La scienza nasce nel cristianesimo medievale: analisi storica

Scienza e cristianesimo. Per molti un abbinamento eretico, ma non per gli storici che da anni hanno ormai certificato l’origine della scienza moderna e del metodo scientifico nel Medioevo cristiano, sotto l’ala della Chiesa cattolica.

 

Le due grandi condizioni perché sia possibile l’esistenza della scienza sono, innanzitutto, che nell’universo regni l’ordine e non il caos e che le leggi regolatrici di quest’ordine siano intelligibili da parte dell’intelletto umano. Queste convinzioni sull’Universo nacquero solo e soltanto nell’Europa cristiana. Perché?

In questo dossier (continuamente aggiornato) affronteremo le risposte e scopriremo, facendoci guidare da importanti storici della scienza, che all’origine della scienza moderna c’è la visione cristiana del mondo.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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1. INTRODUZIONE

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Il premio Nobel per la chimica, Melvin Calvin, scrisse negli anni ’60: «Nel cercare di discernere le origini della convinzione sull’ordine dell’universo, mi pare di trovarle in un concetto fondamentale scoperto duemila o tremila anni fa, ed enunciato per la prima volta nel mondo occidentale dagli antichi ebrei: ossia che l’universo è governato da un unico Dio e non è il prodotto dei capricci di molti dèi, ciascuno intento a governare il proprio settore in base alle proprie leggi. Questa visione monoteistica sembra essere il fondamento storico della scienza moderna»1Melvin Calvin, Chemical Evolution, Oxford 1969, p. 258. Tutto infatti nasce con il monoteismo ebraico e con la Bibbia, in essa per la prima volta compare un elogio della scienza quando gli uomini vengono esortati da Dio ad accettare «la mia istruzione e non l’argento, la scienza anziché l’oro fino, perché la scienza vale più delle perle e nessu­na cosa preziosa l’eguaglia» (Prv 8, 10-11), e si dice che «suo principio è il desiderio d’istruzione; la cura dell’istruzione è amore» (Sap 6, 17).

Ma la cultura antica non riuscì a sviluppare una vero e proprio metodo scientifico. Nelle società era ancora diffuso il concetto politeista e, soprattutto, il metodo aristotelico che -come vedremo- impediva uno studio scientifico della realtà. Il cristianesimo, al contrario delle religioni animiste, pagane e politeiste, introdusse e diffuse un dogma fondamentale: crede in un Dio trascendente, che ha creato il mondo con un atto libero di volontà, che ha creato un mondo materiale, finito nel tempo e nello spazio, e, accanto a esso, una sola creatura spirituale, dotata d’anima, fatta a immagine e somiglianza di Dio: l’uomo. Da questo dogma di fede derivano almeno tra conseguenze molto importanti:
1) il mondo non venne più concepito come nel paganesimo, cioè come dio stesso, come un “grande animale”, una immensa creatura vivente abitata da spiriti della terra, dell’aria, del fuoco e delle acque, da ninfe, gnomi e folletti vari. Esso, al contrario, diventò come una “mundi machina”, secondo l’espressione di un vescovo francescano del XIII secolo, un grande meccanismo materiale costruito, come dice la Bibbia, secondo “numero, peso e misura”, con criteri matematici, da un Dio creatore. Come dicevano i cristiani medioevali, il mondo è la cattedrale edificata da Dio;
2) L’uomo è una creatura unica, libera, non sottoposta al volere degli astri, del Fato, della Necessità (si parla di antropocentrismo biblico). Egli non deve più ricorrere a amuleti, formule e scongiuri per scongiurare le forze spirituali che lo governano, non deve ricorrere a maghi e indovini per rabbonire con sacrifici le forze della natura;
3) La realtà materiale non è una prigione, non è l’origine del male come per Platone, gli gnostici e gli orientali, ma “cosa buona” come si ripete più volte nella Genesi. Questa visione del mondo ha cambiato la storia2Francesco Agnoli, Indagine sul cristianesimo, Piemme 2010, p. 205, 206.

E’ grazie a questa visione di Dio, del cosmo e dell’uomo, che la scienza nacque nell’Europa cristiana grazie ad una visione razionale sulla natura, non più un pericoloso garbuglio di divinità dispotiche ma un insieme di “perfezioni visibili”, come scrive San Paolo, che manifestano la “perfezione visibile” del Logos creatore. Si aprì così lo spazio per la legge fisica, per la contemplazione matematica dell’universo, già presente nella Bibbia e intuita da alcuni filosofi greci. Fu la filosofia cristiana medievale a mettere proprio in luce l’armonia, l’ordine, la proporzione, cioè la razionalità, la logicità, dell’universo creato, che appare per loro scala verso Dio. Perfino il noto anti-teista Peter Atkins, chimico dell’Università di Oxford, ha riconosciuto: «La scienza, il sistema di credenze fondato saldamente su conoscenze riproducibili e pubblicamente condivise, è emersa dalla religione»3Peter Atkins, The limitless power of science, Oxford University Press 1995, p. 125. Nel 1967, addirittura il movimento ecologista ricevette un grande impulso da un articolo intitolato “Radici storiche della nostra crisi ecologica”, redatto dallo storico medievalista Lynn White Jr., dove si accusava apertamente il cristianesimo di essersi imposto sul paganesimo, considerato molto più rispettoso della natura (divinizzandola), proprio tramite l’invenzione della scienza e delle tecniche moderne: «Nella misura in cui la scienza e la tecnologia -sviluppatesi in una matrice cristiana occidentale- accordarono all’umanità dei poteri che oggi sfuggono dal suo controllo, non si potrebbe non riconoscere l’enorme colpa di una tale cristianità riguardo alla crisi ecologica»4citato in P.C. Beltrao, Ecologia umana e valori etico-religiosi, Pontificia Università Gregoriana 1986, p. 11.

Qui sotto vedremo più approfonditamente perché il metodo scientifico non riuscì a svilupparsi al di fuori della visione del mondo e della natura appena descritta, introdotta dal cristianesimo.

 

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2. LA SCIENZA NON NASCE NELLA CULTURA GRECO-ROMANA

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«L’incapacità della Grecia e di Roma di aumentare la produttività attraverso l’innovazione è nota quanto l’incapacità degli storici, da Gibbon ad oggi, di renderne conto»5citato in D.C. Lindberg, Science, Technology, and Progress in the Early Middle Ages, University of Chicago Press 1978. A scriverlo è stato lo storico franco-canadese Brian Stock, emerito di Storia e Letteratura medievale all’Università di Toronto.

Gli antichi romani, infatti, pensavano che la natura potesse essere imitata (tramite l’ingegneria), domata (tramite preghiere e sacrifici), ma non compresa (tramite scienza). In effetti, la loro tecnologia alla fine dell’Impero non era differente dalla tecnologia romana alla fine della Repubblica.

Chi invece identifica erroneamente le radici della scienza moderna nell’Antica Grecia ignora il fatto che per svilupparsi avrebbe dovuto liberarsi dal concetto politeista e dal metodo aristotelico (dal IV secolo a.C.), dalla deduzione -e non dalla verifica- di come dovesse essere l’universo, partendo da principi fissi. Come ha scritto Bernard Cohen, storico della scienza dell’Università di Harvard, infatti, «gli ellenistici erano interessati a spiegare il mondo naturale solo attraverso principi generali astratti»6Bernard Cohen, La rivoluzione nella scienza, Longanesi 1988. Le prime innovazioni tecniche, avvenute in epoca greco-romana, nel mondo islamico e in Cina, per non parlare di quelle ottenute nelle ere preistoriche, non costituirono una scienza ma possono essere meglio descritte come sapere, saggezza, arti, mestieri, tecniche, tecnologie, ingegneria, apprendimento o semplicemente conoscenza. Anche senza l’utilizzo dei telescopi, gli antichi eccellevano nelle osservazioni astronomiche, ma esse rimasero dei meri fatti fino a quando non furono collegate a teorie verificabili. Le conquiste intellettuali dei greci o dei filosofi orientali, erano frutto di un empirismo a-teorico, e le loro teorizzazioni non erano empiriche. Ha scritto a sua volta Harold Dorn, storico della scienza presso lo Stevens Institute of Technology: «Il sapere greco esclusivamente ateorico fu una barriera per l’ascesa della vera scienza: non permise il progresso del mondo greco, di quello romano, nè del mondo islamico, dove si preservarono e studiarono con attenzione gli insegnamenti greci»7Harold Dorn, The Geography of science, Hopkins University Press 1998.

Aristotele, ad esempio, insegnava che la velocità alla quale un oggetto cade a terra è proporzionale al suo peso e, quindi, che una pietra che pesa il doppio di un’altra cadrà due volte più velocemente8Aristotele, Il cielo, Rusconi Libri 1999. Sarebbe bastato recarsi ad una delle vicine scogliere per constatare la falsità della sua proposizione. Mentre Socrate considerava l’empirismo e le osservazioni astronomiche una «perdita di tempo», Platone consigliava ai suoi studenti di «lasciar stare i cieli stellati»9citato in Stephem Mason, Storia delle scienze della natura, Feltrinelli 1971, p. 104. Democrito, invece, suggerì correttamente che tutta la materia era composta da atomi ma si trattò di pura speculazione, non basata sull’osservazione e su implicazioni empiriche. Dal punto di vista del metodo scientifico, tale ipotesi ha lo stesso valore di quella del suo contemporaneo Empedocle, il quale riteneva la materia fosse composta da fuoco, aria, acqua e terra. Un secolo dopo Aristotele affermò invece che invece doveva essere costituita da caldo, freddo, aridità, umidità e quintessenza. Non erano scienziati in quanto basavano le loro “teorie” sulla logica senza preoccuparsi di verificarle empiricamente (Bacone confutò le sue generalizzazioni secondo cui l’acqua calda gela più in fretta di quella fredda semplicemente mettendo all’aperto un contenitore con acqua calda e uno con acqua fredda e osservando quale gelava per primo). Non si trattava di “scienza” quando Platone spiegava che i corpi celesti dovevano ruotare in cerchio perché questa, secondo gli standard della filosofia, era la forma ideale. Era invece scienza quando Keplero corresse Copernico postulando le orbite ellittiche, con il risultato empirico che i corpi celesti potevano essere osservati nella posizione in cui dovevano stare.

L’Universo, per i greci, era eterno, increato ma vincolato in infiniti cicli di progresso e decadenza. Un universo increato, anche se molti -come lo stesso Aristotele- presupponevano effettivamente un “dio” di infinita portata a guardia dell’universo, ma costui era percepito come un’essenza, molto simile al Tao, che conferiva un’autorità spirituale ma non certo un creatore. Nemmeno Zeus poteva essere il creatore di un universo razionale: anch’egli era soggetto agli inesorabili meccanismi ciclici naturali di ogni cosa. Aristotele stesso condannò come «impensabile» l’idea «che l’universo iniziò ad esistere da un certo punto nel tempo»10citato in D.C. Lindberg, The beginning of Western Science, University of Chicago Press 1992, p. 54. Platone immaginava un “dio” molto inferiore a quello di Aristotele, denominato Demiurgo (anche se molti studiosi dubitano che Platone intendesse il Demiurgo come un vero creatore). L’idealismo platonico, fondato su ipotesi a priori, credeva in un universo ciclico ed eterno, una sfera simmetrica circondata da corpi celesti con traiettoria di moto perfetto. Insomma, le concezioni greche delle divinità non erano adatte per lo studio dell’universo e tutte le speculazioni dei maggiori filosofi greci, come quelle di Crisippo e Parmenide, furono a lungo di notevole intralcio alla scoperta scientifica.

Un’altra ragione che rese impossibile la nascita del metodo scientifico nel mondo antico è che i greci insistettero nel tramutare gli oggetti inanimati in esseri viventi, appariva dunque inutile e privo di senso tentare di spiegarne i fenomeni naturali. Così, sempre secondo Aristotele, i corpi celesti si muovevano circolarmente per la loro affezione nei confronti di quell’azione e gli oggetti cadevano a terra «per il loro innato amore verso il centro della terra»11citato in Stanley Jaki, Science and Creation, Scottish Academic Press 1986, p. 105. Il sapere greco, insomma, ristagnò nella propria logica interna. A parte alcuni ulteriori sviluppi della geometria (che in realtà manca di sostanza in quanto è in grado di descrivere solo alcuni aspetti della realtà, non di spiegarne qualunque parte), poco accadde dopo Platone ed Aristotele. L’impero romano assorbì anche la cultura greca, che però non fece progredire intellettualmente nessuno in modo significativo12D.C. Lindberg, The beginning of Western Science, University of Chicago Press 1992. Nulla accadde nemmeno in Oriente, a Bisanzio, dove il sapere greco continuò a diffondersi.

Il filosofo francese Philippe Nemo, direttore e docente del Centro di ricerche in Filosofia economica presso la prestigiosa ESCP Europe, ha suggerito che ad impedire la nascita della scienza nel mondo antico, in particolare in quello greco, fu la mancanza di spirito critico. «Nella stessa Grecia», ha scritto, «se la libertà critica avesse avuto nello humus della civiltà pagana tutti gli elementi capaci di nutrirla, la scienza non vi sarebbe stata soffocata per così dire sul nascere (gli storici della scienza greca hanno sottolineato che i sapienti non furono sostenuti dalla società e che furono presto abbandonati da alcuni dei re di Alessandria e di Pergamo che li avevano “sponsorizzati”, ragione per la quale, dopo così begli inizi, la scienza non si poté sviluppare in Grecia). Se quindi lo spirito scientifico ha prosperato meglio nell’Europa moderna, è in quanto un elemento nuovo si era mescolato alla antica razionalità greca». Questo elemento nuovo altro non è che la «coscienza che hanno avuto i teologi e i filosofi del mondo cristiano dei limiti della ragione. La ragione umana può dimostrare che essa non conosce ogni cosa e, trattandosi di Dio, che essa non conosce nulla (anche se Dio è conosciuto altrimenti). Ora, a differenza dello scetticismo greco, che è puramente negativo, la tradizione della teologia cristiana (apofantica, in particolare) mostra che si può progredire nella conoscenza tramite il fatto stesso che si rinuncia a una certa conoscenza idolatrica, troppo sicura di sé: conoscere Dio significa proprio dimostrare che è inconoscibile. Così, il fatto stesso di prendere coscienza dei propri limiti può aiutare la ragione umana a espandere quegli stessi limiti». Inoltre, ha aggiunto il filosofo francese, «la filosofia antica non concepiva l’idea che si potesse, o addirittura si dovesse, “cambiare il mondo”. Solo quando migliorare il mondo divenne un dovere morale, la pratica della scienza trovò un motivo per svilupparsi su vasta scala: e questa spinta morale fu essenzialmente giudaico-cristiana». Infine, c’è un altro aspetto da considerare: «Se, dopo Anassimandro, Aristarco di Samo e Archimede, i greci non hanno prodotto, senza soluzione di continuità, Galileo e Newton, è proprio perché è venuta loro a mancare la dimensione morale. Gli antichi vivono nel mondo pagano governato dall’eterno ritorno di cicli e ricicli, in una struttura temporale che rende vano combattere radicalmente il male per far emergere un mondo nuovo: un programma, questo, del tutto inconcepibile per loro. Nel mondo esisterà sempre una mescolanza di bene e di male: negli “anni d’oro” prevarrà il bene e negli «anni di ferro» prevarrà il male, ma ogni momento del ciclo sarà inesorabilmente seguito dal momento opposto, come l’inverno e l’estate si succedono nel ciclo delle stagioni. In queste condizioni, il progetto moderno di sviluppare la scienza per cambiare il mondo non poteva emergere nell’antichità pagana. È l’apporto biblico e cristiano che ha dato all’Europa questa aspirazione verso l’infinito, di cui ha parlato Bergson, e che ha fatto di essa una “società aperta”»13Philippe Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, pp. 72, 102, 125.

Alcuni polemisti anti-teisti, a partire da Christopher Hitchens, hanno enfatizzato l’immagine degli antichi Greci e Romani come illuminata, scientifica e razionale contrapponendola al periodo medievale, descritto come oscuro ed impantanato nella superstizione. Nel raccontare ciò hanno a lungo parlato dell’atomismo di Democrito come una visione lungimirante, confermata dalla scienza moderna. Eppure, come ha spiegato Nathan Johnson, storico dell’Università di Portsmouth, l’atomismo antico ha ben poco a che fare con le idee scientifiche moderne: per gli atomisti greci, il colore bianco è prodotto da atomi “brillanti” lisci, mentre il nero è il risultato di atomi ruvidi che “proiettano ombre”. Gli “atomi dell’anima”, invece, sono molto piccoli e producono le sensazioni e coscienza, la loro perdita avrebbe provocato la morte, mentre la respirazione permette di ingerirli e mantenere in vita l’essere umano: «Quelle parti dell’antico atomismo che ci sembrano familiari vengono celebrate come fondamenti prescienti. Il resto viene scartato», ha commentato Johnson. In realtà, «le idee degli atomisti non erano più scientifiche né logiche della concezione di Mileto e Talete secondo cui tutto era effettivamente fatto di acqua, la convinzione di Eraclito che il fuoco fosse la base creativa del cosmo, l’idea di Anassimene che l’aria era l’elemento fondamentale di tutte le cose. Sostenere l’atomismo, privandolo dei suoi aspetti più strani e affermare che rappresenta una “verità epistemologica” è semplicemente un’illusione con il senno di poi»14Nathan Johnson, The New Atheism, Myth, and History: The Black Legends of Contemporary Anti-Religion, Palgrave Macmillan 2018, p. 133.

Ovviamente, con questo non si vuole certo minimizzare il grande valore della cultura greca e il suo grande impatto sulla teologia cristiana e sulla vita intellettuale dell’Europa. Non a caso gli scolastici e gli intellettuali cristiani del Medioevo (Sant’Agostino e San Tommaso in primis) si dissero debitori di Aristotele e degli altri filosofi dell’antichità. Ma, usando le parole dello storico e sociologo delle religioni Rodney Stark (Baylor University), «lo sviluppo della scienza non risultò come il prolungamento del sapere classico. Fu la naturale conseguenza della dottrina cristiana: la natura esiste perché è stata creata da Dio e per amarLo ed onorarLo, è necessario apprezzare a fondo le meraviglie del suo operato»15Rodney Stark, La vittoria della ragione, Lindau 2008, p. 46. Inoltre, occorre riflettere sul fatto che tendiamo a pensare che i greci fossero molto razionali e “scientifici” solo perché gli scribi cristiani, che letteralmente salvarono la cultura antica, erano più interessati ai loro pensieri razionali che alle commedie e le tragedie greche. La grande percentuale del pensiero scientifico greco negli scritti sopravvissuti ci dice infatti, paradossalmente, che i cristiani medievali che li hanno trascritti -permettendo la loro sopravvivenza-, erano interessati alla scienza, non che i greci lo fossero in maniera particolare.

 

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3. LA SCIENZA NON NASCE NELL’ISLAM

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Lo storico della scienza dell’Università di Harvard, A.N. Whitehead, osservava come le immagini di divinità rintracciabili nelle altre religioni, in particolar modo in Asia, erano e sono troppo impersonali o irrazionali per poter incoraggiare la scienza, «mancava quella fiducia che proviene dall’idea della razionalità intellegibile di un essere personale»16Alfred North Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Bompiani 1959.

Molti studiosi confermano che non sia una casualità il fatto che il metodo scientifico non sia nato nemmeno nella cultura islamica: Allah non viene presentato come un creatore giusto, ma è concepito come un Dio estremamente attivo che si impone nel mondo come ritiene opportuno, questa concezione ha originato un nucleo teologico islamico che condanna come blasfemia ogni tentativo di formulare leggi naturali, perché esse negano la libertà di azione di Allah. Nel Corano non si accenna minimamente al fatto che Allah abbia messo in moto la sua creazione, semmai si ipotizza -per l’appunto- che spesso intervenga nel mondo e cambi le cose a suo piacimento.

Nella misura in cui acquisirono una cultura sofisticata, le élite islamiche la appresero dai popoli sottomessi, si trattò infatti della cultura dei dhimmi, i popoli conquistati: quella giudaico-cristiana/greca di Bisanzio, sommata al notevole sapere dei copti e dei nestoriani, più le vaste conoscenze della Persia zoroastriana e i successi matematici degli indù. Nonostante questo sapere venne tradotto in arabo, continuò ad essere alimentato essenzialmente dalle popolazioni dhimmi che vivevano sotto regimi islamici e mai si trasformò in “cultura islamica”.

«Coloro che perseguivano la scienza naturale», ha scritto infatti Marshall G.S. Hodgson, illustre storico dell’Islam presso l’Università di Chicago, «tendevano a conservare le loro più antiche credenze religiose come dhimmi, persino quando scrivevano in arabo»17M.G.S. Hodgson, The Venture of Islam, vol. 3, University of Chicago Press 1974, p. 344.

S.H. Moffett, professore emerito presso il Princeton Theological Seminary, ha osservato a sua volta che «il più antico libro scientifico nella lingua dell’Islam» fu «un trattato di medicina scritto ad Alessandria da un prete cristiano siriano e tradotto in arabo da un medico ebreo persiano»18Samuel H. Moffett, A History of Christianity in Asia, vol. 1, HarperSanFrancisco 1992, p. 344. Anche la tanto decantata architettura islamica (la città di Baghdad, la Cupola della Roccia a Gerusalemme ecc.) fu opera dei dhimmi persiani, bizantini, zoroastriani ed ebrei.

Parlando della scienza islamica, occorre subito osservare che anche i più famosi scienziati del mondo islamico erano persiani e non arabi. Ad esempio Avicenna, probabilmente il più autorevole degli scienziati-filosofi del mondo islamico, e così pure Umar Khayyām, Al-Biruni e Rhazes. Il padre dell’algebra, Al-Khwārizmī, era persiano, mentre il matematico Al-Uqlidisi era siriano.

Cristiani nestoriani erano invece i più importanti esponenti della scienza medica “islamica”: Bakhtīshū e Ḥunayn ibn Isḥāq. Ebreo era invece il famoso astronomo-astrologo Masha’allah ibn Athari.

Lo storico italiano Alessandro Barbero ha osservato che quella islamica era «una medicina fondata sulla teoria degli umori, dell’equilibrio degli umori: quella stessa medicina di Ippocrate e Galeno che sarà poi riscoperta in Occidente e che nel Rinascimento e nell’età moderna sarà praticata anche in Europa». Ma nonostante ciò era «completamente inefficace, perché la teoria galenica non ha il minimo fondamento scientifico e quindi nessun medico, antico o del Rinascimento, ha mai curato nessuno se non per caso, seguendo quei precetti». Al contrario, già nel Medioevo si studia la chirurgia e ed è «una propensione fondamentale della civiltà occidentale, questa verso la pratica, che si profila già nel Medioevo dei crociati»19Barbero A., Benedette guerre, Laterza 2019, pp. 57, 58.

I numeri arabi erano interamente di origine indù e tale sistema numerico (basato sul concetto di zero) fu effettivamente pubblicato in arabo ma adottato soltanto dai matematici islamici, tra i quali ve ne furono sicuramente di pregevoli «forse perché si tratta di un argomento così astratto da mettere al riparo da qualsiasi critica di tipo religioso quanti se ne occupano»20Rodney Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 454, ha scritto Rodney Stark.

Lo stesso giudizio si potrebbe dare per spiegare la fiorente attività islamica nell’astronomia, in particolare nel XIII secolo.

In campo medico, la medicina “musulmana” o “araba” era di fatto cristiana nestoriana: i più illustri medici islamici studiarono presso il prestigioso centro medico-intellettuale nestoriano di Nisibis, in Siria. Lo scrittore musulmano Nasir-i Khrusau ammetteva nella metà del XI secolo che «in verità, qui in Siria, come in Egitto, gli scribi sono tutti cristiani ed è molto frequente che anche i medici siano cristiani»21citato in Francis Edward Peters, The Distant Shrine: THe Islamic Centuries in Jerusalem, A.M.S. Press 1993, p. 90.

Ad esempio, fu il cristiano nestoriano Hunaryn ibn Ishaq al-Ibadi (noto come Johannitius) che «raccolse, tradusse, corresse e diresse la traduzione di manoscritti greci, soprattutto quelli di Ippocrate, Galeno, Platone e Aristotele in siriaco e arabo»22William W. Brickman, The Meeting of East and West in Educational History, Comparative Education Review n. 5, 1961, p. 85, ha scritto W.W. Brickman, presidente del dipartimento di Storia dell’educazione alla New York University.

Anche per quanto riguarda i funzionari, nel X secolo il teologo islamico Abd al-Jabbar riconosceva che «in Egitto, al Sham, Iraq, Jazira, Faris e nelle aree vicine i sovrani si affidano a cristiani per questioni di carattere ufficiale, di amministrazione centrale e di gestione dei fondi»23citato in Mosche Gil, A History of Palestine 634-1099, Cambridge University Press 1992, p. 470. Non appena i dhimmi furono penalizzati, quella cultura sparì: quando nel XIV secolo i musulmani soffocarono qualunque forma di non conformità religiosa, l’arretratezza islamica in ambito culturale, scientifico e tecnologico divenne evidente.

Per parecchi secoli molti scrittori europei hanno sottolineato l’approfondita conoscenza, da parte araba, degli autori classici, dando per scontato che, avendo accesso alla cultura degli antichi, l’Islam fosse culturalmente molto avanzato.

Tuttavia, il sociologo Rodney Stark ha sottolineato che «meno noto è il fatto che l’accesso alla cultura greca abbia avuto un impatto negativo su quella araba»24Rodney Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 457. Gli arabi infatti consideravano il sapere greco, in particolare l’opera di Aristotele, come un testo sacro a cui credere, piuttosto che tentativi di risposte da studiare25Caesar E. Farah, Islam: belief and observances, Barron’s Hauppaguge 1994, p. 199. Gli intellettuali musulmani leggevano tali opere con lo stesso atteggiamento con cui leggevano il Corano: verità rivelate, da accogliere senza domande o critiche.

Perfino uno dei più illustri filosofi islamici, Averroè divenne, assieme ai suoi seguaci, un aristotelico intransigente e dottrinario, proclamando l’infallibilità delle teorie greche: se un’osservazione fosse risultata incoerente con le visioni aristoteliche, allora essa doveva essere sicuramente scorretta o illusoria.

«In Aristotele, i pensatori musulmani trovarono la grande guida», ha scritto l’illustre storico mussulmano Caesar Farah, «per loro divenne il “primo maestro”. Avendo accettato questo a priori, la filosofia islamica, così come si sviluppò nei secoli successivi, scelse di continuare in quest’ottica e di soffermarsi su Aristotele invece di innovare»26Farah C.E., Islam: belief and observances, Barron’s Hauppaguge 1994, p. 199.

Tale atteggiamento impedì all’islam di proseguire nella ricerca del sapere partendo da dove i greci si erano fermati. Al contrario, tra i cristiani scolastici la conoscenza dell’opera di Aristotele fu di sprone per la sperimentazione e la scoperta.

Sylvain Gouguenheim, storico dell’Università Pantheon-Sorbona, ha inoltre osservato che «la cultura greca non tornò all’Occidente solo grazie all’Islam: a salvare dall’oblio i filosofi antichi sarebbe stato innanzitutto il lavoro dei cristiani d’Oriente, caduti sotto dominio musulmano, e dunque arabizzati»27Sylvain Gouguenheim, Aristotele contro Averroè. Come cristianesimo e Islam salvarono il pensiero greco, Rizzoli 2009.

Gouguenheim ha anche messo in dubbio il fatto che la civiltà islamica avesse dimostrato un vero interesse per la sapienza greca: da parte musulmana, invece, si sarebbe trattato più che altro di un approccio selettivo, forte nei settori della logica o delle scienze della natura ma debole, per non dire inesistente, sul piano politico, morale o metafisico28Sylvain Gouguenheim, Aristotele contro Averroè. Come cristianesimo e Islam salvarono il pensiero greco, Rizzoli 2009.

A parte scoperte in campi molto specifici, nei quali non occorreva una base teoretica generale (come alcuni aspetti dell’astronomia e della medicina), non vi è da segnalare alcun progresso scientifico degno di nota nel mondo islamico.

A sostenerlo è stato anche Edward Grant, docente di Storia e Filosofia delle Scienze all’Indiana University, il quale ha scritto che «nella società islamica la scienza non era istituzionalizzata. La scienza, che oggi conosciamo, si sviluppò soltanto nella civiltà occidentale»29Edward Grant, Le origini medievali della scienza moderna, Einaudi 2001, p. 5-6.

 

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4. LA SCIENZA NON NASCE IN CINA ED IN ORIENTE

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Se si vuole affrontare il tema dell’evoluzione scientifica nella società cinese non si può prescindere dall’opera di Joseph Needham, biochimico e storico della scienza britannico, il quale ha dedicato la maggior parte della sua carriera alla storia della tecnologica cinese. Egli riferisce che i cinesi nel XVIII secolo rigettarono l’idea di un universo governato da leggi semplici, indagabili dagli esseri umani (convinzione portata a loro dai missionari gesuiti occidentali): la loro cultura, secondo Needham, semplicemente non era ricettiva verso tali concetti. Mentre i cristiani ritengono la natura come un libro fatto per essere letto, i cinesi «avrebbero respinto con scherno una simile idea in quanto troppo ingenua per la impercettibilità e la complessità dell’universo così come da loro concepito». Needham concluse che l’ostacolo alla scienza in Cina era causato dalla loro religione non cristiana: «Non si era mai sviluppata la concezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sulla Natura non umana. Era loro opinione che l’ordine in natura non fosse stabilito da un essere individuale razionale»30Joseph Needham, Scienza e civiltà in Cina, Einaudi 1981, p. 704. In effetti, nelle religioni estranee alla tradizione giudaico-cristiana, non si presuppone una creazione dell’universo, nella loro prospettiva esso appare eterno e, per quanto possa seguire dei cicli, ciò avviene senza principio o senza scopo.

Se il filosofo Bertrand Russel trovava piuttosto sconcertante la mancanza di scienza in Cina31Bertrand Russel, The problem of China, Allen & Unwin 1922, p. 193, probabilmente non sapeva che per gli intellettuali cinesi l’Universo semplicemente è ed è sempre stato, senza alcun motivo di supporre leggi razionali da cercare e da studiare. Di conseguenza, nel corso dei millenni, si è andati in cerca di “illuminazioni” e non di spiegazioni. La saggezza infatti, secondo la cultura orientale, si raggiunge attraverso un percorso di meditazioni e intuizioni mistiche, senza alcuna occasione d’esercitare l’uso della ragione applicata.

 

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5. LA SCIENZA NASCE NELL’EUROPA CRISTIANA

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Nel maggio 2011 sul sito web di Nature, una delle riviste scientifiche più importanti del mondo, è apparsa una recensione al saggio di James Hannam, dottore in Storia e Filosofia della Scienza presso l’Università di Cambridge, intitolato La nascita della scienza: come il cristianesimo medioevale ha lanciato la rivoluzione scientifica (l’opera è stata selezionata per l’assegnazione del Royal Society Science Book Prize nel 2010 che per il British Society for the History of Science Dingle Prize nel 2011). Il ricercatore ha spiegato che «i cristiani hanno sempre creduto che Dio ha creato l’universo e ordinato le leggi della natura. Studiare il mondo naturale significava ammirare l’opera di Dio. Questo “dovere religioso” ha ispirato la scienza quando c’erano pochi altri motivi per preoccuparsi di essa. È stata la fede che ha portato Copernico a respingere l’universo tolemaico, a spingere Keplero a scoprire la costituzione del sistema solare, e che convinse Maxwell dell’elettromagnetismo».

 

 

5.1) PRIMO CRISTIANESIMO E PENSIERO SCIENTIFICO.

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Il concetto di libera creazione da parte di Dio portato dalla visione ebraico-cristiana fu fondamentale per lo sviluppo del metodo scientifico: per scoprire come sia in realtà l’universo o come effettivamente funzioni, non vi è alternativa dall’andare a vedere direttamente ciò che Dio aveva in mente. Il cammino dalla creazione (e dalle creature) al Creatore risultò la strada più ovvia per arrivare alla comprensione e alla conoscenza di Dio, e in particolare la venuta di Cristo fu decisiva poiché, come ha affermato Peter E. Hodgson, docente di Fisica dell’University College London, «l’incarnazione di Cristo ha fornito ulteriori convinzioni per la scienza: ha spezzato l’idea che il tempo fosse ciclico, ha nobilitato la materia pensando che fosse adatta a formare il corpo e il sangue di Cristo; ha superato il panteismo, dichiarando che la materia è creata e non generata». Tutte convinzioni «necessarie per lo sviluppo della scienza».

Dopo Cristo, non si poté più dedurre -come pensavano i greci- il funzionamento dell’universo semplicemente ragionando a partire da principi filosofici a priori, per conoscere Dio occorreva studiarne la creazione. La magia e l’astrologia, in quanto fondate sull’animismo e sul politeismo panteista, cominciarono ad essere considerate pure superstizioni irrazionali e deprecabili, solo nell’Europa cristiana l’alchimia si evolvette in chimica e l’astrologia condusse all’astronomia. Nacque la concezione di un universo come “creatura” da studiare ed indagare, non un’insieme di divinità, o un “animale divino”. Il filosofo russo Nikolaj Berdjaev scrisse giustamente che «il cristianesimo meccanizzò la natura per restituire all’uomo la libertà», cioè per liberarlo dalla sottomissione del volere degli astri, delle divinità irrazionali nascoste in ogni angolo della natura. Dalla visione cristiana vennero creati quindi i presupposti per il pensiero scientifico. Proprio il superamento delle convinzioni del mondo pagano ha permesso la liberazione dei limiti della ragione: la convinzione di Popper per cui «ogni verità scientifica può essere rimessa in causa, mediante fatti, mediante ragionamenti, mediante nuovi paradigmi che, essi stessi, devono poter esser proposti da uomini e istituzioni libere», ha scritto il filosofo francese Philippe Nemo, «è nata su un humus cristiano. Essa percorre in effetti i grandi dibattiti europei sulla tolleranza che hanno avuto luogo nel Medio Evo (Abelardo, Nicola Cusano), al tempo dell’umanesimo (Pico della Mirandola, Montaigne, Bodin, ecc.) e nei secoli XVII-XVIII. È in nome dell’inafferrabile verità cristiana che si combattono le posizioni cristiane troppo dogmatiche […]. Solo una civiltà moralmente trasformata dal cristianesimo, cioè animata dall’etica e dalla escatologia bibliche, poteva conferire alla scienza il dinamismo che le è stato proprio nell’Europa dei tempi moderni. Ciò che, a partire dal XVIII secolo, si chiamerà il “progresso”, non è altro che l’idea cristiana laicizzata […]. È proprio l’avviamento etico ed escatologico del tempo della Storia attraverso la Bibbia la fonte più profonda dell’origine della scienza in Occidente, dopo i primi tentativi dei greci»32Philippe Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, pp. 73, 102, 125.

Un perfetto esempio di tutto questo è la figura di Giovanni Filopono, cristiano di Alessandria, vissuto nella prima metà del VI secolo, insegnate di filosofia alla scuola di Alessandria. Come ha scritto D.C. Lindberg, professore emerito di Storia della Scienza presso l’Università del Wisconsin–Madison, «la tesi di fondo dell’anti-aristotelismo di Filopono era la negazione della dicotomia posta da Aristotele tra regioni terrestri e regioni celesti del­ mondo», da cui «ne consegue che i cieli non possono essere divini, e ciò metteva Filopono in grado di tirare una netta linea di demarcazione tra il Creatore e il resto della sua creazione (tanto celeste quanto terrestre). Una dottrina aristotelica fondamentale crollava così di fronte alla dottrina cristiana; ma ciò non significa che l’attacco di Filopono fosse privo di sostanza da un punto di vista filosofico. Al contrario, egli procedeva con acutezza argomentativa, in modo alquanto rigoroso e – come gli storici della scienza non hanno mancato di sottolineare – con effetti positivi per l’andamento a venire della cosmologia»33David C. Lindberg, Ronald Numbers, Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p. 33. Edward Grant, storico di Scienza Medioevale presso l’Indiana University, ha citato invece il pensiero di San Pier Damiani (1007- 1072): «La fede in Dio favorisce lo studio del mondo esteriore e materiale, con un duplice proposito: predisporre dentro di noi la contemplazione della sua natura invisibile e spirituale, così che ci si disponga ad amare e ad adorare meglio il Signore; e renderei capaci di conseguire un dominio sul mondo siccome sta scritto in Sl 8,6-9»34in David C. Lindberg, Ronald Numbers, Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p. 42. Il filosofo e matematico Alfred North Whitehead ha osservato che la scienza ha potuto nascere solo in Europa perché solo gli europei del Medioevo credevano che la scienza fosse possibile, basandosi sull’immagine di Dio e della sua creazione, fornita dalla teologia cristiana: l’indagine scientifica ebbe origine grazie «alla fede nella possibilità della scienza […] derivante dalla teologia medievale»35Alfred North Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri 2001, p. 13.

 

 

5.2) MEDIOEVO E SCIENZA.

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Lo storico della scienza Edward Grant, docente all’Indiana University, ha scritto: «Che cosa permise alla scienza di acquistare prestigio e influenza e di diventare nel secolo XVIII, una forza potente nei paesi dell’ Occidente europeo? Le risposte a queste domande vanno ricercate in alcune istituzioni e in alcuni atteggiamenti mentali, che si affermarono nella società occidentale fra il 1175 e il 1500. Erano nuovi in Europa e furono unici al mondo»36Edward Grant, Le origini medievali della scienza moderna, Einaudi 2001, pp. 5-6. Grant ha individuato questi tre fattori: 1) la traduzione in lingua latina dei testi greco-arabi di scienza e di filosofia naturale; 2) la creazione delle università medievali; 3) l’emergere di filosofi teologico-naturalisti37Edward Grant, Le origini medievali della scienza moderna, Einaudi 2001, pp. 5-6.

