, naturalmente: a patto, però, che non si abbia il desiderio di tentare di dimostrarla. In quel caso infatti il rischio, anzi la certezza è di essere smentiti da studi e ricerche internazionali che, quasi senza eccezioni, da decenni indicano per esempio la convivenza extramatrimoniale, più che la condizione coniugale, come l’ambito di coppia nel quale si registrano i più elevati tassi di violenza domestica (BMC Public Health, 2011; Intimate Violence in Families, 1997; Journal of Marriage and Family, 1991, Interpersonal Violence among Married and Cohabiting Couples, 1981).

In letteratura vi sono persino evidenze secondo le quali le donne divorziate, separate o nubili, in media, risulterebbero vittime di violenza addirittura quattro volte di più di quelle sposate (Heritage Foundation Backgrounder, 2002; Sex, Power, Conflict, Oxford University Press, 1996). Esagerazioni, si obietterà.

Peccato che anche l’Istat – fra l’altro in un report diffuso nel giugno di quest’anno, e che su questo punto non ha avuto la visibilità che avrebbe meritato – sia pervenuto a conclusioni analoghe: considerando le donne dai 16 ai 70 anni rimaste vittime, gli ultimi cinque anni, di violenza fisica o sessuale da un uomo nel 2006 si è infatti registrata come categoria più esposta quella delle nubili, quindi le separate o divorziate e solo dopo le donne coniugate; la stessa rilevazione, per l’anno 2014, ha visto donne coniugate come percentualmente le meno esposte al rischio di subire violenza (6,5%), superate solo dalle vedove (4,0%), verosimilmente perché donne più avanti con l’età e che escono pure meno frequentemente di casa. Spiegano i ricercatori: «Sono le donne più giovani (fino a 34 anni), le nubili, le separate o divorziate, le studentesse le donne più a rischio di violenza fisica o sessuale», specificando la «maggiore esposizione al rischio delle donne separate e divorziate sia per le violenze da ex partner, sia da uomini non partner. Queste donne sono più a rischio di subire tutti i tipi di violenze, sia quelle fisiche da parte degli ex, sia quelle sessuali da parte di altri uomini».

Dunque l’idea che «la maggior parte delle violenze» avvenga in famiglia è semplicemente falsa e plausibile solo in termini assoluti per l’ovvio fatto che i nuclei familiari intatti, rispetto alle convivenze o ad altre situazioni, sono numericamente la maggioranza. Si può tuttavia affermare, senza timore di essere smentiti, che per una donna la vituperata famiglia non costituisca pericolo alcuno. Tutt’altro.

Giuliano Guzzo

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I giuristi smentiscono Nuzzi e Fittipaldi: il processo è giusto e non limita la libertà di stampa

processo vaticanoNuovo passo avanti sulla strada della trasparenza finanziaria per il Vaticano: gli esperti del Consiglio d’Europa (Moneyval) hanno approvato ieri il secondo progress report” del Vaticano contro l’anti riciclaggio.

Sono stati accolti positivamente «i risultati dei continuati sforzi intrapresi da parte della Santa Sede e dallo Stato della Città del Vaticano al fine di rafforzare ulteriormente il proprio assetto istituzionale, giuridico e operativo», si legge in una nota della Sala Stampa vaticana. «Questo più recente Progress Report conferma che la Santa Sede ha istituito un sistema ben funzionante, efficace e sostenibile per prevenire e combattere i crimini finanziari», ha affermato Mons. Antoine Camilleri, della delegazione della Santa Sede alla Plenaria del Comitato Moneyval.

Questa è dunque la reale situazione economica del Vaticano, lontana da quella presentata dai giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi. I quali, come abbiamo già fatto presente, hanno pubblicato senza troppe verifiche vecchi documenti creati dalla commissione Cosea, voluta da Papa Francesco, recuperati da qualche corvo in qualche angolo del Vaticano, e dati in pasto all’opinione pubblica presentando una parte come fosse il tutto. Un’inchiesta seria, infatti, non avrebbe ripreso vecchie notizie già note alla stampa, come il favoritismo di Propaganda Fide a vip e imprenditori o il fantomatico attico del card. Bertone (senza tener conto dei suoi chiarimenti). Certo, hanno rivelato che  una parte dei soldi della ristrutturazione è arrivata dalla Fondazione Bambin Gesù usando «il denaro per i bambini malati». Ma è una falsità, ha precisato l’ex presidente Giuseppe Profiti: «Neanche un euro dei fondi raccolti per i bambini è stato impiegato in questa operazione, che è un investimento» volontario della Fondazione, finalizzato ad usare l’immobile per eventi finalizzati al fundraising, che «hanno determinato, nell’anno successivo, un incremento della raccolta fondi di oltre il 70%». Bastava una piccola verifica da parte dei due giornalisti.

Che non fossero proprio in buona fede, tuttavia, lo si è capito quando Nuzzi ha cercato di avere al suo fianco don Maurizio Patriciello per la presentazione del libro, senza però avere il coraggio di fargli leggere i contenuti del libro. Basterebbe anche ricordare il mancato diritto di replica alle persone da loro accusate, lo stesso Nuzzi ha rivelato infatti di aver declinato la disponibilità dei funzionari dello Ior di chiarire. Lo scoop si sarebbe sgonfiato, probabilmente. Il giornalista si è arrabbiato quando la trasmissione “Porta a porta” ha invitato ospiti critici verso il suo modo di fare giornalismo, protestando per un mancato diritto di replica. Corretta la risposta ironica ricevuta: «lo stesso diritto di replica che hai dato a tutte le persone che accusi nel tuo libro?». Marco Bertoncini ha rilevato questa mattina che i «due giornalisti sanno bene che è per loro produttivo sfidare anche la teorica incarcerazione recandosi oltre le mura leonine». Infatti, «hanno bisogno di opportuna pubblicità e agli occhi di decine di milioni di osservatori esterni o distratti o genericamente interessati alla vicenda, appaiono come martiri della libertà di stampa».

In queste settimane molti opinionisti, quasi tutti anticlericali di professione (da Francesco Merlo in giù), hanno criticato il processo in atto in Vaticano. Critiche che hanno ricevuto risposte chiare e puntuali, vediamole in dettaglio.

 

IL VATICANO CATTIVO PROCESSA LA LIBERTA’ DI STAMPA?
Nuzzi e Fittipaldi, assieme a molti opinionisti anticlericali, hanno accusato il Vaticano di processare la libertà di stampa. A loro si sono accodati anche anticlericali novelli, come Antonio Socci, che ha dimostrato di aver bene imparato la retorica laicista che anni fa combatteva in prima linea. Con lo stesso cinismo di un Dan Brown qualsiasi si è erto a paladino della libertà di stampa contro il Vaticano oscurantista tirando in ballo l’Inquisizione cattolica (Giordano Bruno no?), nel rispetto della ben oliata leggenda nera.

