Lo scienziato crede in Dio? Ci risponde un fisico italiano
- Interviste
- 13 Dic 2024
Lo scienziato e Dio. Nell’intervista del venerdì dialoghiamo con il fisico Leonardo Colletti. Studiare le leggi della fisica, ci dice, è intravedere il progetto di Dio.
Strana coincidenza del destino.
Esattamente 10 anni fa, il 13/12/2014 indicavamo la necessità che anche in Italia emergessero scienziati credenti per raccontare il rapporto tra lo scienziato e Dio e contrastare la leggenda del conflitto tra scienza e fede.
Ed effettivamente qualcosa si è mosso, non certo per il nostro richiamo piuttosto perché con il passare degli anni si è più consapevoli dell’importanza di questo.
Oggi chiacchieriamo proprio con uno scienziato credente, Leonardo Colletti.
Colletti è docente di Fisica generale all’Università di Bolzano e membro del Committee for Informing the Public dell’American Physical Society, in passato è stato docente di Storia della fisica all’Università di Trento e ricercatore presso il Lawrence Livermore National Laboratory.
Ma è anche autore di un romanzo scientifico intitolato “Il testamento di Joseph Mariotti” (Lindau 2022), dove un fisico del Cern di Ginevra vive una condizione difficile. Rimasto vedovo, con la sola figlioletta Hannah, si convince che l’universo sia un immenso vortice di materia privo di senso. Alcuni incontri sorprendenti lo porteranno a cambiare idea.
Nella nostra odierna puntata dell’intervista del venerdì parliamo anche di questo con il fisico Leonardo Colletti.
Come può uno scienziato credere in Dio?
DOMANDA – Prof. Colletti, perché un fisico si dedica al filone insolito del “romanzo scientifico” piuttosto che ad un saggio?
RISPOSTA – Ho pensato che la formula del romanzo fosse uno strumento in grado di coinvolgere di più.
Soprattutto, anche questa scelta fa parte della sfida stesso cui risponde questo lavoro, ovverosia quella di avvicinare la scienza alle lettere, un campo in cui l’elemento umano e le vicende che lo riguardano non sono un distrattore ma, al contrario, fonte di conoscenza.
DOMANDA – Il protagonista del tuo libro, Giovanni Taglianti, intreccia la fisica con le discipline umanistiche facendo emergere una fruttuosa relazione tra i diversi “saperi”. Ancora oggi però in certi ambienti va di moda celebrare la scienza come unica fonte di verità, disprezzando la filosofia e la teologia. In che modo la relazione tra varie “forme di verità” può aiutare a rispondere alle grandi domande della vita? Come quella su Dio?
RISPOSTA – Ho scritto il romanzo proprio pensando a certi ambienti. Anche gli studenti a volte mi dicono: uno scienziato non può credere in Dio! (e in effetti lo faccio dire anche nel romanzo).
A mio avviso, la scienza non può tutto. Questa è una convinzione personale, certo, un presupposto metafisico. Semplicemente, io credo che sia così.
Alcuni pensano che l’intero campo umanistico sia destinato a svaporare dinanzi a un’indagine di stampo positivistico, ma in realtà è la scienza stessa, se la si analizza per bene, che ci rivela cose interessanti sul nostro modo di capire e rappresentarci la realtà.
DOMANDA – Quali, ad esempio?
Prima di tutto, la scienza per essere tale deve essere fallibile. E’ proprio questo che le ha garantito di progredire.
Secondariamente, ci ha mostrato quanto poco ne sappiamo dell’universo, quanto anche le basi del nostro modo di pensare abbiano dei limiti (pensiamo alle “contraddizioni” della meccanica quantistica).
E poi è un approccio che fa leva sulla costruzione di un mondo – quello dei modelli, dell’astrazione – che non ha nulla della tangibilità di questo nostro mondo quotidiano, ma che tuttavia esiste, esiste nelle menti e funziona. Ci rivela l’esistenza di un mondo, dunque, che ha sede nella nostra interiorità. E tutt’altro che poco, direi!
Il necessario dialogo fra i vari saperi
DOMANDA – Cosa si perde chi respinge le forme di sapere diverse dalla scienza?
Le lettere, le religioni, la filosofia certo non godono del supporto sperimentale, ma sono in grado di dare un senso all’esperienza, cosa che sfugge alla scienza. Scienze naturali e lettere sono due facce di una medaglia, che è il nostro desiderio di conoscere.
Perché volere per forza rinunciare a una delle due? Per illudersi che si possa dimostrare tutto? Gödel ci ha dimostrato che questo è impossibile!
Mi piace citare Wolfgang Pauli (lo faccio anche nel libro).
Noto per essere uno dei più severi antimetafisici, è poi quello che per un decennio scambia lettere con Carl Gustav Jung in cui rincorre il senso dei propri sogni. In una lettera a un collega, Pauli dice che ci sono pochi problemi più urgenti di quello di far dialogare scienza e religione sulla natura della realtà.