Nella sua celebrata opera del 2009, il filosofo James Hannam ha avuto il merito di far conoscere ad un vasto pubblico non accademico il modo in cui la scienza e vari aspetti della filosofia naturale hanno funzionato nella società medievale e hanno gettato le basi per la scienza moderna. «Il contributo più significativo dei filosofi naturali del Medioevo», ha scritto lo studioso, «era di rendere la scienza persino concepibile. La loro convinzione centrale che la natura fosse stata creata da Dio e così degna della loro l’attenzione era ciò che Galileo sosteneva con tutto il cuore. Senza quella consapevolezza, la scienza moderna non sarebbe semplicemente nata»38James Hannam, La genesi della scienza. Come il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza moderna, D’Ettoris 2015, p. 342, 343.

Furono proprio gli scolastici, brillanti studiosi medievali, a fondare le grandi università europee, a formulare e insegnare il metodo sperimentale e a dare ufficialmente inizio alla scienza occidentale. La ricerca del sapere era insita nella teologia, in quanto lo sforzo di comprendere pienamente Dio era esteso fino a includere la creazione divina: nacque così la filosofia naturale (nell’Alto Medioevo quasi tutti i teologi erano anche filosofi naturali). Uno dei più importanti storici del Medioevo, Richard William Southern, presidente del Royal Historical Society, si è spinto affermare che i teologi scolastici fecero «apparire l’uomo più razionale, la natura umana più nobile, l’ordine divino dell’universo più aperto all’osservazione umana e tutto l’insieme di uomo, natura e Dio più pienamente comprensibile di quanto possiamo oggi credere plausibile». Concludendo, poi: «Considerando lo sforzo di comprendere la struttura dell’universo e di dimostrare la dignità della mente umana facendo vedere che può conoscere tutte le cose, questo sistema di pensiero è una delle più ambiziose manifestazioni di umanesimo scientifico mai tentate»39Richard William Southern, Medieval Humanism and Other Studies, Harper Torchbooks 1970, p. 49.

Non soltanto i padri della scienza erano guidati dalla fede cristiana ma poterono confrontarsi grazie alle Università, sorte proprio durante il Medioevo. Il sociologo Rodney Stark ha infatti spiegato che le grandi innovazioni scientifiche «furono il culmine di molti secoli di progressi sistematici portati avanti dagli scolastici medievali e sorretti da un’invenzione del XII secolo prettamente cristiana: l’Università. Scienza e religione non erano solo compatibili, ma addirittura inseparabili, e la scienza nacque grazie a studiosi cristiani profondamente religiosi»40Rodney Stark, La vittoria della ragione, Lindau 2008.

L’attenzione intellettuale degli scolastici per l’empirismo fu al centro del metodo educativo delle Università. Le prime nacquero in Italia e in Europa, e non nel resto del mondo, precisamente a Bologna verso il 1088. E’ in questi luoghi, spesso di origine ecclesiastica e sotto il protettorato pontificio, che studiarono Galilei e gli altri padri della scienza e della medicina moderna, come hanno dimostrato gli studi di José Alberto Palma della New York University e di Giorgio Cosmacini, maggior storico della medicina italiano. Il filosofo Stefano Zecchi, ordinario di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano, ha a sua volta spiegato: «L’origine anche medievale della scienza moderna è ben evidente qualora si studi la nascita dell’anatomia. Essa infatti sorge con le prime dissezioni di cadaveri umani, intorno al 1315 a Bologna. Per lungo tempo Bologna, Padova e Roma saranno le capitali mondiali di questa nuova scienza, abbondantemente favorita, come è chiaro dagli studi più recenti, dalla Chiesa cattolica»41Stefano Zecchi, Storia dell’estetica, antologia di testi, vol. I, Il Mulino 1995, p. 126, 159.

Fu infatti nell’Europa cristiana che furono fatte le prime dissezioni anatomiche e divennero rapidamente obbligatorie nelle università (pontificie), proprio in quanto fin dal principio tali istituzioni furono dominate dall’empirismo e alle prove osservazionali. Mentre greci, romani, musulmani e cinesi proibirono la dissezione umana, la teologia cristiana sostenne che unico è l’anima non il corpo e questo contribuì enormemente nello studio della fisiologia e dell’anatomia. «L’introduzione della dissezione umana nell’Occidente latino, avvenuta senza serie obiezioni da parte della Chiesa, fu un fatto importantissimo»42Edward Grant, Le origini medievali della scienza moderna, Einaudi 2001, p. 205, ha scritto Edward Grant. Nel 1204 Ugo de’ Borgognoni fondò la scuola di chirurgia a Bologna, confutò le teorie galeniche sulla guarigione delle ferite utilizzando il vino, fasce e suture ed anticipò di secoli la scoperta dell’antisepsi, nel 1316 Mondino dei Luzzi pubblicò Anatomia, il primo trattato sulla dissezione; nel 1370 Giovanni di Arderne, padre della chirurgia inglese, inventò metodi efficaci per l’anestesia e curò per la prima volta la fistola anale, che elevò il tasso di sopravvivenza dei cavalieri del cinquanta per cento ed il fondatore della scuola medica parigina, Henri de Mondeville (1260 – 1320), aprì la strada al trattamento asettico delle ferite e all’uso di suture. Nel 1391 fu condotta la prima dissezione in Spagna, nel 1404 toccò all’Austria, a metà del ‘400 il sezionamento del corpo umano era una pratica abituale dei corsi di anatomia in tutta Europa43Rodney Robert Porter, The Greatest Benefit of Mankind, W.W. Norton 1998.

«Le Università, come le cattedrali e il parlamento, sono il prodotto del Medioevo»44Charles Homer Haskins, Le origini dell’Università, Il Mulino 1970, p. 3, ha scritto C.H. Haskins, il primo storico del medioevo degli Stati Uniti. Nat Schachner, a sua volta, scrisse: «L’università era il figlio prediletto e viziato del papato. I Papi intervenivano con linguaggio minaccioso per costringere i re a rispettare l’inviolabilità di questa istituzione privilegiata»45Nat Schachner, The Medieval Universities, Frederick A. Stokes 1983, p. 3. Furono gli scolastici i fondatori delle università e del “metodo universitario”, tanto che Marcia L. Colish, docente di Storia alla Yale University, ha rilevato come «la metodologia già in atto all’inizio del XII secolo mostra la volontà e la prontezza degli scolastici nel criticare i documenti basilari nei rispettivi campi. Più che limitarsi a ricevere e divulgare le tradizioni classiche e cristiane, di quelle tradizioni accantonarono le idee che consideravano non essere più di alcuna utilità. I commentari raramente erano semplici compendi o spiegazioni delle opinioni degli autori. I commentatori scolastici erano molto più inclini a confrontarsi con l’autore scelto o a paragonare il suo lavoro con le idee delle emergenti scuole di pensiero e lo opinioni stesse degli scolastici»46Marcia L. Colish, La cultura del Medioevo, 400-1400, Il Mulino 2001, p. 266. In poche parole, si acquisiva fama e inviti ad insegnare in alte università grazie all’innovazione: non chi conosceva Aristotele parola per parola, ma chi aveva trovato errori in Aristotele. E’ nota l’affermazione del professore di teologia Guglielmo d’Alvernia (1180-1249) ai suoi studenti all’Università di Parigi: «Non vi venga in mente che voglio usare le parole di Aristotele per conferire autorità alle cose che sto per dire, perché so che richiamarsi a un’autorità è solo dialettica e può produrre soltanto fede, mentre è mio obbiettivo, sia in questa dissertazione che ovunque mi sia possibile, esibire certezza dimostrativa»47citato in Edward Grant, Le origini medievali della scienza moderna, Einaudi 2001, p. 148-149.

E’ dunque il Medioevo, ancora oggi erroneamente identificato come “secoli bui”, ad essere stato la culla della scienza. Come hanno scritto due prestigiosi storici della scienza, David C. Lindberg (già presidente della History of Science Society) e Ronald Numbers (University of Wisconsin–Madison), «i vecchi cliché circa la repressone perpetrata dalla teologia verso l’impresa scientifica durante l’età patristica e medievale sono stati ormai confutati in modo deciso»48David C. Lindberg, Ronald Numbers, Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p. XXI. Lo scrittore C.S. Lewis (1898-1963) sintetizzò così il pensiero medievale: «Gli uomini divennero scientifici perché si aspettavano una legge in natura, e si aspettavano una legge in natura perché credevano in un legislatore». Anche lo storico e filosofo dell’Università di Bruxelles, Lèo Moulin, si è soffermato su questo: «Mi sono chiesto perché l’unica civiltà tecnologica e scientifica sia la nostra. Ho cercato di trovare le ragioni, posso garantire che ci rifletto da parecchio tempo, e l’unica spiegazione che ho trovato è la presenza del terriccio, dell’humus della cristianità. Perché? Perché Dio ha creato un mondo diverso da Lui, non si integra in esso»49Leo Moulin, L’Eeuropa dei monasteri e delle cattedrali, Meeting per l’amicizia fra i popoli, Rimini 27/8/87.

I grandi studiosi del Medioevo che porteranno alla cosiddetta “rivoluzione scientifica” rinascimentale furono pensatori come il teologo Roberto Grossatesta (1175–1253), rettore dell’Università di Oxford, il quale apportò importanti contribuiti all’ottica, alla fisica e allo studio delle maree. Rifiutò la teoria aristotelica dell’arcobaleno e fu il primo a capire che esso dipende dalla rifrazione della luce. Separò inoltre l’astronomia dall’astrologia e fondò quello che in seguito venne chiamato “metodo scientifico”: insegnava, infatti, la partenza dal caso particolare per formulare una legge universale in campo naturale e poi applicarla per fare previsioni su tutti gli altri casi (“principio di risoluzione e composizione”). Il vescovo Alberto Magno (1200-1280) fu maestro di Tommaso d’Aquino all’Università di Parigi e sottopose a prove empiriche le affermazioni di Aristotele e altri filosofi greci classici, insegnando a non limitarsi ad accettare la cultura classica ma a mettere in dubbio la sapienza ricevuta e a cercare osservazioni affidabili. Arrivò a dare contributi importanti in geografia, astronomia e chimica (per questo ricevette il titolo di Doctor Universalis).

Il francescano Ruggero Bacone (1214-1294) è indicato come il “primo scienziato” in quanto fece suo il metodo scientifico di Grossatesta e lo ampliò, contrapponendo l’empirismo all’autorità: «Non possiamo distinguere tra sofisma e dimostrazione, a meno che sappiamo noi stessi arrivare alla conclusione dimostrandola»50citato in N.W. Fisher, S. Unguru, Experimental Science and Mathematics in Roger Bacon’s Throught, Traditio n. 27, 1971, p. 358. Nel suo Opus Maius, scritto per Papa Clemente IV, Bacone previde le future invenzioni del microscopio, telescopio e macchine volanti. Con la sua «immaginazione scientifica», ha scritto lo storico di Oxford John Henry Bridges, «Bacone mise il mondo sulla strada giusta verso la scoperta» delle sue previsioni, indicando un metodo che richiedeva che «esperimento e osservazione fossero combinati con la matematica»51John Henry Bridges, The Life and Work of Roger Bacon, William&Norgate 1914, p. 162.

Il monaco Guglielmo di Ockham (1285-1349) è famoso per il suo rasoio, con il quale intendeva sostenere che le teoria non dovrebbero comprendere più termini e principi di quelli necessari per spiegare l’argomento in questione, ma il suo contributo più importante fu nella comprensione del cosmo: eliminò la necessità di “motori” (come teorizzato dai greci) per spiegare il movimento dei corpi celesti, scoprendo che lo spazio è un vuoto senza attrito. Anticipò la Prima Legge del Moto di Newton ipotizzando che, una volta che Dio aveva messo in moto i corpi celesti, non essendoci attrito avrebbero continuato a restare in movimento per sempre. Giovanni Buridano (1300-1358) introdusse il concetto di inerzia (impetus) che spiegava l’intuizione di Ockham, mentre il suo allievo, il vescovo Alberto di Sassonia (1316-1390), oltre a fondare l’Università di Vienna e diventarne il primo rettore nel 1365, ampliò il concetto inserendo il contributo della gravità terrestre. Il successivo passo verso l’eliocentrismo lo compì Nicola d’Oresme (1320-1382), il quale sostenne che la Terra ruota attorno al proprio asse cosa che dà l’illusione che siano gli altri corpi a ruotarle attorno: non seppe dimostrarlo ma la ritenne la spiegazione più semplice rispetto all’immenso numero di corpi celesti in rotazione attorno ad essa. Il vescovo Nicola Cusano (1401-1464) osservò a sua volta che «sia che un uomo si trovi sulla Terra, sul sole o su qualche altra stella, gli sembrerà sempre che la posizione che sta occupando sia il centro immobile, e che gli altri corpi siano in movimento»52citato in Dennis Danielson, The Book of the Cosmos: Imagining the Universe from Heraclitus to Hawking, Perseus 2000, p. 98. Perciò ne dedusse l’impossibilità a fidarsi della propria percezione sul fatto che la Terra sia ferma nello spazio la quale, sostenne, certamente si muove.

Nel suo La genesi della scienza. Come il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza moderna (D’Ettoris 2015), il filosofo James Hannam si è interrogato sul permanere di numerose leggende nere sulla presunta opposizione della Chiesa allo sviluppo scientifico, rispondendo: «La Chiesa non ha mai insegnato che la Terra fosse piatta e, nel Medioevo, nessuno la pensava così, comunque. I Pontefici non hanno cercato di vietare nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno, sono lieto di dirlo, è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora regolarmente tirate fuori come esempio di intransigenza clericale nei confronti del progresso scientifico».

 

 

5.3) NON CI FU UNA VERA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA NEL XVI SECOLO.

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«Se ho visto più lontano è perché stavo sulle spalle di giganti», disse Isaac Newton. E chi erano questi giganti, se non i grandi pensatori cristiani del Medioevo? L’eminente storico della scienza, Alfred North Whitehead, ha infatti concluso che «la scienza moderna deve provenire dall’insistenza medievale sulla razionalità di Dio. Il più grande contributo del medievalismo alla formazione del movimento scientifico fu l’incrollabile convinzione che ci fosse un segreto, un segreto che può essere svelato. In che modo questa convinzione si è radicata così profondamente nella mente europea? Dovette arrivare dall’insistenza medievale sulla razionalità di Dio. Ogni dettaglio fu indagato e ordinato: la ricerca all’interno della natura poteva portare soltanto alla giustificazione della fede nella razionalità»53Alfred North Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Bompiani 1959, p. 12.

A sua volta, A.C. Crombie, primo docente ad insegnare Storia della scienza all’Università di Oxford, ha osservato che «il sentimento che avrebbe inspirato gran parte della scienza del tredicesimo secolo era stato in realtà espresso già all’inizio di quel secolo dal fondatore (san Francesco d’Assisi) di un ordine che avrebbe dato tanti grandi innovatori al pensiero scientifico occidentale, particolarmente in Inghilterra. Fu questo, non vi è dubbio, il sentimento che inspirò Grossatesta, Ruggero Bacone e Peckham a Oxford»54Alistair Cameron Crombie, Da Sant’Agostino a Galileo. Storia della scienza dal quinto al diciassettesimo secolo, Feltrinelli 1970, pp. 149, 150.

Così come non ci furono i “secoli bui”, non ci fu neppure una “rivoluzione scientifica”. «L’idea che ci sia stata una rivoluzione copernicana va contro l’evidenza ed è un’invenzione di storici posteriori»55Bernard Cohen, Revolution in Science, Harvard University Press 1985, p. 107, ha scritto infatti Bernard Cohen, eminente storico della scienza di Harvard. Effettivamente il termine “rivoluzione scientifica” fu un’invenzione successiva, nata anche per screditare l’epoca medievale e sostenere che la scienza spuntò all’improvviso in tutta la sua fioritura, senza nulla dovere ai precedenti studiosi scolastici. Eppure i grandi successi dei secoli XVI e XVII furono il frutto di un gruppo di studiosi molto religiosi, che appartenevano a università religiose, e le cui brillanti conquiste si basavano sull’inestimabile retaggio di secoli di erudizione scolastica medievale.

Rupert Sheldrake ha giustamente osservato, inoltre, che «i fondatori della scienza meccanicistica nel XVII secolo, tra cui Keplero, Galileo Galilei, René Descartes, Francis Bacon, Robert Boyle e Isaac Newton, erano tutti cristiani praticanti. Keplero, Galileo e Cartesio erano cattolici romani; Bacon, Boyle e Newton erano protestanti. Boyle, un ricco aristocratico, era eccezionalmente devoto e spendeva grandi quantità di denaro per promuovere attività missionarie in India. Newton dedicò molto tempo ed energie agli studi biblici, con particolare interesse per la datazione delle profezie. Calcolò che il Giorno del Giudizio si doveva verificare tra gli anni 2060 e 2344, e ne espone i dettagli nel suo libro “Observations on the Prophecis of Daniel and the Apocalypse of St. John. La scienza del diciassettesimo secolo ha creato una visione dell’universo come una macchina progettata e intelligentemente avviata da Dio»56Rupert Sheldrake, Le illusioni della scienza, Feltrinelli 2021, p. XXXV.

Fu solamente una forte convinzione teistica, infatti, a indurre Francesco Bacone (1561-1626) -considerato da molti il padre della scienza moderna-, ad insegnare che Dio ci ha fornito due libri, quello della natura e la Bibbia, e che per essere istruiti in maniera davvero adeguata bisognasse applicare l’intelletto allo studio di entrambi. E come lui la pensavano i padri della scienza moderna, come Galilei, Keplero, Copernico, Pascal, Boyle, Newton, Faraday, Babbage, Mendel, Pasteur, Kelvin, Maxwell ecc., tutti teisti ed in gran parte devoti cristiani (qui si possono leggere loro citazioni in merito).

Al canonico cattolico Niccolò Copernico (1463-1543) è di solito attribuito l’inizio della cosiddetta rivoluzione scientifica. Alcuni hanno provato a descriverlo come un oscuro canonico nella lontana Polonia, un genio isolato. Invece, il cattolico Copernico ricevette un’ottima istruzione nelle migliori università del suo tempo Bologna, Padova e Ferrara e l’idea che la Terra gira attorno al sole non gli venne dal nulla: apprese i concetti fondamentali per arrivare al modello eliocentrico dai suoi professori di filosofia scolastica. Egli aggiunse un passo alla lunga linea di scoperte iniziate nei secoli precedenti. «Fu soltanto perché Bacone, Grossatesta e altri scolastici combatterono e vinsero la battaglia per l’empirismo, che fu possibile la nascita della scienza»57Rodney Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 269, ha scritto il sociologo Rodney Stark.

Soltanto facendo piazza pulita delle idee dei filosofi greci che gli scolastici medievali poterono creare le basi per la rivoluzione scientifica. Copernico, infatti, conosceva bene le teorie di Alberto di Sassonia (il cui Fisica, pubblicato nel 1492, studiò all’Università di Padova), così come il pensiero dei vescovi cattolici Nicola Cusano e Nicola d’Oresme sul movimento della terra: egli aggiunse la posizione del sole al centro del sistema solare e la rotazione attorno ad esso degli altri pianete, terra compresa (pur ipotizzando erroneamente orbite circolari invece che ellittiche, correzione apportata da Keplero un secolo dopo). Il tutto lo espresse in termini matematici e ciò diede particolare lustro alla sua opera, ma parti essenziali della sua teoria erano state messe insieme dagli scolastici nei secoli precedenti. Come già detto, la newtoniana Prima Legge del Moto altro non fu che l’ampliamento dell’intuizione di Guglielmo di Ockham secondo cui un corpo rimarrà in movimento fino a che una forza, come l’attrito, non agirà su di esso. Intuizione perfezionata da Buridano e da Galileo: Newton non partì da zero!

La fede cristiana era spesso la principale fonte d’ispirazione di questi grandi uomini, quasi tutti preti, monaci e addirittura vescovi e cardinali. Ma anche la forza trainante alla base dell’intelletto indagatore di Galileo Galilei (1564-1642), era la sua profonda convinzione che il Creatore «che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire»58citato in John Lennox, Fede e Scienza, Armenia 2009, p. 23. Mentre per Giovanni Keplero (1571-1630), «lo scopo principale di ogni indagine sul mondo esterno dovrebbe essere quello di scoprire l’ordine razionale che vi è stato imposto da Dio e che egli ci ha rivelato con il linguaggio della matematica»59citato in Morris Kline, Mathematics: the loss of certainty, Oxford University Press 1980, p. 31. Nel XVI secolo, Cartesio (1596-1650) giustificò la sua ricerca delle leggi naturali sul fatto che tali leggi dovessero esistere perché Dio era perfetto, e agiva «nel modo più costante e immutabile possibile»60Cartesio, Opere, libro 8, cap. 61, tranne che nelle rare eccezioni dei miracoli. Nelle sue ultime volontà il grande chimico del XVII secolo, Robert Boyle, augurava ai membri della Royal Society di Londra un successo continuo nel loro «lodevole tentativo di scoprire la vera natura delle Opere di Dio»61citato in Robert K. Merton, Science, Technology and Society in Seventeenth Century England, “Osiris” n. 4, 1938, p. 447.

Il biochimico e teologo Ernest Lucas, professore onorario di Theology and Religious Studies presso l’University of Bristol, ha infatti giustamente osservato che «gli storici della scienza hanno riconosciuto sempre più spesso questo fatto: la fiducia dei primi scienziati moderni, Keplero, Bacone, Newton, di poter indagare il mondo trovandolo ordinato ed intellegibile scaturiva dalla fede cristiana. In secondo luogo, essi credevano di essere fatti ad immagine di Dio, e che quindi la loro mente sarebbe stata in grado -tanto per citare le famose parole di Keplero- di “pensare i pensieri di Dio dopo di Lui”, e di scoprire quell’ordine»62Ernest Lucas, in Russel Stannard, La scienza e i miracoli, Tea 2006, p. 221-222.

Gli storici della scienza D.C. Lindberg e R. Numbers hanno scritto che verso la metà del XVII secolo i cattolici francesi René Descartes, Marin Mer­senne e Pierre Gassendi (il secondo dei quali era un monaco Minorita, e l’ultimo un sacerdote), «furono tra gli elaboratori principali della filosofia meccanicistica, che fornì un’alternativa alla filosofia naturale aristotelica e che gettò le basi di gran parte del lavoro scientifico a venire. La filosofia meccanicistica attraversò nuovi sviluppi nell’Inghilterra protestante, ove scienziati del calibro di Robert Boyle e Isaac Newton ne trovarono un sostegno nelle idee riformate sulla sovranità divina e sull’assoluta dipendenza della materia da Dio»63David C. Lindberg e Ronald Numbers, Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p. XXVIII.

Sulla rivista Science, il filosofo James Hannam ha spiegato che fino alla Rivoluzione francese «la Chiesa cattolica è stata lo sponsor principale della ricerca scientifica. La Chiesa anche insistito sul fatto che la scienza e la matematica avrebbero dovuto essere obbligatorie nei programmi universitari. Nel XVII secolo, l’ordine dei Gesuiti era diventata la principale organizzazione scientifica in Europa, con la pubblicazione di migliaia di documenti e la diffusione di nuove scoperte in tutto il mondo. Le cattedrali sono state progettate anche come osservatori astronomici per la determinazione sempre più precisa del calendario»64tesi ribadita anche in James Hannam, La genesi della scienza. Come il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza moderna, D’Ettoris 2015.

Peter Harrison, direttore dell’Institute for Advanced Studies in the Humanities presso l’University of Queensland, ha osservato a sua volta che «tra il 12° e il 18° secolo, il sostegno materiale e morale della Chiesa cattolica per lo studio dell’astronomia non ha eguali in nessun’altra istituzione». Nell’aprile 2012, sempre l’eminente studioso inglese, ha invece spiegato che «una alleanza tra scienza e ateismo è qualcosa che i fondatori della scienza moderna avrebbero trovato sconcertante. E’ noto da tempo che le figure chiave nella rivoluzione scientifica del XVII secolo hanno accarezzato sincere convinzioni religiose». Per loro, ha continuato, la religione «era parte integrante delle loro indagini scientifiche e ha fornito un fondamento metafisico fondamentale per la scienza moderna. Le vestigia delle convinzioni teologiche di questi pionieri della scienza moderna può ancora essere trovato nel comune presupposto che ci sono leggi di natura che possono essere scoperte dalla scienza».

In un dossier specifico abbiamo creato un elenco dei protagonisti dei successi scientifici del XVI, XVII e XVIII secolo mostrando come quasi tutti fossero sinceri cristiani e praticanti. Tra i protagonisti della scienza di allora, soltanto uno è ricordato per il suo ateismo: Edmond Halley. «Nessuno dei protagonisti della nuova scienza pensava minimnamente di mettere in discussione l’origine trascendente dell’universo», ha scritto a sua volta il filosofo della scienza Roberto Timossi, «anzi, casomai si verificava il contrario: prospettando un ordine cosmologico matematicamente perfetto essi credevano di avvalorare meglio e compiutamente la fede in un Dio onnipotente e razionale, creatore di tutte le cose»65Roberto Timossi, Dio e la scienza moderna, Mondadori 1999, p. 43.

Lo stesso Max Plank, uno dei giganti della scienza moderna, ha riflettuto molto su questo, scrivendo: «Scienza e religione hanno bisogno l’una dell’altra per completarsi nella mente di ogni uomo che seriamente rifletta. Non è certo un caso che proprio i massimi pensatori di tutti i tempi siano stati anche nature profondamente religiose […] Un Galileo, un Keplero, un Newton e molti altri grandi fisici […]: per tutti questi uomini la devozione alla scienza era, consciamente o inconsciamente, una questione di fede, una questione di fede serena in un ordine razionale nel mondo»66Max Plank, La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri 1993, p. 155. 156, 408.

 

Occorre infine chiarire che sarebbe scorretto, nonostante tutto ciò, negare la presenza storica di episodi di antagonismo tra scienza e fede. Ad esempio John H. Brooke, il primo docente di Scienza e Religione all’Università di Oxford, ha spiegato: «Nel passato le credenze religiose servivano da presupposto dell’impresa scientifica fintanto che sottoscrivevano tale uniformità, anche se le particolari concezioni della scienza sostenute dai suoi pionieri erano spesso ispirate da credenze teologiche e metafisiche»67John Brooke, Science & religion: some historical perspective, Cambridge University Press 1991, p. 19.

Questa lettura è condivisa dagli storici della scienza D.C. Lindberg, presidente della History of Science Society, e R. Numbers, dell’University of Wisconsin–Madison: «Per quanto i primi Padri della Chiesa non giudicassero l’indagine del mondo materiale un fatto di priorità assoluta, tuttavia neppure reputavano priva di senso tale indagine; a lor occhi, la conoscenza degli enti materiali era valida ai fii dell’esegesi biblica e della difesa della fede, il che, senza dubbio, riduceva la scienza a un ruolo ancillare, ma era ben lungi dal sopprimerla […]. Il cristianesimo prese a prestito le sue categorie fondamentali e gran parte della propria metafisica e cosmologia da Aristotele; in cambio, la scienza ricevette un sostegno istituzionale e adito a nuovi punti di vista che la arricchirono e la riorientarono»68David C. Lindberg, Ronald Numbers, Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p. XXV, XXVI. La scienza nasce “serva” della teologia: cioè, per capire l’opera di Dio, per fornirne una spiegazione. E’ esattamente così che si percepivano coloro che presero parte alle grandi conquiste del XVI e XVII secolo: come qualcuno che persegue i segreti della creazione (un “libro” che andava letto e compreso). E alcune volte, purtroppo, si è preteso che le scoperte scientifiche dovessero per forza confermare le scoperte teologiche.

 

 

5.4) LA RIFORMA PROTESTANTE E LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA.

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Un ultimo mito riguarda le conseguenze della Riforma protestante sulla nascita della scienza. Nel 1983, Robert K. Merton, uno dei più autorevoli sociologi d’America, fu tra i primi ad ipotizzare che il protestantesimo puritano avesse dato il vero impulso alla rivoluzione scientifica, ma -oltre a concentrarsi solo sull’Inghilterra- la definizione di “puritano” da lui proposta era così ampia che di fatto nessun cristiano ne era escluso, neppure i cattolici. Barbara J Shapiro, professore emerito dell’Università della California, ha giustamente commentato: «Quello che essenzialmente sta dicendo Merton è che degli inglesi contribuirono alla scienza inglese»69Barbara J. Shapiro, Latitudinarism and Science in Seventeenth-Century England, “Past and Present” n. 40, 1968, p. 288. Il sociologo statunitense Rodney Stark ha catalogato i principali luminari nati tra il 1543 e il 1680 rilevando 52 scienziati devotamente credenti e soltanto la metà erano protestanti. Escludendo gli inglesi, i cattolici superavano i protestanti 26 a 11, «il che corrisponde alla distribuzione sul continente di protestanti e cattolici in quel periodo»70Rodney Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 471-477.

Vi è comunque una parte di verità: la Controriforma cattolica, avviatasi dopo il Concilio di Trento (1551-1552, 1562-1563), oltre ad accentuare l’enfasi sull’ascetismo e sulla fede rispetto alla Chiesa del potere e delle simonie, originò anche significative limitazioni al pensiero intellettuale. Lo ha spiegato lo stesso Rodney Stark analizzando tale periodo storico: «Anche se la scienza occidentale ha le sue radici nella teologia cristiana e si è sviluppata nelle università medievali, la riforma cattolica impose restrizioni intellettuali talmente severe che le università cattoliche subirono un declino quanto a importanza scientifica. Pertanto, nell’ultima parte del XIX secolo, si sviluppò l’errata convinzione che la Riforma protestante abbia fatto nascere l’evoluzione scientifica»71Rodney Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 431.

 

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6. CONCLUSIONE

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Abbiamo dunque contribuito a dimostrare come la concezione cristiana dell’unico Dio Creatore non solo abbia svolto un ruolo essenziale e di fondamentale importanza nella nascita della scienza e nello sviluppo del metodo scientifico, ma sia stata la condizione indispensabile perché questo potesse accadere.

Solo nell’occidente cristiano è stato possibile concepire Dio come responsabile dell’esistenza e dell’ordine dell’universo e, grazie alla Sua incarnazione, divenuto incontrabile e conoscibile dall’uomo, anche attraverso i metodi della scienza. Ovviamente, anche se il cristianesimo fu essenziale per lo sviluppo della scienza Occidentale, questa dipendenza non esiste più. Una volta debitamente messa in moto, la scienza è stata in grado di reggersi da sola e la convinzione che i segreti della natura cederanno di fronte alla continua ricerca, attualmente è un articolo di fede laica quanto un tempo lo era di fede cristiana.

 

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Il cristianesimo donò dignità alla donna, le prove storiche

Le donne nel cristianesimo, una storia di dignità e diritti. Al di là del mito della misoginia cristiana, analizziamo storicamente il ruolo delle donne nella storia cristiana interpellando studi, storici internazionali e importanti femministe. Ecco quanto ha fatto la civiltà cristiana per modificare radicalmente la visione della donna nella storia umana (ultimo aggiornamento: aprile 2024).

 
 

Tutti oggi consideriamo ovvio che le donne abbiano diritti inviolabili equiparabili a quelli degli uomini.

Ci sembra scontato che la donna abbia una dignità e che non possa essere proprietà di nessuno. Pochi sanno e tanti non vogliono sapere che è in gran parte un dono della civiltà cristiana, non del femminismo.

L’eminente storico francese Jacques Le Goff, ha infatti scritto: «Io ritengo che l’idea che la donna sia uguale all’uomo abbia determinato la concezione cristiana della donna»1J. Le Goffe, Un lungo Medioevo, Dedalo 2006, p. 92.

In questo dossier storico, continuamente aggiornato, analizzeremo il ruolo e la condizione della donna prima e dopo l’avvento del cristianesimo, smentendo moltissimi pregiudizi e luoghi comuni e illuminando il contributo ineguagliabile apportato dalla cristianità al genere femminile.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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1. LA CONDIZIONE DELLA DONNA PRIMA DEL CRISTIANESIMO.

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Dedichiamo un breve excursus storico sulla condizione della donna nelle varie civiltà pre-cristiana.

 

1.1 La donna nell’Antico Israele.

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Si può attingere agli storici dell’epoca per comprendere la situazione delle donne ebree dell’Antico Israele.

Ad esempio, secondo Filone di Alessandria, la più autorevole voce ebraica della diaspora, «le donne sono soprattutto adatte a una vita domestica che mai si allontana da casa […]. Una donna non deve mai essere una ficcanaso che si intromette in faccende che vanno al di là dei suoi interessi domestici, ma deve scegliere una vita di solitudine»2citato in R. Scroggs, Paul and the Eschatological Woman, Journal of the American Academy of Religion 1972, p. 290.

Aline Rousselle, professore di Storia Antica presso l’Università di Perpignan ha osservato che «dal Talmud sappiamo che gli Ebrei poligami procreavano con la prima sposa e facevano prendere la pozione (abortiva, con grandi rischi anche per la vita della donna) alla seconda, che era fatta per il “piacere”»3A. Rousselle, Storia delle donne, Laterza 1993, pp. 346, 348.

Lo storico inglese W.H. Clifford Frend ha a sua volta sottolineato che «le donne ebree non avevano il diritto di prestare testimonianza e non potevano aspettarsi che fosse data credibilità a ciò che riferivano»4W.H. Clifford Frend, The rise of Christianity, Fortress 1984, p. 67.

Nel Talmud babilonese, infatti, si trova scritto: «Meglio bruciare la Torah che insegnarla a una donna […]. Chiunque parla troppo con una donna fa del male a se stesso»5citato in S.G Bell, Women: From the Greeks to the French Revolution, Stanford University Press 1971, p. 72.

Alcune donne ebree, tuttavia, ricevettero una buona istruzione ed ebbero ruoli di leadership in certe sinagoghe, come confermano le iscrizioni di Smirne.

Certamente l’ebraismo riconobbe alle donne una posizione e un ruolo assai superiori a quelli ricoperti nel Vicino Oriente, anche se «la comunità ebraica, così fortemente patriarcale, ne relegò l’attività e le funzioni nell’ambito familiare, nella convinzione che il loro specifico biologico le destinasse fondamentalmente alla procreazione […]. Solo nell’ambito familiare l’ebraismo ritenne quindi giusto tutelare i diritti della donna, proteggendone la riconosciuta inferiorità»6Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 6..

La filosofa Giorgia Salatiello, docente ordinario alla Pontificia Università Gregoriana, ha osservato che nel Vecchio Testamento emerge tuttavia «con chiarezza che donne protagoniste o apparentemente marginali offrono un significativo contributo al dipanarsi della storia della salvezza e dell’alleanza di Dio con il Suo popolo e aprono piste che poi gli uomini seguono grazie a loro»7Salatiello G., La parità di genere è nelle Sacre Scritture, l’Osservatore Romano 24/06/2020.

 

1.2 La donna nell’Antica Grecia.

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Gli studiosi concordano sul fatto che nell’epoca preletteraria della grecità, nelle civiltà minoica e micene, si verificò un probabile matriarcato8Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 7..

Le donne venivano infatti ancora tenute in gran conto e le antiche costituzioni di Sparta o della cretese Gortina attestano alcuni loro diritti particolari e, pur diversamente dal resto della Grecia, vi fu anche un certo tipo di educazione verso le giovani donne a Lesbo nel VII-VI secolo a.C.9Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 7.

Resta tuttavia incontestabile, scrive Ferruccio Bertini, docente di Letteratura latina presso l’Università di Genova, che nella grande Atene del V-IV secolo, «la donna era confinata nel gineceo, non poteva cioè uscire liberamente di casa, non godeva di alcun diritto politico e non partecipava mai alla vita sociale, se non in occasione di qualche festività religiosa»10Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 7..

Lo status delle donne elleniche è d’altra parte noto grazie alle fonti letterarie di autori greci dell’epoca.

L’immoralità del solo uscire di casa è attestato ad esempio ne Le troiane, nota tragedia di Euripide rappresentata ad Atene nel 415 a.C., quando Andromaca descrive questa azione come ciò che reca la più grande vergogna alle donne11Euripide, Le troiane, vv. 666–677.

Lo storico ateniese Senofonte racconta invece che «il legislatore spartano Licurgo dispose che per la produzione dei figli un anziano marito presentasse la moglie a qualsiasi uomo di cui ammirasse il fisico e la personalità. Inoltre, se un uomo non desiderava sposarsi, ma desiderava comunque avere figli straordinari, Licurgo gli rese anche lecito avere figli da qualsiasi donna fertile e ben educata che venisse alla sua attenzione, previo consenso del marito»12Senofonte, Costituzione degli Spartani, 1.7–8.

Ne I detti delle donne spartane di Plutarco, le donne sono invece apprezzate esclusivamente per la loro capacità di produrre figli forti, futuri soldati della polis. Il più importante dovere delle donne greche non legato alla gravidanza era quello di produrre tessuti per la casa attraverso la filatura e la tessitura e trascorsero effettivamente così tutto il loro tempo.