Peccato che, come autorevoli osservatori hanno fatto notare, i due giornalisti sono imputati non per aver pubblicato un libro contenente dei documenti, ma per il modo in cui si sono procurati quei documenti, che si considera illecito. Dall’indagine istruttoria, infatti, risulta che Nuzzi e Fittipaldi avrebbero esercitato «sollecitazioni e pressioni, soprattutto su Vallejo Balda, per ottenere documenti e notizie riservati». E’ chiaro e univoco, commenta Luis Badilla, «che non è in questione la libertà di stampa (diritto e valore riconosciuto anche nello Stato della Città del Vaticano), ma il modo in cui i documenti riservati sono stati acquisiti dai giornalisti».

Anche il giurista Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte costituzionale, ha chiarito: «Non mi pare proprio che si metta in dubbio la libertà di stampa, che è comunque garantita. Il giudizio che deve essere dato è se questi documenti siano stati acquisiti in maniera corretta; se sono cose provenienti da reato, se vi è una partecipazione dei giornalisti alla sottrazione illegale – starei per dire “delittuosa” – di questi documenti. La libertà di stampa comprende certamente la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di esprimere giudizi, di pubblicare atti o documenti; ma vi possono essere dei limiti quando questo riguardi – ad esempio – la sicurezza dello Stato o altri elementi che si riferiscono a atti o documenti riservati. Perciò, il limite alla libertà non significa conculcare la libertà di informare. Vi è un elemento che riguarda le modalità con le quali la documentazione viene acquisita – come in questo caso – o anche la natura di alcune informazioni che possono rimanere riservate». In un’altra intervista ha aggiunto: «Il diritto fondamentale a manifestare il pensiero è pienamente garantito anche nell’ordinamento del Vaticano. Poi, anche nel nostro ordinamento ci sono reati che non sono coperti dal diritto di manifestare il proprio pensiero o la propria opinione; come nel caso in cui si tratti di dichiarazioni calunniose del tutto infondate o di sottrazione o pubblicazione di documenti sottoposti in ipotesi a vincolo di riservatezza. Anche in Italia se partecipo ad un’azione delittuosa per procurarmi documenti o li sottraggo illecitamente, sono punito perché ho sottratto illecitamente quei documenti, non perché ho esercitato la libertà di stampa».

Nuzzi e Fittipaldi processano il Vaticano sui media accusandolo di essere contro l’articolo 21 e 51 della Costituzione italiana. «Si invocano due norme costituzionali italiane: in realtà, bisogna considerare che ci troviamo in un altro Stato, lo Stato della Città del Vaticano con proprie leggi e propri principi», ha spiegato Mirabelli. «E tuttavia, gli stessi principi di libertà di manifestazione del pensiero e di informazione sono autonomamente presenti nell’Ordinamento vaticano: non si può fare certamente riferimento ad articoli della Costituzione italiana, ma è garantita la libertà di espressione anche nello Stato della Città del Vaticano, in base a principi propri. Questo non significa che, appunto, non vi possa essere una sanzione penale quando si ha un uso inappropriato della libertà. Molte legislazioni prevedono sanzioni quando sono sottratti documenti che riguardano la vita dello Stato e che l’Ordinamento ritiene di dovere in qualche modo tutelare».

 

IL PROCESSO SI AVVALE DI UN ORDINAMENTO RISALENTE ALL’INQUISIZIONE?
Un’altra menzogna divulgata è che in Vaticano vi sia un ordinamento vecchio e oscurantista che non garantisce un processo giusto ma sbrigativo e finalizzato a incolpare a tutti i costi gli accusati.

Il giurista Cesare Mirabelli ha confutato anche questa opinione: «In Vaticano c’è un tribunale che giudica in un processo nel quale è garantito il contraddittorio tra le parti; è un processo pubblico nel quale quindi vi è un giudice terzo rispetto all’accusa e alla difesa, e accusa e difesa presentano ciascuna le proprie prove che saranno valutate dal tribunale. Perciò, mi pare che ci siano tutte le garanzie per un giusto processo: un giusto processo che riguarda anzitutto una accusa su un reato, su un fatto che costituisce reato, con la garanzia che si direbbe “di stretta legalità”, cioè il fatto che costituisce reato è previsto, è punito da una legge anteriore rispetto al fatto commesso. Allo stato, siamo in presenza di un’accusa da parte del pubblico ministero, come avviene in ogni ordinamento, e di una difesa che si esprimerà nel processo».

In un’altra occasione ha aggiunto: «Dobbiamo abituarci a considerare lo stato della Città del Vaticano un ordinamento territoriale diverso da quello italiano. Non per questo meno garantista dal punto di vista processuale, in tale ordinamento sono attuate la precostituzione del giudice, la garanzia della sua naturalità, la libertà del collegio giudicante di formarsi una convinzione sulla base delle prove, in un dibattimento pubblico e nel contraddittorio tra accusa e difesa e di adottare una sentenza, cioè una decisione che sarà motivata e può essere appellata». Rispetto alle critiche al codice Zanardelli in atto in Vaticano, Mirabelli ha precisato: «Autorevoli penalisti hanno più volte richiamato la maggiore apertura del codice Zanardelli rispetto al codice Rocco, perché ispirato a principi più liberali e non autoritari come nel secondo». Il quale, «sia pure depurato di alcuni reati, è presente ancora nell’Ordinamento italiano».

Puntuale anche l’intervento chiarificatore di padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede: «Nello Stato del Vaticano esistono tutte le garanzie processuali caratteristiche dei più evoluti ordinamenti contemporanei. Infatti sono previsti e pienamente attuati tutti i principi fondamentali, quali la precostituzione per legge del giudice naturale, la presunzione d’innocenza, la necessità di una difesa tecnica (tramite avvocati di fiducia o d’ufficio), la libertà del collegio giudicante di formarsi una convinzione sulla base delle prove, in un dibattimento pubblico e nel contraddittorio tra accusa e difesa, sino alla emanazione di una sentenza che deve essere motivata e che può essere impugnata sia con l’appello sia poi con il ricorso per cassazione. Più di recente, infine, è stato anche espressamente introdotto nell’ordinamento vaticano il diritto al giusto processo ed entro un termine ragionevole (art. 35 Legge N. IX, dell’11 luglio 2013). Le persone incaricate della funzione giurisdizionale, sia inquirente che giudicante, vengono poi selezionate tramite cooptazione, non potendo essere reclutate mediante un concorso pubblico tra i cittadini dello Stato, come normalmente avviene presso gli altri Stati. Esse vengono così selezionate tra professionisti di altissimo livello, già di consolidata esperienza e di fama riconosciuta (come il curriculum di ciascuno di essi, facilmente reperibile su internet, attesta). Sono infatti tutti professori universitari in Università italiane».