Questo accadeva nel secondo dopoguerra. Ma credo che oggi la crisi della società sia tanto maggiore, e tanto maggiore il bisogno che questi due campi entrino in contatto.
La scienza può essere una fonte morale?
DOMANDA – Sempre il protagonista del tuo libro riflette sulla inadeguatezza della scienza nel discernimento del bene e del male, parlando di “neutralità morale”. L’idea della scienza come fonte morale è professata da Sam Harris nel suo “The Moral Landscape”. Sei d’accordo?
RISPOSTA – Quella di Harris è un’argomentazione interessante che merita attenzione.
E’ proprio un esempio di quello di cui abbiamo bisogno secondo Pauli: fare incontrare scienza e religione. Non deve per forza essere una convergenza, ma un interrogarsi l’una l’altra.
Taglianti compie un percorso: dapprima vede la scienza come fonte esclusiva di ogni conoscenza; poi, come incapace di rispondere agli interrogativi morali, alla fine, vede nella scienza non una fonte morale (come Harris) ma una sorgente di suggestioni in grado di suggerire possibili orizzonti morali, cui però va abbinata una riflessione metacognitiva come quella fornita dagli altri saperi.
DOMANDA – Di questo ne parli anche nel tuo libro, ad esempio si menziona che attraverso la fisica e la matematica si può arrivare a un confronto con l’Assoluto. Ma la scienza di per sé può essere una via per comprendere o avvicinarsi a Dio? Può aiutarci a dare un significato all’esistenza?
RISPOSTA – Certo. Siamo un granellino minuscolo di materia alla deriva nello spazio. Quello che ci portiamo dentro vale assai di più, e con questo creiamo mondo meravigliosi, dall’arte alla scienza.
La meccanica quantistica ha messo in discussione i pilastri del nostro modo di vedere il mondo. Come minimo, ne traiamo la grande lezione che ancora ne sappiamo troppo poco: non capiamo nemmeno cosa accade veramente a un fotone che attraversa una doppia fenditura, come facciamo ad arrogarci il diritto di dichiarare che non esiste un dio o un fine nell’universo?
Mi pare che la ragione quanto meno ci costringa a sospendere il giudizio e lasciare che ognuno poi si faccia guidare dall’intuizione.
Constatare l’esistenza di giudizi morali e estetici, e la verità insita nella matematica, così come l’impossibilità di dimostrare tutto, apre scenari di significato affascinanti. Poi, certo può darsi che nulla valga alcunché. Ma si tratta di un’intuizione.
“Studiare le leggi fisiche e intravedere il progetto di Dio”
DOMANDA – In una delle frasi conclusive del libro, fai dire al personaggio di don Marcello che quando uno scienziato si confronta con una formula è come se stesse pregando, “perché ti avvicini alla verità, la insegui, la brami, ne affermi l’esistenza. La verità è espressione del divino”. C’è quindi un terreno comune tra scienza e fede?
RISPOSTA – Esattamente. Quella frase l’ho rubata al mio vecchio maestro Malvin Kalos, con il quale ho lavorato per qualche anno cercando di risolvere in maniera esatta l’equazione di Schroedinger.
Al laboratorio di Livermore, in California, a pranzo facevamo lunghe discussioni. Lui si professava ateo, ma poi ammetteva candidamente che esisteva una differenza oggettiva tra giusto e sbagliato, tra vero e falso.
Secondo me, dal riconoscere questo – piuttosto che ritenere che tutto sia indifferentemente equivalente, l’ordine come il disordine – nasce la prima fondamentale demarcazione tra l’agnosticismo e la fede.
Già Giovanni di Salisbury nel XII secolo affermava che ci sono due modi di studiare la mente di Dio, e sono le Scritture e la sua opera, cioè il mondo. Studiare le leggi della fisica significa intravedere un pezzettino del grande progetto di Dio.
DOMANDA – Come pensi che il romanzo possa cambiare la percezione del lettore riguardo alla scienza e alla fede? Che messaggio principale speri di trasmettere ai lettori?
RISPOSTA – A me piacerebbe che il romanzo favorisse l’incontro delle diverse sensibilità.
Le conoscenze sono andate via via frammentandosi, e questo ha portato sicuramente dei vantaggi. Sarebbe bene però, come affermava Plank, condurre l’uomo ad apprezzare la foresta, e non solo il singolo albero.
La nostra società è complessa, e stiamo vivendo situazioni nuove come l’immigrazione, la crisi climatica, l’intelligenza artificiale e al contempo i punti di riferimento come la Chiesa, la scuola, i partiti politici hanno visto indebolirsi la loro capacità di orientare.
C’è bisogno urgente, a mio parere, di fare dialogare i saperi e le competenze.
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