Lo storico Bret Devereaux, docente presso la North Carolina State University, ha spiegato che la stragrande maggioranza di tutte le donne a Sparta erano iloti, una classe di servi ridotti in schiavitù, considerati una proprietà dello Stato piuttosto che individui. Era così comune per gli uomini spartani violentare donne ilote che la progenie nata da tali stupri formava una classe sociale significativa e legalmente definita13Senofonte, Hellenica 5.3.9 14Devereaux B., Collections: This. Isn’t. Sparta. Part III: Spartan Women, 29/08/2019.

Anche il sociologo statunitense Rodney Stark ha analizzato la condizione delle donne elleniche, confermando che «vivevano quasi recluse, nelle classi elevate ancor più che nelle altre; e tutte conducevano una vita molto appartata; nelle famiglie privilegiate, alle donne veniva negato l’accesso alle stanze anteriori della casa»15Stark R., Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012, p. 163.

Nel V secolo, Socrate, pur convinto che le donne fossero meno sagge e meno forti degli uomini, aveva tuttavia dimostrato grande disponibilità verso loro, sostenendo che la causa principale della loro inferiorità era la mancanza di un’educazione appropriata. Con la sua morte le donne greche persero il loro prezioso sostenitore16Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 7..

Un secolo dopo, Aristotele teorizzò, invece, la diversità naturale e la conseguente inferiorità delle donne, spiegando ad esempio che nella riproduzione umana il contributo femminile si limitava a fornire passivamente quella materia (sangue mestruale) che la forma e lo spirito dell’uomo attivamente trasformavano17Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 7..

Nelle sue opere politiche, Aristotele conferì il diritto dell’uomo a comandare sulla donna, visto che ella disponeva di una ragione minore e imperfetta, incapace di dominare i propri istinti. Perciò, se priva di controllo, la donna era pericolosa18Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 7..

Ferruccio Bertini spiega a tal proposito:

«Questa teoria di Aristotele si affermò facilmente, a controprova del fatto che la più grande espressione politica del mondo greco fu una democrazia esclusivamente maschile: in essa compito delle donne libere era quello biologico di generare figli, compito delle schiave era quello imposto di lavorare. Tenuta pertanto in condizioni di sottosviluppo culturale e priva di qualsiasi istruzione, la donna greca non ebbe neppure la possibilità di educare i propri figli, la cui formazione era infatti affidata interamente agli uomini»19Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, pp. 7-8.

 

1.3 La donna nell’Antica Roma.

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Un relativo miglioramento dello status femminile rispetto alla condizione greca si verificò a Roma.

Pur continuando a restare esclusa dai diritti politici20Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 9, la donna non era più segregata in casa e acquisì maggiore libertà di movimento e maggiori autonomie, anche sessuali.

Seppur il più grande elogio riservatole si può riassumere nell’epitaffio «Custodì la casa, filò la lana» (Domum servavit, lanam fecit), la società romana migliorò il rispetto nei suoi confronti e la donna divenne la regina della casa e la responsabile dell’educazione dei figli a diventare “cittadini romani”21Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 8.

Lo storico Plutarco riporta tuttavia l’uso dei romani nel dare «le loro figlie in spose quando avevano dodici anni, se non prima», tanto che descrisse «l’odio e la paura delle ragazze costrette contro natura»22citato in K. Hopkins, The Age of Roman Girls at Marriage, Population Studies 1965, p. 114.

Il sociologo Rodney Stark ha infatti osservato che le donne romane, al contrario di quelle greche, pur «non essendo recluse, erano ugualmente subordinate al controllo maschile in molti altri modi. Né le donne elleniche né quelle romane avevano voce in capitolo nella scelta dell’uomo da sposare, né su quando sposarsi»23Stark R., Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012, p. 163.

Le ragazze venivano sposate in giovane età, di solito da uomini molto più vecchi, e raramente avevano voce in capitolo nella scelta dello sposo. Il matrimonio si celebrava spesso prima della pubertà e veniva subito consumato (esempi emblematici sono Ottavia, Agrippina, la moglie di Quintilliano e quella di Tacito). Lo confermò lo storico romano Cassio Dione: «Le ragazze sono ritenute pronte per il matrimonio al compimento del loro undicesimo anno di età»24Cassio Dione, Storia romana.

Aline Rousselle, professore di Storia Antica presso l’Università di Perpignan, ha inoltre osservato che «gli uomini romani pagani non venivano allevati nell’idea di dover esercitare un certo autocontrollo. Per il ragazzo erano normale guardare con occhio concupiscente le giovani schiave di casa. Ve ne erano sempre di giovanissime da usare per il proprio piacere». Anche «le mogli dell’alta società romana non avevano difficoltà ad accettare le relazioni del marito con schiave e concubine. Talvolta erano esse stesse a scegliere queste “socie”»25A. Rousselle, Storia delle donne, Laterza 1993, pp. 346, 348.

Solo poche donne (ad esempio Sempronia, Clodia-Lesbia e Livi, moglie di Augusto) riuscirono ad avere un certo peso negli affari pubblici grazie all’appartenenza ad antiche e illustri famiglie romane, ciò si verificò verso la fine dell’età repubblicana e in periodo imperiale26Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 8.

Le feroci satire di Giovenale e i pungenti epigrammi di Marziale sulla dissolutezza femminile rispecchiarono bene l’insofferenza verso questi primi accenni di libertà della donna.

Ferruccio Bertini, docente di Letteratura latina presso l’Università di Genova, conclude pertanto: «È lecito affermare dunque, che mentre in Grecia la condizione della donna subì un’evoluzione in senso negativo, in Roma si verificò il processo inverso: ma si tratta pur sempre di un miglioramento relativo»27Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, pp. 8-9.

 

Lo storico italiano Massimo Guidetti ha riferito invece che nelle culture germaniche, al tempo delle invasioni barbariche, alla donna «viene riconosciuta una inferiorità cronica nei confronti dell’uomo. Nessuna donna può vivere nel regno longobardo da libera, senza essere cioè soggetta al mundio, che sia del marito o del padre o dei fratelli, o in caso estremo del re, né può vendere o donare beni senza il consenso del mundualdo»28Guidetti M., Storia d’Italia e d’Europa, Jaca Book 1978, p. 161.

Nelle leggi longobarde invece, prosegue Guidetti, «la donna è considerata più come oggetto di diritto che non come soggetto dello stesso: l’offesa recata a una donna viene riparata in quanto recata a un possesso dell’uomo»29Guidetti M., Storia d’Italia e d’Europa, Jaca Book 1978, p. 161.

 

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2. LA DONNA NEI VANGELI E IN GESU’ DI NAZARETH.

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Grazie al Nuovo Testamento si introduce per la volta una prospettiva completamente nello status delle donne.

Lucetta Scaraffia, femminista e docente di Storia contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma, ha scritto infatti che «il cristianesimo per primo ha proposto la parità spirituale tra donne e uomini, è la tradizione cristiana ad aver gettato il seme dell’emancipazione femminile in Occidente»30Scaraffia L., Dall’ultimo banco. La Chiesa, le donne e il Sinodo, Edizioni Marsilio 2016.

Effettivamente, rispetto alle epoche precedenti in cui la donna fu totalmente subalterna all’uomo e diversamente dai maestri e dai dottori della legge ebraici dell’epoca, Gesù di Nazerth manifesta una propensione positiva inedita nei confronti delle donne.

Ad esempio, parla con loro in pubblico, anche con chi non gode di buona nomea come l’adultera (Gv 8,1-11), la prostituta nella casa di Simone (Lc 7,37-47) o la samaritana (Gv 4,7 ss). Molte donne sono presenti tra i suoi seguaci, circostanza piuttosto inedita per un rabbì.

Gesù ebbe certamente per discepole le due sorelle di Lazzaro, Marta e Maria mentre al momento della crocifissione l’apostolo Giovanni rimase ai piedi della croce in compagnia di Maria, madre di Gesù, della «sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala» (Gv 19, 25) e, si legge, anche «molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo» (Mt 27, 55).

A tal proposito, lo storico Mauro Pesce, ordinario all’Università di Bologna, scrive:

«Maria aveva un ruolo forte all’interno dei primi gruppi cristiani. Accade lo stesso anche alla madre di Giovanni e Giacomo il cui marito, Zebedeo, non gioca alcun ruolo, laddove la moglie ha un rilievo importante nel gruppo; infatti è lei a chiedere a Gesù, secondo Matteo, che i suoi due figli abbiano una funzione importante nel futuro regno di Dio (20,20-21): “Dì, che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”. In generale possiamo dire che nel gruppo di Gesù il ruolo delle donne è significativo»31C. Augias, M. Pesce, Inchiesta su Gesù, Mondadori 2006, p. 34

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Addirittura il cuore del cristianesimo, cioè la Resurrezione di Gesù fu affidato totalmente alle donne. Come abbiamo analizzato in un altro dossier, quel giorno Gesù risorto scelse di mostrarsi per la prima volta alle donne recatesi al sepolcro, invitando loro a comunicare l’avvenimento agli apostoli e a portare a tutti il Suo annuncio di gioia e di speranza (Mt 28, 1-11).

Eppure, scrivono N.T. Wright, professore di Nuovo Testamento all’Università di St. Andrews e C.A. Evans, docente di Nuovo Testamento all’Acadia Divinity College, «le donne nel mondo antico non erano affatto considerate validi testimoni oculari»32C.A. Evans, N.T. Wright, Gli ultimi giorni di Gesù, San Paolo 2010, p. 105, non potendo nemmeno essere ammesse come testimoni nei tribunali ebraici, proprio perché la loro testimonianza non aveva peso, né valore.

I cristiani furono ferocemente derisi per questo dal filosofo greco Celso, il quale scrisse: «I Galilei credono a una risurrezione testimoniata soltanto da qualche femmina isterica»33Celso, Il discorso vero, Adelphi 1987.

A proposito di questo l’eminente filosofo italiano Umberto Eco ha scritto:

«Visto che è indubbio che Cristo si è sacrificato per maschi e per femmine e che, in spregio ai costumi dei suoi tempi, ha conferito privilegi altissimi alle sue seguaci di sesso femminile, visto che la sola creatura umana nata immune dal peccato originale è una donna, visto che è alle donne e non agli uomini che Cristo è apparso in prima istanza dopo la sua resurrezione, non sarebbe questa una chiara indicazione che egli, in polemica con le leggi del suo tempo, e nella misura in cui poteva ragionevolmente violarle, ha voluto dare alcune chiare indicazioni circa la parità dei sessi, se non di fronte alle leggi e i costumi storici, almeno rispetto al piano della Salvezza?»34C.M. Martini, Umberto EcoIn cosa crede chi non crede?, Liberal Libri 1996 p. 14.

 

La femminista Elisabeth Schùssler Fiorenza ha perfino scritto: «Ciò che ci porta a vedere i testi biblici come una risorsa nella lotta per la liberazione dall’oppressione patriarcale, oltre che come modelli per la trasformazione della Chiesa patriarcale, non è un qualche canone speciale di testi che possano pretendere un’ autorità divina; è piuttosto l’esperienza delle donne stesse, nelle loro lotte di liberazione»35citata in C.M. Martini, Guida alla lettura della Bibbia San Paolo 1995, p. 57.

A sua volta la filosofa Giorgia Salatiello, docente ordinario alla Pontificia Università Gregoriana, ha osservato:

«Molte studiose già da decenni» sono impegnate nella riscoperta dei testi biblici ed evangelici. «Nel Nuovo Testamento le donne sono sicuramente protagoniste, insieme agli uomini, nella sequela di Gesù, che mostra nei loro riguardi un particolare apprezzamento, lo seguono fino ai piedi della croce e ricevono il primo annuncio della risurrezione». Un tale approccio non intende «sostituire una parzialità, quella femminile, a un’altra parzialità, quella maschile prevalente da lungo tempo, bensì quello di giungere ad una lettura e ad un’interpretazione articolata e poliedrica. Su queste basi, la maggior parte delle studiose che si accostano alla Scrittura concorda nel riconoscere che il messaggio che essa veicola per le donne è di uguaglianza e di liberazione»36Salatiello G., La parità di genere è nelle Sacre Scritture, l’Osservatore Romano 24/06/2020.

 

Ferruccio Bertini, docente di Letteratura latina presso l’Università di Genova, rileva la rivoluzione neotestamentaria nel ruolo femminile sottolineando che «Gesù introduce novità profonde rispetto sia al mondo giudaico, sia al mondo pagano in genere: egli rivaluta la natura e la dignità della donna, così come dei poveri e degli umili, e rimette in discussione concezioni e atteggiamenti fortemente radicati negli uomini»37Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 9.

Pur agendo in una prospettiva religiosa e spirituale, prosegue Bertini, «la sua opera di liberazione comporta conseguenze anche sul piano sociale e politico». L’insegnamento di Gesù di Nazareth sull’inscindibilità del vincolo matrimoniale e sulla uguale dignità dei coniugi «costituiscono, per esempio, una novità radicale sia per i Giudei, abituati alla poligamia e al ripudio più o meno motivato della moglie, sia per i Romani, presso i quali era consentito e assai praticato l’uso del divorzio»38Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 9.

 

2.1 La visione della donna di San Paolo

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La percezione del ruolo delle donne nella Chiesa delle origini è stata a lungo distorta da un’affermazione attribuita a Paolo di Tarso: «Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare» (1Cor 14,34).

Ma Bart D. Ehrman, noto studioso statunitense del Nuovo Testamento e del cristianesimo delle origini, spiega che «ci sono solide ragioni, comprese alcune prove nei manoscritti, per credere che l’ingiunzione di tacere rivolta alle donne non facesse originariamente parte della lettera ai Corinzi, ma sia stata aggiunta in seguito dai copisti»39Ehrman B.D., Gesù è davvero esistito?, Mondadori 2013, p. 352.

Robin Scroggs, biblista e docente di New Testament all’Union Theological Seminary di New York ha argomentato efficacemente che tale frase fu inserita da coloro che composero le lettere deutero-paoline e pastorali, attribuendole a Paolo40Scroggs R., Paul and the Eschatological Woman, Journal of the American Academy of Religion 1972. Anche Rodney Stark spiega che «ci sono oggi valide ragioni per rifiutare queste parole in quanto risultano incoerenti con tutto ciò che Paolo ha da dire sulle donne»41Stark R., Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012, p. 166.

La controversa affermazione paolina effettivamente stona vistosamente con la visione della donna espressa da San Paolo in molti altri passaggi, questi sì ritenuti autentici dagli storici.

L’Apostolo delle Genti, ad esempio, raccomanda di accogliere come una santa la diaconessa Febe (Rm 16,1-2), non vedendo niente di male nella responsabilità di guida della donna.

Lo stesso Paolo si circondò di collaboratrici, come osservato da Wayne Meeks, professore emerito di Studi Religiosi alla Yale University: «Le donne […] sono le compagne di lavoro di Paolo in quanto evangeliste e maestre»42W. Meeks, “The First Urban Christians: The Social World of the Apostle Paul”, Yale University Press 1983, p. 71.

San Paolo invitò all’equiparazione tra uomo e donna anche nell’esercizio della sessualità, ad esempio quando scrisse: «Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è il padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra continenza» (1Cor 7,3-5).

Nel 2013 il giurista italiano Stefano Rodotà, di orientamento laico, indicò proprio in San Paolo la manifestazione dell’eguaglianza tra uomo e donna. Criticando infatti lo «schema patrimoniale che vede il coniuge proprietario del corpo dell’altro coniuge o creditore di prestazioni sessuali», Rodotà osservò: «Si perdeva così il senso delle parole di Paolo nella prima Lettera ai Corinzi: “La moglie non ha potere sul suo corpo, ma il marito. Allo stesso modo non è il marito ad avere potere sul proprio corpo, ma la moglie”. In questo reciproco possesso era fondata l’eguaglianza tra i coniugi»43Rodotà S., Diritto d’amore. Perché i sentimenti sfuggono alle regole, Repubblica 14/09/2013.


 

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3. LE DONNE NEL PRIMO CRISTIANESIMO.

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Uno dei più importanti sociologi delle religioni, Rodney Stark, ha concluso che uno dei motivi dell’incredibile aumento del numero dei cristiani dall’anno 40 d.C., in cui erano 1000, al 350 d.C. quando arrivarono a 32 milioni fu proprio l’attenzione, la stima, il rispetto e la protezione che i cristiani praticavano nei confronti delle donne44Stark R., Le città di Dio. Come il cristianesimo ha conquistato l’impero romano, Lindau 2010.

La cristianità si sviluppò all’interno dell’impero romano non solo in virtù della forza della sua dottrina, ma anche perché riuscì a creare delle isole di stabilità, di protezione, di dignità per donne e bambini, all’interno delle rigide barriere etniche e di classe presenti nella società ebraica e romana.

Anche nella Chiesa delle origini, oltre che nei Vangeli, le donne ebbero un ruolo importante.

Lo confermò indirettamente Plinio il Giovane nel 112 d.C., ad esempio, quando scrisse all’imperatore Traiano di aver torturato due giovani donne cristiane «che venivano definite diaconesse»45citato in The Letters of Pliny the Younger Penguin Classic 1969, 10.96. Le diaconesse erano capi importanti nella prima Chiesa, dotate di speciale responsabilità, citate da Clemente Alessandrino e da San Paolo in Rm 16,1-2.

Origene (185-216 d.C.), commentando il brano paolino, afferma: «Questo testo insegna con l’autorità di un apostolo che […] nella Chiesa ci sono, come detto, diaconi donna, e che le donne […] devono essere ammesse al diaconato»46citato in R. Gryson, The Ministry of Woman in the Early Church, The Liturgical Press 1976, p. 134. Nel Concilio di Calcedonia del 451 d.C., si stabilì tra l’altro che le diaconesse avrebbero dovuto avere almeno 40 anni e non essere sposate.

Peter Brown, professore emerito di Storia alla Princeton University, ha rilevato inoltre che «i membri del clero cristiano […] hanno compiuto un passo che li ha separati dai rabbini di Palestina […]. Accoglievano le donne come protettrici e giungevano fino a dare loro dei ruoli in cui potevano agire come collaboratori»47P. Brown, The Body and Society, Columbia University Press 1988 p. 144, 145.

Anche Wayne Meeks, professore emerito di Studi Religiosi alla Yale University ha osservato che «sia in termini di posto che occupano all’interno della società più vasta che in termini di partecipazione alle comunità cristiane, un gran numero di donne disattese le normali aspettative legati ai ruoli femminili»48W. Meeks, The First Urban Christians: The Social World of the Apostle Paul, Yale University Press 1983, p. 71

Nella Chiesa antica, la differenza maschile e femminile non fu mai in opposizione bensì in armonia con il fatto che entrambi sono parte dell’unità dell’essere umano: l’uomo, così come la donna, non esistono “da soli” ma acquisiscono un senso e una pienezza solo se si pongono “in relazione”. «Le donne cristiane», ha spiegato Rodney Stark, «godevano davvero di maggior uguaglianza con gli uomini di quanta ne avessero le controparti pagane o ebree»49R. Stark, Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012, p. 166.

A proposito di eguaglianza, Teodoreto di Cirro (393–457circa), vescovo di Cirro (Siria), scrisse: «Al pari dell’uomo, la donna è dotata di ragione, capace di comprendere e conscia del proprio dovere; come lui essa sa ciò che deve evitare e ciò che deve ricercare; può darsi talvolta che esse giudichi meglio dell’uomo ciò che può riuscire utile e che essa sia una buona consigliera»50citato in F. Agnoli, Inchiesta sul cristianesimo, Piemme 2010, p. 60.

D’altra parte uno studio sulle sepolture in catacombe sotto Roma, basato su 3.733 casi, ha rivelato che le donne cristiane avevano quasi le stesse probabilità degli uomini di essere commemorate con lunghe iscrizioni. Questa «quasi uguaglianza nella commemorazione di maschi e femmine è qualcosa di peculiarmente cristiano, e differenzia i cristiani dalle popolazioni non cristiane della città», ha spiegato Brent D. Shaw, storico canadese dell’Università di Princeton51B.D. Shaw, Season of Death: Aspects of Mortality in Imperial Roman, Journal of Roman Studies 1996, p. 107.

Questi elementi, insieme al culto di Maria di Nazareth, fecero sì che fin dall’inizio nelle comunità cristiane vi fu una prevalenza numerica delle donne. La crescita di comunità sane con la presenza di molte donne virtuose fu decisiva per la crescita demografica dei cristiani.

Ferruccio Bertini osserva tuttavia che anche per san Paolo la verginità e la continenza sono preferibili all’esercizio della sessualità coniugale, «ma quest’ultima è pur sempre preferibile all’incontinenza»52Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 9.

L’esaltazione della verginità presente in particolare in Sant’Ambrogio e Abelardo fu secondo Bertini una «teorizzazione della liberazione della donna appunto attraverso la scelta della verginità», tanto che è incredibile la quantità di matrone, pie donne e monache che abbandonavano casa e famiglia, o monastero, «per visitare i Luoghi Santi, per occuparsi dei poveri e degli infermi», riprova della «forte emancipazione raggiunta tra la fine del IV e l’inizio del V secolo dalle donne romane convertite al cristianesimo. Esse si muovevano liberamente fuori dagli angusti orizzonti domestici e, dedicandosi con fervore allo studio dei testi sacri, acquisivano anche un apprezzabile livello culturale»53Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 15.

Anche Franco Cardini, ordinario di Storia Medievale presso l’Università di Firenze, individua nel IV e V secolo «un’età di forte emancipazione della donna romana», in particolare vergine o vedova, «che caratterizzavano il mondo femminile cristiano dei primi secoli»54Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 33.

Molte altre invece scelsero il matrimonio tanto che i pagani trovarono donne virtuose nelle comunità cristiane, infatti la percentuale di unioni tra donne cristiane e uomini pagani fu relativamente alta, generando molte conversioni dei coniugi maschi al cristianesimo. La conseguenza ultima di questi fenomeni fu un aumento del tasso di natalità all’interno dei circoli cristiani.

Come ha osservato lo storico della Chiesa dell’Università di Cambridge, Henry Chadwick, «il cristianesimo sembra aver riscosso un successo speciale fra le donne. E’ stato spesso attraverso le mogli che esso ha raggiunto le classi elevate nei primi tempi»55H. Chadwkic, The Early Church, Penguin Books 1967, p. 56.

Come spiegare questa sproporzione numerica di donne rispetto agli uomini? Il sociologo Rodney Stark ha risposto: «Perché il cristianesimo offriva loro una vita enormemente superiore a quella che avrebbero altrimenti condotto»56R. Stark, Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012, p. 162. Ed ancora: «L’ascesa del cristianesimo fu opera delle donne. In risposta alle speciali attrattive che questa religione presentava ai loro occhi, la Chiesa delle origini riuscì a convertire molte più donne che uomini, e questo in un mondo dove le donne scarseggiavano. Tale eccesso di donne diede alla Chiesa un noto vantaggio perché portò ad una fertilità cristiana sproporzionalmente elevata e a un crescente numero di conversioni secondarie (dei loro mariti)»57R. Stark, Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012, p. 180, 181.

E’ possibile elencare diverse grandi donne del cristianesimo, partendo dalle martiri dei primi secoli (Agnese, Tecla, Cecilia, Margherita, Blandina), venerate da tutto il popolo cristiano con immensa devozione e derise dai polemisti anticristiani, come Celso e Porfirio, che nei loro libelli sottolineano che alla “nuova religione” aderiscono non tanto uomini colti e filosofi, quanto “donnette”, “donne sciocche”, “schiavi” e “ragazzini”. Al contrario, le donne più importanti dell’antichità di cui si conserva il nome sono pochissime, sovente ricordate più per la loro condizione di etere e prostitute d’alto bordo.

Innumerevoli nel primo cristianesimo sono anche le donne colte dei monasteri, le donne nobili dedite alle opere di carità (Pulcheria, Eudoxia, Galla Placidia, Olimpia, Melania), così pure come con le donne che hanno cambiato la storia dei loro regni, come le principesse Clotilde, Teodolinda, Berta Di Kent, Olga di Kiev.

«Dappertutto», ha scritto la storica Régine Pernoud, «si constata il legame tra la donna e il Vangelo se si seguono, tappa dopo tappa, gli avvenimenti e i popoli nella loro vita concreta»58R. Pernoud, La donna al tempo delle cattedrali, Rizzoli 1986, p. 18.

D’altra parte, in obbedienza alla famosa proclamazione di san Paolo (“in Cristo non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero”, Gal 3, 28), il cristianesimo è l’unica religione in cui il rito di ammissione alla comunità, cioè il battesimo, è sempre stato uguale per uomini e donne.


 

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4. LE DONNE NEL MEDIOEVO.

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Negli ultimi decenni sono apparsi diversi volumi storici che hanno gettato luce sulla presenza e sulla funzione della donna nel mondo politico, sociale, culturale e religioso del Medioevo.

La conclusione è quasi sempre un ribaltamento di miti e pregiudizi.

Infatti, scrive Ferruccio Bertini, docente di Letteratura latina presso l’Università di Genova, «è ora di smentire il vieto luogo comune, troppo largamente diffuso, secondo cui il Medioevo sarebbe stata l’epoca storica in cui la donna fu maggiormente svilita e oppressa e in cui maschilismo e misoginia si coniugarono più felicemente»59Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 6..

Infatti, prosegue Bertini, gli studi indicano che «il Medioevo, contrariamente a quanto si crede, fu la prima età storica in cui le donne raggiunsero un notevole grado di emancipazione sociale e culturale e cominciarono a porre le basi di quelle rivendicazioni di parità e uguaglianza che sono ancor oggi oggetto di battaglie dall’esito tutt’altro che scontato»60Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 6..

A sua volta, il grande medievalista francese Jacques Le Goff concluse: «Io ritengo che l’idea che la donna sia uguale all’uomo abbia determinato la concezione cristiana della donna e abbia influenzato la visione e l’atteggiamento della Chiesa medievale nei suoi confronti»61J. Le Goffe, Un lungo Medioevo, Dedalo 2006, p. 92.

Lo stesso Tommaso d’Aquino ribadì a grandi linee che Dio creò Eva da una costola di Adamo, non dalla testa o dai piedi: «Se l’avesse creata dalla testa», spiega Le Goff, «ciò avrebbe voluto dire che Egli vedeva in lei una creatura superiore ad Adamo, al contrario, se l’avesse creata dai piedi l’avrebbe considerata inferiore: la costola si trova a metà del corpo, e la scelta quindi stabilisce l’uguaglianza, nella volontà di Dio, di Adamo e di Eva»62J. Le Goff, Un lungo medioevo, Dedalo 2006, p. 91, 92.

Lo studio sulla donna medievale di Francesca Roversi Monaco63F.R. Monaco, Donna Domina. Potere al femminile da Cleopatra a Margaret Thatcher, Bononia University Press 214, docente di Storia medioevale all’Università di Bologna, è stato recensito così da Angelo Varni, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna e Direttore della Scuola Superiore di Giornalismo: «Si descrive un’epoca che, ad onta dei luoghi comuni sulle sue chiusure, apriva spazi di presenza femminile ai vertici più alti della gestione della cosa pubblica finanche internazionale, irradiantesi dalle corti e dai monasteri affidati per vicende ereditarie e nobiltà di lignaggio alle loro cure»64Varni A., Il potere è donna, IlSole24Ore 21/12/2014.

Al contrario, prosegue lo storico italiano, «fu la Rivoluzione francese a rimettere in discussione simili opportunità tutte derivate dall’appartenenza di casta: nella società borghese dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri non parve affatto naturale riconoscere alle donne una loro paritaria presenza nella dimensione pubblica, mentre il positivismo ottocentesco si sforzava di trovare ragioni oggettive per relegarle nei limiti del privato»65Varni A., Il potere è donna, IlSole24Ore 21/12/2014.

Nel IX secolo la riforma scolastica promossa da Carlo Magno consentì per la prima volta anche alle donne un più sistematico accesso alla cultura. La scelta monacale, infatti, offriva a molte di loro la possibilità di ricevere un’educazione e di raggiungere «un senso di responsabilità e d’indipendenza altrimenti impensabili»66Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 15..

Tra il X e il XII secolo, osserva Ferruccio Bertini, alcuni monasteri femminili divennero celebri proprio come centri di cultura e per l’insegnamento di buon livello che erano in grado di garantire. Al vertice e alla guida di tali istituzioni alcune badesse acquisirono «un’autorità pari, talvolta, a quella di un vescovo»67Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 15.. Amministrarono vasti territori, di cui facevano parte villaggi e parrocchie, e godettero di un potere simile in tutto e per tutto a quello di un signore feudale.

Dopo aver analizzato diversi testi femminili (Rosvita, Eloisa, Ildegarda ecc.) in cui sembra emergere una forte soggezione al volere dell’uomo (ad esempio Eloisa per Piero Abelardo)mfn>Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 15-17, Bertini conclude che «ciò non comporta l’inferiorità della donna e la sua dipendenza dall’uomo, ma, al contrario, l’interdipendenza reciproca. Ne consegue una valutazione positiva del matrimonio e la legittimazione del piacere nell’ambito della sessualità coniugale, se finalizzata alla riproduzione»68Bertini F., Cardini F., Fumagalli Beonio Brocchieri M. & Leonardi C., Medioevo al femminile, Laterza 2018, p. 17..

 

3.1 Matrimonio, fedeltà, vedovanza e infertilità

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Il cristianesimo contribuì a redimere il valore della donna anche grazie alla nuova e radicale posizione su alcuni aspetti della vita sociale. Innanzitutto il matrimonio. Fin dal primo cristianesimo, ha scritto il sociologo statunitense Rodney Stark, «le donne cristiane si sposavano più tardi e avevano più scelta su chi sposare. Non è questione da poco se si pensa che le donne pagane erano spesso costrette a sposarsi e a consumare il matrimonio in età prepuberale (11 o 12 anni), mentre la gran parte di quelle cristiane aspettavano anche i 18 anni»69R. Stark, Ascesa e affermazione del cristianesimo, Lindau 2007, cap. 5. Inoltre, le donne cristiane avevano voce in capitolo sulla persona da sposare e partecipavano ad un matrimonio più sicuro, perché quello cristiano è ed era imprescindibilmente monogamico e indissolubile.

Questa nuova consuetudine sottintende e implicò anzitutto la pari dignità degli sposi: non è lecito ad un uomo avere più mogli, nel suo gineceo o nel suo harem. Non è lecito, in virtù della sua maggior forza, ripudiare la moglie, come fosse un oggetto, né sostituirla con delle schiave. Lo storico americano Terence Kilbourne Hopkins ha citato uno studio sull’età del matrimonio basato su iscrizioni funerarie romane, permettendo di distinguere le donne cristiane da quelle pagane con differenze molto nette: il 20% delle donne pagane aveva dodici anni o meno al momento delle nozze (il 4% aveva solo 10 anni), invece solo il 7% delle spose cristiane era sotto i tredici anni. Metà delle donne pagane si erano sposate prima dei quindici anni, rispetto al 20% delle cristiane e circa metà delle donne cristiane non si erano sposate fino all’età di diciotto anni o più70citato in K. Hopkins, The Age of Roman Girls at Marriage, Population Studies 1965.

L’eminente storico del Medioevo Jacques Le Goff ha spiegato così la nuova concezione della donna apparsa con il cristianesimo:

«Credo che tale rispetto della donna sia una delle grandi innovazioni del cristianesimo; pensiamo alla riflessione che la Chiesa ha condotto sulla coppia e sul matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, ora tipicamente cristiana, formalizzata dal quarto concilio Lateranense nel 1215, che ne fa un atto pubblico (da cui la pubblicazione dei bandi) e, cosa fondamentale, un atto che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti. Ciò che mi pare rilevante nelle disposizioni del concilio Lateranense è il fatto che il matrimonio diventa impossibile senza l’accordo dello sposo e della sposa, dell’uomo e della donna: la donna non può essere data in matrimonio senza il suo consenso, essa deve dire sì»71Jacques Le Goff, Un lungo Medioevo, Dedalo 2006, p. 92.

 

 

Anche Harold J. Berman, eminente professore di Diritto alla Harvard Law School, ha a sua volta scritto:

«Sotto l’influenza del cristianesimo, e anche in virtù delle idee stoica e neoplatonica recepite dalla filosofia cristiana […], nel diritto di famiglia fu attribuita alla moglie una posizione più paritaria di fronte al marito, richiedendo il mutuo consenso di entrambi gli sposi per la validità del matrimonio, rendendo più difficile il divorzio (cosa che a quel tempo rappresentò un passo avanti verso la liberazione femminile) e abolendo il potere di vita e di morte del capo famiglia sui propri figli»72H.J. Barman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Il Mulino 2006, p. 179

 

 

Lo storico Berman ha citato il divorzio, di cui parlò anche da Gesù: «Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio» (Mt 19,9). Questo giudizio fu una rottura radicale con i costumi del passato, dove il divorzio si giustificava per un mero capriccio del marito. La legge ebraica, ad esempio, stabiliva esplicitamente che una moglie ripudiata non era libera di «andare in moglie a qualunque uomo ebreo lei voglia»73M.J. Geller, Early Christianity and the Dead Sea Scrolls, University of London 57, 1994, p. 83. Al contrario la Chiesa è sempre stata inflessibile verso il divorzio, aderendo allo standard morale stabilito da Gesù.

Anche in tema di sessualità di coppia la posizione morale del cristianesimo mostrò fin da subito un’idea di equiparazione tra uomo e donna, lo spiega San Paolo quando dice: «Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è il padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra continenza» (1Cor 7,3-5).

Miguel Gotor, docente di Storia moderna presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, ha spiegato che i cristiani «hanno prevalentemente costruito un modello cognatizio che consente il trasferimento della parentela e della relativa eredità in ugual misura sia ai maschi sia alle femmine». Tali relazioni «proprie del cristianesimo hanno favorito una progressiva parità tra uomo e donna. Inoltre, il divieto di unioni tra parenti e la capacità della donna di ereditare, di trasmettere la proprietà e di sposarsi al di fuori della famiglia, hanno consentito una maggiore circolazione delle ricchezze e la formazione di un mercato autonomo, ma anche l’unione di Regni diversi senza guerra né sangue, bensì per via matrimoniale».

Il cristianesimo modificò anche la visione sull’infertilità, che nelle culture antiche veniva addossata alla moglie e giustificava il ripudio o il ricorso del marito ad altre donne, per ottenere il figlio desiderato. Le storiche italiane Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia hanno sottolineato infatti che nel cristianesimo «la sterilità non è più motivo di separazione, mentre nelle società antiche era vissuta sempre come malattia femminile»74M. Pelaja, L. Scaraffia, Due in una carne, Laterza 2008, p. 15. Si pensi, ad esempio, che le donne romane al contrario dovevano mettere al mondo almeno tre figli «per poter un giorno, alla morte del padre, essere libere da ogni tipo di tutela sui beni»75G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne, Laterza 1993, p. 342, 349.

Rispetto all’adulterio, sempre le storiche Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia hanno osservato che nel matrimonio cristiano esso fu proibito sotto pena di peccato mortale per entrambi i coniugi, mentre «nella società romana, al contrario, la legge puniva severamente le adultere mentre l’infedeltà dei mariti non era soggetta a sanzioni penali, né a una seria disapprovazione morale. Era anzi pienamente accettato che l’uomo intrattenesse rapporti sessuali con gli schiavi di entrambi i sessi presenti nella casa». Al contrario, nel diritto germanico «la donna adultera è lasciata alla vendetta del marito e dei parenti; può essere uccisa, o ridotta in servitù, o scacciata, o privata dei beni e mutilata del naso e degli occhi»76voce Adulterio, Enciclopedia Treccani. Ebrei e musulmani, invece, «condannavano le adultere alla lapidazione», per questo scrivono Pelaja e Scaraffia, «suona nuovo agli orecchi dei suoi contemporanei il discorso di Cristo sull’adultera»77Margherita Pelaja, Lucetta Scaraffia, Due in una carne, Laterza 2008, p. 17, quando Gesù perdona la donna sorpresa in adulterio tramite le famose parole: “Neppure io ti condanno, và e non peccare più” (Gv 8,3-11). Una posizione in totale discontinuità dalle culture e società precedenti.

Importante è stata anche la battaglia della Chiesa per la fedeltà coniugale e l’autocontrollo degli istinti, soprattutto maschili, la quale ha liberato l’uomo da una concezione animalesca del rapporto sponsale ma ha avuto anche l’effetto di nobilitare e liberare la donna. Solo nel cristianesimo, inoltre, le donne potevano scegliere la loro vocazione: tantissime si dedicarono a Dio piuttosto che ad un uomo, decidendo la loro vita al di fuori di quel rapporto di dipendenza che nella società antica era ineludibile. Nell’antichità greca e romana ed ebraica, infatti, le donne erano destinate solo al matrimonio e alla maternità, nel senso che «sono pochissime le testimonianze, prima del cristianesimo, di donne rimaste nubili»78G. Duby e M. Perrot, Storia delle donne, Laterza 1993, pp. 324, 365.

Il cristianesimo introdusse anche una nuova concezione della vedovanza delle donne. I primi cristiani fecero il possibile per riconoscere alle vedove la loro dignità, senza imporre loro di porsi immediatamente sotto il dominio di un nuovo marito, come invece volevano le leggi dell’imperatore Augusto. Per fare questo aiutarono anche economicamente quelle donne che avessero voluto rimanere vedove come fece il vescovo Cornelio nel 251 d.C. quando assistettee 1.500 vedove e poveri della città, in ossequio all’insegnamento dell’apostolo Giacomo: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorre gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni» (Giacomo 1,27)79F. Agnoli, Indagine sul cristianesimo, Piemme 2010, p. 51.