 

IL VATICANO CATTIVO NON CONCEDE AVVOCATI DI FIDUCIA?
Nuzzi e Fittipaldi hanno raccontato che il Vaticano oscurantista non avrebbe nemmeno concesso di essere difesi dai loro avvocati di fiducia. E’ un’ovvietà, gli avvocati di fiducia scelti non erano abilitati ad esercitare in uno Stato estero. Come ha spiegato il giurista Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte costituzionale: «In qualsiasi paese gli avvocati che possono difendere gli imputati sono quelli che sono iscritti negli albi professionali dell’ordinamento. Gli avvocati d’ufficio sono stati nominati in assenza della nomina degli avvocati di fiducia. In questo caso sono avvocati rotali, cioè avvocati davanti ai giudici ecclesiastici o avvocati ammessi dal tribunale. Naturalmente, in linea teorica più è ampia questa possibilità, meglio è per quello stesso ordinamento. Ma la difesa tecnica è assicurata».

Ancora più chiaro è stato padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede: «si è lamentata un’ipotetica violazione del diritto di difesa degli imputati, ai quali non si sarebbe consentito di essere assistiti da avvocati di fiducia di loro scelta. A questo proposito occorre evitare un equivoco di fondo: le regole vigenti nell’ordinamento vaticano, applicate dalle autorità giudiziarie, sono perfettamente in linea con quelle della maggior parte degli ordinamenti processuali del mondo, dove l’ammissione al patrocinio nei tribunali richiede una specifica abilitazione all’esercizio della professione, rilasciata in presenza di requisiti e titoli stabiliti da ogni ordinamento. Non deve sorprendere, quindi, che un avvocato abilitato in Italia non possa per ciò solo patrocinare nello Stato della Città del Vaticano, così come non potrebbe patrocinare nemmeno in Germania, in Francia, ecc. Il ragionamento contrario, d’altronde, implicherebbe che un imputato straniero potrebbe anche pretendere di essere assistito in Italia da un avvocato parimenti straniero, solo perché di propria fiducia, il che non è però consentito. Tali condizioni non costituiscono quindi un limite dell’ordinamento vaticano, ma un’ulteriore conferma della sua autonomia e completezza. Tutti gli Avvocati sono iscritti a un Albo, facilmente consultabile, di professionisti ammessi a patrocinare innanzi al Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, nel quale vengono selezionati gli avvocati d’ufficio o scelti gli avvocati di fiducia. Si tratta di avvocati qualificati non solo presso i tribunali della Chiesa e della Santa Sede, ma anche presso i tribunali italiani, essendo tutti iscritti nei rispettivi consigli dell’Ordine degli avvocati italiani. Non solo, essi sono anche in possesso di una seconda laurea in diritto canonico e di un ulteriore diploma di specializzazione triennale conseguito presso il Tribunale rotale. Vi sono quindi tutte le premesse per avere piena fiducia nella serietà e nella competenza di chi deve garantire il corretto svolgimento di un processo che, per diverse ragioni, attira l’attenzione di molti».

 

I POLITICI ITALIANI HANNO PAURA A CRITICARE IL VATICANO CATTIVO?
Nuzzi e Fittipaldi hanno invocato l’intervento degli amici potenti italiani, dal premier Renzi in giù, e si sono lamentati del fatto che nessuno intende intervenire per fermare “l’inquisizione”.

Ma il giurista Francesco Margiotta Broglio, ordinario dell’Università di Firenze, ha spiegato: «Bisogna vedere come i giornalisti si sono procurati le carte riservate della Santa Sede. Se uno Stato ritiene che un reato sia stato commesso sul territorio può processare un cittadino straniero secondo le proprie leggi. Ciò vale per il Vaticano come, ad esempio, per l’India o gli Stati Uniti nei confronti di procedimenti che coinvolgano cittadini italiani. Le accuse di clericalismo o di subalternità dell’Italia alla Santa Sede mi sembrano tecnicamente infondate».

 

 

Il processo di Vatileaks è dunque giusto e legittimo, non processa la libertà di stampa ma semmai la modalità tramite la quale i giornalisti si sono impossessati delle notizie. Garantisce inoltre l’adeguata difesa degli imputati tramite un ordinamento affidabile con tutte le caratteristiche processuali dei più evoluti ordinamenti contemporanei. Vedremo cosa accadrà all’esito del processo, chi saranno i colpevoli e chi sarà prosciolto dalle accuse.

Rimangono dei libri di gossip vaticano firmati da Nuzzi e Fittipaldi che contengono alcune accuse vecchie, altre nuove su “spese pazze” di qualche monsignore, altre ancora da verificare. In ogni caso, seppur nella loro superficialità e grazie all’eco mediatica che hanno ricevuto, possono anche essere un aiuto a ricordare a chi governa la Curia romana che la lealtà alla propria funzione, e agli obblighi connessi, dev’essere un parametro autentico di condotta e di vita. Inutile negare che ci siano oggettivamente dei problemi, come ha detto oggi il card. Camillo Ruini: «ci sono cose che davvero non vanno. Direi di più: che risultano inconcepibili». Per questo la campagna vittimista che i due giornalisti hanno imbastito contro la fantomatica monarchia assoluta, l’attentato alla libertà di stampa e il revival del diritto medioevale e dell’Inquisizione, rischia di oscurare anche quel poco di buono che si può ricavare dai loro libri.

La redazione

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Le suore travestite da prostitute per salvare le vittime dalla schiavitù del sesso

Thalita KumImmagina una suora travestita da prostituta che lavora in un bordello, fianco a fianco alle tante donne che si intrattengono con i loro clienti. Ci riesci? Fino a ieri nemmeno io. Ma ora ti chiedo di fare un piccolo sforzo per disegnare con la mente uno scenario che, seppur stravagante, non si discosta poi così tanto da quello che accade realmente ogni notte.