Ancora oggi nelle società estranee al cristianesimo è rimasta l’antica usanza di uccidere le mogli dei capi comunità sulla tomba dei mariti, o la consuetudine in alcune tribù dell’Africa centrale e meridionale di imporre alla vedova, dopo la morte dell’uomo «di stare seduta sulla nuda terra per tre mesi, prima di poter aspirare a un nuovo marito; di rimanere distesa nella capanna per un mese, di non accendere il fuoco, di non conversare con nessuno»80voce Morte, Enciclopedia Treccani. Nelle isole Tobriand della Melanesia, invece, la vedova «deve stare segregata da sei mesi a due anni in una specie di gabbia osservando severi tabù»81voce Morte, Enciclopedia Treccani.

Secondo un’inchiesta giornalistica nell’India induista, sebbene formalmente abolita dagli inglesi nell’Ottocento, esiste ancora oggi l’abitudine (sati) di bruciare le vedove sulle pire dei mariti, e permane comunque un orrenda discriminazione nei loro confronti: le donne che si rifiutano di suicidarsi alla morte del marito, come impone la tradizione, perdono i diritti di un essere umano. Molte di loro sono giovanissime, spose bambine di uomini più vecchi secondo con il culto (diffuso) delle vergini: 2 vedove su 5 si sposano prima dei 12 anni e quasi 1 su 3 rimane vedova prima dei 24 anni. Del resto si stima che nel Subcontinente, 1 donna indiana su 4 convoli a nozze prima dei 18 anni previsti dalla legge e che quasi 1 su 5 prenda marito sotto i 10 anni.

Un’altra novità nella concezione cristiana della donna è nei riguardi delle prostitute. Ritenute ignobili nel mondo greco-romano, dove il «marchio di infamia le privava definitivamente del diritto al matrimonio legittimo e della facoltà di trasmettere i pieni diritti civili: il marchio diventava ereditario»82G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne, Laterza 1993, p. 346. Nel mondo cristiano, invece, scrivono le storiche Pelaja e Scaraffia, «le meretrici non erano depositarie di un marchio indelebile, di una colpa foriera di dannazione eterna; nelle elaborazione giuridiche e teologiche il peccato più esecrabile era semmai quello di chi si faceva tramite e sfruttatore delle copule mercenarie»83M. Pelaja, L. Scaraffia, Due in una carne, Laterza 2008, p. 180-185.

La Chiesa si mostrò anche vicina alle prostitute, hanno sottolineato ancora le due storiche italiane. san Ivo di Chartres, vescovo di Chartres, raccomandò come un atto di grande carità cristiana quello di sposare una prostituta togliendola alla sua vita di peccato e papa Innocenzo III concesse l’indulgenza a chi avrebbe preso in sposa una ex meretrice. Nel 1227, grazie a papa Gregorio IX, inoltre, fiorirono in tutta Europa conventi per il riscatto delle prostitute desiderose di cambiare vita dove venivano dati gli «strumenti indispensabili a una onesta esistenza nel mondo: i rudimenti di un mestiere, una dote, una nuova garanza di onorabilità»84M. Pelaja, L. Scaraffia, Due in una carne, Laterza 2008, p. 180-185.

Nello Statuto dell’Ordine Ospedaliero di Santo Spirito, fondato alla fine del XII secolo in ambito monastico, grazie alla concessione di Papa Innocenzo III, la missione dell’Ordine si estendeva anche a redimire le donne peccatrici ospitandole gratuitamente e permettendo ogni anno un ritiro quindicinale: «Alle donne peccatrici che desiderassero abitare durante la settimana santa nella casa di Santo Spirito fino a dopo l’ottava di Pasqua, per osservare la castità, sia concesso senza discussioni» (cap. XLVI).

Anche le donne che scelsero la vita religiosa nei conventi beneficiarono di istruzione e diritti, come ha sottolineato l’educatrice americana Emily James Putnam: «Le ragazzine che entravano in convento imparavano a leggere e scrivere, venivano istruite, potevano studiare, tutte possibilità precluse a quante nelle classi povere erano destinate a matrimonio e maternità». Infatti, ha proseguito Putnam, esse «trovandosi libere dallo stato di soggezione a cui le confinava il ruolo di mogli e di madri, le religiose sfuggivano alle fatiche e alle sofferenze fisiche che, nella società del tempo, gravavano sulle donne feconde delle classi umili»85E.J. Putnam, citata in L. Scaraffia, G. Galeotti, Papa Francesco e le donne, 2014.


 

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4. NUOVA DIGNITA’ ANCHE A NEONATI E BAMBINI.

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La difesa della dignità donna incominciava fin dall’età infantile, dalle neonate di sesso femminile frequentemente scartate e abortite, come accade ancora oggi. Il filosofo Friedrich Nietzsche ha polemizzato con il cristianesimo proprio in quanto dopo Gesù nessun essere umano può essere più ritenuto per principio “sacrificabile”: «L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare. Ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani»86F. Nietzsche, L’Anticristo, Adelphi 1977, p. 73, scrisse.

Il bioeticista dell’Università di Princeton, Peter Singer, ha riconosciuto: «I nostri atteggiamenti attuali datano dal sorgere del Cristianesimo. Se ritorniamo alle origini della civiltà occidentale, ai tempi dei Greci e dei Romani, troviamo infatti che l’appartenenza alla specie “homo sapiens” non era sufficiente a garantire la protezione della propria vita»87Peter Singer, Etica pratica, Liguori 1989, p. 82-83. Ha inoltre ricordato che prima del cristianesimo «non c’era rispetto per le vite degli schiavi o degli altri “barbari; e anche tra gli stessi Greci e Romani, i neonati non avevano un automatico diritto alla vita. I neonati deformi venivano uccisi esponendoli alle intemperie sulla cima di una collina. Platone e Aristotele pensavano che lo Stato dovesse imporre l’uccisione dei neonati deformi. I tanto celebrati codici legislativi attribuiti a Licurgo e Solone contenevano disposizioni analoghe»88P. Singer, Etica pratica, Liguori 1989, p. 83-84. E ancora: «L’uccisione di neonati indesiderati o l’uso di lasciarli morire, è stata prassi normale in moltissime società, in tutto il corso della preistoria e della storia»89P. Singer, Ripensare la vita, Il Saggiatore 2000, p. 137.

Mentre Seneca riteneva l’annegamento dei bambini alla nascita un evento ordinario e ragionevole, Tacito accusava i giudei ai quali “è proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito”, ritenendola un’altra delle loro usanze “sinistre e ladre”. «Era comune abbandonare un figlio indesiderato in un luogo in cui, in linea di principio, chi voleva crescerlo avrebbe potuto raccoglierlo, anche se solitamente veniva lasciato in balìa delle intemperie e di animali e uccelli»90R. Stark, Ascesa e affermazione del cristianesimo, Lindau 2007, p. 161, ha scritto il sociologo Rodney Stark.

L’avvento del cristianesimo rovesciò questa visione innanzitutto in quanto propose all’umanità un Dio che si è fatto bambino, capovolgendo tutti gli schemi e le convinzioni dell’epoca. Lo stesso Gesù invitò i suoi discepoli a diventare “come bambini” per entrare “nel regno dei Cieli” e dopo aver abbracciato, un fanciullo, ricordò: «Chi accoglie uno di questi bambini in nome mio, accoglie me, e chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha inviato» (Mc 9,35-37; 10, 14-16). Nei Vangeli è più volte sottolineata la commozione, il senso di protezione e la stima di Gesù verso di essi (vedi Mc 5,41; Mt 18,6; Mt 18, 2-5; Mc 10, 13-14).

L’eminente filosofo Richard Rorty ha riconosciuto: «Se si guarda ad un bambino come ad un essere umano, nonostante la mancanza di elementari relazioni sociali e culturali, questo è dovuto soltanto all’influenza della tradizione ebraico-cristiana e alla sua specifica concezione di persona»91R. Rotry, Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers, Cambridge 1991.

Anche un polemista anti-cristiano come Corrado Augias, assieme allo storico Mauro Pesce, ha ammesso: «”Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio”. Non si può apprezzare la forza di queste parole se non si considera che i bambini, in una società contadina primitiva, erano nulla, erano non persone, proprio come i miserabili. Un bambino non aveva nemmeno diritto alla vita. Se suo padre non lo accettava come membro della famiglia, poteva benissimo gettarlo per la strada e farlo morire, oppure cederlo a qualcuno come schiavo»92C. Augias, M. Pesce, Inchiesta su Gesù, Mondadori 2006, p. 90.

Il filosofo tedesco Karl Löwith, allievo di Martin Heidegger, spiegò: «Il mondo storico in cui si è potuto formare il “pregiudizio” che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la “dignità” e il “destino” di essere uomo, non è originariamente il mondo dell'”uomo universale” del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sè e al prossimo»93K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi 1949.

A sua volta lo scrittore italiano Pietro Civati ha commentato così la rivoluzione culturale operata da Gesù: «Mentre la rivelazione cristiana viene nascosta ai sapienti e agli intelligenti, cioè ai filosofi, agli scienziati, ai maestri di sapienza e di cultura, che ebraismo e classicismo hanno da sempre esaltato», il cristianesimo si offre «ai népioi, cioè nel greco classico ai bambini, agli indifesi, agli stolti, agli inesperti, agli ultimi (“che saranno i primi”), ai semplici di cuore». Il cristianesimo donò questa una nuova dignità agli indifesi, a donne e bambini. Eliminò, oltretutto, il concetto di proprietà: essendo innanzitutto figli di Dio, i bambini e la donna non potevano più essere trattati come una mero possedimento da parte del maschi.

 

4.1 I cristiani contro aborto ed infanticidio

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Con la diffusione del cristianesimo, inoltre, aborto e infanticidio divengono culturalmente inaccettabili e quindi fenomeni più rari e circoscritti. Se nell’Impero romano l’esposizione di neonati non desiderati era diffusa, i cristiani condannavano tale pratica come omicidio. Come ebbe a dire Giustino Martire (100-165 d.C.): «Ci è stato insegnato che è malvagio esporre perfino i neonati […] perché in tal caso saremmo degli assassini»94citato in Writings of Saints Justin Martyr, Christian Heritage 1948. Le legislazioni, a partire da quelle dell’imperatore Costantino, vietarono l’infanticidio e aiutarono le famiglie bisognose a non ricorrere alla vendita dei loro figli per motivi economici.

Nel Concilio di Toledo del 529 d.C., i vescovi stabiliscono la punizione per i genitori che uccidevano i figli «con pene più severe, esclusa la pena capitale», mentre nel Concilio di Braga del 527 d.C. vennero prescritte norme contro l’aborto e l’uccisione dei figli nati da relazione adultere. Si svilupparono opere di carità e assistenza per i bambini abbandonati e le famiglie in difficoltà, nacquero orfanotrofi, brefotrofi, ruote degli esposti. Lo storico e pedagogo Buenaventura Delgado ha scritto: «La Chiesa, da una parte condannò la vendita e l’abbandono dei figli, e in numerosi concili (Vaison, Lerida, Toledo..) continuò a contrastare l’uso di uccidere i figli o di lasciare che venissero mangiati dai cani, dall’altra diede vita, all’inizio del basso Medioevo, alle ruote degli esposti, in cui i bambini non desiderati venivano abbandonati dai loro genitori per essere allevati nei monasteri. Traccia di questa grande carità rimane in monti cognomi italiani: Diotallevi, Esposito, Degli Esposti, Innocenti, Trovato, Trovai, Fortuna, Proietti…»95B. Delgado, Storia dell’infanzia, Dedalo 2002, p. 85-86.

Nella Lettera a Diogneto, datata al II secolo d.C., l’autore descrive la nuova dottrina dei seguaci di Cristo: «Vivono in città greche e barbare, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale […]. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne…». Un’altra conferma del trattamento che veniva riservato ai neonati prima della cristianità: «Generano figli, ma non gettano i neonati». Nella Didaché, documento della Chiesa del I secolo, si legge: «Tu non ucciderai con l’aborto il frutto del tuo grembo, né farai perire il bambino già nato».

 

4.2 Le culture non cristiane e la concezione dei bambini

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Se si guarda alle culture storicamente estranee al cristianesimo, come la Cina, si osserva facilmente la loro concezione di bambini e neonati. Quel che colpì negativamente il missionario Matteo Ricci, infatti, quando approdò in Cina nel 1583, furono la prostituzione dilagante, la grande corruzione, la frenesia per il denaro e soprattutto la diffusione della pratica dell’infanticidio. Nel ‘900, il medico militare Jean-Jacques Matignon vissuto a lungo in Cina, scrisse: «Come sempre in Cina la superstizione gioca un ruolo chiave: infatti gli occhi, il naso, la lingua, la bocca, il cervello dei bambini sono reputati materie organiche dotate di una grande virtù terapeutica». Per questo, «per ingraziarsi gli spiriti le bimbe, o in certi casi i bimbi, sono soppressi. I neonati sono soppressi o buttandoli in un angolo dell’abitazione o in una cassa dei rifiuti; dove la polvere e le immondizie non tarderanno a ostruirne le vie respiratorie»96J.J. Matignon, Superstition, crimes et misère en Chine, Masson & Cie 1902.

Saranno i missionari cristiani a difendere gli infanti in Cina, come fece sant’Alberico Crescitelli, creatore di vari orfanotrofi per bambini poveri e abbandonati (morto decapitato nel 1900), oppure san Giuseppe Freinademetz, il quale il 2 luglio 1882 scrisse: «Molte anime furono salvate dopo che siamo arrivati qui. Ancora ieri abbiamo fatto una sepoltura solenne con una piccola bambina di più di un anno che se ne morì. La sua propria madre voleva strangolarla per poter allattare un bambino altrui e guadagnare denari, essa poi sentì che noi accettiamo ogni sorta di bambini e li alleviamo bene; dunque ce la portò avanti più di due mesi, si ammalò e morì dopo essere stata confermata da noi mezz’ora prima di morire»97G. Freinademetz, Lettere di un santo, Imprexa, Bolzano p. 23, 39. Oggi la Chiesa cattolica gestisce almeno 250 orfanotrofi in Cina, accanto a 200 ospedali e 700 ambulatori98P. Dreyfus, Matteo Ricci, San Paolo 2006, p. 166. Tuttavia, fino a pochi anni fa, era ancora in vigore la legge del figlio unico.

Lo stesso si può dire dell’India, dove l’uccisione delle bambine è pratica diffusa per motivi economici e religiosi. Nel Vashistha Smriti, raccolta di saggi vedici, si legge: «Non avere un figlio maschio è una maledizione sulla persona» (17/3), mentre nel Manusmriti, altro testo sacro, si legge: «In Hindi, un figlio maschio è putra» (9/138), cioè “uno che protegge dall’inferno. Questa è una delle ragioni principali per le quali la maggior parte degli indù ha sempre voluto avere un figlio maschio. Anche qui, l’opera dei missionari cristiani è stata fondamentale: la più nota è certamente Madre Teresa di Calcutta, ancora oggi le missionarie infrangono il muro delle caste e delle disuguaglianze sociali, ed educano alla difesa della vita nascente e dell’infanzia in nome del Dio che si è fatto bambino.

«L’aborto è ciò che distrugge la pace oggi», disse Madre Teresa di Calcutta. «Se una madre può uccidere il proprio bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me? Niente. Ecco quello che io domando in India, che chiedo ovunque: che abbiamo fatto per i bambini? Noi combattiamo l’aborto con l’adozione. Così salviamo migliaia di vite. Abbiamo sparso la voce in tutte le cliniche, gli ospedali, i posti di polizia: “Vi preghiamo di non uccidere i bambini, di loro ci prenderemo cura noi”»99citata in P.G. Liverani, Dateli a me. Madre Teresa e l’impegno per la vita, Città Nuova, 2003. Per gli induisti i bambini abbandonati o rifiutati dai genitori, se sopravvivono sono e rimangono dei paria, cioè dei sotto-casta che scontano colpe precedenti: per questo i missionari cristiani hanno fondato numerose case della carità, scuole e orfanotrofi.

Una concezione del bambino diversa da quella cristiana si affermerà nella storia soltanto con il comunismo e con il nazismo, che per primi introdurranno non solo l’aborto ma anche l’infanticidio dei bambini malati e handicappati. Oggi, nel nostro Occidente post cristiano, torniamo ad assistere al ricorso massiccio dell’aborto, surrettiziamente usato anche per motivi eugenetici. In Olanda è divenuta (è tornata!) legale l’eutanasia dei bambini fino ai dodici anni.


 

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5. CONCLUSIONE.

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Uno dei principali nemici del cristianesimo, Friedrich Nietzsche, riferendosi in generale all’attenzione del cristianesimo per le donne, per i deboli, per i bambini, per i malati, le vittime dei sacrifici umani, si lamentò:

«Davanti a Dio tutte le “anime” diventa uguali; ma questa è proprio la più pericolosa di tutte le valutazioni possibili! Se si pongono gli individui come uguali, si mette in questione la specie, si favorisce una prassi che mette capo alla rovina della specie; il cristianesimo è il principio opposto a quello della selezione. Se il degenerato e il malato devono avere altrettanto valore del sano allora il corso naturale dell’evoluzione è impedito. Questo amore universale per gli uomini è in pratica un trattamento preferenziale per tutti i sofferenti, falliti, degenerati: esso ha in realtà abbassato la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare gli uomini. La specie ha bisogno del sacrificio dei falliti, deboli, degenerati: ma proprio a questi ultimi si rivolse il cristianesimo. Che cos’è la virtù e l’amore per gli uomini nel cristianesimo se non appunto questa reciprocità nel sostengo, questa solidarietà dei deboli, questo ostacolo frapposto alla selezione. La vera filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie. E questo pseudoumaniesimo che si chiama cristianesimo vuole giungere appunto a far si che nessuno venga sacrificato. La legge suprema della vita vuole che si sia senza compassione per ogni scarto e rifiuto della vita; che si distrugga ciò che per la vita ascendente sarebbe solo ostacolo, veleno –in una parola cristianesimo- è immorale nel senso più profondo dire: “non uccidere”»100F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, vol. VIII, tomo III, 15 [110], Adelphi 1974, pp. 257-258.

Come abbiamo visto, la storia cristiana porta con sé la visione più dignitosa dell’uomo e della donna, del bambino e della bambina. E’ possibile sintetizzare tutto questo con l’insegnamento di San Paolo: «Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,26-29).

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Colonialismo e Chiesa cattolica, sfatiamo la leggenda nera

Il ruolo storico della Chiesa cattolica nel periodo del colonialismo, un’analisi oggettiva contrasta la leggenda nera che spesso associa il cristianesimo all’oppressione dei popoli indigeni. Attraverso una revisione critica della storia si evidenzia l’attivismo e l’impegno umanitario della Chiesa a favore della protezione e dei diritti degli indios.

 
 

La Chiesa cattolica incoraggiò il colonialismo? Si oppose alla riduzione in schiavitù degli indios? I missionari si prodigarono in conversioni forzate? Queste sono alcune delle domande a cui rispondiamo in questo dossier storico, come sempre citando i più accreditati storici e specialisti del tema.

Se infatti, ancora oggi, la Chiesa cattolica riceve accuse e critiche per non essersi opposta energicamente al movimento colonizzatore europeo e alle brutalità commesse dai colonialisti nelle Americhe, dall’altra non pochi storici sostengono che sia stata l’unica istituzione ad aver alzato la voce in difesa degli indios.

L’eminente storico Eugene D. Genovese, ad esempio, fra i massimi esperti di schiavismo americano, ha scritto: «Il cattolicesimo ha impresso una profonda differenza nella vita degli schiavi. E’ riuscito a creare un’etica nuova ed autentica nella società schiavista americana, brasiliana e spagnola»2Genovese E., Roll, Jordan, Roll: The World the Slaves Made, Vintage 1974, p. 179.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

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1. PRE-COLONIALISMO: LA CHIESA E LA FINE DELLA SCHAVITU’

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Quando iniziò il periodo coloniale la schiavitù in Europa era quasi praticamente scomparsa.

Come spiegato da due importanti storici francesi, Jean Andreau, direttore dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, e Raymond Descat, professore di Storia greca all’Università di Bordeaux, «è nel corso dell’Alto Medioevo che si sono prodotti i cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa occidentale, dalla società schiavista»3Andreau J & Descat R., Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p. 222.

Il ruolo del cristianesimo nella scomparsa dello schiavismo è già stato analizzato dettagliatamente in un dossier specifico pubblicato precedentemente.


 

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2. I COLONIZZATORI FURONO GLI “STATI CATTOLICI”?

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Il fatto che paesi colonizzatori come Spagna, Francia, Portogallo ecc.. fossero ritenuti “cattolici”, ha portato molti a rivolgere le proprie accuse alla religione piuttosto che verso la politica dei sovrani laici.

Eppure il XVI secolo fu un momento difficile per la Chiesa: in buona parte del Nord Europa, dall’Olanda all’Inghilterra, la Chiesa era quasi distrutta dalla riforma protestante e anglicana e i grandi intellettuali del tempo, inoltre, dagli eretici come Wycliff che invitava ad impadronirsi dei beni della Chiesa, a Macchiavelli, a Tyndale ecc., erano tutt’altro che cattolici.

La corona inglese, di fronte ai mercanti di schiavi neri e alla politica aggressiva e tesa unicamente al guadagno e alla conquista delle terre dei coloni-cowboys inglese, che porterà al genocidio dei pellerossa, non farà mai nulla e non ci sarà quasi mai nessuno, sino all’Ottocento, ad ostacolarla, a ricordare i diritti di neri e indigeni.

Del resto chi protestava sapeva di rischiare la morte, come avvenne con Tommaso Moro e tutti i cattolici, e non solo, che non hanno voluto seguire Enrico VIII.

Inghilterra e Olanda, due stati in cui la Chiesa cattolica e il suo potere religioso erano ridotti a zero, forniranno per secoli i colini più duri e spietati e i mercanti di neri più attivi: sarà l’assoluta mancanza di scrupoli e il triangolo degli schiavi a nutrire il capitalismo anglosassone e a fare dell’Inghilterra lo stato più forte d’Europa a partire dalla fine del Cinquecento. «A metà del Settecento», nota lo storico della filosofia Domenico Losurdo, «è la Gran Bretagna a possedere il maggior numero di schiavi (878.000)»4Losurdo D., Controstoria del liberalismo, Laterza 2006, pp. 16, 37.

Lo storico della Chiesa, Fidel González Fernández, ha osservato che i Paesi protestanti, contrariamente a quanto si pensa, furono i maggiori organizzatori della tratta degli schiavi.

Le colonie inglesi e olandesi non avevano regolamenti circa il trattamento degli schiavi e i padroni, riferisce lo storico Robert William Fogel, premio Nobel e docente di Harvard, «potevano esercitare violenza illimitata per imporre il lavoro»5Fogel R.W., Without Consent or Contract: The Rise and Fall of American Slavery, W.W. Norton 1989, p. 36. Il tasso di mortalità degli schiavi era significativamente più elevato nelle colonie protestanti che in quelle cattoliche6Curin P.D., The Atlantic Slave Trade: A Census, University of Wiscoins Press 1969.

Passiamo ora ad analizzare la situazione nei cosiddetti “Stati cattolici”.

In Francia i sovrani si erano arrogati la gran parte delle nomine di vescovi, abati e alte cariche ecclesiastiche, e al Papa spettava solo il compito di ratificare decisioni già prese. Ad esempio il Concordato di Bologna (1516) concedeva al re francese Francesco I il diritto di designare tutte le alte cariche della Chiesa, ottenendo così il completo controllo delle proprietà e delle rendite della Chiesa.

Nel 1434, quando Enrico il Navigatore, principe del Portogallo tentò di invadere Gran Canaria venendo respinto dai nativi, la spedizione ripiegò saccheggiando le missioni cattoliche castigliane presenti a Lanzarote e Fuerteventura7Lawrance J., Alfonso de Cartagena on the affair of the Canaries (1436–37): Humanist rhetoric and the idea of the nation-state in fifteenth–century Castile, Historians of Medieval Iberia 2013, p. 4.

Anche negli altri Stati non riformati, come la Spagna, esisteva lo stesso problema: la Chiesa aveva poca voce in capitolo e i sovrani aderivano formalmente al cattolicesimo perché avevano già imposto al papa delle condizioni a loro molto favorevoli.

Ferdinando I d’Asburgo, ad esempio, riuscì a far concordare il Papa sull’illegalità della pubblicazione delle sue bolle e dei suoi decreti senza il previo consenso reale o dei possedimenti del regno. Sotto Carlo V d’Asburgo (1500-1558), re di Spagna e Imperatore del Sacro Romano Impero, la subordinazione della Chiesa crebbe ancora di più e il re ottenne anche un terzo delle decime pagate alla Chiesa.

«Questi accordi», scrive il sociologo Rodney Stark, «svolsero un ruolo fondamentale nel far rimanere cattoliche Spagna e Francia, ma resero la Chiesa dipendente dallo Stato. Ciò ebbe disastrose conseguenze quando il papa cercò di prevenire l’introduzione della schiavitù nel Nuovo Mondo»8Stark R., La vittoria della ragione, Lindau 2006, pp. 296-298 9Chadwick O., The reformation, Penguin 1972, p. 26.

In ogni caso, le cifre dimostrano che la colonizzazione spagnola fu molto meno cruenta di quella inglese. Roberto Ivaldi, esperto in storia del colonialismo, ha osservato che «mentre i pellerossa superstiti nel Nord America si contano a poche migliaia, nell’America ex-spagnola ed ex-portoghes la maggioranza della popolazione o è ancora di origine india o è il frutto di incroci di precolombiani con europei e (soprattutto in Brasile) con africani».

Allo stesso modo, negli attuali Stati Uniti è quasi sparita la popolazione mentre nel Sud America «quasi il 90% della popolazione o discende direttamente dagli antichi abitanti o è il frutto di incroci tra indigeni e nuovi arrivati […] i quali hanno creato una cultura e una società nuove, dalle caratteristiche inconfondibili»10Ivaldi R., Storia del colonialismo, Newton 1997, pp. 19-20.

Il matrimonio misto tra spagnoli ed indigeni, all’epoca della Conquista, fu normale e frequente, cosa che non avverrà mai nelle colonie inglesi, dove la separazione razziale rimarrà sempre quasi assoluta, come lo è tutt’oggi.

Secondo l’Enciclopedia Treccani, «la differenza è dovuta in parte al minor pregiudizio di razza, che permette agli Spagnoli più frequenti e relativamente cordiali rapporti coi neri, aiutati anche dall’opera dei preti cattolici, i quali assai più dei pastori evangelici favoriscono i battesimi, i matrimoni, le manomissioni dei neri»11Enciclopedia Treccani, alla voce Schiavitù.

Già all’epoca della scoperta dell’America, la regina spagnola Isabella di Castiglia, ben diversamente da Elisabetta (che si circondò di pirati e negrieri, come John Hawkins e Francis Drake), chiese rispetto per gli indigeni: il 16 settembre 1501 firmò a Granada una Istruzione per il governatore delle Indie, Nicolas de Ovando, affinché protegga in ogni istante i diritti degli indigeni dai soprusi spagnoli, invitando poi a convertire quei popoli «senza esercitare su di loro alcuna costrizione»12Dumont J., La regina diffamata, Sei 1992, p. 125.

Il 30 ottobre 1503, in una lettera recentemente ritrovata, Isabella scrisse: «Sappiate che il re, nostro signore e io […], abbiamo ordinato che nessuna delle persone da noi mandate a dette terre osino prendere o catturare alcun indios per essere portano nei miei regni, né per essere portato in nessuna altra parte e che non venga fatto nessun danno a persone o a beni, e chiediamo che tutti gli indios che sono stati catturati vengano rimessi in libertà»13citata in Baglioni P., Lettere di una regina, 30 Giorni, 04/1991.

Anche Carlo V d’Asburgo si impegnò a fondo a impedire soprusi e violenze, confermando incarichi e onori, politici ed ecclesiastici, a Bartolomeo de Las Casas, emanando le Leyes Nuevas e invitando i suoi sudditi a rispettare la libertà degli indiani. Ecco le sue parole:

«Le anime degli indiani non devono essere salvate con la forza. Bisogna evitare i sacrifici umani e il cannibalismo; le immagini degli idoli e i templi devono essere distrutti. Il Dio nostro Signore ha creato gli indiani come uomini liberi, non schiavi […]. Tra la Spagna e gli schiavi è permesso solo il libero scambio. E’ vietato, pena severe condanne, portare via agli indiani ciò che loro appartiene, niente deve cambiare di proprietario senza adeguato compenso. Dobbiamo andare loro incontro nello spirito dell’amore e dell’amicizia»14citato in von Hasburg O, Carlo V, Ecig 1993, p. 253.

 

Lo storico Franco Cardini, ordinario all’Università di Firenze e all’Istituto italiano di scienze umane, osserva che proprio per volere di Carlo V imperatore, «ispirato dal magistero spirituale di Erasmo da Rotterdam e dalla testimonianza dell’ardente domenicano spagnolo Bartolomé de las Casas, erano state promulgate per le colonie della corona di Spagna quelle Nuevas Leyes del 1542 ispirate a una generosa difesa dei diritti degli indios contro le violenze degli encomenderos spagnoli: esse prevedevano – quanto meno sul piano teorico – gravi pene per chiunque, fosse anche nobile hidalgo, avesse esercitato una qualunque forma di prevaricazione contro un indio»15Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 73.

Nulla di simile s’incontra nelle legislazioni coloniali non ufficialmente cattoliche, come quella britannica, olandese e belga.

Esistono «tante disposizione destinate alla protezione degli indigeni che fanno onore alla legislazione coloniale spagnola»16Lot M.M., Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, Jaca Book 1985, p. 166, ha scritto l’eminente storica francese Marianne Mahn-Lot.

In generale, concluse lo storico Eduard Fueter, «l’amministrazione spagnola si manteneva neutrale e forse si mostrava persino incline a tutelare i discendenti degli abitanti indigeni contro i discendenti dei conquistadores», mentre nelle colonie inglesi, «i resti delle tribù indiane non avevano alcuna importanza numerica e gli schiavi neri, del tutto privi di libertà, non avevano alcun peso politico»17Fueter E., Storia universale degli ultimi cent’anni, Einaudi 1947.

Nell’enciclopedia storica della Cambridge University, si legge: «Bisogna rendere atto al rispetto spagnolo per la libertà e per la legge se ai tempi di Carlo Vi -un grande re e un grande autocrate-, circolavano liberamente, senza suscitare scandalo, trattati in cui si denunciavano gli eccessi dei conquistadores […], si criticava l’intera impresa delle Indie». E si definisce l’imperialismo spagnolo «equilibrato, coscienzioso, prudente»18Cambridge University, Storia del mondo moderno, Garzanti 1982, p. 759.

 

2.1 La voce della Chiesa rimase inascoltata.

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Nonostante le numerose bolle pontificie e gli interventi papali contro il colonialismo e a favore della libertà degli indios, come dimostriamo qui sotto, la Chiesa venne poco ascoltata. Questo la dice lunga sulla “cattolicità” di quell’epoca storica.

Non solo, la pubblicazione di questi documenti pontifici di condanna della schiavitù portarono a tumulti e all’assalto di chiese e monasteri da parte di coloro che vedevano la Chiesa un ostacolo ai loro lucrosi traffici.

Ecco come tutto ciò è espresso dall’eminente storico Kenneth Scott Latourette, già presidente dell’American Historical Association:

«In questo periodo i papi godevano di ben poco potere tra spagnoli e portoghesi. Gli spagnoli comandavano su gran parte dell’Italia e nel 1527 avevano persino saccheggiato Roma. In base al trattato che ne conseguì, fu dichiarato illegale persino pubblicare i decreti papali in Spagna o nei possedimenti spagnoli senza l’approvazione del re, e il re di spagna nominava tutti i vescovi spagnoli. Quando, a Rio de Janeiro, i gesuiti lessero pubblicamente una bolla papale contro la schiavitù, una folla inferocita attaccò il locale collegio dei gesuiti e ferì molti sacerdoti. Quando poi un tentativo analogo di pubblicizzare la condanna papale della schiavitù venne fatta a Santos, i gesuiti furono espulsi dal Brasile. Infine, tutti i gesuiti furono violentemente cacciati dall’America Latina e successivamente dalla Spagna»19Lotourette K.S., A History of Christianity, vol. 2, Harper San Francisco 1975, p. 944.

 

I documenti papali molto spesso vennero inoltre occultati e boicottati.

«Molti vescovi locali», ha osservato il sociologo Rodney Stark, «designati dal re di Spagna, non appoggiavano la posizione di Roma». Tuttavia «la continua pressione della Santa Sede portò almeno all’emanazione nel XVIII secolo di codici sul modo di trattare gli schiavi, come il Code Noir francese e il Còdigo Negro Espanol»20Stark R., La vittoria della ragione, Lindau 2006, p. 299-300, i quali mitigarono in gran parte le effettive condizioni di schiavitù.

A sua volta, lo storico Rosario Romeo, rettore dell’Università Luiss di Roma, ha scritto:

«L’elemento religioso contribuì all’ampliamento della coscienza europea con l’appello all’immediato sentimento cristiano della carità e della giustizia contro gli orrori perpetrati dai conquistadores nelle terre americane […]. Anche nella stessa Spagna non mancarono, fin dall’inizio, scrupoli religiosi: e ne fanno fede, ad esempio, i dubbi della regina Isabella nella questione della vendita di indiani come schiavi; l’impegno della maggioranza del clero in difesa degli indigeni, che diede luogo a vivaci conflitti nelle colonie; le perplessità, persino, di Hernàn Cortés, che nel suo testamento raccomandava ai propri eredi di liberare gli schiavi […]. Interventi non mancarono neanche, com’è noto, da parte dell’autorità pontificia»21Romeo R., Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Laterza 1989, pp. 39-53.

 

L’effetto di tali “intromissioni” da parte della Chiesa non riuscì ad eliminare il male, ma lo limitò.

«Anche se nel Nuovo Mondo le bolle contro la schiavitù furono ignorate, gli sforzi della Chiesa cattolica portarono ad un trattamento degli schiavi meno brutale nei Paesi cattolici che in quelli protestanti»22Stark R., Il trionfo dell’Occidente, Lindau 2014, p. 353, scrive ancora Rodney Stark.


 

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3. I CONQUISTADORES ERANO CRISTIANI?

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Abbiamo visto che la voce della Chiesa cattolica all’interno degli Stati europei che promossero il colonialismo fu scarsamente ascoltata e, spesso, direttamente respinta. Soltanto in Spagna, nazione tra le più “cattoliche” (pur in apparenza) si verificò una certa moderazione e tolleranza verso la dignità degli indios.

Un critico potrebbe tuttavia obiettare che i singoli conquistadores erano tutti ferventi cristiani che attuarono soprusi e schiavitù a danno degli indigeni in nome del Dio e della religione che imposero una volta sbarcati nel Nuovo Mondo.

Innanzitutto occorre notare che anche i mafiosi dei giorni di oggi si dichiarano cristiani. Ma lo sono realmente? In realtà non basta definirsi “cristiani” per esserlo, anzi lo si è solo nella misura in cui si segue fedelmente o, perlomeno tentativamente, la dottrina cristiana (che predica l’amore e il rispetto al prossimo).

In secondo luogo, lo storico italiano Franco Cardini ha spiegato che tra il 1500 e il 1800 gli europei assoggettarono i popoli indigeni inebriati dal potere di una cultura superiore, quella d’origine grecoromano-umanistica – e di un livello scientifico e tecnologico senza pari, rivestendo «le loro pretese, ispirate a una Volontà di Potenza ch’era inconcepibile mettere in discussione, anche di un valore metastorico e provvidenzialistico»23Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 71, dichiarandolo in nome di Dio e della volontà divina.

Eppure, «mentre ritenevano tutto ciò irreversibile e indiscutibile con ciò giustificando anche repressioni, compravendita di merce umana e massacri, andavano gradualmente ponendo in discussione e sostanzialmente perdendo quella medesima fede», tanto che quella «civiltà si andava teizzando se non addirittura ateizzando e ch’era comunque in pieno “processo di secolarizzazione” mentre esteriormente e superficialmente permaneva nella fede di un Dio di pace, di fratellanza, d’amore»24Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 72.

L’eminente studioso precisa ulteriormente che il “teismo” in cui intende poteva allora «assumere aspetti e sfumature neopagane e che in Occidente costituì almeno dal Cinquecento un avversario subdolo e una costante alternativa al cristianesimo, diffusa e frequente specie nelle élites intellettuali». Tale teismo, «sia pure paradossalmente mischiato ad elementi di tradizione ebraica peraltro metabolizzati in direzione ermetico-misteriosofica, è un tratto costitutivo della Weltanschauung massonica e della nascente cultura delle borghesie, dov’esso sarebbe comunque convissuto sia pur talvolta a disagio con ambienti portatori d’istanze confessionali. Di ciò furono testimoni soprattutto le borghesie ricche e abbastanza colte créoles o criollas mesoamericane»25Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 77.

In ogni caso, bisogna ricordare anche «la lotta senza quartiere dei missionari cattolici e protestanti contro lo schiavismo»26Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 71. E anche quando non vi fu un’opposizione diretta da parte dei religiosi che accompagnavano i conquistatori europei, conclude Cardini, essi cercarono comunque «in molti modi di rendere più umano»27Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 71 il colonialismo.


 

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4. LA CHIESA IN DIFESA DEGLI INDIOS

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Il colonialismo europeo inizio già nel XIV secolo nei confronti delle Isole Canarie (o Isole Fortunate) da parte della Francia.

Certamente vi furono giustificativi morali a supporto forniti dagli uomini di Chiesa, ad esempio, scrive lo storico Jeremy Lawrance, nel 1344 Clemente VI all’interno della bolla Tue devotionis sinceritas «espose gli argomenti che il papato avrebbe usato per i successivi 150 anni per giustificare la colonizzazione (ma non l’uccisione o l’asservimento) dei Canari per il bene delle loro anime»28Lawrance J., Alfonso de Cartagena on the affair of the Canaries (1436–37): Humanist rhetoric and the idea of the nation-state in fifteenth–century Castile, Historians of Medieval Iberia 2013.

Da lì in poi la storia è costellata di uomini, pontefici, vescovi e sacerdoti cattolici che usarono la loro vita per difendere le popolazioni indigene e creare un’etica morale nei colonizzatori.

Il filosofo e teologo messicano Enrique Dussel ha scritto infatti che «la Chiesa missionaria si oppose fin dall’inizio» allo sfruttamento colonialista e alla riduzione in schiavitù dei nativi, «e quasi tutto ciò che di positivo fu fatto a beneficio delle popolazioni indigene, risultato dell’appello e del clamore dei missionari. Restava però il fatto che quell’ingiustizia diffusa era estremamente difficile da sradicare. Ancor più importante di Bartolomé de Las Casas, vescovo del Nicaragua, e Antonio de Valdeviso, che alla fine subì il martirio per la sua difesa dell’indiano»29Dussel E., A History of the Church in Latin America, Eerdmans Pub Co 1982, pp. 45, 52, 53.

 

4.1 La voce dei Pontefici per la libertà degli indios.

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Eugenio IV

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Nel 1430, appena la schiavitù riemerse anche in Europa, papa Eugenio IV (1383-1487) indirizzò subito alle autorità religiose delle isole Canarie la bolla Sicut Dudum30Wikipedia, Sicut Dudum (1435) con la quale, in modo netto e senza ambiguità, condannò la schiavitù delle popolazioni indigene.

Sotto pena di scomunica, inoltre, concesse a chi era coinvolto nello schiavismo 15 giorni dalla ricezione della bolla, per «riportare alla precedente condizione di libertà tutte le persone di entrambi i sessi una volta residenti delle dette Isole Canarie, queste persone dovranno essere considerate totalmente e per sempre libere («ac totaliter liberos perpetuo esse») e dovranno essere lasciate andare senza estorsione o ricezione di denaro»31citato in Stark R., La vittoria della ragione, Lindau 2006, pp. 299, 300 32Wikipedia, Sicut Dudum 33Wikipedia, Eugenio IV.

 

Pio II

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Il 7 ottobre 1492, ancora agli albori del colonialismo, Papa Pio II (1405-1464) attraverso la lettera Rubicensem, ricordò al vescovo della Guinea portoghese che la schiavitù è un «un grande crimine» («magnum scelus»)34Serna J.M.D., The Historical encyclopedia of world slavery, p. 153 35Wikipedia, Pio II

 

Paolo III

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Paolo III (1468-1549) ad esempio, il 2 giugno 1537 si scontrò con le autorità laiche ed emanò la memorabile bolla Veritas Ipsa36Wikipedia, Veritas Ipsa, (conosciuta anche come Sublimis Deus), con la quale si oppose agli appetiti schiavistici sulle popolazioni del Nuovo Mondo, proclamando che «Indios veros homine esse» e scomunicando tutti coloro che avrebbero ridotto in schiavitù gli indios o li avrebbero spogliati dei loro beni.

Non fu il suo primo intervento, una cosa simile la fece già nella lettera al Cardinale di Toledo del 29 maggio 1537.

Paolo III condannò inoltre le tesi razziste, riconobbe agli indiani, cristiani o no, la dignità di persona umana, e avanzò il divieto di ridurli in schiavitù. Definì i coloni dei “violenti” e i portatori di potenti interessi coloniali. Ecco con quali parole:

«Manutengoli di Satana, desiderosi di soddisfare la loro avidità, e costringere gli Indios occidentali e meridionali e altri popoli, che ci sono venuti a conoscenza in questi ultimi tempi, a servirli come fossero animali bruti, sotto il pretesto che non hanno la fede. Con l’autorità apostolica e attraverso questo documento stabiliamo e dichiariamo che i predetti Indios, e tutti gli altri popoli, anche se non appartenenti alla nostra religione, non si possono privare della libertà e del dominio della loro proprietà, e che è lecito ad essi godere della loro libertà e dei loro beni e acquisirne, né che si debbono ridurre in schiavitù. Se qualche cosa sarà fatta in contrario dichiariamo nulla e invalida alla detta fede in Cristo»37Paolo II, Sublimis Deus, 1537 38citao in Panzer J.S., The popes and slavery, Alba House 1997, p. 8.

 

Gli storici ritengono39Maxwell J.F., Slavery and the Catholic Church. The history of Catholic teaching concerning the moral legitimacy of the institution of slavery, Chichester Barry-Rose 1975, pp. 68, 70 che la bolla di Paolo III abbia avuto un forte impatto sul “dibattito di Valladolid” e che questi principi divennero la posizione ufficiale di Carlo V del Sacro Romano Impero e re di Spagna.

Inoltre, la Veritas Ipsa ebbe l’effetto di annullare tre bolle precedenti, quelle di papa Niccolò V (“Dum Diversas”, 1453 e Romanus Pontifex, 1455) e quella di Alessandro VI (Inter Caetera, 1493), attraverso le quali si autorizzavano formalmente le conquiste coloniali e la schiavitù40Thornberry P., Indigenous peoples and human rights, Manchester University Press 2002, p. 65.

 

Gregorio XIV

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Gregorio XIV (1535-1591) tramite il decreto del 18 aprile 1591 ordinò che i nativi delle Filippine, costretti in schiavitù dagli europei, fossero lasciati liberi e, sotto pena di scomunica, comandò che si interrompesse la tratta degli schiavi41Wikipedia, Gregorio XIV.

 

Clemente VIII e l’Ordine della Santissima Trinità

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Il successore, papa Clemente VIII (1536-1605), nel 1599 approvò l’Ordine della Santissima Trinità, istituita per osservare la Regola di San Giovanni di Matha in tutto il suo rigore.

Giovanni di Matha (1150-1213) fondò42Wikipedia, Giovanni di Matha infatti nel XII secolo un progetto di vita religiosa nella Chiesa, concentrandosi sull’opera di liberazione dalla schiavitù, in particolare il riscatto dei cristiani caduti prigionieri dei mori.

L’ordine esiste ancora oggi e da quando è stato fondato ha riscattato circa 900.000 schiavi. I trinitari nel XVI e XVII secolo riuscirono anche a costruire degli ospedali per gli schiavi a Tunisi e ad Algeri43Wikipedia, Trinitarians.

 

Urbano VIII

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Nel 1639 papa Urbano VIII (1568-1644), su richiesta dei gesuiti del Paraguay, emise la bolla Commissum Nobis44Wikipedia, Commissun Nobis (1639), riaffermando la scomunica che il predecessore Paolo III aveva imposto a coloro che erano coinvolti nella tratta degli schiavi.

Ecco un passaggio originale della bolla di Urbano VIII:

Proibisco «di ridurre in schiavitù gl’Indiani occidentali o meridionali; venderli, comprarli, scambiarli o donarli: separarli dalle mogli e dai figli; spogliarli dei loro beni; trasportarli da un luogo ad un altro; privarli in qualsiasi modo della loro libertà; tenerli in schiavitù; favorire coloro che compiono le cose suddette con il consiglio, l’aiuto e l’opera prestati sotto qualsiasi pretesto e nome, o anche affermare e predicare che tutto questo è lecito, o cooperare in qualsiasi altro modo a quanto premesso» 45Urbano VIII, Commissum Nobis, Bullarium patronatus Portugalliae regum in ecclesiis Africae 1639 46Wikipedia, Commissun Nobis.

 

La bolla suscitò nei governanti e negli schiavisti una tale reazione da spingere all’espulsione dei Gesuiti dal Paese.

Nel Nuovo Mondo, i vescovi locali designati dal re di Spagna non appoggiarono la posizione di Roma e divenne illegale pubblicare bolle antischiaviste, come qualsiasi altra dichiarazione papale, senza il consenso del re (che non arrivò mai)47Stark R., For the glory of God: how monothesim led to reformations, science, witch-hunts, and the end of slavery, Princeton University Press 2003, cap.1.

Quando i gesuiti trasgredirono l’ordine e lessero illegalmente in pubblico la bolla di Urbano VIII, a Rio de Janeiro si scatenò una rivolta che provocò il saccheggio del loro collegio locale e il ferimento di diversi sacerdoti. A Santos, la folla travolse il vicario generale appena tentò di pubblicare la bolla48Stark R., For the glory of God: how monothesim led to reformations, science, witch-hunts, and the end of slavery, Princeton University Press 2003, cap.1.

 

Benedetto XIV

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Lorenzo Lambertini, un anno dopo essere diventato vescovo di Roma con il nome di Benedetto XIV (1675-1758) emanò la bolla Immensa Pastorum, anch’essa contro l’asservimento dei popoli indigeni delle Americhe e di altri paesi49Wikipedia, Benedict XIV 50Pius Onyemechi Adiele, The Popes, the Catholic Church and the Transatlantic Enslavement of Black Africans 1418–1839, Georg Olms Verlag AG. pp. 377–378, 532–534.

 

Pio VII

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Il 7 agosto 1814, con la bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum, Pio VII (1742-1823) ricostituì la Compagnia di Gesù soppressa nel 1773 a causa del forte schieramento antischiavista dimostrato, e al Congresso di Vienna del 1815 chiese la proibizione del commercio di schiavi51Cathopedia, Pio VII.

Anche a seguito della posizione assunta da Pio VII sull’argomento, fu sottoscritta la Dichiarazione contro la tratta dei negri contenuta nell’allegato 15 dell’Atto finale del Congresso di Vienna (8 febbraio 1815)52Cathopedia, Pio VII.

 

Gregorio XVI

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Nel 1839, papa Gregorio XVI (1765-1846) emanò la bolla In Supremo Apostolatus ricollegandosi ai suoi predecessori nella condanna verso la schiavitù e la tratta degli schiavi.

Nella bolla il pontefice affermò che sia gli Indiani sia i Neri erano creature umane, e che presso Dio non esiste discriminazione:

«Con la Nostra Apostolica autorità ammoniamo e scongiuriamo energicamente nel Signore tutti i fedeli cristiani di ogni condizione a che nessuno, d’ora innanzi, ardisca usar violenza o spogliare dei suoi beni o ridurre chicchessia in schiavitù, o prestare aiuto o favore a coloro che commettono tali delitti o vogliono esercitare quell’indegno commercio con il quale i Negri vengono ridotti in schiavitù, quasi non fossero esseri umani, ma puri e semplici animali, senza alcuna distinzione, contro tutti i diritti di giustizia e di umanità, destinandoli talora a lavori durissimi. Noi, ritenendo indegne del nome cristiano queste atrocità, le condanniamo con la Nostra Apostolica autorità: proibiamo e vietiamo con la stessa autorità a qualsiasi ecclesiastico o laico di difendere come lecita la tratta dei Negri, per qualsiasi scopo o pretesto camuffato, e di presumere d’insegnare altrimenti in qualsiasi modo, pubblicamente o privatamente, contro ciò che con questa Nostra lettera apostolica abbiamo dichiarato»53Wikipedia, In Supremo Apostolatus.

 

Leone XII

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Nel 1888 papa Leone XII (1760-1829) supportò la nascita a Bruxelles della Anti-Slavery Society54Wikipedia, Société anti-esclavagiste belge da parte del cardinale Charles Lavigerie55Wikipedia, Charles Lavigerie, con lo scopo di sostenere economicamente gli antischiavisti e finanziare quattro spedizioni militari per combattere i commercianti di schiavi arabi che operavano nel territorio orientale del Cong56Wikipedia, Société anti-esclavagiste belge.

Sempre nel 1988, Leone XII scrisse a tutti i vescovi del Brasile affinché eliminassero completamente la schiavitù dal loro paese.

 

4.2 Vescovi e religiosi contro i colonizzatori europei.

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Antonio De Montesinos e le Leggi di Brugos

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Nel 1510 il frate domenicano Antonio de Montesinos (1475-1540) fu, assieme a frate Pedro de Córdoba (1482-1521), uno dei primi religiosi ad essere spedito nel Nuovo Mondo, approdando sull’isola di Hispaniola.

Appena venuti a conoscenza della condizione degli indios e del trattamento disumano ricevuto da parte dei coloni decisero di denunciare immediatamente e pubblicamente tutte le forme di riduzione in schiavitù e l’oppressione dei popoli indigeni delle Americhe57Lewis H., The Hispanic American Historical Review, 1946, p. 142 58Carl W., All Mankind Is One: The Libertarian Tradition In Sixteenth Century Spain, The Journal of Libertarian Studies 1987, p. 295 59Wikipedia, Pedro De Cordoba.

Sono rimasti famosi i sermoni di Fra De Montesinos del 21 e 28 dicembre 1511, quando disse:

«Allo scopo di farvi conoscere i vostri peccati contro gli Indiani sono venuto su questo pulpito, io che sono la voce di Cristo che grida nel deserto di quest’isola e perciò dovete ascoltarla. Questa voce dice che voi siete in peccato mortale, che voi vivete e morite nel peccato mortale, a causa della crudeltà e della tirannia che voi usate nel trattare con queste genti innocenti. Ditemi, per quale diritto o giustizia tenete questi Indiani in tale crudeltà e orribile schiavitù? Sulla base di quale autorità avete dichiarato una guerra detestabile a questa gente, che viveva tranquillamente e pacificamente nella propria terra? Quanta conoscenza avete voi conquistatori sulla dottrina e sul Dio creatore? Sul battesimo, sul partecipare alla messa e santificare le feste e la domenica? Non sono uomini questi? Non hanno anime razionali? Non siete tenuti ad amarli come amate voi stessi? State certi che in questo stato non potete salvare nessuno e nemmeno mantenere la fede in Gesù Cristo»60Las Casas B.D., Historia de las Indias, en Obras Completas 61Wikipedia, Antonio De Montesinos.

 

Le forti accuse, il rimprovero verso un comportamento anti-cristiano e la rivendicazione della responsabilità cristiana causarono forte disagio nei conquistatori e nei funzionari che erano presenti, tra cui il governatore Diego Colombo62Carl W., “All Mankind Is One”: The Libertarian Tradition In Sixteenth Century Spain, The Journal of Libertarian Studies 1987, p. 299. In molti reagirono contro i monaci, impedendo loro di pronunciarsi nuovamente su questi temi e chiedendo di ritrattare pubblicamente le dichiarazioni.

Accadde anche, però, che uno dei più arrabbiati amministratori presenti, Bartolomé de Las Casas, venne così profondamente colpito da questi sermoni che optò per una vera conversione e divenne il primo ecclesiastico a prendere gli ordini sacri nel Nuovo Mondo. Las Casas diventò nel tempo uno dei più attivi difensori dei diritti dei popoli indigeni d’America.

Re Ferdinando II d’Aragona, invece, si lamentò duramente con la congregazione dei Domenicani in Spagna e chiese sanzioni per i religiosi sull’isola, minacciando perfino di espellerli. Nel frattempo ai frati vennero negati i mezzi di sussistenza. Nonostante le intimidazioni i Domenicani non si fermarono, sostenendo che la loro dottrina era il risultato dello studio della verità e della lettura del Vangelo. Ferdinando annunciò così che nessun religioso avrebbe più messo piede sull’Isola.

De Montesinos decise di tornare nuovamente in Spagna col proposito di informare i reali sulla vera situazione dei popoli indigeni e sui motivi che lo avevano spinto a predicare così duramente. Re Ferdinando convocò una commissione di teologi e giuristi (il “Consiglio di Burgos”), i quali promulgarono le Leggi di Burgos (1512)63Wikipedia, Leggi di Burgos, primo codice di ordinanze per la protezione delle popolazioni indigene (verrà rispettato molto poco), nel quale si prevedeva che il re di Spagna aveva titoli di padronanza del Nuovo Mondo, ma senza il diritto di sfruttare l’indiano, il quale era un uomo libero e poteva possedere sue proprietà.

Grazie alle Leggi di Brugos si limitarono inoltre le richieste lavorative che i coloni spagnoli potevano avanzare, le donne in gravidanza furono esentate dal lavoro, fu proibita ogni tipo di punizione, si obbligò al rispetto delle autorità locali, aumentarono le condizioni igieniche ecc. Si ordinò anche l’obbligo di catechizzare gli indios e venne condannata la bigamia. Quest’ultima imposizione culturale fu resa necessaria soprattutto a causa dei cruenti riti sacrificali che gli indigeni praticavano continuamente a causa della loro religione, con tanto di cannibalismo e incisione delle vertebre dei bambini64Wikipedia, Sacrifici umani nella cultura azteca.

Per perpetuare la memoria di frate De Montesinos e ricordare la sua lotta per la giustizia per gli indigeni del Nuovo Mondo, venne creata una grande statua a lui dedicata nella città di Santo Domingo (Repubblica Dominicana)65Wikipedia, Antonio De Montesinos.

 

Francisco da Vitoria

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Frate Francesco da Vitoria (o Francisco De Vitoria) (1492-1546), conosciuto nel suo paese come il “Socrate spagnolo”, era membro della Scuola teologica di Salamanca e si preoccupò subito di elaborare le basi teologiche e filosofiche in difesa dei diritti umani delle popolazioni indigene colonizzate, divenendo così uno dei fondatori del “diritto internazionale” che regola i rapporti tra le nazioni66Woods T., Come la Chiesa cattolica costruito la civiltà occidentale, Regenery 2005, pp. 5-6 67Wikipedia, Francisco De Vitoria e fondatore della filosofia politica globale68Thumfart J., Die Begründung der globalpolitischen Philosophie. Zu Francisco de Vitorias “relectio de indis recenter inventis”, Von 1539 2009, p. 256 69Wikipedia, Francisco De Vitoria.

Lo storico Francesco Maria Feltri, dell’Università di Modena, ha scritto che Da Vitoria spinse «la Corona a prendere una serie di provvedimenti destinati a migliorare la condizione degli abitanti indigenti del Nuovo Mondo», con l’effetto che in Perù, «i coloni spagnoli arrivarono persino a ribellarsi al re, che cercava di porre dei limiti al feroce sfruttamento che essi praticavano nei confronti degli indios»70Feltri F.M., I giorni e le idee, Torino 2002, Vol I, p. 195.

Grazie a Fra Da Victoria vennero consolidati i diritti degli indios, tra i quali la nativa libertà, la dignità umana, la capacità giuridica e il diritto di rifiutare la conversione. Le sue opinioni (e quelle del vescovo Las Casas) furono ascoltate da un tribunale spagnolo nel 1542 e vennero così promosse le Leyes Nuevas (1542), che misero gli indiani sotto la diretta protezione della Corona (ne parliamo più sotto).

 

Bartolomé de Las Casas

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Il vescovo cattolico spagnolo Bartolome de Las Casas (1484–1566) è stato ufficialmente nominato “Protettore degli Indios”71Wikipedia, Bartolomé de Las Casas e Wikipedia, New Laws.

Trascorse infatti 50 anni della sua vita a combattere attivamente la schiavitù e l’abuso violento dei colonizzatori verso le popolazioni indigene. In particolare cercò di convincere le autorità spagnole ad adottare una politica più umana di colonizzazione. I suoi sforzi portarono diversi miglioramenti dello status giuridico degli indigeni e una maggiore attenzione sull’etica del colonialismo.

Las Casas è spesso visto come uno dei primi sostenitori dei diritti universali dell’uomo72Beuchot M., Los fundamentos de los derechos humanos en Bartolomé de las Casas, Anthropos Editoria 1994 73Wikipedia, Bartolomé de Las Casas.

Subito dopo la conversione, avvenuta -come già accennato- ascoltando i sermoni di frate Antonio di Montesinos a favore della libertà e dignità degli Indios nel Nuovo Mondo, Las Casas entrò nel 1515 nell’ordine domenicano ed iniziò immediatamente la sua instancabile battaglia a favore degli indigeni: condannò senza eccezioni il colonialismo, il sistema dell’encomienda e l’espansionismo degli europei, viaggiò nelle terre americane e attraversò molte volte l’oceano per portare in Spagna le sue proteste.

Nei suoi testi, Las Casas offrì una puntuale descrizione delle qualità fisiche, morali e intellettuali degli indios, finalizzata alla difesa dell’umanità degli abitanti del Nuovo Mondo, contro la tesi della loro irrazionalità e bestialità avanzata da altri suoi contemporanei, soprattutto di cultura umanista<1Las Casas B.D., Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Mondadori 1997[/mfn] 74Wikipedia, Bartolomeo De Las Casas.

Las Casas condannò la violenza e l’imposizione, ma non la proposta, del cristianesimo. Anzi, proprio dal cristianesimo Las Casas trasse quella spinta universalistica e quell’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini che ne animano l’opera e che lo spingeranno a denunciare anche le violenze dei portoghesi in terra d’Africa75Wikipedia, Bartolomeo De Las Casas.

Il vescovo spagnolo riuscì anche ad influenzare l’imperatore Carlo V, il quale -lo abbiamo già detto- promulgò le Leyes NuevasWikipedia, New Laws (1542): divieto di schiavizzare gli indiani, abolizione dell’encomienda, buon trattamento degli indiani, divieto di lavorare senza la propria volontà e senza il risarcimento dovuto ecc.

 

I vescovi spagnoli e il Còdigo Negro Espanol

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Las Casas ebbe numerosi successori, molti dei quali vescovi a loro volta.

Lo storico Anthony Gill dell’Università di Washington ha spiegato che quando grossi numeri di schiavi africani vennero introdotti nelle regioni spagnole del Nuovo Mondo, i vescovi spagnoli riuscirono a far accettare alla corte spagnola il Còdigo Negro Espanol (Codice Nero Spagnolo o The Black Code), che mitigò in gran parte le effettive condizioni di schiavitù76Gill A., Rendering unto Caesar: The Catholic Church and the State in Latin America, University of Chicago Press 1998, p. 22 77Stark R., For the glory of God: how monothesim led to reformations, science, witch-hunts, and the end of slavery, Princeton University Press 2003, cap. 1.

Alcuni di questi religiosi, successori di Las Casas e a loro volta nominati “Protettori degli Indios”, furono: il frate domenicano Julián Garcés (1452-1542)78Wikpedia, Julian Garces, il vescovo Francisco Marroquín (1499-1563)79Wikipedia, Francisco Marroquin, padre Hernando de Luque (1483-1532)80Wikipedia, Hernando de Luque 81Wikipedia, Protectoria de los indios.

L’opposizione della Chiesa spagnola e dei suoi vescovi riuscì a limitare l’impudente schiavitù dei nativi anche grazie al fatto che, come ha osservato Herbert S. Klein, storico della Columbia University, «il basso clero, soprattutto a livello di parrocchie, metteva regolarmente in pratica queste norme»82Klein H.S., Anglicanism, Catholicism and the Negro Slave, in L. Foner e E.D. Genovese, Slavery in the New World, Prentice-Hall 1969, p. 145, riferendosi appunto al Code Noir (Codice nero) e al Codigo Negro Espanol.

 

Junípero Serra

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Fra Junipero Serra fu un missionario francescano che contribuì a fondare lo stato americano della California.

Nel 1768 iniziò la sua missione in California, allora sottoposta a Madrid, dove fondò ben nove delle 21 missioni francescane che hanno segnato l’evangelizzazione dell’attuale West Coast statunitense, e che ancora oggi danno il nome a numerose città, da San Diego, Los Angeles a San Francisco.

Nel suo zelo missionario tra i nativi fronteggiò burocrati e comandanti militari, combatté gli abusi e riuscì ad assicurare un sistema di leggi per proteggere gli indiani della California dalle ingiustizie alle quali erano andati incontro nel passato.

Nel 2015 Papa Francesco ha ricordato al mondo il suo esempio durante la cerimonia di canonizzazione, ricordando coloro che come Junipero Serra portarono «il Vangelo al Nuovo Mondo e al tempo stesso difesero gli indigeni contro i soprusi dei colonizzatori»83Francesco, Omelia, 02/05/2015.

L’iniziativa della Chiesa cattolica ha generato una campagna denigratoria nei confronti di Junipero Serra da parte degli odierni rappresentanti dei Nativi americani della California, come il Mexica Movement e la American Indian Historical Society.

Alcuni hanno vandalizzato vari monumenti a lui dedicati con la scritta “Santo del genocidio”, tra cui la statua posta nel Campidoglio di Washington. Il consiglio di amministrazione della Stanford University ha addirittura annunciato l’eliminazione dalle strade e dagli edifici del campus del suo nome, perché il vederlo provocherebbe «traumi e danni emotivi» a molti studenti84Flynn M., To Catholics, Junípero Serra is a saint. To Stanford University, he’s a mailing address worth eliminating, The Washington Post 18/09/2018.

Per respingere tali accuse basterebbe ricordare che nel 2003, su iniziativa di vari intellettuali messicani85in Cervera C., La verdad de Fray Junípero Serra: la historia desmonta las mentiras sobre el fraile, ABC 23/09/2018, le missioni francescane della Sierra Gorda de Querétaro fondate da Junípero Serra sono state dichiarate Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO86Wikipedia, Misiones franciscanas de la Sierra Gorda de Querétaro.

Tali episodi hanno comunque generato una serie di interventi in difesa di Serra da parte di numerosi storici e specialisti della storia dei Nativi americani.

Robert Senkewicz, professore di storia alla Santa Clara University, ha dichiarato: «Non è legittimo fare di Serra un sostituto per tutti e 65 gli anni dell’esperienza missionaria in California. Se si vuole parlare di genocidio contro i nativi della California, accadde durante la corsa all’oro, dopo il 1850. Nonostante i loro errori, nessun missionario in California fece proprio il ritornello “il solo indiano buono è quello morto”. E nelle missioni californiane non vi fu nulla che si possa connettere a stragi come Sand Creek o Wounded Knee»87Senkewicz R., in Junipero Serra: saint or not?, NCRonline 15/05/2015.

L’archeologo Ruben Mendoza, di origine indios e professore presso la California State University, ha riferito che i missionari portarono in California una lunga serie di innovazioni benefiche alla popolazione locale: «Agricoltura, architettura, urbanizzazione, vinicoltura, editoria, progressi medici, irrigazione, acquedotti, burocrazia, democrazia». In particolare Junípero Serra, «sarebbe addolorato di vedersi contrapposto alle popolazioni alle quali ha dedicato la sua vita». Togliere la sua statua, spiega Mendoza, è l’ennesimo tentativo del legislatore di contrastare la comunità ispanica88citato in Scaramuzzi J., Esperti contestano le critiche a Junípero Serra, «apostolo della California», La Stampa 01/05/2015 89Mendoza R., Great Read: Often criticized, Serra gets a reappraisal from historians, Los Angeles Times 17/03/2015.

Serra «era un uomo del suo tempo», ha spiegato invece Fernando Garcia de Cortazar, docente di Storia contemporanea all’Università di Deusto, era «un uomo religioso che fondò missioni che rappresentavano isole di cultura e di pietà nella California del XVIII secolo e che poi divennero grandi città. Senza dubbio, accusare lui e i francescani di crudeltà è davvero barbarico»90in Cervera C., La verdad de Fray Junípero Serra: la historia desmonta las mentiras sobre el fraile, ABC 23/09/2018.

A sua volta la storica spagnola María Saavedra, direttrice della facoltà di Storia dell’Arte alla Universidad CEU San Pablo, smentisce che le missioni fondate da Junípero Serra furono campi di sterminio, piuttosto lì si gettarono le basi per un immenso successo nell’urbanizzazione ispanica. «Per poter vivere “civilmente”», spiega, «si cercava che gli stessi abitanti collaborassero alla costruzione delle città in cui sarebbero vissuti»91in Cervera C., La verdad de Fray Junípero Serra: la historia desmonta las mentiras sobre el fraile, ABC 23/09/2018.

«Junípero è solo il capro espiatorio», ha affermato la storica spagnola María Elvira Roca Barea. «Questo attacco è rivolto contro tutto il mondo ispanico, i cui rapporti con gli indigeni erano più fluidi, rispettosi e benevoli di quelli che vennero dopo»92in Cervera C., La verdad de Fray Junípero Serra: la historia desmonta las mentiras sobre el fraile, ABC 23/09/2018.

 

4.3 I Gesuiti, le reduciones e il colonialismo.

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Un ruolo di primo piano lo ebbero i gesuiti della Compagnia di Gesù, famosi per le reducciones nel Guaranì dove, scrive l’eminente storico Franco Cardini, «i religiosi inquadravano e addestravano militarmente i nativi contro le incursioni dei razziatori di schiavi da vendere ai mercanti europei di carne umana»93Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 71.

La Compagnia di Gesù è stata vittima di «una tenace “leggenda nera”», nata nell’Inghilterra anglicana e alimentata «nel mondo massonico soprattutto dopo la Rivoluzione francese», accusata d’ipocrisia e dei peggiori intrighi e delitti. Eppure, prosegue Cardini94Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, pp. 74, 75, i gesuiti contribuirono alla diffusione della matematica, della fisica, della balistica e dell’architettura in tutto il mondo.

Tra 1600 e 1767 la Compagnia dette vita tra Brasile, Paraguay e Argentina a «un esperimento straordinario»95Mieli P., All’assalto dei Gesuiti, Corriere della Sera 07/12/2021, così definito dallo storico Paolo Mieli. Ovvero l’esperienza di libere comunità indiane, le cosiddette reducciones, in cui gli indigeni si organizzavano e si governavano liberamente, lavorando e ridistribuendo tra loro i proventi del loro lavoro. Fu da quel modello che Tommaso Campanella assunse in parte l’ispirazione per la sua Città del Sole96Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 75.

Nella sua ricostruzione, Gianpaolo Romanato, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Padova, ha spiegato che nelle Americhe conquistate dagli europei, le missioni furono il solo luogo in cui gli indiani progredirono anziché regredire. «Solo nelle Riduzioni poterono svilupparsi, rendersi (relativamente) autonomi, autogestirsi diventando artigiani, operai, mercanti, soldati, musicisti, agricoltori, allevatori, amministratori»97Romanato G., Le Riduzioni gesuite del Paraguay. Missione, politica, conflitti, Morcelliana 2021 98citato in Mieli P., All’assalto dei Gesuiti, Corriere della Sera 07/12/2021. L’unica strada loro preclusa fu quella del sacerdozio.

Se la vera “ecatombe” demografica (genocidio?) avvenne durante la corsa all’oro da parte dei minatori, la storica Enriqueta Vila della Real Academia de la Historia ha sottolineato che nelle missioni cattoliche la popolazione nativa della California rimase a livelli stabili e fu salvaguardata la maggior parte delle loro usanze. «Quello che hanno fatto le missioni è stato preservare gli indigeni, che si sono estinti con la loro secolarizzazione. Il genocidio è avvenuto durante l’età dell’oro»99in Cervera C., La verdad de Fray Junípero Serra: la historia desmonta las mentiras sobre el fraile, ABC 23/09/2018.

Nelle riduzioni spagnole i nativi erano liberi da ogni servitù, vennero create chiese, case per le vedove e gli orfani e scuole. Il governo civile era gestito dagli indigeni stessi, mentre l’amministrazione della giustizia restava a carico dei gesuiti. I reati erano rari e di conseguenza le pene minime. Non si ricorreva quasi mai alla prigionia o a condanne all’esilio, ritenuta la somma disgrazia. Ogni famiglia riceveva un terreno, ereditario, che forniva il sostegno principale, le altre aree erano “proprietà di Dio” i cui frutti spettavano alla comunità. Nei villaggi i missionari introdussero nuove tecniche di agricoltura e di allevamento del bestiame, insegnarono elementi di architettura, scultura, pittura, incisione, poesia, musica, teatro, oratoria e scienze. I Gesuiti migliorarono la lingua guaranì creando una scrittura con caratteri latini e produssero opere letterarie. Una buona parte degli indigeni fu alfabetizzata in guaranì, castellano e latino. Vennero stampati calendari, tavole astronomiche e spartiti100Wikipedia, Riduzioni gesuite.

I conquistatori europei tuttavia favorirono incursioni dei mercanti di schiavi che provenivano dal Brasile (i famosi paulistas) contro le colonie gesuite. Così, spiega Franco Cardini, i religiosi risposero «organizzando addirittura militarmente gli indios, che in tal modo ressero a lungo agli assalti degli schiavisti finché non furono piegati da una spedizione militare portoghese in piena regola voluta dal primo ministro di Lisbona, il marchese di Pombal»101Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 75.

Una delle battaglie più famose tra indios e Gesuiti contro i colonizzatori europei fu la Battaglia di Mbororé102Wikipedia, Battaglia di Mborore.

Nel 1638 i padri Antonio Ruiz de Montoya103Wikipedia, Antonio Ruiz de Montoya e Francisco Díaz Taño partirono per la Spagna con l’obbiettivo di informare re Filippo IV dei drammatici eventi accaduti nelle missioni. Il sovrano rispose inviando una Cedola Reale (21 maggio 1640) con la quale permise ai guaraní di usare armi da fuoco per la propria difesa. I Gesuiti fornirono anche istruzione militare agli indigeni, grazie a religiosi ex militari (come Juan Cárdenas, Antonio Bernal e Domingo Torres), formando così un vero e proprio esercito “missionario” di 4.000 elementi armati ed addestrati. Le truppe guaraní attaccarono i bandeirantes a Caazapaguazú, facendoli fuggire precipitosamente104Wikipedia, Battaglia di Mborore.

Padre Francisco Díaz Taño, reduce dalle ambasciate a Madrid e a Roma, ritornò con la bolla pontificia Commissum Nobis105Wikipedia, Commissun Nobis (1639) di Urbano VIII, che condannava duramente le bandeiras e il traffico di indigeni (ne abbiamo parlato sopra). Dopo la vittoria di Mbororé furono consolidate le riduzioni gesuite e venne frenata l’avanzata colonialista portoghese.

Non appena divennero primi ministri gli illuministi marchese di Pombale, Carvalho, e il conte di Aranda, si decise per l’espulsione violenta dell’ordine dei Gesuiti in Portogallo (1759) e in Spagna (1767). Lo storico Claudio Ferlan attribuisce le colpe principali dell’espulsione dal Portogallo proprio al marchese di Pombal, potentissimo primo ministro del re Giuseppe I, il quale «riteneva che sbarazzandosi degli ignaziani avrebbe dimostrato la potenza del Portogallo davanti alla Santa Sede». E avrebbe «segnato un punto decisivo nella lotta contro la superstizione in cui era impegnato in prima persona, da fervente sostenitore delle idee illuministe»106Ferlan C., I gesuiti, Il Mulino 2015 107citato in Mieli P., All’assalto dei Gesuiti, Corriere della Sera 07/12/2021.

Il conte di Aranda fece addirittura fece rinchiudere nelle carceri portoghesi, lasciandoli morire, «circa 180 gesuiti provenienti dalle missioni»108Bangert V., Storia della compagnia di Gesù, Marietti 2009, pp. 370-396.

Da quel momento nacque la leggenda anti-gesuita che ribaltò i piani: Voltaire, nel suo Candide (1759), stravolse la realtà e presentò i gesuiti come fautori dello schiavismo e gli illuministi come liberatori. Proprio lui che, come vedremo, «aveva lucrato acquistando le azioni garantite dalla flotta portoghese inviata a acquistando la libertà india»109Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, pp. 75, 76. Ma la calunnia pagava: e si giunse difatti alla soppressione della Compagnia in tutta Europa.

Nel 1773, Clemente XIV dovette piegarsi e sopprimere la Compagnia di Gesù condizionato da fortissime pressioni spagnole e da notizie false sui gesuiti.

Come ha ricostruito lo storico Claudio Ferlan nel libro I gesuiti, nelle città schiaviste in mano ai portoghesi le missioni di aiuto dei gesuiti ai nativi divennero assai impopolari, tanto che essi vennero espulsi dal Brasile e dal Portogallo e contro di loro iniziarono «una serie di provvedimenti antigesuitici preceduti da un’articolata campagna diffamatoria alimentata da libelli accusatori pubblicati e diffusi in buona parte d’Europa proprio con il sostegno del primo ministro portoghese»110Ferlan C., I gesuiti, Il Mulino 2015.

La guerra ai gesuiti iniziò, così, non in Occidente ma in America Latina a causa della loro ostilità allo schiavismo.

Lo storico italiano Franco Cardini, ordinario presso l’Università di Firenze, ha descritto così questi avvenimenti:

«L’esperimento delle “reducciones” non si chiuse per naturale esaurimento». Nel 1750 parte di esse della “repubblica dei guarani” passarono dal dominio spagnolo a quello portoghese, ma «il Portogallo non riconobbe le prerogative dei “papisti” gesuiti, che la Spagna aveva rispettato: l’economia schiavista aveva bisogno di nuova braccia. Così, dopo il disastroso terremoto di Lisbona del 1755, il primo ministro portoghese – l’illuminista marchese di Pombal – additò al suo paese un facile capro espiatorio, la Compagnia di Gesù, che nel 1759 fu espulsa dai confini dell’impero e nel 1773 soppressa. La porta in gioco era ricca e ghiotta. Ci vollero diciannove anni, dal 1750 al 1768, per eliminare del tutto la “repubblica di guaranì”, che i “caccicchi” indios difesero sino all’ultimo. Contro i padri gesuiti si scatenò una ridda infernale di calunnie, appoggiate e finanziate dai coloni spagnoli e portoghesi d’America che avevano interesse a razziare schiavi e dalla potenza britannica che combatteva così il “papismo” e favoriva (ebbene, si!) lo sviluppo dell’economia moderna: che ha anche queste vergognose origini. Non stupisce che il signor Voltaire ne difendesse i paladini, tra cui gli illuministi francesi, spagnoli e portoghesi: anche lui aveva investito in azioni della “Compagnia del Maranhao” appoggiata dal Pombal»111Cardini F., Le “riduzioni” in Paraguay? Non erano lager, Avvenire 04/05/2000.