Ecco la scena. Un’ora imprecisata della sera, non importa se ti trovi ad Amsterdam, in una banlieue parigina, o nel pieno centro di Bangkok. Oltre la coltre di fumo in cui sono avvolti molti locali inizia lo spettacolo delle schiave (e schiavi) del sesso. Ecco, finalmente sei arrivato. Fermo immagine su quella signorina un po’ impacciata vicino ad un tavolino, accanto ad altre signorine più disinibite. Stacco sul signore in bermuda che le si accosta, una mano in tasca, l’altra che dalla spalla di lei, lentamente scivola sul fianco, lasciandosi dietro una lenta e appiccicosa scia di sudore. Una vignetta come tante se non fosse che la ragazza in top e calze a rete, con inaspettata nonchalance, all’ultimo momento elude la mano umida e grassottella del ricco occidentale, gli sussurra qualche parola all’orecchio e si allontana, lasciandolo lì, lo sguardo spento fisso sul divanetto. E’ molto probabile che la signorina della scenetta che abbiamo appena descritto sia una delle 1100 religiose che ogni notte combattono in prima linea il traffico di esseri umani.

John Studzinski, vice presidente della banca d’investimento The Blackstone Group, in un’intervista rilasciata per il sito Cruxnow, ha raccontato del network chiamato “Thalita kum”, nato nel 2004, i cui membri, sorelle appartenenti a qualsiasi ordine religioso, operano in circa 80 paesi del mondo. Secondo i dati forniti dall’associazione, le vittime del traffico sessuale rappresenterebbero l’1% dell’intera popolazione mondiale, per un totale di circa 73 milioni di persone, di cui la metà non raggiunge i sedici anni di età. Nel 2009 la rete di religiose ha messo a punto un programma di partnership con diverse banche coordinate dall’ufficio centrale di Roma dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG)

Alcuni particolari raccontati da Studzinski sono agghiaccianti: storie di prostitute rinchiuse per giorni in una stanza, senza cibo, costrette a mangiare le proprie feci, ree di non aver raggiunto il target prefissato di dodici clienti giornalieri; o di quelle ragazze costrette ad avere rapporti sessuali con più uomini contemporaneamente. In molti casi veri e propri stupri di gruppo.  «Queste donne diventano invisibili, una merce, trattate come oggetti per il business “comprare e vendere”. Non sono più trattate come esseri umani creati a immagine e somiglianza di Dio», ha raccontato suor Estrella Castalone, coordinatrice di “Thalita kum”. 

«Sono queste storie che hanno portato le nostre suore a convincersi che fosse necessario intervenire. Ed è per salvare queste persone che si travestono e si infiltrano nei bordelli di proprietà delle organizzazioni criminali», ha spiegato Studzinski. In questo clima di terrore, dove la legge del denaro sposa l’abbrutimento esasperato della razza umana, le sorelle di Thalita Kum sono disposte a tutto pur di portare un po’ di speranza là dove nessuno osa più sperare. Ed è così che queste eroine silenziose, forti della loro fede, non hanno paura ad entrare in queste realtà per poter riscattare le esistenze perdute di queste ragazze. E le donne che riescono a strappare da questo inferno le proteggono in case e centri di accoglienza dove possono riposare e avere cibo, vestiti, alcune semplici cure mediche, assistenza legale e formazione professionale. «Questo è importante», ha spiegato suor Estrella, «perché le vittime della tratta spesso sono perdute e devono raccogliere i pezzi della loro vita andata in frantumi».

«Queste sorelle non possono contare su nessuno», ha spiegato Studzinski, presidente del network, «né sui governi, né sulle organizzazioni, né, tanto meno, sulle forze di polizia (spesso esse stesse colluse con i traffici illeciti; nda). In alcuni casi esse non possono neanche confidare sull’appoggio della chiesa locale». Oltre al traffico di prostitute, la rete di carità si occupa anche di salvare quei bambini venduti come schiavi dai loro genitori e della cui sorte c’è l’imbarazzo (macabro) della scelta: dalla miniera di diamanti, al traffico d’organi, passando per il turismo sessuale e l’arruolamento forzato in una qualche milizia. Le suore di Talitha Kum acquistano questi bambini e li mettono al riparo in una delle case protette presenti in Africa, nelle Filippine, in Brasile e in India. «È scioccante, ma è la realtà», ha affermato Studzinski.

Queste donne alle parole preferiscono i fatti, ai j’accuse ben argomentati degli editorialisti di regime scelgono la concretezza del Vangelo. E mentre sui giornali si scervellano per dare un nome intellegibile al Male (“Terrorismo”, “Daesh” e “Clima” sono quelli che oggi vanno per la maggiore), c’è qualcuno che questo Male lo conosce da sempre e lo combatte a testa alta perché tanto, alla fine, a vincere sarà il Bene. E’ solo questione di tempo. E di fede.

Filippo Chelli

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Papa Francesco: «misericordia è anche ammonire il peccatore e correggere chi sbaglia»

Francesco porta santa«È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale», ha scritto Papa Francesco aprendo il Giubileo della misericordia. «In base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero (cfr Mt 25,31-45). Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura e che spesso è fonte di solitudine».

Aiutare l’uomo ad uscire dal dubbio, dice Francesco, è dunque un’opera di misericordia verso gli uomini stessi, affermare le ragioni della propria fede è un atto di carità, non certo di prevaricazione. I media rappresentano la “misericordia” come un buonismo zuccheroso ed invece vorremmo riportare il pensiero del Papa quando chiarisce questo grande equivoco, ricordando che misericordia non è sinonimo di arrendevolezza, di lassismo, di “sbagliato giudicare”. Tutt’altro, ha proseguito il Pontefice, misericordia è anche «consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti». Tutto questo è e convive con la misericordia.

Occorre tuttavia una precisazione. Tutti abbiamo assistito questa mattina all’apertura della Porta Santa in Vaticano, durante la quale Francesco ha ricordato: «Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre invece che sono perdonati dalla sua misericordia Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia». Ovvero è Dio che giudica ma, sopratutto, perdona e il compito dei cristiani è quello di correggerci fraternamente a vicenda, «ammonire i peccatori» ricorda il Papa perché si correggano in nome della loro felicità, e il giudizio per essere misericordioso dev’essere ispirato da un amore al destino altrui, non da un rigorismo formale. Nessun “vietato giudicare”, quindi, come vorrebbero i progressisti, abili a «scendere dalla croce, per accontentare la gente», secondo una nota critica del Pontefice. Certo, «quando ti dicono la verità non è bello sentirla, ma se è detta con carità e con amore è più facile accettarla». Dunque, «si deve parlare dei difetti agli altri», ma con carità.