 

Anche Italo Calvino, nel suo Barone rampante, cascò «nell’inattendibile versione di Voltaire. Aveva equivocato tutto o mentiva sapendo di mentire?». Si chiede Cardini. Nel 1986 fu il film Mission di Roland Joffé a rendere finalmente giustizia ai gesuiti, presentando «in termini sostanzialmente fedeli alla storia tale vicenda: e per questo fu attaccato con violenza da pubblicisti i quali ricordavano di aver appreso a scuola come i tenebrosi gesuiti fossero nemici di ogni libertà»112Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 76.


 

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5. LE CONVERSIONI FORZATE NEL NUOVO MONDO

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Se il ruolo dei missionari nel colonialismo fu di creare un’etica di aiuto e sostegno, invece che di depauperamento dei territori e delle popolazioni colonizzate, è anche vero che il messaggio cristiano venne spesso imposto e non proposto.

Un torto, certamente.

Eppure bisognerebbe giudicarlo con gli occhi della storia, comprendendo che i colonizzatori europei trovarono popolazioni totalmente sottomesse al capriccio dei loro pretenziosi e crudeli dèi. E’ stato dimostrato113Koschorke K., A History of Christianity in Asia, Africa, and Latin America 2007, pp. 31–32 114McManners J., Oxford Illustrated History of Christianity 1990, p. 318, ad esempio, che il popolo Azteco smise di praticare sacrifici umani e altre violente forme autoctone di culto proprio grazie alla conversione cristiana di molti dei suoi membri (inizialmente, forzata o meno che fosse).

La storica e antropologa australiana Inga Clendinnen, considerata un’autorità internazionale della civiltà azteca, nel suo famoso libro è arrivata a scrivere: «Dispiacersi della scomparsa dell’impero azteco è come rammaricarsi della sconfitta dei nazisti nella seconda guerra mondiale»115Clendinnen I., Aztecs: An Interpretation, Cambridge University Press 1991.

Clendinnen, profonda conoscitrice anche dell’olocausto nazista (il suo libro Reading the Holocaust ha ottenuto diversi premi internazionali), ha spiegato infatti che il sistema di sterminio nazista era decisamente più soft delle centinaia di sacrifici umani quotidiani che avvenivano a Tenochtitlán, capitale azteca.

«Le persone», scrive l’antropologa, «venivano coinvolte nella cura e nella preparazione delle vittime e alla dei corpi: lo smembramento, la distribuzione di testa e arti, la divisione di carne, sangue e pelle scorticata»116Clendinnen I., Aztecs: An Interpretation, Cambridge University Press 1991. Tutta la cultura azteca era costruita attorno al sacrificio umano di massa. Nel 1487 in occasione dell’inaugurazione del Templo Mayor il numero di vittime è stato di 20mila in un solo giorno, mentre in giornate di normali festività la media era di 2000 vittime117Clendinnen I., Aztecs: An Interpretation, Cambridge University Press 1991.

Lo stesso si può dire degli Incas e dei Maya: ad insanguinare ogni giorno i gradini degli enormi templi era quest’ansia ossessionante di non lasciare finire il mondo, un’ansia che raggiungeva il suo culmine ogni cinquantadue anni, quando la minaccia delle catastrofi si faceva più concreta ed imminente118Diaz del Castillo B., La conquista del Messico, Longanesi 1968.

Le cerimonie con sacrifici umani di massa duravano anche giorni, venivano sacrificati donne, schiavi, bambini e prigionieri per placare gli dèi, per propiziare il raccolto: «I prigionieri di guerra», scrisse l’antropologo G.C. Vaillant, «erano l’offerta più stimata e avevano tanto più pregio più erano valorosi […]. Talvolta in occasione dei riti di fertilità furono uccisi donne e bambini, per assicurare la crescita delle piante. Saltuariamente si ebbero casi di cannibalismo cerimoniale. Infliggersi ferite a sangue era un altro modo di assicurare il favore divino. La popolazione faceva orribili penitenze, mutilandosi con lame o trapassandosi la lingua di spaghi cui erano annodate spine»119Vaillant G.C., La civiltà Atzeca, Einaudi 1962, pp. 184-188.

Il condottiero spagnolo Hernán Cortés è ricordato come uno dei colonialisti più brutali della storia, eppure quando nel 1519 sbarcò sulle terre dell’impero atzeco, in Messico, trovò subito l’alleanza di moltissime tribù che decisero di sostenerlo contro la sanguinaria tirannia atzeca. Senza il loro appoggio non avrebbe mai vinto alcunché. Cortés fu sì avido di ricchezze, ma nello stesso tempo disgustato dai sacrifici di massa praticati dagli atzechi, sentendosi davvero un liberatore.

Bernal Diaz del Castillo, che accompagnava Cortès, nel 1555 scrisse che «nella piazza [di città del Messico] dove si trovavano le loro cappelle, c’erano pile di teschi sistemati in modo tanto regolare che era possibile contarli, e io ho calcolato che fossero più di centomila […]. In seguito abbiamo avuto modo di vedere molte cose del genere […] perché la stessa usanza fu osservata in tutte le città»120Diaz del Castillo B., La conquista del Messico, Longanesi 1968. Le descrizioni degli spagnoli sono supportate da affreschi atzechi, dai loro libri sacri e soprattutto dall’archeologia.

Lo storico ed antropologo dell’Università di Harvard, David Carrasco, ha scritto un libro sui sacrifici umani presso gli atzechi dopo aver visto un ripostiglio rituale in cui «resti ossei di 42 bambini giacevano come un caotico rimasuglio di una preziosa offerta del XV secolo agli dei della pioggia»121Carrasco C., City of Sacrifice: The Aztec Empire and the Role of the Violence in Civilization, Beacon Press 1999, p. 2. L’età media era di 5 anni e le vittime erano quasi tutte sgozzate, Carrasco osserva che simili sacrifici umani sono stati rintracciati in altri ottanta luoghi diversi della capitale e «donne e bambini erano sacrificati in oltre un terzo delle cerimonie, i sacrifici erano accompagnati da coreografia rituale e compiuti di fronte a grandi folle»122Carrasco C., City of Sacrifice: The Aztec Empire and the Role of the Violence in Civilization, Beacon Press 1999, p. 3.

Alle vittime si estraeva il cuore ancora pulsante, la testa mozzata veniva issata su una rastrelliera mentre «il corpo veniva fatto rotolare giù dagli scalini del tempio fino alla base dove era scuoiato e smembrato»123Carrasco C., City of Sacrifice: The Aztec Empire and the Role of the Violence in Civilization, Beacon Press 1999, p. 83. I tagli migliori venivano distribuiti ai presenti che li portavano a casa per mangiarli.

Gianpaolo Romanato, docente di Storia contemporanea all’Università di Padova, ha pubblicato uno studio sulle riduzioni gesuite in cui smentisce il mito del “buon selvaggio”, «diffuso da letterati e filosofi europei che non avevano mai messo piede nel Nuovo Mondo». Coloro che sbarcano, invece, videro che i nativi americani non vivevano in un “paradiso terrestre” ma in un inferno verde, dove la lotta per la sopravvivenza era feroce e combattuta quotidianamente contro animali e uomini124citato in Gallesi L., I Gesuiti in Paraguay e le Riduzioni tra Vangelo ed esperimento sociale, Avvenire 11/02/2022.

«Probabilmente l’esempio più spettacolare di violenza preistorica in Nord America proviene da Crow Creek, nel South Dakota», hanno invece scritto gli storici Michael Haines e Richard Steckel. «Scavi archeologici hanno portato alla luce 486 scheletri in un fossato di fortificazione alla periferia dell’area abitativa. Il sito risale al 1325 d.C. e le analisi hanno rivelato che il 90% degli individui presentano i tagli caratteristici dello scalpo»125Haines M. & Steckel R., A Population History of North America, Cambridge University Press 2000, p. 68.

L’archeologia, oltre ad aver ritrovato ossa umane cotte e accuratamente scarnificate a conferma della dilagante pratica del cannibalismo, ha quindi smentito coloro che hanno sempre sostenuto che lo scalpo (la pratica dello strappare il cuoio capelluto) sarebbe stato insegnato agli indiani dai colonizzatori inglesi.

E’ anche ormai evidente che le civiltà pre-colombiane non vivessero affatto in armonia e rispetto nemmeno con la natura, considerando la massiccia deforestazione (una delle ipotesi principali per spiegare la scomparsa dei Maya) e l’esaurimento dei campi: «L’evidenza empirica», ha infatti scritto l’illustre archeologo ambientale Karl Butzer, «contraddice il concetto romantico secondo cui gli indigeni americani disponevano di qualche auspicabile metodo di usare la terra senza lasciarvi una palese e talvolta sgradevole impronta»126Butzer K., The Americans Before and After 1492: An Introduction to Current Geographical Research, Annals of the Association of American Geographers n. 82, 1992, p. 348.

A fronte di tutto questo non stupisce che Cortés abbia potuto facilmente arruolare guerrieri di tribù ansiose di abbattere l’impero atzeco, predisponendo il divieto ufficiale di sacrificare i bambini, prima, e poi quello di sacrificare chiunque, sotto minaccia di pena di morte. Che non abbia avuto preclusioni di tipo “razzista” verso gli indigeni lo segnala il matrimonio con Marina, un’indigena, e come lui faranno molti suoi soldati.

Questo è quindi lo scenario religioso che i colonizzatori si trovarono davanti agli occhi una volta giunti nel Nuovo Mondo. Così, l’insegnamento e, spesso, l’imposizione dei valori cristiani ed evangelici sulla sacralità della persona e della vita umana, l’evangelizzazione di un Dio compagno dell’uomo e non padrone assetato di sacrifici umani, fu anche un tentativo di civilizzare un popolo barbaro e sanguinario.


 

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6. IL COLONIALISMO: SFRUTTAMENTO E DECULTURAZIONE?

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Quasi tutte le descrizioni moderne mettono l’accento sull’avidità e sulla xenofobia come basi dell’espansione coloniale europea.

Certo, entrambi ebbero un ruolo importante, purtroppo, ma furono importanti anche l’idealismo e la carità, soprattutto da parte dei missionari cristiani cui stava a cuore istruire e modernizzare i Paesi stranieri, almeno quanto proporre la fede cristiana.

Ad esempio nel 1910 le organizzazioni missionarie inglesi e americane avevano fondato 86 università, 522 istituti magistrali e migliaia di scuole elementari in Asia e Africa127Dennis J., Beach H., Fahs C.H., World Atlas of Christiani Missions Student Volunteer Movement for Foreign Mission 1911, pp. 83, 84.

Naturalmente vi furono casi brutali di colonialismo e di sfruttamento, forse la dominazione del re del Belgio, Leopoldo II, ne costituisce l’esempio più noto. Tuttavia, ha osservato il sociologo statunitense Rodney Stark, «l’impatto maggiore dell’Occidente è stato quello di migliorare immensamente la qualità della vita in altre parti del mondo»128Stark R., La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 543.

Ad esempio in Paraguay, l’arrivo dei missionari permise ai Guaranì, di progredire civilmente e abbandonare l’Età della Pietra, le carestie e le guerre pressoché ininterrotte con conseguente sterminio (tramite cannibalismo rituale) degli abitanti del villaggio sconfitto. In meno di tre generazioni gli indigeni passarono da un livello di vita estremamente primitivo ad uno stadio di civiltà piuttosto elevato129Wikipedia, Riduzioni gesuite.

Anche in Messico i missionari fornirono benessere alle popolazioni mediante l’istituzione di scuole e ospedali ed insegnarono agli indiani metodi di allevamento migliori, aumentando l’aspettativa di vita130Samora J. & Simon P.V., A History of the Mexican-American People, 1993, p. 20.

 

6.1 I missionari imposero la modernità?

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Forse l’accusa più bizzarra contro i missionari cristiani (e i colonialisti in generale) è che imposero la modernità su gran parte del mondo non occidentale, rovinando la cultura locale.

Il disagio verso il cosiddetto imperialismo culturale scompare subito appena si pensa ai crimini contro le donne, come la fasciatura dei piedi, la circoncisione femminile, la pratica del Sati, che obbligava le vedove a morire tra le fiamme sulla pira funebre del marito, e la lapidazione delle vittime di stupro in quanto colpevoli di adulterio.

E ancora, l’imperialismo occidentale “impose” la democrazia laddove avevano sempre prevalso dittature e schiavitù, pratiche abituali delle tradizioni locali. Per non parlare della castrazione dei giovani e dell’analfabetismo quasi totale.

Bisognerebbe, insomma, valutare l’azione dei missionari dai frutti prodotti: un notevole studio pubblicato nel 2012 dalla prestigiosa American Political Science Review131Woodberry R.D., The Missionary Roots of Liberal Democracy, The American Political Science Review 2012, condotto da Robert D. Woodberry, ha dimostrato che ai missionari cristiani va il merito maggiore dell’ascesa e della diffusione di democrazie stabili nel mondo non occidentale. Tanto più elevato era il numero di missionari cristiani ogni diecimila abitanti locali, tanto più elevata era la possibilità che il Paese avesse oggi una democrazia stabile. L’effetto dei missionari era di gran lunga maggiore di altre cinquanta variabili di controllo, come il prodotto interno lordo e il fatto se il Paese fosse stato o meno una colonia britannica.

Secondo Woodberry132Woodberry R.D., The Missionary Roots of Liberal Democracy, The American Political Science Review 2012, i missionari favorirono l’istruzione di massa, fondarono scuole e università (inviando studenti in Inghilterra e America), crearono giornali e stampa locali, organizzazioni di volontariato locale, comprese quelle di orientamento nazionalista e anti-coloniale. Non è un caso che molti leader dei movimenti anticoloniali si siano laureati in Occidente, come Gandhi, Nehru, Jomo Kenyatta.

Una grande beneficio apportato dai missionari è relativo all’ambito medico. Le missioni hanno fatto enormi investimenti in strutture sanitarie nei Paesi non occidentali: nel 1910 avevano già fondato 111 scuole di medicina, oltre 1000 dispensari e 576 ospedali133J. Dennis, H. Beach, C.H. Fahs, World Atlas of Christiani Missions Student Volunteer Movement for Foreign Mission 1911. E lo fecero reclutando e addestrando infermiere e medici locali.

E’ ancora una volta lo studio del sociologo Woodberry ad aver dimostrato che quanto più elevato era, nel 1923, il numero di missionari ogni mille abitanti, tanto più basso era il tasso di mortalità infantile nel 2000, un effetto oltre dieci volte maggiore di quello dell’attuale prodotto interno lordo pro capite134Woodberry R.D., The Missionary Roots of Liberal Democracy, The American Political Science Review 2012. Se questi effetti costituiscono “imperialismo coloniale”, ben venga.

Con i dovuti distinguo, ricordiamo che il concetto di “esportare la democrazia” è stato difeso e legittimato in tempi moderni dagli Stati Uniti, dall’Occidente e da buona parte dell’opinione pubblica giustificando l’uso della forza militare contro il terrorismo in Afghanistan.

Nel 2014 l’antropologo americano Brian Palmer, docente alla Uppsala University, al termine di un’indagine sulla “medicina missionaria”, ha concluso:

«Come ateo, cerco di fare delle scelte basate su prove e ragioni. Quindi, finché non saremo pronti a investire pesantemente nella medicina laica in l’Africa, suggerisco di lasciare che Dio faccia il suo lavoro». I missionari cristiani «non traggono un personale profitto dal loro lavoro, sono pagati molto male, forse per nulla. Molti rischiano la vita». Essi «sono di stanza in tutta l’Africa, negli avamposti rurali e nelle baraccopoli urbane. Invece di paracadutarsi durante le crisi, come fanno alcuni specialisti di medicina internazionale, molti di loro hanno assunto impegni a lungo termine per affrontare i problemi di salute dei poveri africani»135Palmer B., In Medicine We Trust, Slate 02/10/2014.

 

6.2 Colonialismo e cancellazione della cultura indigena?

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Un’altra accusa frequente è quella di aver privato i popoli indigeni della loro cultura, cancellando le loro tradizioni e i loro costumi.

Niente di più falso, come spiegato dalla storica dell’arte Elizabeth Wilder Weismann parlando della Mesoamerica dopo il 1521,: «Due (o più) tipi di vita diversi si sono assorbiti a vicenda e hanno prodotto cose nuove e diverse da qualsiasi altra cosa nel mondo»136Weismann E.W., Mexico in Sculpture 1521- 1821, Harvard University Press 1950, p. 5.

Anche David Carrasco, celebre storico delle religioni specializzato nella storia della Mesoamerica ha osservato che «biologi, etnobotanici, antropologi e linguisti, molti dei quali lavorano a fianco dei popoli nativi e meticci, ci stanno mostrando quanto profondi e duraturi siano stati gli scambi tra culture e popoli indigeni, europei e africani nelle Americhe»137Carrasco D., Religions of Mesoamerica, Waveland Press 2013, p. 9.

A questa obiezione ha risposto anche Giampaolo Romanato, docente di Storia contemporanea e di Storia della chiesa moderna e contemporanea all’Università di Padova, osservando ad esempio che nelle Riduzioni gesuite del Paraguay vi fu una costante preoccupazione dei missionari di non imporre la cultura occidentale ma preservare il più possibile quella locale:

«Nelle Riduzioni si parlava solo il guaranì, lingua organizzata dai gesuiti che ne crearono l’alfabeto. Le prime Riduzioni erano molto vaste, costruite in legno e paglia, per lasciare i guaranì il più possibile vicini al loro modo di vivere. Poi il modello fu modificato, man mano che crebbero le nuove generazioni nate all’interno delle missioni. Col tempo cambiò completamente la struttura e la tecnica di costruzione delle chiese, che inizialmente si richiamavano alle abitazioni indigene collettive e venivano edificate partendo dal tetto, in legno e paglia. Gli studi più recenti concludono che nell’intreccio di stile europeo e guaranì sarebbe prevalso quello locale dei guaranì, con il risultato di dar vita a un genere artistico autonomo, se non proprio originale». Anche le «funzioni amministrative, dopo il primo periodo in cui furono ricoperte dai padri, vennero sempre affidate ai guaranì ed erano elettive. Ciascuna Riduzione era amministrata da una sorta di giunta comunale a capo della quale era il corregidor, una figura simile al nostro sindaco. Solo il corregidor non era eletto dalla popolazione ma nominato dagli spagnoli su una terna indicata dai religiosi. Il sistema fu normalizzato con un Regolamento generale emanato nel 1689, che imponeva di conservare in ogni Riduzione il Libro de Ordenes, una sorta di codice civile e penale. La giustizia penale, pure gestita dai guaranì, era estremamente mite e non prevedeva la pena di morte. È indubbio che all’interno di ciascun villaggio l’autonomia dei locali fu reale e non fittizia, ma è noto che i rapporti esterni, civili e commerciali, furono largamente gestiti dai gesuiti. Tuttavia la durata nel tempo delle missioni – un secolo e mezzo – non si può giustificare solo con la tutela dei padri, che non furono mai più di due o tre per villaggio. Il consenso e l’attiva collaborazione degli indigeni furono altrettanto indispensabili. Fu una forma di deculturazione, per quanto morbida, soave e senza violenza, o un geniale cammino di incivilimento? Il quesito rimane aperto e sostanzialmente irrisolto. Il fatto però di discuterne ancora, a tre secoli di distanza, testimonia l’originalità e l’intelligenza di ciò che è avvenuto nelle foreste del Sud America, con il consenso del governo spagnolo e sotto la costante sorveglianza dei vertici romani dell’Ordine, ma anche – bisogna ribadirlo – in piena armonia con i guaranì […]. In ogni Riduzione era prevista un’idonea assistenza, con infermieri stanziali e medici, scuole maschili e femminili dai sei ai dodici anni, l’incivilimento secondo i parametri della vita europea, elevarono le condizioni dei guaranì fino a portarle a un livello probabilmente non inferiore, e in qualche caso superiore, rispetto al livello dell’America spagnola. Ciò che fecero i gesuiti, indipendentemente dal giudizio di valore che ne possiamo dare, ha il sigillo delle cose rare e geniali. Solo un lampo di creatività poteva progettare grandiose città d’arte per popolazioni semiprimitive in mezzo alle foreste tropicali o sulla riva di un lago, in cima alle Ande. A due secoli dalla loro scomparsa, che cosa rimane delle Riduzioni? Che eredità ci lasciano? Credo che il loro lascito più importante siano i guaranì, l’unica popolazione autoctona del Sud America la cui lingua è diventata lingua ufficiale; l’unica che visse per tutto il periodo coloniale in un rapporto di collaborazione con gli europei, alla pari con essi; l’unica che è stata posta in grado di progredire e svilupparsi all’interno dei propri termini di riferimento, senza subire violenze»138Romanato G., Ai confini tra due Imperi, L’Osservatore Romano 19/09/2009.

 

6.3 Colonialismo e depredazione delle colonie?

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Un’ultima tesi a cui occorre rispondere sostiene che le colonie furono depredate e costrette a vendere le materie prime a un prezzo troppo basso e ad acquistare manufatti a un prezzo troppo alto.

A sostenerlo fu nel 1902 l’economista inglese J.A. Hobson, convinzione ripresa nel 1915 da Lenin. Da allora si ripete l’idea che le nazioni occidentali abbiano rubato la ricchezza da quelle non occidentali, impedendone lo sviluppo.

Certamente si verificò una “rapina” spagnola e portoghese dell’oro e dell’argento americani in pieno Cinquecento, la quale provocò una pesante inflazione seguita da un impoverimento generalizzato.

Eppure Patrick O’Brien, storico dell’economia dell’Università di Oxford, ha dimostrato139O’Brien P., European Economic Development: The Contribution of the Periphery, Economic History Review, n. 35, 1982, p. 1-18 che i Paesi sviluppati non poterono aver ricavato la propria ricchezza sottraendola alle nazioni povere perché con esse gli scambi commerciali erano minimi.

L’errore di Hobson, ha spiegato O’Brien, fu di focalizzarsi sull’arricchimento di alcuni europei dal commercio con il mondo non occidentale, generalizzando il fatto e attribuendolo alle economie nazionali. Invece, tale ricchezza era troppo piccola per poter aver avuto un impatto significativo sulle economie nazionali. Di certo, non c’è dubbio che nell’era dell’imperialismo (con l’eccezione della Spagna, seppur solo a breve termine) nelle proprie colonie i Paesi europei persero moltissimo denaro.

In ogni caso, molti conquistadores commisero innumerevoli crudeltà ed ingiustizie, tra esse la requisizione dei beni dei popoli colonizzati.

Tuttavia, alcuni furono messi in crisi dalla loro coscienza cristiana, si pentirono e cercarono di riparare il loro errore restituendo i beni sottratti. La storica Lourdes Díaz-Trechuelo, fondatrice della Escuela de Estudios Hispanoamericanos di Siviglia, ha studiato archivi e testamenti, scoprendo «non soltanto la guerra, la violenza e i maltrattamenti ma anche il peccato di omissione; il non avere compiuto bene l’obbligo di catechizzare gli indios a loro affidati e finalmente il complicatissimo problema della restituzione dei beni materiali usurpati ingiustamente»140Díaz-Trechuelo Lopez Spinola L., La conciencia y los problemas de la conquista, in Historia de la Evangelización de America, Simposio Internacional 11-14/05/1992.

Molti teologi dell’epoca, come padre Francisco de Vitoria, predicarono proprio la restituzione dei beni conquistati illecitamente agli indios, e questo contribuì alle crisi di coscienza dei conquistadores e dei loro successori. Alcuni decisero così di passare i proventi alla Corona, altri fondarono numerose opere di carità in favore degli indios, altri restituirono direttamente il frutto delle conquiste ai legittimi padroni, come Cortés e parecchi conquistadores del Perù141Lohman Villena G., La restitución por conquistadores y encomenderos. Un aspecto de la incidencia lascasiana en el Perú, Anuario de Estudios Amencanos, vol. XXIII, 1966, pp. 43, 44.

Lo storico peruviano G. Lohman Villena ha studiato numerosi casi in Perù di conquistadores che lasciarono i loro beni agli indios, anche attraverso esecutori testamentari istruiti per compiere le dovute riparazioni142Lohman Villena G., La restitución por conquistadores y encomenderos. Un aspecto de la incidencia lascasiana en el Perú, Anuario de Estudios Amencanos, vol. XXIII, 1966, pp. 21-89.

L’arcivescovo di Lima, il domenicano fra Jerónimo de Loaysa, pubblicò l’opera Avisos para los confesores de estos reinos del Perú proprio per dare delle normative sul tema della restituzione. Le ricerche di archivio di Díaz-Trichuebo mostrano coloni sposati con donne indiane che lasciarono i loro beni ai loro figli meticci ed altri che vollero riparare anche i peccati di omissione lasciando i loro beni perché il vescovo del luogo riparasse per loro. Ordinarono di celebrare sante messe per gli indios come un dovere della loro coscienza143Lohman Villena G., La restitución por conquistadores y encomenderos. Un aspecto de la incidencia lascasiana en el Perú, Anuario de Estudios Amencanos, vol. XXIII, 1966, pp. 657, 658.


 

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7. ILLUMINISMO, COLONIALISMO E SCHIAVITU’

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Ironia della storia, proprio coloro che inventarono leggende nere sulla Chiesa e il colonialismo oppressore furono coinvolti attivamente nella promozione di una cultura schiavista e razzista.

Dal 1600 in poi, infatti, innumerevoli esponenti dell’illuminismo anticlericale si distinsero particolarmente nel razzismo, trovarono linfa vitale nella strumentalizzazione del pensiero darwinista (darwinismo sociale), creando gerarchie tra le «razze» (razzismo, eugenetica, nazionalsocialismo, antisemitismo) e le «classi» (marxismo, comunismo).

Abbiamo già spiegato che le “reducciones” furono chiuse quando nel 1750 passarono sotto il dominio portoghese, guidato dall’illuminista marchese di Pombal, il quale espulse i Gesuiti e fece sopprimere la Compagnia. Gli indios difesero strenuamente le riduzioni gesuite ma cedettero nel 1768144Cardini F., Le “riduzioni” in Paraguay? Non erano lager, Avvenire 04/05/2000.

Un approfondimento più dettagliato su questo tema è consultabile nel dossier intitolato: Razzismo ed eugenetica nascono nell’ateismo materialista.

 

Voltaire

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Il paladino della “(in)tolleranza” Voltaire (1694-1778), profondo anticlericale e illuminista, ebbe a scrivere:

«Sbarco nel paese della Cafraria, e comincio a ricercare un uomo. Vedo macachi, elefanti e neri. Tutti sembrano avere un baleno di una ragione imperfetta. Tutti hanno un linguaggio che non capisco e tutte le loro azioni sembrano ugualmente essere relazionate con qualche causa. Se dovessi giudicare le cose per il primo effetto che mi causano, crederei, inizialmente, che tra tutti questi enti l’elefante è l’animale ragionevole. Però, per non scegliere futilmente, prendo i piccoli di queste vari bestie. Esamino un piccolo di nero di sei mesi, un piccolo di elefante, un macachetto, un leonetto, un canetto. Vedo, senza dubbio, che questi giovani animali hanno incomparabilmente più forza e destrezza, più idee, più passioni, più memoria del negretto ed esprimono molto più sensibilmente tutti i loro desideri che quell’altro. Però, dopo un tempo, il negretto ha tante idee quante tutti loro. Mi dò questa definizione: l’uomo nero è un animale che ha lana sulla testa, cammina su due zampe, è quasi tanto pratico quanto una scimmia, è meno forte che gli altri animali della sua taglia, possiede un poco più di idee ed è dotato di maggior facilità di espressione. […] Vado alle regioni marittime dell”India Orientale. Adesso sono uomini d’un bel tono giallastro, non hanno lana, ma hanno la testa coperta da grande criniere nere. […] Incontro una specie ancora più singolare che tutte queste. È un uomo vestito bene con un lungo abito nero, che si dice fatto per istruire agli altri [un prete, N.d.A.] Tutti questi uomini che vedi, mi dice lui, sono nati da uno stesso padre. E, allora, mi racconta una lunga storia. Però, quello che questo animale dice mi pare molto sospetto. Mi informo se un nero e una nera, di lana nera e naso piatto, generano qualche volte bambini bianchi, di capelli biondi, naso adunco ed occhi blu. Mi hanno risposto di no, che i neri trapiantati, per esempio, alla Germania sono rimasti a generare neri»145Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1753)

 

Lo storico italiano Franco Cardini, ordinario presso l’Università di Firenze, ha commentato: «Non stupisce che il signor Voltaire ne difendesse i paladini» dello schiavismo, «tra cui gli illuministi francesi, spagnoli e portoghesi: anche lui aveva investito in azioni della “Compagnia del Maranhao” appoggiata dal Pombal»146Cardini F., Le “riduzioni” in Paraguay? Non erano lager, Avvenire 04/05/2000.

Nonostante ciò, Voltaire inaugurò la leggenda anti-gesuita e nel suo Candide (1759) «stravolse la realtà», presentando i gesuiti come fautori dello schiavismo e gli illuministi come liberatori. Proprio lui, prosegue lo storico italiano Cardini, che «aveva lucrato acquistando le azioni garantite dalla flotta portoghese inviata a acquistando la libertà india»147Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, pp. 75, 76.

 

David Hume e John Locke

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Il filosofo illuminista David Hume (1711-1776), scrisse nel 1748:

«Sospetto i Negri e in generale le altre specie umane di essere naturalmente inferiori alla razza bianca. Non vi sono mai state nazioni civilizzate di un altro colore che il colore bianco. Né individuo celebre per le sue azioni o per la sua capacità di riflessione… Non vi sono tra di loro né manifatture, né arti, né scienze. Senza fare menzione delle nostre colonie, vi sono dei Negri schiavi dispersi attraverso l’Europa, non è mai stato scoperto tra di loro il minimo segno di intelligenza»148Hume D., Of national characters, 1748

Come John Locke (1632-1704), anche Hume decise di investire i suoi risparmi nel commercio degli schiavi. Locke fu maestro del liberalismo anglosassone, simbolo dell’illuminismo inglese e azionista della Royal African Company che trafficava schiavi africani, per lui l’indiano d’America era assimilabile alle «bestie selvagge», per cui «potrà essere distrutto come un leone o una tigre»149citato in Losurdo D., Hegel, Marx e la tradizione liberale: libertà, uguaglianza, stato, Editori Riuniti 1988, p.95.

 

Arthur de Gobineau

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A porre le basi del pensiero razzista contemporaneo fu150Wikipedia, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane l’illuminista Arthur de Gobineau (1816–1882), autore del «Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane» (1853-1855).

In esso interpretò la storia umana affermando che la purezza della razza determina la capacità di sopravvivenza e di dominio sulle popolazioni inferiori.

Il concetto fu poi ripreso dall’ideologo del nazismo Rosemberg e dagli assertori dell’eugenetica.

 

Karl Marx

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Anche Karl Marx (1818-1883) aveva idee chiare sulla schiavitù. Ecco cosa scrisse:

«La libertà e la schiavitù costituiscono un’antagonismo. Mi riferisco alla schiavitù diretta, alla schiavitù dei neri in Suriname, in Brasile, nelle regione del Sud dell’Ameria del Nord. La schiavitù diretta è il pivot sopra il quale il nostro industrialismo quotidiano fa girare il macchinaio, il credito, ecc. Senza la schiavitù non ci sarebbe nessun cotone, senza cotone non ci sarebbe nessuna industria moderna. È la schiavitù che dà valore alle colonie, furono le colonie ad aver creato il commercio mondiale, e il commercio mondiale è la condizione necessaria per l’industria di macchina in grande scala. Senza schiavitù, l’America del Nord, la nazione più progressista, si sarebbe trasformata in un paese patriarcale. Abolire la schiavitù sarebbe spazzare l’America del Nord fuori dalla carta»151Marx K., Lettera a Pavel Vasilyevich Annenkov, Parigi 28 dicembre 1846, citata in Marx Engels Collected Works, International Publishers 1975, vol. 38, p. 95.

 

Friederich Nietzsche

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Anche Friedrich Nietzsche (1844-1900) non esitò a rivendicare la permanente validità della schiavitù quale fondamento della civiltà.

I suoi testi contengono riferimenti sprezzanti contro Beecher-Stowe, autrice della Capanna dello zio Tom, celebre romanzo abolizionista che tanta eco suscitò in Europa e in Germania.

In Umano troppo umano (1878), Nietzsche scrisse:

«Tutti desiderano l’abolizione della schiavitù, eppure bisogna ammettere che gli schiavi sotto ogni riguardo vivono più sicuri e più felici del moderno operaio e il lavoro degli schiavi è ben poca cosa rispetto a quello dell’operaio»152Nietzsche F., Umano troppo umano, 1878.

 

Il filosofo tedesco risentì chiaramente dell’influenza della nuova “scienza”, l’eugenetica, inventata in Inghilterra dall’antropologo (orgogliosamente ateo) Francis Galton, cugino di Darwin.

Ciò portò Nietzsche a scrivere: «La vita stessa non riconosce nessuna solidarietà, nessuna “uguaglianza di diritti” fra le parti sane di un organismo e quelle degenerate: queste ultime devono essere amputate. Avere compassione dei decadentés, concedere uguaglianza di diritti anche ai falliti, sarebbe la più profonda immoralità, sarebbe l’antinatura posta come morale»153Nietzsche F., La volontà di potenza.


 

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8. CONCLUSIONE SUL RUOLO DELLA CHIESA NEL COLONIALISMO

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Come in tutte le vicende storiche e umane dell’Occidente, il cristianesimo ebbe un ruolo non indifferente nell’epoca coloniale.

Abbiamo stigmatizzato il comportamento violento di tanti cristiani e religiosi nei confronti degli indios, confermando la base di verità presente in ogni leggenda nera.

Eppure è stato anche analizzato il pochissimo peso sociale della Chiesa negli Stati europei (anche i sedicenti “cattolici”) che promossero la colonizzazione, il boicottaggio statale dei documenti papali a favore degli indios nonché l’approccio moderato e più umano da parte della Spagna (una delle vittime illustri della leyenda negra).

Inoltre, abbiamo elencato i numerosi pronunciamenti ufficiali dei Pontefici dell’epoca contro la schiavitù, contro la violenza verso i nativi e a favore dei loro diritti. Tantissimi vescovi e religiosi (da Francisco da Vitoria a Bartolome de Las Casas) sono tuttora ricordati come “protettori degli indios e l’esperienza delle reduciones gesuite sono illuminanti esempi di rispettosa alleanza tra il mondo cattolico e i nativi contro i colonizzatori europei.

Abbiamo risposto alle accuse più frequenti, ovvero al tema delle conversioni forzate nel Nuovo Mondo, all’imposizione della modernità, alla presunta cancellazione della cultura indigena e alla depredazione delle colonie.

Infine è stato osservato che proprio i promotori della leggenda nera sul ruolo della Chiesa nel colonialismo, gli illuministi, furono ampiamente a favore della schiavitù, promossero il razzismo scientifico e furono azionisti nel commercio degli schiavi.

Lo storico Franco Cardini, ordinario presso l’Università di Firenze, ha infatti celebrato «la lotta senza quartiere dei missionari cattolici e protestanti contro lo schiavismo», osservando che anche quando non vi fu un’opposizione diretta da parte dei religiosi che accompagnavano i conquistatori europei, essi cercarono comunque «in molti modi di rendere più umano»154Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza 2023, p. 71 il colonialismo.

 
 

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Le Case Magdalene e la falsa storia di cui è accusata la Chiesa

Magdalene SistersCon il film “Magdalene” (2002) di Peter Mullan è esplosa la polemica delle case religiose irlandesi in cui finirono diverse donne orfani, prostitute o meritevoli di “correzione” secondo la mentalità dell’epoca. In questa ricostruzione dello scrittore Francesco Agnoli osserviamo e rispondiamo alle accuse rivolte alla Chiesa cattolica.


Alzi la mano chi non ha letto che violenza e pedofilia erano “endemici” nelle istituzioni religiose d’Irlanda tra gli anni Trenta e Novanta del Novecento. Chi non ha visto il film Magdalene, subito premiato, naturalmente, al festival di Venezia, e non si è sentito civilissimo, bravissimo, illuminatissimo, nello stigmatizzare le malvagità di preti e suore.