Sbaglia anche chi invoca il fantomatico “non giudicare nessuno” in nome del famoso invito evangelico a togliere la propria trave dagli occhi prima della pagliuzza nell’occhio altrui. E’ una strumentalizzazione di Gesù, il quale invitava semplicemente a giudicare solo dopo aver constatato di non stare commettendo lo stesso errore oggetto di correzione, non invitava certo ad astenersi dalla correzione fraterna (anche perché il cuore del suo messaggio è stato proprio un invito a lasciare l’errore e cambiare vita). Ha ricordato infatti Papa Francesco rispetto alla correzione fraterna: «Se tu non sei capace di farla con amore, con carità, nella verità e con umiltà, tu farai un’offesa, una distruzione al cuore di quella persona, tu farai una chiacchiera in più, che ferisce, e tu diventerai un cieco ipocrita, come dice Gesù. “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio”. Ipocrita! Riconosci che tu sei più peccatore dell’altro, ma che tu come fratello devi aiutare a correggere l’altro».

La correzione fraterna è un dovere per il cristiano e va fatta «con ancora più insistenza verso quelle persone che si trovano lontane dalla grazia di Dio per la loro condotta di vita». Giudicare il peccato (la condotta di vita) e non il peccatore. Lo stesso Figlio di Dio, «pur combattendo il peccato, non ha mai rifiutato nessun peccatore». Lo stesso card. Walter Kasper, poco apprezzato da diversi cattolici per alcune sue posizioni, ha ricordato: «si confonde misericordia con un laissez-faire superficiale, con una pseudo-misericordia, e c’è chi sentendo parlare di misericordia subodora il pericolo che in tal modo si favorisca un’arrendevolezza pastorale e un cristianesimo light, un essere cristiani a prezzo scontato. Si vede così nella misericordia una specie di ammorbidente che erode i dogmi e i comandamenti e svaluta il significato centrale e fondamentale della verità. Siamo però di fronte a un grossolano fraintendimento del senso biblico profondo della misericordia, perché essa è allo stesso tempo una fondamentale verità rivelata e un comandamento di Gesù esigente e provocante [….]. Non può perciò, se rettamente compresa, mettere in discussione la verità e i comandamenti.  Mettere la misericordia contro la verità o contro i comandamenti, e porli tra loro in opposizione, è perciò un non senso teologico».

Abbiamo così voluto chiarire i due errori che spesso commettiamo tutti (noi per primi): pensare ad una misericordia senza correzione fraterna in nome di un insopportabile e sterile buonismo, e sforzarci nella correzione dimenticando la misericordia in nome di un insopportabile e sterile rigorismo. Ed invece, ha ricordato sempre Francesco, «giustizia e misericordia non sono due aspetti in contrasto tra di loro, ma due dimensioni di un’unica realtà. La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere. La giustizia da sola non basta, e l’esperienza insegna che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono».

La redazione

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Maternità surrogata, un crimine anche per atei e femministe

Utero in affittoPiù volte abbiamo chiesto l’intervento del mondo femminista contro le adozioni da parte di coppie omosessuali (o, almeno, soltanto gay), non capiamo infatti come possano sopportare che attraverso questa pratica si concluda che la donna non abbia nulla di speciale e unico da offrire all’interno della famiglia, tanto che qualunque uomo potrebbe sostituirla nel suo ruolo materno. Buttati via così anni di lotte femministe sul genio femminile, sull’unicità della donna, sul contributo insostituibile che porta nel mondo, nella società e nella famiglia.

Fortunatamente molte di loro non hanno avuto la stessa pavidità di fronte all’utero in affitto, iniziano infatti ad arrivare sempre più opposizioni sia all’affitto di uteri femminili di donne povere, sia alla maternità surrogata da parte di fantomatiche “donne generose”, sia -seppur più velatamente- alla mercificazione dei bambini, comprati o donati come fossero un pacco regalo.

E’ di pochi giorni fa l’appello delle femministe di “Se non ora quando?” (ribattezzate “Meglio tardi che mai?” per il ritardo nel prendere posizione) «contro la pratica dell’utero in affitto»: «Noi rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore», scrivono i 77 firmatari (tra cui Dacia Maraini, Livia Turco, Cristina Comencini, Aurelio Mancuso ecc.). «Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione. Vogliamo che la maternità surrogata sia messa al bando. I bambini non sono cose da vendere o da “donare”. Se vengono programmaticamente scissi dalla storia che li ha portati alla luce e che comunque è la loro, i bambini diventano merce».

In prima linea da anni su questo fronte è Sylviane Agacinski, voce storica del femminismo francese e organizzatrice di un convengo al Parlamento francese il 2 febbraio 2016 per l’abolizione universale dell’”utero in affitto”. Nel luglio 2014 è stata pubblicata una lettera aperta pubblica sul quotidiano francese Libération in cui è stato chiesto al presidente Hollande di opporsi a normative che regolamentino l’industria dell’infanzia su comando. Oltre a leader della sinistra francese, l’appello è stato firmato da scrittrici e storiche del movimento femminile, professori universitari, psicoanalisti e sociologici, associazioni come Coordinamento delle associazioni per il diritto all’aborto e alla contraccezione (Cadac), il Coordinamento lesbiche francesi (Clf), il movimento Npns, Ni putes ni soumies, il Collettivo nazionale per i diritti delle donne (Cndf).

A darne notizia in Italia la femminista Elisabetta Ambrosi che giustamente ha scritto: «come si può togliere a una madre che ha appena partorito suo figlio e, viceversa, togliere a un bambino la sua madre biologica per oltre nove mesi, come se la gravidanza non costituisse già una forma di legame inscindibile tra madre e figlio e come se dimenticasse che nei primi mesi di vita questo legame continua attraverso l’allattamento, di cui i bambini nati da madri in affitto sono spesso privati? E come evitare che madri povere vendano i loro corpi, con tutte le conseguenze fisiche ed emotive di una scelta del genere?». Non soltanto la difesa della donna, dunque, ma anche quella del bambino strappato dalle braccia della madre.

La stessa lucidità non l’ha purtroppo avuta la femminista Marina Terragni. E’ vero, ha elogiato l’impegno della Agacinski scrivendo: «non si fatta fermare dalla paura di essere giudicata omofobica e antiprogressista, impegnandosi una battaglia contro l’orribile sfruttamento delle donne povere del mondo e il mercato della maternità». Ha elogiato l’impegno della Chiesa in difesa delle donne: «Sembra che resti quasi solo la Chiesa a vedere questa sofferenza: si può pensare di aprire un dialogo tra la Chiesa e il femminismo?». Tuttavia ha “aperto” però all’“utero solidale” (tra sorelle, tra madre e figlia, o anche tra amiche), «dove tutto avviene nella relazione amorosa -accertata e non improvvisata allo scopo, e senza scambio di denaro- che tiene insieme madre genetica, portatrice e creatura, come un tempo madre, creatura e balia da latte». Oltre a risvolti moralmente inquietanti del prestito del proprio corpo trasformato, seppur volontariamente, in macchina incubatrice e del fenomeno raccapricciante di zie-madri e nonne-madri, la Terragni non tiene conto della separazione del bambino dalla madre all’interno della quale è nato e cresciuto per nove mesi, per affidarlo a una terza donna.

La femminista del Corriere della Sera, Monica Ricci Sargentini ha dato voce ai malumori italiani sull’utero in affitto ed è stata attaccata dall’omofascismo italiano che l’ha denunciata all’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar). In un’intervista a Notizie Pro Vita ha spiegato: «C’è sicuramente un clima di intolleranza che spesso porta anche all’autocensura. A volte si ha paura di dire quello che si pensa per non essere bollati come razzisti, omofobi, islamofobi e chi più ne ha più ne metta. Personalmente giudico pericolosa la dittatura del politically correct». Rispetto al tema, «non mi convince l’idea del dono, del gesto altruistico perché sotto c’è sempre uno scambio di tanto denaro. Pensare a un bambino che, appena nato, viene strappato alla madre mi fa stare male. Chiunque abbia partorito può capirmi. Da “utero in affitto” si è passati a “maternità surrogata” per poi ripiegare su “gestazione per altri”. Ma le parole non cambiano la sostanza. Questo fatto della terminologia la dice lunga sul senso di colpa di chi difende questa pratica. E’ come se le parole non fossero mai adatte». Purtroppo anche la Sargentini non si è dimostrata lucida fino in fondo, nell’intervista ha infatti sostenuto l’adozione per coppie dello stesso sesso salvo poi affermare: «Uomini e donne sono diversi, diversissimi. Noi femministe della differenza abbiamo sempre combattuto la declinazione al maschile del mondo rivendicando la nostra diversità e specificità». Se le donne apportano diversità e specificità com’è possibile poi sostenere senza contraddirsi che un uomo possa tranquillamente sostituire la donna nel suo ruolo di madre?

Ha preso le difese della Sargentini anche la femminista Paola Tavella, la quale ha scritto: «In altri paesi, soprattutto negli Stati Uniti, la disputa fra femministe di ogni orientamento sessuale e maschi omosessuali sulla surrogacy è aperta, antica e rovente. Nell’aprile scorso la European Women’s Lobby (EWL), una delle più importanti organizzazioni pro-choice europee, da sempre alleata con il movimento gay, ha firmato insieme a molte altre organizzazioni di donne un appello rivolto alla Hague Conference on Private International Law per proibire la surrogacy in tutto il mondo, non solo perché lede la dignità e i diritti delle donne, ma perché “il bambino è oggetto di un abbandono pianificato, e anzi viene concepito allo scopo di essere abbandonato”. Non è possibile portare avanti una gravidanza e partorire e poi consegnare il neonato senza sofferenza di madre e bambino».

La voce più importante del femminismo italiano ad aver preso posizione è comunque quella di Luisa Muraro, filosofa e fondatrice a Milano nel 1975 della Libreria delle Donne: «La tratta e la schiavitù sono già un crimine riconosciuto e condannato a livello internazionale, invece contro l’utero in affitto, la forma più odiosa di sfruttamento del corpo delle donne, bisogna combattere. Siamo ancora in tempo», ha detto ad Avvenire. «Non esiste un diritto di avere figli a tutti i costi, eppure ce lo vogliono far credere: finito il tempo delle grandi aggregazioni e dei partiti, è un nuovo modo di fare politica cercando consensi. L’utero in affitto si innesta in questa tendenza. È la strada attuale per lo sfruttamento del corpo delle donne, è un colonialismo particolarmente inaccettabile, perché dalla vendita del suo corpo chi non trae alcun vantaggio è la donna. Ero e resto convinta che, se la popolazione europea si esprimesse, sarebbe assolutamente contraria all’utero in affitto. Soprattutto se fosse portata a conoscenza di come avviene e delle condizioni di schiavitù cui è sottoposta la vittima. A rischio però sono i nostri giovanissimi, portati a vederlo come un’espressione di libertà, “se quelle donne lo vogliono perché impedirglielo?”… A parte che non è mai una libera scelta, inoltre c’è un approfondimento che solo la vita e l’età portano, e che riguarda la riservatezza di sé, la dignità e la bellezza dei legami che attraverso il corpo si costituiscono. Primo tra tutti quello tra madre e figlio».

Anche Kathy Sloan, storica femminista americana e tra i responsabili di National organization for women, la più grande associazione femminista americana, ha un’opinione molto simile: «Sono contraria perché mercifica i corpi delle donne. È una transazione commerciale, non un rapporto consensuale che si traduce in una gravidanza. La maternità surrogata degrada un bambino a un acquisto, o a un “diritto” che in realtà non esiste, per chi ha i mezzi finanziari per procurarselo. Non ho alcuna riserva nel riconoscere che la mia missione è condivisa da persone che la pensano diversamente da me in materia di aborto. Per questo collaboro con la Chiesa cattolica e con gruppi anti-abortisti».

Ad accordarsi alle opposizioni del mondo femminista c’è anche il noto anticristiano Michel Onfray, anarchico, ateo, edonista. « Non c’è modo migliore per trasformare in merce tanto il corpo della donna, quanto la vita del bambino», ha spiegato. «Senza parlare dello sperma e dell’ovulo dei genitori, assimilati a bulloni e viti di una macchina senz’anima. Ma qui, abbiamo a che fare con il vivente e il vivente non è una merce, non è un prodotto monetizzabile. “Io voglio un bambino, ne ho diritto!”. Lo esige il ricco ottantenne che si annoia nel suo ospizio di lusso. “Voglio essere inseminata con lo sperma di mio figlio in stato di morte cerebrale”, dirà la madre che ha appena perso il figlio durante un incidente. “Voglio clonare le cellule del cadavere di mio marito morto e sepolto, poi farmi inseminare, perché sento la sua mancanza” dirà la vedova inconsolabile, incapace di comporsi nel proprio lutto. Che cosa ci immaginiamo, che il bambino potrà vivere una vita serena, equilibrata, armoniosa, mentalmente soddisfacente per lui, per gli altri, per chi gli sta accanto e per la sua discendenza, quando saprà che è stato comprato, venduto, che è frutto di un incesto o tra sua nonna e suo padre morti o che è il prodotto in un cadavere decomposto?».

La redazione

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Sapere che non bastiamo a noi stessi: ecco cosa ci insegnano i bambini

bambino mammaCi è piaciuto molto un recente scritto di Massimo Recalcati, psicoanalista ed editorialista di Repubblica. Condividiamo la sua descrizione dei bambini come esseri di domanda, bisognosi di dipendenza, perché «sanno di essere figli, cioè di non poter bastare a se stessi».