Chi non ha sentito spiegare che per forza, quelli là fanno professione di castità, vivono contro natura, e poi fanno sesso coi ragazzini, o li picchiano per sfogare le loro frustrazioni. Santa indignazione, unita alla consapevolezza di una superiorità morale! Unita ad una certa goduria in moltissimi Catoni odierni che fiondano giudizi definitivi, categorici, conclusivi. Non tanto sui peccati, come sarebbe anche giusto, ma sui peccatori. Non sui peccatori, come singoli, come esempi della fallibilità umana e della nostra miseria, bisognosa sempre di perdono e di salvezza, ma come emblemi e simboli di una categoria, quella sì, tutta intera, condannabile e colpevole:  quella dei sacerdoti, dei religiosi, dei seguaci di Cristo, in generale.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 

1. COS’ERANO LE CASE MAGDALENE IRLANDESI?

La realtà sfugge alle semplificazioni ideologiche, alle strumentalizzazioni, alle generalizzazioni, ai “razzismi” ed alle indignazioni a senso unico, in cui l’obiettivo è deciso a priori, per odio ideologico. Anzitutto, per giudicare con un po’ di conoscenza, non sull’onda dell’emotività scatenata da denunce, amplificazioni giornalistiche o da film come Magdalene, ma con un minimo di volontà di inquadrare i fatti nella storia, occorre ricordare, con Vittorio Messori, che le industrial schools, i riformatori e i Magdalen’ s Institutes, irlandesi, «prima ancora che case religiose, erano “riformatorî giudiziari”, “case di correzione minorile”, in diretto collegamento con il ministero della Giustizia e la magistratura della Repubblica d’Irlanda. La gestione, affidata a congregazioni religiose (avviene tuttora anche in Italia, dove le suore sono ancora presenti nelle carceri femminili e in molti altri, civilissimi, Paesi del mondo), era sottoposta al controllo degli ispettori dello Stato, che esigeva dalle suore rigorosa sorveglianza e disciplina sulle ospiti e teneva le monache responsabili in caso di fuga o rivolta» (Corriere, 14/9/2002).

Case di correzione, soprattutto minorile: nei riformatori finivano i giovani condannati per reati penali; nelle Industrial School, le workhouse irlandesi, i figli rifiutati, abbandonati, orfani, non criminali ma potenzialmente tali; nelle Magdalene ragazze povere, respinte dalle stesse famiglie, prostitute o a rischio di cadere nella prostituzione…persone insomma, assai problematiche. Come alternativa alla strada, alla delinquenza, alla disperazione, alla galera, dunque.

 

 
 

2. COME NASCONO LE CASE MAGDALENE IRLANDESI?

Come erano nate queste case con un fine simile tra loro, sebbene diverse? Le case di correzione, divenute presto case di lavoro (workhouses), nascono nell’Europa del XVI secolo, dopo la Riforma, nel mondo protestante e calvinista. Il medioevo aveva guardato alla povertà con profondo rispetto, insistendo sulla povertà di Cristo stesso. Tale elogio della povertà era anche degenerato, talora, in pauperismo. In seguito alla Riforma, alla diffusione della mentalità calvinista, che lega predestinazione e ricchezza, salvezza eterna e successo materiale, la povertà diviene invece sempre di più una maledizione, una colpa, un reato contro l’ordine pubblico. Che le città, gli stati puniscono duramente. Anche Lutero, l’ideologo dei principi tedeschi nella lotta contro i contadini, nella prefazione al Liber vagatorum, rappresenta i vagabondi come alleati, familiari del diavolo.

Poveri, delinquenti, vagabondi, orfani ecc., divengono oggetto di repressione anche per l’affermarsi della mentalità borghese e capitalista. Da questo momento in poi, hanno scritto E. Gallo e V. Ruggiero, ne “Il carcere in Europa” (Bertani, 1983), “gli stracci del diseredato non simboleggiano più le piaghe di Cristo, ma il marchio dell’accidia”. E’ l’Inghilterra anglicana e secolarizzata ad aprire le danze: i beni della Chiesa vengono sequestrati, migliaia di poveri che vivevano grazie ad essi rimangono senza sussidi ed aiuti, perché la Corona incamera tutto ciò che può e rivende a ricchi e mercanti. Così Enrico VIII emette l’editto contro il vagabondaggio, col quale vengono impiccati 75.000 vagabondi. Dopo Enrico le cose, se possibile, peggiorano: per i mendicanti sono previsti la gogna, la fustigazione, il marchio di ferro rovente, il taglio degli orecchi; con Edoardo VI la riduzione in schiavitù, con Elisabetta la morte.

E’ proprio Elisabetta I, la feroce nemica dei cattolici, a istituire nel 1576 le “Houses of correction”, imitata a breve da altri paesi protestanti, in Germania, in Svizzera, in Olanda. Nelle case, che hanno una funzione di rieducazione attraverso il lavoro, sono previste sanzioni rigide, corporali, fustigazioni, bastonate sulla schiena. Del resto si tratta di luoghi che assomigliano un po’ a case di recupero, un po’ a prigioni: una sorta di via di mezzo, insomma, in cui è prevista la durezza delle prigione, ma anche, talora, il tentativo di redimere in qualche modo gli internati. Sono gli anni in cui in Inghilterra i reati contro la proprietà crescono ogni giorno, insieme alle pene. La classe dirigente borghese e nobiliare, lanciata sempre più verso la privatizzazione delle terre, con relativo sfratto dei piccoli contadini, e l’industrializzazione, piega il mondo alla sua visione. I bambini orfani, poveri, finiscono spesso sfruttati sin dai quattro anni di età: lavorano duramente, ore e ore al giorno. Solo nel 1834 per la prima volta il Parlamento inglese vieta il lavoro ai bambini sotto i 9 anni, ma senza grossi risultati. Questa è l’atmosfera del tempo nel paese della rivoluzione industriale. Nelle workhouses la commistione tra poveri, delinquenti, vagabondi e bambini, espone quest’ultimi al rischio di abusi di ogni tipo, anche sessuali.

Si annuncia piano piano l’Ottocento, il secolo nero delle donne e dei bambini, triturati nelle miniere, nelle fabbriche, nella workhouses. “Persino i vecchi e gli ammalati”, scrive il Trevelayn, nella sua “Storia d’Inghilterra”, quando non avevano tetto, finivano nelle workhouses, “trattati con la stessa durezza che se vi fossero entrati per loro colpa”. Di queste istituzioni parla con toni durissimi Karl Marx; vi fa riferimento Dickens, nel suo “Oliver Twist”, storia di un bambino orfano maltrattato e sfruttato in una di queste strutture; anche John Ruskin nel suo “La lampada della memoria”, ci dà notizie non lusinghiere su questi luoghi. Non pochi storici parlano di una vera e propria mentalità schiavista, a danno delle classi meno abbienti, e dei diseredati, difesa e sostenuta dal potere e da molti intellettuali. Del resto tutto va calato nei tempi, e se l’Ottocento ha visto di tutto, in nome del progresso e dell’arricchimento, il Novecento vedrà altri luoghi di correzione “attraverso il lavoro”, ben peggiori: il lager, i gulag, i laogai…

Dall’Inghilterra anglicana e secolarizzata, si diceva, le workhouse si diffondono anche altrove. Soprattutto nei paesi protestanti e nordici: Germania, Svizzera, Scandinavia…In Olanda nel 1596 viene inaugurata ad Amsterdam la Rasp-huis, casa di lavoro per la dilagante corruzione giovanile. Qui mendicanti, giovani malfattori, ladri e vagabondi vengono sottomessi al lavoro forzato: in condizioni dure, certamente, ma con la possibilità di sopravvivere, e come pena intermedia tra la semplice multa o la pena di morte. La rigidità del calvinismo, e della mentalità borghese olandese, non permette certo uno sguardo molto attento e positivo, sui poveri e gli emarginati. Diversa è la condizione in Italia, dove la mentalità cattolica fa sì che i luoghi di rieducazione siano meno improntati al lavoro forzato, alla produttività, e di più alla rieducazione vera e propria. Sorgono dovunque ordini religiosi dediti alla creazione di scuole ed ospedali. Non sono neppure paragonabili le workhouses anglosassoni o olandesi, alle istituzioni italiane, di solito proprio perché dietro queste ultime vi è, prima del profitto o della necessità di tutelare l’ordine sociale, la carità cristiana. Le vicende di Don Pavoni, di Don Bosco, di santa Maddalena di Canossa, della Contessa di Barolo, di santa Tersa Verzeri, tutti fondatori di scuole, e di luoghi per l’assistenza di poveri, orfani, piccoli lavoratori, ci dicono proprio che di fronte alla emergenza povertà e delinquenza, propria dell’Ottocento, il cattolicesimo rende più miti le pene e non vede nel lavoro coatto il principale strumento di redenzione per i corrigendi, né, nella loro produttività, il rimedio alla loro inutilità. Il desiderio di cercare il loro ravvedimento è superiore alla volontà di renderli produttivi. Lo si sa, e spesso gli accusatori del cattolicesimo, elogiano il rigido calvinismo nordico, deprecando l’improduttivo assistenzialismo cattolico. Del resto non sarà l’inglese, ateo, darwiniano, vittoriano, Francis Galton, il cugino di Darwin, a proporre la sterilizzazione dei poveri, perché non vi siano più poveri, e quella dei delinquenti, degli alcolizzati, dei miseri, perché non vi siano più delinquenti? Avesse diretto una workhouse, sarebbe stato molto tenero…

 

 
 

3. IL RAPPORTO RYAN (2009) E LE ACCUSE

Se torniamo all’Irlanda cattolica, le case di correzione ottocentesche vi nascono sul modello inglese e scozzese. Non dimentichiamo che l’Irlanda giace sotto la Corona inglese; che vive un periodo drammatico, di povertà spaventosa, di carestia e quindi, anche, di forte delinquenza e devianza, che durerà a lungo. “I quartieri poveri di Dublino”, scrive Engels, “sono dal canto loro quanto di più orrendo e ripugnante possa vedersi al mondo”. Povertà, prostituzione, sfruttamento minorile, sono normali, qui come in Inghilterra, o ancora di più. E’ in questo contesto che occorre collocare i riformatori, le industrial School e le Case di Maddalena irlandesi: in una società pericolosa, difficile, dura. In queste case, di solito dello Stato, lavora personale religioso, cattolico o protestante: quello giudicato più adatto, anzitutto dal popolo, a fare il possibile per rendere le case non vere e proprie prigioni, ma qualcosa di diverso. Ma proprio la natura di questi luoghi e la natura degli ospiti, ci può far capire quanto possa essere stato difficile viverci, non solo per i reclusi, ma anche per le suore e i religiosi, chiamati a fare i secondini. Ve ne furono di indegni? Di impreparati? Ve ne furono di quelli/e che abusarono, che vennero meno alla carità cristiana, che si macchiarono di colpe orrende? Senza dubbio, purtroppo. Come in tutte le prigioni, come in tutti gli Educandati laici, statali, come in tutti i riformatori del mondo e di ogni tempo. Anzi, io credo di meno.

Il rapporto Ryan del 2009, molto duro nei confronti della Chiesa, non dimentica di accennare, sebbene brevemente, anche alla “filantropia religiosa”, alle opere nate da “volontary contributions and, often, volontary labour”. Lo stesso rapporto denuncia, su 25.000 allievi di collegi, riformatori e orfanatrofi nel periodo che esamina, “253 accuse di abusi sessuali da parte di ragazzi e 128 da parte di ragazze, non tutte attribuite a sacerdoti, religiosi o religiose, di diversa natura e gravità, raramente riferite a bambini prepuberi” (Preti pedofili, un panico morale di Massimo Introvigne). Gli abusi sessuali, denuncia il rapporto, erano endemici “nelle istituzioni per ragazzi”, sebbene sia impossibile determinare l’estensione del fenomeno e distinguere tra “toccamenti” e violenze: si trattò cioè di rapporti omosessuali, tra impiegati, inservienti, talora sacerdoti, talora laici, e ragazzi. Per lo più furono casi di efebofilia omosessuale (cioè di rapporti tra adulti e adolescenti), che papa Benedetto XVI ha condannato con estrema forza e durezza in quanto azioni abominevoli.

Ha scritto il papa, rivolgendosi alle vittime, nella sua Lettera ai cattolici dell’Irlanda: “Avete sofferto tremendamente e io ne sono veramente dispiaciuto. So che nulla può cancellare il male che avete sopportato. È stata tradita la vostra fiducia, e la vostra dignità è stata violata. Molti di voi hanno sperimentato che, quando eravate sufficientemente coraggiosi per parlare di quanto vi era accaduto, nessuno vi ascoltava. Quelli di voi che hanno subito abusi nei convitti devono aver percepito che non vi era modo di fuggire dalle vostre sofferenze. È comprensibile che voi troviate difficile perdonare o essere riconciliati con la Chiesa. A suo nome esprimo apertamente la vergogna e il rimorso che tutti proviamo. Allo stesso tempo vi chiedo di non perdere la speranza. È nella comunione della Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo, egli stesso vittima di ingiustizia e di peccato. Come voi, egli porta ancora le ferite del suo ingiusto patire…”. E ai carnefici: “Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete perso la stima della gente dell’Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli. Quelli di voi che siete sacerdoti avete violato la santità del sacramento dell’Ordine Sacro, in cui Cristo si rende presente in noi e nelle nostre azioni. Insieme al danno immenso causato alle vittime, un grande danno è stato perpetrato alla Chiesa e alla pubblica percezione del sacerdozio e della vita religiosa”.

Nelle scuole per donne, invece, gli abusi erano rari, non solo, ma avvenivano per lo più ad opera di “impiegati o visitatori o quando le ragazze erano in posti esterni” agli istituti. Aggiunge il rapporto che l’abuso sessuale sulle ragazze da parte di laici fu generalmente preso sul serio dalle suore e il personale laico fu dimissionato, quando venne scoperto colpevole. Inoltre “le ragazze che subirono abuso riportarono che ciò accadeva soprattutto quando venivano mandate da famiglie ospiti per il weekend, per lavoro o per ferie” (rapporto Ryan, Conclusions, 6.18, 6.19, 6.28). E sebbene aggiunga che spesso le suore non credevano alla storie raccontate dalle ragazze, si deduce quello che doveva essere intuibile: che nell’Irlanda ridotta alla fame e abbruttita dalla miseria di allora, le violenze fisiche sulle donne erano più facili fuori, che dentro le strutture protette!

 

 
 

4. LE PUNIZIONI CORPORALI E LA LORO DIFFUSIONE

Quello su cui si sofferma di più il rapporto Ryan, in verità, è il ricorso a punizioni corporali, a volte dure e violente. Valutiamo l’accusa, non per sminuirla, ma per comprenderla: che ex internati in case-carceri denuncino di non essersi trovati poi benissimo, lo possiamo immaginare. Una donna italiana, allevata in un educandato statale italiano, recentemente affermava di aver vissuto “come in prigione”, e di aver visto brutture e drammi terribili, come il suicidio di un’amica, che “aveva molti problemi in famiglia e non riusciva a parlarne” (La Voce della Campania, ottobre 2002). Forse, di fronte a tali denunce dovremmo anzitutto chiederci: quanto esse sono “inevitabili”? Inoltre sono tutte “vere”? Quanto considerano che la durezza del luogo in cui si trovavano non doveva essere tanto peggiore, anzi!, da quello che avrebbero vissuto fuori, sulla strada, tra prostituzione, miseria e criminalità? Quanto le accuse tengono conto della difficoltà del compito affidato agli educatori stessi, costretti a fare in qualche modo i secondini per tutta la vita? Quanto vengono, talvolta, enfatizzate? Tanto più se come è successo in Irlanda, dietro la denuncia di abusi e violenze subite, vi era la possibilità offerta dal governo nel 2002 di ottenere dei risarcimenti in denaro. Tanto più se chiedere questi risarcimenti poteva giovare a chi non viveva certamente condizioni agiate.

Ricordava alcuni anni fa Andrea Galli: “Lo Stato (Irlandese), che deve ancora finire di pagare tutti, si calcola che alla fine avrà di gran lunga superato il miliardo di euro negli esborsi. Immancabili gli “inciuci” del sistema. Pochi giorni fa è nata una polemica quando si è saputo che il Redress Board ha versato 83,5 milioni di euro agli studi legali che avevano assistito i denuncianti, alcuni dei quali messisi dal 2002 in cerca di ex alunni delle industrial schools finiti anche in Nuova Zelanda, Canada o Stati Uniti, per far conoscere loro l’interessante proposta statale” (Avvenire, 12/8/2007). In secondo luogo, anche riconoscendo l’esistenza di abusi e violenze, odiosi e deprecabili, si può fingere che la cosa riguardi solo i luoghi gestiti da religiosi cattolici, come si sta facendo? E gli stessi istituti retti da protestanti? E la sorveglianza dello Stato? Cosa avrebbe garantito, lo Stato irlandese di allora, per orfani, diseredati, prostitute, minori condannati ecc., senza l’aiuto di volontari religiosi? Si può, ancora, fingere che tutte le suore e tutti i religiosi siano stati approfittatori, sadici e delinquenti, come avviene per esempio nel film Magdalene?

Quanto alle punizioni corporali anche qui sarebbe opportuno, distinguere, cercare di capire, non fare di tutta l’erba un fascio. Immaginare ad esempio quale logorio rappresenti fare ogni giorno il guardiano, il secondino, magari con tutto l’amore possibile, tentativamente, ma anche con tutta la miseria che ci portiamo addosso? Non sarebbe difficile capirlo, se solo si volesse. Se non vi fosse nella nostra cultura quell’odioso pregiudizio illuminista che ci porta a guardare sempre tutto con aria di sopracciò, e di superiorità. Ricordo quando insegnavo in una scuola professionale e avevamo di questi ragazzi, figli della prostituzione, talora senza genitori o con altri drammi alle spalle: vivevano in case laiche, gestite da laici, con soldi statali ed impiegati statali. Un giorno una di queste ragazze, a 14 o 15 anni, estrasse una lametta e tagliò tutto il braccio di una professoressa. Non era una ragazza facile: chi la accudiva tutti i giorni, talora avrà perso la pazienza, ne sono certo. Talora avrà urlato, o alzato le mani.. Senza essere un mostro. Non era un mostro neppure Vincenzo Muccioli, che ha dato la sua vita per salvare migliaia di drogati dal degrado più nero. Eppure quanti hanno voluto dipingere san Patrignano, per motivi ideologici, come un lager, come una prigione, perché talora, in una simile realtà, successero violenze e soprusi!

Ma, soprattutto, inquadriamo questi fatti, l’uso cioè di pene dure, corporali, di punizioni severe, nel loro contesto storico. Lo stesso Mullan, autore del film Magdalene, ha esplicitamente affermato che i metodi utilizzati in Irlanda erano gli stessi della Gran Bretagna. Non solo nelle Workhouses, ma anche nei collegi bene, delle élite inglesi. Non era così anche da noi, sino a 50 anni fa? Le pene corporali, le punizioni severe, le bacchettate sulle mani, erano considerate normali non dico nei riformatori, ma nelle scuole normali. E se allarghiamo lo sguardo possiamo pensare a quello che succedeva nei nostri manicomi statali, non al Cottolengo gestito dalle suore,  prima che la legge Basaglia non eliminasse, ma privatizzasse i drammi: violenze, botte, abusi, reclusioni… Anche qui, però: non di tutti, anzi, forse di una minoranza. Possiamo, ancora, pensare ai lager per bambini orfani dell’est europeo, gestiti dallo Stato laico, comunista ed ateo: imparagonabili, per brutalità, con qualsiasi altra struttura per bambini della storia! Si pensi solo che le recenti indagini sulla Germania comunista dell’Est hanno rivelato che negli Istituti statali per ragazzi “dissidenti” tra il 1964 ed il 1989, costoro venivano umiliati, picchiati, spogliati in pubblico e non di rado abusati dai loro guardiani! Si parla di 4000 minori su cui vennero compiute nefandezze a sfondo sessuale e non solo (vedi “Bambini ombra dietro i muri” di Torgau, Rinck Verlag, Rostock, 2009; www.heidemarie-puls.de, Il Foglio, 14/7/2010). Nessuno però ci ha fatto mai un film, e sulla stampa di sinistra non è comparso neppure un articolo, o quasi, quando queste verità, proprio di questi tempi, sono venute alla luce!

Possiamo pensare, per fare un altro esempio, ai “figli dello stato”, come li chiama Michael D’Antonio nel suo “La rivolta dei figli dello stato” (Fandango), in cui si racconta come in un centinaio di istituti americani nel Novecento (sino al 1974)  migliaia e migliaia di bambini, spesso normali, abbiano subito violenze, abusi sessuali, “lavori forzati”, elettroshock, sterilizzazioni chirurgiche, sperimentazione di farmaci, promosse dall’ateissimo movimento eugenetico e dallo scientismo galtoniano che consideravano alla stregua di oggetti di ricerca. Possiamo rammentare, ancora, un caso attuale, di cui nessuno parla: le laicissime e “liberissime” scuole Odenwald, il liceo delle élite tedesche sessantottine, in cui, come ha dichiarato l’attuale preside, si sono consumati, in anni recentissimi, “violenze dei professori sugli allievi e degli allievi più grandi sui più piccoli. Stupri di gruppo consumati con la complicità dei supervisori. Maestri che provvedono a distribuire alcol e droga. Studenti costretti a prostituirsi nel fine settimana per soddisfare qualche visitatore amico degli insegnati…” (Tempi, 5 maggio 2010).

Come ha spiegato il laico Brendan O’Neill su The Telegraph– il McAleese Report avviato per analizzare i fatti, non ha individuato neanche un caso di abuso sessuale da parte delle suore, ma soltanto alcuni casi circoscritti di punizioni corporali, sulla linea della prassi nelle scuole anglosassoni degli anni ’60-’80.

 

 
 

5. IDEOLOGIA ANTICATTOLICA, GENERALIZZAZIONE E CALUNNIE

Quando si insiste sull’Irlanda cattolica, sulle sue suore e i suoi sacerdoti, per screditarne in toto la storia, dunque, non è la sacrosanta condanna dei colpevoli, che disturba. Dicessero anche che preti e suore che hanno abusato, meritano pene terribili, non ci sarebbe certo da obiettare. Lo ha detto chiaramente Benedetto XVI. Quello che disturba è l’ipocrisia, il tentativo di generalizzare, il voler fingere che esista un’umanità senza peccato che può additare come reproba un’altra parte dell’umanità, colpevole, per colpa originaria ed indelebile, di seguire Cristo, talora con grandezza, talora tradendone  e smarrendone l’insegnamento. Fermiamoci un attimo e pensiamo: perché erano le suore, per secoli, in Irlanda, a prestarsi a stare lì, negli istituti di pena, per secoli, e non per denaro! Erano sempre e inequivocabilmente mostri sadici e crudeli le suore, come il film di Mullan cerca di farci vedere, mostrando solo malvagità e perversioni? Mostrandoci, lui scozzese e marxista, un universo irlandese e cattolico di trucida violenza, ha fatto opera storica, documentaria, o ha semplicemente affermato il suo pregiudizio? Si può credere alla obiettività di uno che dichiara che la “Chiesa…non differisce troppo dai talebani, istiga alla crudeltà anziché alla compassione, trascinando la società in una spirale di follia collettiva”? (Corriere 31/8/2002). No, certamente. Mullan, il suo film, i suoi numerosi e ardenti discepoli, servono solo a nutrire odi e pregiudizi, più duri da spezzare delle pietre. Simili a quelli che portarono i primi cristiani ad essere sbranati dalle belve, accusati di adorare un asino o di mangiare carne umana; non lontani da quelli che portano oggi i cristiani ad essere uccisi ogni giorno in Cina, India, Asia… (vedi Renè Guitton, Cristianofobia, Lindau, 2010). L’universo fittizio creato da Mullan e da tanti altri personaggi, alimenta la falsificazione e l’inganno.

Penso, quanto all’inganno, al libro di Kathy O’ Brien  che narra di terribili violenze che lei avrebbe subito nelle Magdalen Laundries: un bestseller da 350.000 mila copie, spacciato come vero, ma smentito prima dalle suore (“La O’Brien non è mai stata da noi”), poi, con sdegno, dalla stessa famiglia dell’autrice ed infine anche da un giornalista, Herman Kelly di The Mail on Sunday, che ha dedicato un intero libro, “La vera storia di Kathy, per smontare l’operazione mediatica ed economica della scrittrice. Penso a sacerdoti innocenti, come padre Kinsella o padre Brendan Lawless, vittima di una donna che era pronta ad accusarlo pubblicamente di violenza, se egli non le avesse dato del denaro; penso ai numerosi casi di religiosi ingiustamente accusati per estorsione per denaro, cui Joe Duffy, conduttore di RTE radio 1, ha dedicato una trasmissione di oltre un’ora alcuni anni fa; penso al caso di Paul Anderson, “condannato a quattro anni di carcere per avere accusato Padre X, un sacerdote dell’arcidiocesi di Dublino rimasto anonimo, di aver abusato sessualmente di lui 25 anni fa, durante la preparazione alla prima comunione. Il giudice Patricia Ryan ha spiegato nella lettura della sentenza come Anderson, personaggio segnato da tossicodipendenza, tendenze suicide e debiti personali, avesse costruito racconti infamanti contro Padre X per un fine molto semplice: estorcere quattrini alla Chiesa” (Avvenire, 2/8/2007); penso ancora, al clamoroso caso di suor Nora Wall. Quest’ultima è un’anziana ex suora della congregazione delle Sisters of Mercy, condannata all’ergastolo per lo stupro di una minorenne, nel 1997: la sua colpevolezza era stata affermata in seguito a ricordi emersi confusamente nel corso di una psicoterapia della presunta vittima! Nora è stata poi assolta due anni dopo, una volta constatata la sua assoluta innocenza. Per due anni ella fu per gli irlandesi la suora pedofila, la religiosa che procurava bambini ai sacerdoti pedofili, il mostro dell’Irlanda, il “diavolo Wall”, sbattuta in tv e sui giornali con assidua frequenza. Alla sua assoluzione i giornali parlarono di “the state’s most extraordinary miscarriages of justice”.

Penso, infine, agli otto vescovi irlandesi, su ventisei che ve ne sono in quel paese, accusati ingiustamente di pedofilia, come ricorda Rory Connor (www.irishsalem.com) e alla battaglia di Florence Horsman Hogan, una infermiera protestante, cresciuta in una specie di Magdalene Laundry delle Sisters of Mercy, che ha creato una associazione, Let our voice emerge, con cui vuole ricordare anche il bene fatto da tante suore a ragazze molto problematiche, come era lei: anche perché, ha dichiarato, le vere vittime, le cui terribili ferite non possono che generare profonda compassione, non siano confuse con gli approfittatori, i furbi, con coloro che cercano solo fama o risarcimenti economici, o che sono pronti a cavalcare gli scandali per motivi di pura avversione ideologica.

Francesco Agnoli
Da “Chiesa e pedofilia. Colpe vere e presunte. Nemici interni ed esterni alla Barca di Pietro” (Cantagalli 2011)

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Il falso mito di Ipazia: la morte ed il vescovo Cirillo

Ipazia martire della libertà di pensiero? La verità sulla morte e l’assassinio della filosofa Ipazia di Alessandria. Davvero fu uccisa dal vescovo Cirillo e dai cristiani? Era una scienziata pericolosa per il cristianesimo? Una femminista? Ecco cosa emerge analizzando le fonti storiche e gli studi di storici accreditati..

 
 

La morte di Ipazia d’Alessandria, filosofa e matematica vissuta nel V secolo d.C., ha iniziato ad essere usata come argomento anti-cristiano a partire dal XVIII secolo quando John Toland, filosofo razionalista irlandese, pubblicò il libro intitolato Ipazia. Dopo ben 13 secoli dal drammatico fatto, dunque, durante i quali fu scarsissimo l’interesse verso la filosofa.

Ipazia venne dipinta come libera pensatrice deista, campionessa del razionalismo illuminista, uccisa da stupidi cristiani. La strumentalizzazione ideologica della sua persona entusiasmò tutti gli avversari del cattolicesimo, come Diderot, Voltaire, Gibbon, Charles Kingsley, Bertrand Russell e Carl Sagan.

Proprio quest’ultimo, in una serie televisiva trasmessa nel 1980, sostenne addirittura che Ipazia fu l’ultima studiosa a lavorare nella Grande Biblioteca di Alessandria, suggerendo che i suoi assassini avrebbero subito dopo preso d’assalto anche tale edificio. Inutile ricordare che quando nacque Ipazia, la Biblioteca di Alessandria a cui Sagan si riferisce non esisteva da oltre un secolo.

Oggi l’uccisione di Ipazia è un immancabile granello del rosario anticlericale, sgranato assieme alle crociate, l’inquisizione, Giordano Bruno, Galileo ed il nazismo di Pio XII.

In questo dossier (in continuo aggiornamento) analizziamo le fonti ed il loro racconto della tragica morte a cui la filosofa greca andò incontro, citando il contributo di diversi storici per chiarire cosa realmente accadde.
Al di là della leggenda.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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1. CHI ERA IPAZIA?

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Ipazia di Alessandria nacque fra il 355 e il 370 d.C. ad Alessandria d’Egitto. Le notizie che abbiamo su di lei sono alquanto scarse.

Poche notizie arrivano dall’unica fonte contemporanea, la Historia ecclesiastica, di Socrate Scolastico, avvocato presso la corte di Costantinopoli e contemporaneo di Ipazia.

Una seconda fonte, molto più tardiva, è la Vita di Isidoro (conservata in parte attraverso una citazione in Souda, un’enciclopedia bizantina scritta nel X secolo d.C.) scritta da Damascio, filosofo neoplatonico vissuto un secolo più tardi (tra il 458 e il 538 d.C.

Lo storico Moreno Morani, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Medioevo all’Università degli Sudi di Genova, ha spiegato infatti: «Le notizie su Ipazia sono scarsissime. Abbiamo un’unica fonte storica contemporanea, Socrate Scolastico [teologo cristiano], e pochi altri riferimenti giungono da autori contemporanei o di poco posteriori».

Proprio a causa della scarsità delle fonti Edward Gibbon nel suo celebre (quanto storicamente screditato) Declino e caduta dell’Impero romano (1776) poté inventare l’agiografia di Ipazia “martire della scienza”.

Il mito di Ipazia, infatti, vuole che la celebre astronoma e matematica razionalista, l’ultimo filosofo secolare dell’antichità, fu brutalmente assassinata dai cristiani fanatici che, con tale morte violenta segnarono la fine dell’illuminato e tollerante mondo classico e avviarono la storia nella discesa verso la superstizione e l’ignoranza medievale.

Più che per la sua vita, Ipazia è nota, purtroppo, per la sua tragica morte. Da allora questa storia sarà ripetuta con poco o nessun sforzo per verificare quanto di ciò sia vero.

 

1.1 Ipazia e la scienza: una mediocre matematica.

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Ipazia venne avviata dal padre, Teone di Alessandria (ca. 335-405 ca.), allo studio della matematica, della geometria e dell’astronomia. Proveniva infatti da una ricca famiglia che faceva parte dell’élite civica di Alessandria. Accanto a queste discipline affiancò l’interesse per la filosofia ed ebbe un ruolo attivo nella vita civile e nella politica di Alessandria.

Le sue opere sono andate tutte perdute: si dice che, pur non avendo elaborato un vero e proprio sistema filosofico, si interessò al neoplatonismo, studiando Platone e Plotino. Alcuni blogger moderni le attribuiscono invenzioni scientifiche come l’astrolabio, il densimetro in ottone graduato e l’idroscopio. Sono assurdità palesi (gli astrolabi e l’idroscopio precedono Ipazia di centinaia di anni!).

Ipazia era certamente una studiosa ma non inventò nulla e non scrisse nessuna opera originale, come tutti gli intellettuali suoi contemporanei si limitò a commenti sugli scritti di pensatori precedenti. A questo proposito occorre anche rivalutare la sua reputazione in matematica: il suo commentario sull’Arithmetica di Diofanto di Alessandria, infatti, fu così banale che lo storico della matematica dell’Università di Stanford, Wilbur Knorr, lo definisce «di così basso livello da non richiedere alcuna vera comprensione matematica»1W. Knorr, Textual Studies in Ancient and Medieval Geometry, Birkhauser 1990.

Ancora più campato per aria è il mito lanciato nel film Agora (2009), secondo cui Ipazia respinse il geocentrismo, scoprì le prove del modello eliocentrico (circa 1.128 anni prima di Copernico!) e le orbite ellittiche dei pianeti. La devozione greca verso la nobiltà del cerchio era così forte che perfino i contemporanei di Keplero non poterono accettare l’immagine “poco elegante” presentata dal suo modello: l’idea che Ipazia, figlia di un uomo che dedicò la vita allo studio del cosmo geocentrico di Tolomeo, avesse potuto pensare all’eliocentrismo è del tutto insostenibile.

L’esagerata enfatizzazione della visione scientifica di Ipazia ha un unico scopo: accreditare ancor di più il mito storico della “razionalista assassinata dall’ignoranza religiosa”.

 

1.2 Ipazia e la filosofia: una buona insegnante.

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Anche in questo caso la leggenda anticristiana enfatizza enormemente le capacità filosofiche di Ipazia. Spesso viene ripetuto che era “a capo della scuola neoplatonica di Alessandria”, creando l’immagine di un’istituzione moderna e prestigiosa con Ipazia nel ruolo di rettore.

Non si trattò di nulla del genere: la scuola di allora era semplicemente la casa dell’insegnante, frequentata su invito da un gruppo molto affiatato di studenti. Alessandria aveva numerosi filosofi neoplatonici che istruivano i loro discepoli in casa (o anche in spazi aperti).

E’ possibile che Ipazia ereditò gli studenti dal padre e Socrate Scolastico scrive che «molti [studenti] arrivavano ​​da lontano per ricevere i suoi insegnamenti» ( Historia ecclesiastica, VII 15), suggerendo che era nota oltre la città di Alessandria. Certamente fu un’ottima insegnante, nulla più.

 

1.3 Ipazia razionalista atea? Credeva nella divinazione

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Il regista Alejandro Amenábar, nel film Agora (2009), si sforza di presentare Ipazia come una libera pensatrice, probabilmente atea. Di fronte all’accusa di essere senza alcuna religione, Rachel Weisz, l’attrice che la interpreta, risponde: «Credo nella filosofia». Più avanti nel film, il vescovo Cirillo la descriverà come «una donna che ha dichiarato, in pubblico, il suo ateismo».

Ovviamente è un’invenzione totale degli sceneggiatori cinematrografici. Non è esattamente chiaro quali fossero le convinzioni di Ipazia se non che abbracciò la tradizionale e più conservatrice visione neoplatonica di Plotino (respingendo quella di Giamblico), il quale sviluppò la teoria di Platone sulle forme eterne teorizzando un complesso sistema metafisico/mistico formato da tre principi cosmici eterni: l’Uno, l’Intelletto e l’Anima.

I pensatori cristiani trovarono i principi cosmici neoplatonici molto compatibili con la loro visione trinitaria (e sul contrasto tra mondo materiale e spirituale) ed è noto che Sant’Agostino si rifece ampiamente a Plotino, soprattutto sul tema della libertà. Ma è anche vero il contrario: il filosofo greco Ammonio Sacca (175-242 d.C. circa), maestro di Plotino, era cristiano ed è considerato il fondatore del neoplatonismo. I padri della Chiesa orientale come Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa e Gregorio Nazianzeno, che vissero tutti prima del tempo di Ipazia, sposarono idee molto vicine al neoplatonismo.

Questo è il motivo per cui troviamo diversi cristiani tra gli studenti di Ipazia, ed almeno uno di essi fu un futuro vescovo (Sinesio di Cirene), anche se non c’è alcuna fonte che sostenga che lei stessa fosse cristiana.

Certamente è da escludere l’idea che fosse una specie di razionalista in stile moderno o addirittura atea. I neoplatonisti consideravano la matematica sacra e la ritenevano una chiave per svelare i segreti del Divino. Suo padre Teone, oltre che matematico, era un poeta e scrisse sulla divinazione e sui presagi leggibili dal comportamento degli uccelli, tra cui un’opera (perduta) intitolata Sui segni e l’esame degli uccelli e il gracidio dei corvi.

Sappiamo anche che Ipazia discusse degli Oracoli caldei, collegati alla sapienza egizia, con Sinesio di Cirene ed è noto che ha commentato il testo Almagesto di Tolomeo, dove si affronta sostanzialmente il tema dell’astrologia.

Come i neoplatonisti di allora, anche Ipazia probabilmente credeva in un gran numero di divinità ed esseri angelici. La corrente filosofica di Ipazia sosteneva l’idea di una divinità onnipotente, monistica ed incorporea. La filosofa di Alessandria aveva pochissimo in comune con i razionalisti moderni che spesso la strumentalizzano, qualunque anti-teista odierno troverebbe alquanto bizzarri i suoi insegnamenti.

 

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2. FU UNA FILOSOFA PERICOLOSA PER I CRISTIANI?

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Il mito di Ipazia sostiene che fosse una filosofa “pericolosa” per i cristiani a causa delle sue idee. Per questo, si afferma, il vescovo Cirillo sarebbe intervenuto per toglierla di mezzo. Altri sottolineano anche il ruolo decisivo che avrebbe avuto la presunta gelosia maschilista verso una donna di cultura.

Il classicista Luciano Canfora, ad esempio, scrive: «Il tema è certo imbarazzante. I cattolici sono di fronte a una scienziata alessandrina trucidata dai monaci cristiani perché non incline a conversioni di comodo ed un vescovo molto potente e ormai soverchiante rispetto al potere statale che si fa mandante morale della uccisione, plateale e sadicamente feroce, di una donna, che è anche una notevole scienziata, colpevole di non voler essere cristiana ma assertrice della filosofia e della scienza greca»2L. Canfora, Cirillo e Ipazia nella storiografia cattolica, OpenEdition Journals 2010.

Eppure nessuna fonte storica individua in questo il movente dell’uccisione di Ipazia, è una invenzione deliberata di Canfora. Anzi, è facilmente dimostrabile il contrario.