Ecco, questa è la posizione ideale del cristiano e ci aiuta a capire l’invito di Gesù a “tornare come bambini” per entrare nel Regno dei Cieli. Quello evangelico non è un richiamo alla ingenua infantilità, ma al vivere con lo stupore negli occhi -lo stesso dei bambini-, e come loro sentirsi costantemente bisognosi dell’abbraccio del Padre. Condividiamo qui sotto la (laica) riflessione di Recalcati.

 
di Massimo Recalcati*
*dalla prefazione di “Maestra, ma che ne sarà di me?” (Grantorino 2015)

 

I bambini non sono minorati che necessitano di un padrone che li guidi, ma soggetti di parola, inventori di teorie, sognatori, incarnazioni viventi della speranza. È questo il ritratto che di loro ci offre il bel libro di Angela Maria Borello, direttrice didattica di una Scuola d’infanzia di Torino. Il lettore che lo incontrerà farà una esperienza nuova. […] La parola dei bambini trova la sua matrice prima nel grido. Lo sappiamo: la vita viene alla vita attraverso il grido. Il piccolo dell’uomo è sempre, all’inizio della vita, un grido, solo un grido, un grido perduto nella notte. Questo grido è una invocazione rivolta all’Altro affinché l’Altro risponda.

È questa la prima responsabilità (il cui etimo deriva appunto da “risposta”) che l’esistenza di un bambino attribuisce alla vita di coloro che si occupano di lui. È questa, se volete, una definizione primaria della genitorialità ma, più in generale, della funzione di chi deve promuovere l’umanizzazione della vita: non lasciare la vita sola, persa, non abbandonarla alla notte, rispondere al grido. L’accesso alla lingua sposta i bambini dall’universo chiuso della famiglia a quello aperto del mondo. La lingua per loro non è solo uno strumento che devono imparare ad usare, ma un incontro generativo che apre a mondi sconosciuti prima; la lingua dei bambini sa essere incantevole perché fa risorgere ogni volta l’atto mitico della prima nominazione quando fu la parola a fare esistere le cose. È così: le parole dei bambini aprono e ci aprono al mistero del mondo. È la pioggia la prima pioggia, è la lumaca schiacciata sotto la pietra la prima lumaca schiacciata sotto la pietra, è la scoperta del proprio corpo la prima scoperta del proprio corpo.

Manca in queste parole l’interrogazione inquieta, forsennata, acida e assetata, dell’adolescenza; manca il pensiero critico che vuole ribaltare le convenzioni, manca la necessità spasmodica della contestazione dell’Altro. Il mondo appare al loro sguardo come un puro fenomeno ancora sottratto alle griglie corrosive della teoria critica. Il loro sguardo non è teoretico. Si posa semplicemente sulle cose del mondo con meraviglia. Per questo le parole dei bambini assomigliano a quelle dei grandi mistici. Si adagiano sulle cose trasformando le cose in parole. Facendo esistere le cose come cose; la rosa come la rosa, la pietra come la pietra. Non c’è ancora l’ansia — che irromperà con l’adolescenza — di cambiare il mondo, di trasformarlo, ma la visione del mondo come un miracolo che si ripete sempre nuovo: «Maestra lo sa che oggi la scuola è proprio bella? Grazie ma è proprio come ieri. Sì ma io ieri non l’avevo capito», dice una bimba stupita.

Le parole non servono solo a comunicare. I bambini ci insegnano che le parole servono innanzitutto a fare esistere le cose. «In bagno — Mi passi il phon? — Quale phon? — Inventalo no! Non vedi che stiamo giocando!». «Maestra, vogliono sempre farmi fare il cane… dice Paolo — Ma tu sei un cane… risponde Giacomo e ride ». «No! Io non sono un cane e mi sono stufato di fare il cane, anzi adesso il cane lo devono fare un po’ anche loro, se non non è valido, vero maestra?». «Maestra, lo sai che mi è venuta un’ape sul mio prosciutto ma io gli ho detto che se ne voleva ne poteva mangiare un po’ e lei ha mangiato e poi mi ha fatto zzzz che era un grazie e poi è volata via? Che bello! Eh sì, adesso quella è una mia amica». Anche la morte non ha uno statuto separato dalla parola, ma è innanzitutto una parola: «Maestra, lo sai che io avevo un nonno che prima era vivo e poi è morto e da quando è morto non l’ha più visto nessuno?».

I bambini trasfigurano costantemente la realtà perché hanno una necessità vitale dell’illusione. Non solo di pane vive, infatti, l’essere umano, ma di parole, segni, gesti, desideri. L’illusione è come un secondo pane, un altro alimento, un lievito che separa la vita umana da quella meramente animale. Il bambino si nutre di fantasia per non restare ustionato dal carattere osceno del reale. La scoperta del mondo, della vita e della morte, del reale del sesso, della violenza e dell’amore, deve poter avvenire attraverso il velo dell’illusione. Altrimenti la luce senza schermi del reale potrebbe bruciare le fragili pupille dei bambini. Ce ne ha dato una immagine indimenticabile Roberto Benigni ne La vita è bella: l’orrore del campo di sterminio è filtrato dalla parola di un padre capace di inventare, raccontare, generare una storia dentro la quale il proprio figlio può trovare riparo dal trauma violento e illegittimo del reale.

Per questo il fondamento del mondo per loro resta sempre l’amore dei genitori. L’affidabilità dell’Altro — il suo amore — rende affidabile il mondo. La vita riceve sempre un senso dall’Altro. Nessuno può farsi da sé il suo nome. «Io so che non sono nato dalla pancia di mia madre, però sono nato nel suo cuore, l’ho seguito e lei mi ha trovato». Anche l’interrogazione sul mistero del mondo non assume mai le forme critiche che ritroveremo con lo sviluppo adolescenziale del potere acuminato del ragionamento astratto. Non c’è astio verso il mondo, non c’è odio verso l’essere, non c’è rivendicazione risentita. Il pensiero di Dio non è mai un pensiero fanatico. «Dio è forte come Star Trek?» chiede un bimbo alla sua maestra. L’umano non è in competizione con Dio, non lo combatte, non lo sfida ancora.

Il sapere dei bambini mostra che c’è un limite al sapere, che non si può sapere tutto il sapere. È il mistero stesso della loro esistenza fa risuonare questo limite. C’è un impossibile da sapere che i bambini sanno custodire con cura perché sanno di essere figli, cioè di non poter bastare a se stessi. Loro sanno che senza l’Altro sprofonderebbero nella notte più fredda. Sanno bene che solo l’amore dell’Altro può dare fondamento al carattere infondato del mondo. Per questo la parola evangelica affida proprio a loro il destino del Regno.

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I miracoli di Gesù, inseparabili dalla sua figura storica

I miracoli di Gesù possono essere indagati dalla storia? O è meglio sbarazzarcene preferendo un Gesù “light”? La recensione del libro “I miracoli di Gesù” (Paoline 2008) del biblista Gianmario Pagano, un’analisi storica sulla figura di Gesù di Nazareth.

 
 

Ad un certo punto della storia, almeno dal 1700 in poi, gli uomini hanno iniziato a vergognarsi di Gesù Cristo.

Com’era possibile conciliare i racconti evangelici, i miracoli e gli esorcismi di Gesù, con la fede nella Dea ragione? Così studiosi, esegeti, biblisti, teologi e intellettuali hanno cominciato ad idealizzare il profilo di Gesù, privandolo delle caratteristiche che lo rendevano “scomodo” ai loro contemporanei.

Un Gesù “light”, più digeribile dalla dieta intellettuale razionalista e secolarizzata.

I miracoli vennero tralasciati o demitizzati, definendoli “simboli” e non eventi storicamente accaduti.

Fortunatamente con la cosiddetta third quest (terza via), ovvero la ricerca contemporanea sul Gesù storico avviatasi dagli anni ’90, sono state messe da parte le opere di “fantasia” degli studiosi ottocenteschi (Schweitzer e Bultmann), ripristinando un po’ le cose.

 

I miracoli di Gesù studiato dal biblista Gianmario Pagano.

«Le attuali ricerche sulle fonti bibliche ed extrabibliche confermano che un Gesù senza miracoli non solo non è storico, ma non è neppure concepibile». Ad affermarlo è il prof. Gianmario Pagano, biblista, realizzatore di serie e mini-serie su Gesù per progetti televisivi Rai e Mediaset, e autore del libro I miracoli di Gesù (Paoline 2008).

Un volume agile (134 pagine), adatto a chi vuole introdursi ad un aspetto del Gesù storico che anima da tempo gli studiosi: i miracoli, per l’appunto. Lo fa in modo attendibile anche perché si richiama esplicitamente in alcune parti al miglior testo scientifico attualmente in circolazione, ovvero il volume 2 di “Un ebreo marginale”, di J.P. Meier (che, con le sue 1300 pagine, non è proprio alla portata di tutti).

La prima osservazione utile da fare è che al contrario dei vangeli apocrifi, i racconti dei miracoli di Gesù nei vangeli canonici sono sì molto numerosi, ma esposti in modo sobrio, senza particolare enfasi.

Anzi, osserva lo studioso, «i Vangeli canonici raccontano un Gesù che compie miracoli con prudenza, a volte persino con ritrosia, cosciente di esporsi a dei pericoli, ma come se tale modo di agire facesse parte dei suoi doveri» (p.6). Il miracolo è un segno, una testimonianza, non una prova di Dio.

 

I miracoli di Gesù soddisfano i criteri storici di attendibilità?

La seconda osservazione, ancora più interessante, è valutare l’effettiva storicità dei miracoli nel Gesù storico. Sorprendentemente, il fatto che Gesù compisse dei miracoli è una delle cose che soddisfa maggiormente i criteri utilizzati dagli storici per valutare la probabilità di un fatto, a partire dal criterio della molteplice attestazione.

«Le fonti Q, M, L, Marco, Giovanni e Flavio Giuseppe», spiega Pagano, «ne fanno apertamente menzione». Inoltre, compaiono diversi brani in cui Gesù stesso parla dei miracoli che ha compiuto (Mt 11,5-6 ecc) e invia i discepoli a compiere loro stessi miracoli (Mt 10,8//Lc 10,9).

Anche lo storico ebreo Flavio Giuseppe accerta che «in quel tempo apparve Gesù, un uomo saggio. Infatti fu operatore di fatti sorprendenti, un maestro di persone che accoglievano la verità con piacere». Il brano è il noto Testimonium Flavianum, parole che fanno parte del nucleo riconosciuto come autentico da ormai quasi tutti gli studiosi.

I miracoli soddisfano anche il criterio della coerenza: i vari episodi convergono e si sostengono a vicenda ed è «difficile escludere che la fama popolare di Gesù sia dovuta almeno alla combinazione, in lui davvero speciale, tra parola e miracoli» (p. 36). Anche il criterio dell’imbarazzo è soddisfatto: in alcuni casi i Vangeli indicano che Gesù fu sospettato di essersi accordato con il diavolo per i suoi esorcismi, un sospetto che difficilmente gli evangelisti avrebbero riportato se Gesù non avesse compiuto alcun esorcismo, mettendolo così in una posizione di ambiguità rispetto ai destinatari dei loro vangeli.

Uno studioso serio del Gesù storico sa quindi che «i miracoli sono di fatto inseparabili dalla figura storica di Gesù e contribuiscono a determinarla. In tutte le fonti Gesù è associato ad atti prodigiosi. La grande popolarità della sua persona e del suo messaggio appaiono persino inspiegabili se si ignorano del tutto i miracoli. Se non si ritengono i miracoli verosimili, si finisce per accusare di inverosimiglianza le fonti nel loro complesso, quelle stesse che invece guadagnano sempre più fiducia sotto ogni altro punto di vista quanto più vengono studiate dagli specialisti» (p. 41,42).

Ovviamente non può esserci la dimostrazione palese che Gesù compiva miracoli, tuttavia si può affermare che certamente si considerava una persona capace di operare miracoli ed esorcismi e tutti coloro che hanno avuto a che fare con lui direttamente o indirettamente, amici e nemici, lo consideravano come capace di compiere prodigi inspiegabili.

 

Perché gli evangelisti raccontano i miracoli di Gesù

L’ultima parte del libro è invece dedicata ad una riflessione originale, ovvero la modalità secondo cui gli evangelisti raccontano i miracoli di Gesù.

Attraverso di essi comunicano infatti dei contenuti e appaiono come «la riproposizione drammatica di un evento significativo della vita di Gesù» (p.79).

Non sono quindi dei racconti inseriti per puro stupore dei lettori ma «rileggere i miracoli in chiave drammatica aiuta a coglierli come strumenti interpretativi adeguati a cogliere la loro profonda “intenzionalità”: essi indicano con forza la presenza misteriosa tra gli uomini del fondamento di una speranza non vana» (p. 133).

Un bel libro, adatto a chi vuole approcciarsi per la prima volta al Gesú storico e alla storicità dei miracoli descritti nei Vangeli.

La redazione

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