Ipazia si ispirava alla dottrina neoplatonica che influenzò notevolmente proprio lo sviluppo della filosofia cristiana. Quale colpa? Quale pericolosità? Erano più le convinzioni in comune con i cristiani che quelle distanti.

Il discepolo di Ipazia, Sinesio di Cirene, divenne vescovo di Tolemaide ed anche dopo la sua elezione all’episcopato continuò a considerare la filosofa alessandrina un punto di riferimentoTu, madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant’altri mai onorato», scrisse). Socrate Scolastico nella sua Historia ecclesiastica descrisse la stima per Ipazia da parte dei pagani e dei cristiani (aveva studenti di entrambe le parti) e tale lode per il suo sapere è coerente in tutte le fonti, cristiane o meno.

Socrate Scolastico afferma esplicitamente che fu uccisa nonostante la fama della sua saggezza, non a causa di essa. Solo il breve e tardivo resoconto di Hesychius di Miletus afferma che il suo omicidio sarebbe «a causa della gelosia e della sua superiore saggezza e, soprattutto, della sua conoscenza dell’astronomia» (citazione preservata in Suda Y.166 1-11). Tuttavia, incolpa anche «l’innata volgarità e la tendenza alla sedizione degli alessandrini», quindi il riferimento alla sua saggezza sembra più mettere in evidenza la sua superiorità rispetto all’ignoranza tipica del popolo alessandrino e non un problema specifico nato nella comunità cristiana.

Lo status di Ipazia come studiosa e filosofa è spesso forzatamente enfatizzato, con affermazioni del tipo “la prima donna matematica”. Sebbene l’istruzione avanzata di Ipazia fosse insolita, era tutt’altro che unica per una donna: secoli prima della sua nascita vissero studiose come Aspasia, Diotima, Arete, Ipparchia e Panfila di Epidauro. Più vicino a lei, si può citare Sosipatra.

Ipazia non fu né la prima né l’ultima studiosa donna. Subito dopo il suo tempo, la neoplatonista Asclepigenia studiò e insegnò ad Atene e ad Alessandria ed Edesia fece lo stesso, non turbando nessuno, tanto meno il popolo cristiano, pur avendo una reputazione intellettuale simile a quella di Ipazia.

Nessuno uccise queste donne sapienti per gelosia o si lamentò che fossero donne pagane e studiose. Il motivo principale per cui così tante persone hanno sentito parlare di Ipazia e non delle altre filosofie che hanno vissuto nello stesso periodo di tempo non è perché queste altre donne erano insignificanti, piuttosto per il fatto che Ipazia è l’unica che è stata consacrata come leggenda da autori e scrittori romantici successivi.

Si dimentica infine che anche nella comunità cristiana vi erano donne di elevata cultura e di grande operosità. Non sorprende che nessuno storico serio sostenga simili argomentazioni.

 

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3. CONTESTO POLITICO E GLI EVENTI PRIMA DELLA MORTE.

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Non si possono inquadrare gli eventi che portarono alla tragica morte di Ipazia d’Alessandria senza considerare il complesso contesto sociale della sua città.

Alcune fonti storiche descrivono l’abitudine dei cittadini di Alessandria di risolvere per strada le questioni spinose, spesso con la violenza. Lo storico siriano Evagrio Scolastico, ad esempio, scrivendo dell’omicidio del patriarca cristiano Proterio nel 457 d.C., osserva: «Il popolo [di Alessandria] in generale è facilmente infiammabile e lascia che pretesti molto banali fomentino la fiamma del conflitto» (Historia ecclesiastica, II.8).

Alessandria ebbe il triste primato di essere il luogo di uno dei primi pogrom contro gli ebrei: le truppe romane li massacrarono quando questi protestarono nell’anfiteatro della città nel 66 d.C. I disordini tra ebrei e greci scoppiarono già nel 39 d.C., e poi di nuovo nel 40 d.C., portando alla morte centinaia di persone. Il patriarca cristiano ariano Giorgio di Alessandria, decimo Papa della Chiesa copta, fu ucciso da una folla inferocita nel 361 d.C. Come già accennato, stessa sorte toccò al patriarca Proterio nel 457 d.C.

Lo storico dell’Università Villanova, Christopher Haas, ha scritto che «la società urbana nella tarda antica Alessandria sembra essere stata fondamentalmente a due livelli», con un netta divisione tra la piccola élite e la classe povera che costituiva la maggioranza della popolazione3C. Haas, Alexandria in Late Antichity: Topography and Social Conflict, John Hopkins 1997, p. 51. La classe elitaria governava la città, era ben istruita e molto ricca (ad essa apparteneva la famiglia di Ipazia), alla fine del IV secolo era per lo più cristiana, sebbene alcuni continuassero a praticare riti pagani. Fuori dalle mura viveva la classe povera, principalmente operai e artigiani uniti in corporazioni commerciali.

Il cristianesimo giunse ad Alessandria molto presto, tradizionalmente fu portato dall’evangelista, Marco. Il Patriarca era la figura religiosa più significativa e assieme ai vescovi guadagnarono potere ed autorità dalla fine della persecuzione romana e con la conversione di Costantino. Dal 381 d.C. Alessandria divenne la capitale amministrativa della diocesi d’Egitto ed i patriarchi si inserirono nella gerarchia sociale e politica della città.

Il patriarca Teofilo conobbe una certa popolarità, seppe gestire i tumulti politici della città e intrattenne buoni rapporti con l’élite al potere. Sembra aver avuto anche buoni rapporti con Ipazia, sostenne l’elevazione al vescovado di Tolemaide del suo ex studente Sinesio di Cirene e alla fine del suo mandato era divenuto un personaggio di spicco della città. Suo nipote, Cirillo (futuro santo), divenne suo successore alla morte verso la fine del 412 d.C. (a seguito di una faida con il rivale Timoteo).

Mentre Sinesio di Cirene nelle sue lettere tesse lodi del patriarca Teofilo, il tono nei confronti del successore Cirillo è molto più freddo. È sopravvissuta una sola breve lettera di Sinesio a Cirillo, e la frase di apertura è esemplificativa: «Vai, fratello mio Cirillo, da tua madre Chiesa, la quale non ti ha scomunicato ma separato solo per un periodo che si misura in base a ciò che i tuoi difetti meritano» (Sinesio di Cirene, Lettera 12, 413 d.C.).

>Nel 414 d.C. avvenne qualcosa che aizzò gli animi tra il vescovo Cirillo e la comunità ebraica di Alessandria. La danza pubblica era un intrattenimento popolare ad Alessandria e la comunità ebraica ne era particolarmente affezionata. Il prefetto della città e rappresentante di Costantinopoli, il cristiano Oreste, decise di regolamentarne la pratica e lesse un editto nel teatro cittadino.

Cirillo inviò in segreto un suo sostenitore, Hierax, a scoprire il contenuto dell’editto ma gli ebrei si accorsero di lui e si lamentarono accusandolo di volerli provocare, ben sapendo che era un fedele di Cirillo (con il quale si erano scontrati in precedenza). Oreste, secondo Socrate Scolastico, «sottopose pubblicamente alla tortura in teatro» Hierax, sia per sedare la rivolta che per marcare la sua autorità nei confronti di Cirillo.

Quest’ultimo reagì redarguendo la comunità ebraica, la quale rispose «attuando un attacco notturno ai cristiani. Perciò mandarono persone nelle strade per allarmare che la chiesa intitolata ad Alessandro era in fiamme, molti cristiani, sentendo questo, si agitarono e si direzionarono verso la chiesa per salvarla. Gli ebrei li intercettarono e li uccisero» (Historia ecclesiastica VII.13).

A sua volta il vescovo Cirillo, sempre secondo Socrate Scolastico, «accompagnato da una grande folla di persone» reagì saccheggiando le sinagoghe ed espulse con forza l’intera popolazione ebraica dalla città (questo evento certamente non può essere vero in quanto vi sono notizie di molti ebrei in città da riferimenti successivi). In ogni caso l’episodio acuì il dissapore tra il prefetto Oreste e il vescovo Cirillo.

L’unica fonte contemporanea, Socrate Scolastico, scrive infine che «Oreste aveva a lungo considerato con gelosia il potere crescente dei vescovi perché avevano invaso la giurisdizione delle autorità nominate dall’imperatore». Sia Oreste che Cirillo inviarono una petizione all’imperatore e ne seguì uno scontro politico. Cirillo cercò però una riconciliazione: «Estese verso Oreste il libro dei Vangeli, credendo che il rispetto per la religione lo avrebbe indotto a mettere da parte il suo risentimento […], tuttavia anche questo non ebbe alcun effetto pacifico sul prefetto». In ballo c’era la gerarchia politica della città e come membro dell’élite al potere, Oreste non voleva compromessi con un esponente della classe povera.

 

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4. L’ASSASSINIO: MOVENTE POLITICO, NON RELIGIOSO

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Ipazia finì drammaticamente coinvolta nella disputa politica tra il prefetto Oreste ed il vescovo Cirillo, spiegata nel precedente paragrafo, sostenuti l’uno dall’élitè cittadina e l’altro dal popolo. La fonte più affidabile sulla morte di Ipazia è l’unica contemporanea, quella di Socrate Scolastico, e senz’ombra di dubbio sostiene il movente politico.

Essendo una figura di spicco della città, Ipazia venne ritenuta una voce neutrale e moderatrice nella vita civile. Socrate Scolastico annota che «tutti gli uomini l’ammiravano per la sua straordinaria dignità e virtù» (Historia ecclesiastica, VII.13), mentre il filosofo pagano Damascio (scrivendo un secolo dopo Socrate Scolastico ed i fatti raccontati), concorda sul fatto che Ipazia «era abile e articolata nei suoi discorsi, saggia e politicamente virtuosa nelle sue azioni, la città apparentemente l’amava e si prostrava particolarmente di fronte a lei, e i governatori la salutavano sempre per primi quando venivano in città» (Vita di Isidoro, 43E).

Ipazia, tuttavia, apparteneva alla stessa classe sociale e politica del prefetto Oreste e Socrate Scolastico scrive che ne era una sorta di consigliera, tanto da avere «incontri frequenti con Oreste». Non sorprende quindi che la classe povera, rivale di Oreste, la associò al prefetto negli scontri che divisero Alessandria.

L’eminente studioso Edward J. Watts, docente di Storia alla University of California, ha sottolienato: «Gli storici che scrivono su Ipazia hanno avuto la tendenza a concentrarsi sulle dinamiche religiose alessandrine del IV e V secolo, ma le divisioni spaziali e socioeconomiche contavano molto più delle differenze religiose per i contemporanei di Ipazia. La maggior parte degli alessandrini e dei pagani del IV e V secolo non comprendevano le differenze religiose allo stesso modo delle moderne comunità religiose. Non vedevano forti divisioni tra cristiani e pagani e non sarebbero stati naturalmente ostili verso le persone con credenze diverse»4E.J. Watts, Hypatia: The Life and Legend of an Ancient Philosopher, Oxford University Press 2017, p. 17, 18.

La stessa Ipazia, pur essendo pagana, intratteneva come già detto buone relazioni con la comunità cristiana. Numerosi dei suoi discepoli erano cristiani, il predecessore del vescovo Cirillo, Teofilo, nominò uno degli studenti di Ipazia, Sinesio di Cirene, vescovo di Tolemaide, una delle principali città del Nord Africa. Sinesio rimase amico di Ipazia fino alla sua morte (sette delle sue lettere indirizzate a lei sono ancora esistenti).

La situazione politica era in stallo in quanto si attendeva una risposta da parte dell’imperatore di Costantinopoli alle petizioni del prefetto Oreste e del vescovo. Cirillo, tuttavia, decise di agire rafforzando la sua posizione: chiamò alleati da fuori città. Li trovò nei monaci ascetici (parabolani?) che vivevano nel deserto di Nitria, a sud-ovest di Alessandria.

Erano cristiani severi e ben poco contemplativi e «circa cinquecento di loro», scrive Socrate Scolastico, entrarono in città con il sostegno rumoroso del patriarca. Incontrarono Oreste, lo accusarono di essere pagano e la manifestazione si trasformò in rivolta. Il prefetto ne uscì ferito. Oreste fece torturare il monaco che lo ferì, Ammonio, tanto da ucciderlo. Questo generò ulteriori tensioni.

Cirillo decise allora di appoggiare le azioni dei monaci, inviò una seconda petizione all’imperatore e dal pulpito dichiarò Ammonio martire per la fede. Una mossa che fallì in quanto «i cristiani non accettavano la stima prevenuta di Cirillo nei suoi confronti poiché sapevano bene che aveva subito la punizione a causa della sua volgarità e che non aveva perso la vita per aver negato Cristo» (Historia ecclesiastica, VII.14). Questa annotazione di Socrate Scolastico illumina il fatto che tutti i soggetti coinvolti nel conflitto politico generatosi ad Alessandria erano cristiani. Lo era il prefetto Oreste, battezzato dal Patriarca di Costantinopoli, e lo era la folla che lo sosteneva, così come lo erano gli “avversari”: il vescovo Cirillo e i monaci dei monti di Nitria.

Fallito il tentativo del martirio di Ammonio, i sostenitori di Cirillo chiesero una riconciliazione tra il vescovo ed il prefetto, ma diverse voci iniziarono ad indicare nella consigliera di Oreste, Ipazia, colei che impediva tale riconciliazione.

Ecco come l’unica fonte contemporanea ai fatti, quella di Socrate Scolastico, descrive l’assassinio di Ipazia nel 415 d.C.:

«Cadde vittima della gelosia [φθόνος], politica che a quel tempo prevaleva. Ipazia aveva avuto frequenti incontri con Oreste. Questo fatto fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano che pensò fosse lei ad impedire ad Oreste di riconciliarsi con il vescovo. Alcuni di loro, perciò, spinti da uno zelo fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre ritornava a casa. La trassero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con delle tegole. Dopo avere fatto il suo corpo a pezzi, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e là li bruciarono. Questo affare portò non poco sdegno contro Cirillo e contro alla chiesa di Alessandria: infatti, nulla può essere più estraneo dai seguaci degli (insegnamenti) di Cristo che uccisioni, lotte e cose del genere» (Socrate Scolastico, Historia ecclesiastica,, VII 15)

 

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5. IL VESCOVO CIRILLO COLPEVOLE DELLA MORTE DI IPAZIA?

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Il racconto di Socrate Scolastico, qui sopra citato, è il più vicino agli eventi e afferma chiaramente che nel 415 d.C. Ipazia “cadde vittima della gelosia politica che a quel tempo prevalse”. Nonostante l’autore non sia affatto dalla parte del vescovo Cirillo ma, anzi, un forte sostenitore di Oreste, non attribuisce a lui l’assassinio della filosofa, sebbene chiarisca che il dramma avvenne in seguito al suo conflitto politico con il prefetto Oreste.

Non c’è nella fonte primaria alcuna condanna diretta nei confronti di Cirillo. La colpa ricade invece sul gruppo di cristiani guidati da Pietro “il lettore”, attribuendo loro tutte le responsabilità dell’accaduto. Socrate Scolastico sottolinea solamente che l’iniziativa di questi fanatici ebbe -come è comprensibile- ripercussioni sulla chiesa stessa e sul suo rappresentante, Cirillo. Ma questo non significa certo che lui approvasse o fosse coinvolto.

La storica del cristianesimo Ilaria Ramelli, Senior Research Fellow presso l’Università di Durham e ordinario di Storia del Vicino Oriente romano, ha spiegato che Socrate Scolastico rappresenta «la fonte più antica relativa alla drammatica vicenda di Ipazia, risalente appunto a vent’anni dopo i fatti. Ha anche fatto notare che l’autore è un ammiratore di Ipazia e accusa degli “uomini esaltati” del popolino (non parla di monaci). «Socrate non incolpa direttamente Cirillo dell’assassinio», riporta Ramelli, ma cita «il lettore Pietro», e se anche quest’ultimo dovesse essere l’omonimo collaboratore di Cirillo, Pietro Anagnoste, «Socrate non istituisce questo legame».

Al contrario, lo scrittore pagano Damascio (ostile verso Cirillo), attribuisce la colpa direttamente al vescovo Cirillo nel suo resoconto tardivo, scritto un secolo dopo i fatti:

«Cirillo, vescovo della setta dell’opposizione, passava accanto alla casa di Ipazia e vide una grande folla di persone davanti alla sua porta. Alcuni arrivando, altri uscivano, altri ancora stavano in piedi. Quando chiese perché c’era una folla lì radunata e cosa fosse tutto quel caos, i suoi seguaci gli dissero che era la casa della filosofa Ipazia e che erano lì per salutarla. Così si rose a tal punto nell’anima che tramò la sua uccisione, in modo che avvenisse il più presto possibile, un’uccisione che fu tra tutte la più empia. Quando Ipazia uscì da casa sua, una folla di uomini spietati e feroci che non temevano né la punizione divina né la vendetta umana, la attaccarono e la uccisero, commettendo così un’azione scandalosa e vergognosa contro la loro città» (Vita di Isidoro, 43E).

Tra le due fonti, quella di Socrate Scolastico e quella di Damascio, emerge una forte differenza nella narrazione dei fatti. L’accusa di Damascio nei confronti del vescovo Cirillo è esplicita, dichiarandolo mandante diretto dell’omicidio. Scrivendo dopo un secolo non si sa da quali fonti lo abbia dedotto, in ogni caso ha una scarsa attendibilità storica.

Oltre alla grande distanza dagli avvenimenti, Damascio scrive esplicitamente in un’ottica fortemente anticristiana (i seguaci di Cristo, ad esempio, vengono definiti “setta di opposizione”), certamente lontano dalla neutralità di Socrate Scolastico.

Damascio, inoltre, sostiene che il movente dell’assassinio fu “l’invidia” provata da Cirillo nei confronti di Ipazia. Anche questo appare piuttosto inverosimile poiché il vescovo era uno dei teologi e filosofi più stimati e potenti dell’epoca e non vi era alcun motivo plausibile che lo potesse portare ad invidiare la filosofa.

Il classicista Luciano Canfora, dal noto bias anticristiano, ritiene incredibilmente sarebbe Socrate Scolastico la «fonte che più disturba gli studiosi cattolici», in quanto «chiama in causa apertamente Cirillo, ed è quanto mai limpido». L’attribuzione della colpa a Cirillo, secondo Canfora, sarebbe in queste parole finali di Socrate Scolastico: «Questo misfatto procurò non poco biasimo (οὐ μικρὸν μῶμον) a Cirillo e alla chiesa di Alessandria». Per lo studioso italiano, «va da sé che, solo in quanto considerato mandante o ispiratore, Cirillo poté essere oggetto di “grande biasimo”, di “macchia”»5L. Canfora, Cirillo e Ipazia nella storiografia cattolica, OpenEdition Journals 2010.

E’ un ragionamento assai debole. Innanzitutto, Socrate Scolastico attribuisce il “grande biasimo” anche alla chiesa di Alessandria: difficilmente intende sostenere che tutta la comunità ecclesiale della città sia mandante o ispiratrice dell’omicidio, più probabilmente intende sottolineare la ripercussione negativa per l’immagine del vescovo della città, Cirillo, e della chiesa di Alessandria nel fatto che un gruppo di fanatici cristiani sostenitori di Cirillo nella disputa politica, avesse commesso tale omicidio.

Inoltre, il cristiano Socrate Scolastico sa che il vescovo di una comunità ecclesiale, in quanto autorità morale di un corpo organico seppur locale, è sempre “macchiato”, “screditato” e oggetto di “grande biasimo” quando un prete della sua diocesi commette un abuso. Questo spiega, per fare un esempio moderno, le scuse del vescovo di Anversa, don Michele Barone, pronunciate pubblicamente -pur non avendo alcuna responsabilità!- per le lesioni sessuali provocate da un parroco della sua diocesi. Allo stesso modo, il vescovo di Como, mons. Diego Coletti, ha chiesto perdono alle vittime, alle famiglie e alla parrocchia di San Giuliano, dopo che un prete della sua diocesi ha abusato di cinque ragazzine.

Canfora ironizza, infine, sul fatto che diversi studiosi non ritengono attendibile la ricostruzione di Damascio: «Argomentare che, vissuto un secolo dopo i fatti, Damascio non poteva sapere è stupido: è come dire che quanto Polibio narra della prima guerra punica, rispetto alla quale egli vive per l’appunto un secolo più tardi, non ha valore!».

Il classicista italiano non coglie il punto: non esistono relazioni contemporanee alla prima guerra punica. Al contrario, rispetto all’uccisione di Ipazia esiste una fonte coeva dei fatti, quella di Socrate Scolastico, il quale oltretutto è notoriamente una fonte ostile a Cirillo e avrebbe avuto buone ragioni per addossare la colpa al vescovo, ma non lo fa. Non c’è motivo per preferire una fonte tardiva di un secolo quando è disponibile una neutrale fonte contemporanea ai fatti, la quale contraddice il resoconto tardivo.

Lo spiega approfonditamente lo storico della University of California, Edward J. Watts, nel suo studio su Ipazia. Lo storico sottoliena inoltre che spesso la plebe era usata per intimidire e manifestare rumorosamente nelle antiche polemiche di strada, anche se omicidi deliberati erano rari anche nella tumultuosa Alessandria e accadevano solo quando le cose sfuggivano di mano, raramente erano oggetto deliberato di un piano6E.J. Watts, Hypatia: The Life and Legend of an Ancient Philosopher, Oxford University Press 2017 p. 115, 116.

Ancora più distante dai fatti -200 anni dopo!- è il resoconto del vescovo Giovanni di Nikiû, che descrive Ipazia come l’archetipo della malvagità pagana.

«A quei tempi apparve ad Alessandria una filosofa femmina, una pagana di nome Ipazia, dedita alla magia, agli astrolabi e agli strumenti della musica. Seduceva molte persone attraverso le sue astuzie sataniche. E il governatore della città la onorò moltissimo, poiché lo aveva sedotto con la sua magia. E cessò di frequentare la chiesa come era sua abitudine. […] E in seguito una moltitudine di credenti in Dio sorse sotto la guida di Pietro il magistrato […] e procedettero a cercare la donna pagana che aveva sedotto il popolo della città ed il prefetto attraverso i suoi incantesimi […] e la trascinarono finché non la portarono nella grande chiesa, chiamata Cesarione […]. E le strapparono le vesti e la trascinarono [….] per le strade della città fino alla sua morte. E la portarono in un posto chiamato Cinarone, e la bruciarono sul fuoco. E tutto il popolo circondò il patriarca Cirillo e lo nominò “il nuovo Teofilo”; poiché aveva distrutto gli ultimi resti di idolatria in città».

I parallelismi con il racconto di Socrate Scolastico sono evidenti, sappiamo infatti che Giovanni di Nikiû usò la Historia ecclesiastica di Socrate come fonte principale di questa sezione della sua Cronaca. Ma anche Nikiû (come Damascio) ha deliberatamente cambiato la storia, aggiungendo alcuni ricami: Ipazia diventa una strega pagana e malvagia che porta fuori strada Oreste, facendogli abbandonare la sua fede.

Niente di tutto ciò si rifletterà in altre fonti cristiane successive, come il bizantino Suda, Teofane Confessore e Niceforo Callisto Xanthopoulos: tutti riflettono essenzialmente il racconto di Socrate Scolastico. Questo porta a concludere che questi nuovi elementi siano stati un’invenzione di Nikiû. Al tempo in cui egli visse, verso la fine del VII secolo d.C., il paganesimo era quasi completamente sparito in Egitto ed i pochi pagani rimasti vivevano per lo più ai margini della società. In assenza di un contatto diretto tra cristiani e pagani, perciò, le rappresentazioni popolari cristiane del paganesimo erano spesso ridotte a stereotipi di stregoni e malfattori.

Per lo stesso motivo per cui non si può ritenere storicamente attendibile la fonte Damascio (a favore di Ipazia), nemmeno Giovanni di Nikiù (contro Ipazia) scrive un resoconto affidabile. L’unica fonte attendibile è quella coeva ai fatti, Socrate Scolastico.

La storica Maria Dzielska, ordinario all’Università Jagellonica (Polonia) e autrice di una biografa su Ipazia, ha respinto anche l’idea che siano stati i monaci di Nitria, chiamati da Cirillo, gli autori dell’omicidio. Innanzitutto, Socrate Scolastico non lo sostiene, inoltre, scrive la storica, i monaci «terrorizzati dalla reazione popolare alla loro aggressione contro il prefetto Oreste, scapparono a gambe levate»7M. Dzielska, Hypatia of Alexandria, Harvard University Press 1995, p. 97. Che la folla che l’ha uccisa fosse sostenitrice di Cirillo è evidente, ma non sembrano essere stati monaci.

Anche l’Enciclopedia Treccani italiana riferisce a proposito del vescovo Cirillo: «A torto egli venne accusato di avere ordinato l’uccisione di Ipazia; ma non è improbabile che i promotori della sommossa in cui ella perì abbiano creduto di far cosa a lui grata».

Moreno Morani, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Medioevo all’Università degli Sudi di Genova, ha concluso:

«Se si esaminano i fatti storici reali, basandoci unicamente sui documenti, si conclude che non vi è nessuna prova» del coinvolgimento diretto del vescovo Cirillo. «La morte di Ipazia si colloca nel quadro di un’età e di una zona in cui la confusione e le turbolenze sono al massimo grado e investono tanto l’autorità civile quanto la comunità cristiana. È un mondo di grandi contrasti l’Egitto di quell’epoca. Un mondo in cui si hanno documenti di sincretismo religioso quasi impensabili per noi e tensioni al limite dell’esplosione, fra ortodossi ed eretici, fra cristiani e pagani, fra cristiani e gnostici. Più ancora che i testi degli storici, sono gli atti delle vita quotidiana (iscrizioni, papiri) a darci un quadro realistico di questa confusione. A ciò si aggiunga, come ricordano le fonti antiche, il temperamento naturalmente appassionato e veemente della popolazione in quel microcosmo multietnico e multiculturale che era la Alessandria dell’epoca».

Se l’analisi delle fonti assolve Cirillo dalla responsabilità diretta dell’omicidio di Ipazia (neanche come mandante morale), le fonti storiche non riportano neppure alcun intervento del vescovo di Alessandria per fermare i suoi sostenitori mentre diffondevano false voci su Ipazia ed, infine, alcuni di essi l’hanno uccisa. In mancanza di prove contrarie, San Cirillo d’Alessandria può essere incolpato di tale silenzio.

 

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6. COME FU UCCISA? LE OSTRICHE ED ALTRE LEGGENDE.

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Molti resoconti moderni si soffermano a lungo sui raccapriccianti dettagli della sua morte: Ipazia viene sequestrata, spogliata, smembrata, trascinata per le strade e poi bruciata.

L’uso della parola ὄστρακα da parte di Socrate Scolastico per indicare l’arma con cui fu uccisa indusse Edward Gibbon a scrivere che «la sua carne venne raschiata dalle ossa con gusci di ostriche affilati». Tale parola significa effettivamente “conchiglie” ma, allo stesso tempo, può anche significare “cocci” ed era un termine usato per riferirsi alle tegole dei tetti, il che è molto probabilmente ciò che Socrate Scolastico intendeva.

Le tegole, al contrario delle ostriche, erano disponibili in abbondanza in una strada della città di Alessandria. Questa superficialità da parte dello storico inglese -e di tutti coloro che hanno acriticamente ripreso le sue parole- descrive bene l’atteggiamento con cui ha svolto il suo lavoro.

Anche l’immagine di una donna bellissima “completamente spogliata” ha suscitato l’immaginazione febbrile di alcuni scrittori illuministi, come Voltaire, i quali non poterono fare a meno di aggiungere che fosse stata anche violentata al momento della morte.

Il primo a parlarne fu Damascio, nella Vita di Isidoro (conservata in parte attraverso una citazione in Souda, un’enciclopedia bizantina scritta nel X secolo d.C.). scrivendo che Ipazia sarebbe stata «estremamente bella e bella di forma», pur senza averla mai potuta vedere (Damascio visse tra il 458 e il 538 d.C ed Ipazia morì nel 415 d.C.).

Non vi sono prove dell’esistenza di un ritratto di Ipazia e nemmeno che Damascio abbia mai avuto accesso a qualcuno che l’avesse conosciuta mentre era in vita, è probabile che anche questo sia frutto della sua fantasia (confermando ulteriormente la scarsa attendibilità del suo resoconto sulla morte). Damascio aggiunge anche che Ipazia era vergine e avrebbe respinto tutti i suoi numerosi pretendenti. Nonostante non vi sia alcune fonte contemporanea a sostenerlo potrebbe essere in questo caso un’affermazione vera in quanto compatibile con gli insegnamenti neoplatonici, i quali valorizzavano il celibato maschile e femminile.

L’invenzione di Damascio sulla bellezza di Ipazia hanno dato origine a rappresentazioni fantasiose di un’affascinante donna nuda e giovane, in balia dei suoi aggressori criminali. Non hanno riflettuto sul fatto che Ipazia avesse probabilmente circa sessant’anni al momento della sua morte. Oltre a sciverlo cento anni dopo l’evento il cronista Giovanni Malalas (491-578 d.C. circa), è un dato facilmente deducibile: se Ipazia era davvero nota come insegnante anche al di fuori di Alessandria (come scrive Socrate Scolastico), per costruire una tale reputazione le sarebbe servito molto tempo e questo contrasta fortemente con l’idea che fosse in giovane età al momento del suo assassinio.

Anche la storia della sua grande bellezza e giovinezza è servita ad enfatizzarne il mito, e questo dice molto di più dei propugnatori di tali leggende che della storia di Ipazia.

Infine, va notato che il trascinamento del corpo per le strade, lo smembramento e quindi il rogo di qualcuno che era stato linciato o giustiziato si ritrova in molti altri resoconti relativi ad Alessandria. L’omicidio di Giorgio di Alessandria e dei suoi due compatrioti avvenne in maniera simile e lo stesso accadde ai corpi di alcuni ebrei nel pogrom del 39 d.C. e nell’omicidio di Proterio di Alessandria nel 457 d.C.

Lo storico Christopher Haas sostiene che tali parallelismi non sono coincidenze, definendoli un «rituale alessandrino di espiazione civile»8C. Haas, Alexandria in Late Antichity: Topography and Social Conflict, John Hopkins 1997, pp. 87.89. Questi elementi della storia risultano storicamente attendibili ma, allo stesso tempo, dimostrano che non si tratta della prova di un particolare animus contro le donne istruite, ma – ancora una volta – era un rituale usuale nella politica di strada della città di Alessandria.

Il destino di Ipazia fu certamente piuttosto orribile. Ugualmente lo fu quello delle vergini cristiane d Eliopoli che nel regno dell’imperatore pagano Giuliano si rifiutarono di arrendersi alla sacra prostituzione prima delle loro nozze. Di conseguenza, furono pubblicamente spogliate, derise e maltrattate, poi date in pasto ai maiali. E che dire del vescovo Marco di Aretusa, picchiato da una folla pagana, la barba strappata, le orecchie tagliate, pugnalato ripetutamente, quindi imbrattato con del miele e lasciato appeso al sole per essere divorato da mosche e vespe.

Pochi conoscono queste e molte altre storie. Quella della filosofa Ipazia è l’unica che è stata universalmente divulgata per meri scopi ideologici.

 

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7. LE FALSE CITAZIONI ATTRIBUITE AD IPAZIA.

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Il solo fatto che qualcuno riporti una citazione di Ipazia, di qualunque tipo, significa che sta dicendo il falso. Nessuna nessuna fonte a noi sopravvissuta sulla vita di Ipazia riporta mai direttamente alcuna sua frase.

Di seguito una sorta di debunking della frasi più frequentemente attribuite a Ipazia.

 

«Le favole dovrebbero essere insegnate come favole, i miti come miti e i miracoli come fantasie poetiche. Insegnare le superstizioni come verità è una cosa terribile. La mente del bambino le accetta e vi crede, e solo attraverso un grande dolore e forse una tragedia potrà, negli anni a venire, liberarsene»

Questa citazione è frequentemente ripresa da atei e anticlericali perché coincide con la loro valutazione della religione e piace l’idea che ciò sia stata detta da una “scienziata” assassinata da una folla di cristiani.

Ma questa citazione è totalmente falsa, Ipazia non ha mai detto niente del genere.

La frase proviene dalla pagina 275 di una pseudo-biografia di Ipazia scritta dall’artista americano, anarchico e socialista, Elbert Hubbard (1856-1915), inserita all’interno della sua serie Little Journeys to the Homes of Great Teachers. L’opera fu pubblicata nel 1908 ed era originariamente destinata ai bambini. Nonostante si tratti di apparenti biografie (oltre a Ipazia, parlò di Confucio, Mosé, Pitagora, Platone ecc.), il libro è quasi completamente un’opera di fantasia. Hubbard inventò storie fantasiose che non si trovavano in alcuna fonte antica e attribuì molte citazioni a Ipazia e a suo padre Teone, semplicemente inventandole.

 

«Il neoplatonismo è una filosofia progressista e non si aspetta di stabilire condizioni finali per gli uomini le cui menti sono limitate. La vita è un sviluppo e più procediamo, più verità possiamo comprendere. Comprendere le cose che sono alla nostra porta è la migliore preparazione per comprendere quelle che stanno oltre»

Ipazia non disse neppure questo, nessuna fonte antica che la riguarda riporta tale citazione (e nessun’altra sua citazione). È un’altra delle frasi inventate dall’anarchico Elbert Hubbard, appare all’inizio del capitolo riguardante la filosofa di Alessandria, subito dopo il frontespizio. Non stupisce che questa citazione descriva il concetto di progressismo come inteso nel primo Novecento, più che nel neoplatonismo antico e autentico.

 

«Difendi il tuo diritto di pensare, perché anche solo pensare in modo sbagliato è meglio che non pensare affatto»

Ancora una volta siamo di fronte ad una citazione che valorizza una visione razionale e moderna del mondo. Essa appare nei gruppi Facebook e nei blog femministi dedicati ad Ipazia, è stata ripresa dal socialista uruguayano Eduardo Galeano nel suo libro Donne e viene usata come frase di buon anno dal dipartimento di Medicina molecolare dell’Università Federico II di Napoli.

Anche questa citazione proviene però dalla fantasia di Elbert Hubbard e dalla pseudo-biografia. Ironia del caso, l’artista americano nemmeno attribuisce questa citazione ad Ipazia, ma a suo padre Teone di Alessandria (335-405 d.C.). Un falso nel falso.

 

«Tutte le religioni dogmatiche formali sono fallaci e non devono mai essere accettate dalle persone che si definiscono rispettabili»

Ebbene si, anche questa citazione proviene dalla biografia immaginaria su Ipazia del 1908 scritta da Elbert Hubbard e, anche in questo caso, lo scrittore la attribuisce a Teone, non a sua figlia Ipazia. Da una rapida ricerca pare che stranamente nessuno abbia (ancora) ripreso questa frase nel web in lingua italiana.

 

Molte di queste false citazioni sono critiche al cristianesimo ma -come già osservato in precedenza- tutte le prove indicano che Ipazia ebbe ottimi rapporti con i cristiani suoi contemporanei, avendone parecchi come studenti ed essendo stata consigliera prediletta del prefetto cristiano Oreste (fu proprio questo il motivo politico del suo assassinio). Difficilmente Socrate Scolastico avrebbe scritto che Ipazia era ampiamente amata e ammirata dai cristiani (Libro 7, capitolo 15) se tali citazioni a lei attribuite in epoca moderna fossero vere.

 

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8. CONCLUSIONE.

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La storia di Ipazia usata e strumentalizzata dai polemisti anticristiani è essenzialmente una favola morale pseudo-storica.

La filosofa di Alessandria non fu assassinata perché i cristiani erano infastiditi dal suo sapere, la sua morte non segnò la fine della filosofia antica e l’inizio dell'”epoca buia”. Non era l’unica donna studiosa, non fu né razionalista, né atea, non innovò il pensiero scientifico e non inventò nulla.

Al contrario, Ipazia era certamente colta, un’ottima insegnante, e piuttosto conservatrice nella sua visione filosofica (seguace di Plotino). Fu coinvolta in un comune tumulto politico in una città famosa per la sua violenta “politica di strada” e la sua tragica morte fu dovuta ad una disputa politica che non riguardava la religione o la sua visione filosofica.

Rispetto alla responsabilità diretta del vescovo Cirillo, Moreno Morani, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Medioevo all’Università degli Sudi di Genova, conclude che «non vi è nessuna prova», secondo le fonti attendibili.

Socrate Scolastico, l’unica fonte contemporanea ai fatti, indica la causa della morte di Ipazia nel movente politico. La donna venne identificata (a ragione o torto, non lo sappiamo) come la causa principale dell’attrito tra l’autorità religiosa (il cristiano Cirillo) e l’autorità politica (il cristiano Oreste), così dei fanatici della classe sociale povera (quella di Cirillo) pensarono di eliminare alla radice la causa del dissidio.

C’è chi chiama in causa i parabolani, una confraternita di infermieri-becchini con l’abitudine di intervenire in controverse ecclesiastiche con modi violenti, ma un loro coinvolgimento non ha fonti storiche e non sembrano coincidere con i monaci di Nitria.

La vicenda di Ipazia è riemersa solamente nel XVIII -assieme a molte altre “leggende nere”-, all’interno del contesto illuminista, noto per l’immenso lo sforzo di discredito sul passato cristiano per illuminare il presente, emancipatosi dal “fanatismo religioso”. Non sorprende che anche la morte di Ipazia di Alessandria sia stata rielaborata e strumentalizzata in ottica anticristiana.

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