Il padre non è sostituibile o superfluo, cosa dicono gli studi

Il rapporto tra padre e figli è un legame insostituibile anche secondo la letteratura scientifica. Addirittura, in alcune aree, la figura paterna è ancora più decisiva di quella della madre per la buona crescita dei figli.

 
 
 

Quale altro momento per parlarne se non nel giorno della festa del papà.

In una società che onora il padre con una festa ma poi lo ritiene sostanzialmente inutile per il resto dell’anno, o sostituibile senza alcun problema con una mamma single o due mamme, un certo filone di studi può risultare fastidioso o addirittura eretico.

Nonostante molti bambini crescano solo con bravissime mamme, le quali magari hanno subito il divorzio oppure lo hanno richiesto costrette da un marito violento, è accertato che la presenza positiva di entrambe le figure genitoriali, maschile e femminile, consente una crescita più armoniosa dei figli.

Ecco una piccola panoramica degli studi che lo dimostrano.

 

Le aree in cui i papà sono più determinanti della mamma.

Quelle cronologicamente più recenti sono le ricerche di Linda Nielsen, docente di Psicologia presso la Wake Forest University.

La psicologa americana si è particolarmente concentrata sul ruolo tra padre e figlia e, dopo aver revisionato decine di studi in merito, ha concluso: «Le indagini più recenti dimostrano che i padri influenzano la vita delle loro giovani figlie in modi intriganti e occasionalmente sorprendenti».

Una delle aree in cui il padre risulta determinante (o più determinante della madre) per le figlie è il suo rendimento accademico e, di conseguenza, il suo successo professionale ed il futuro benessere finanziario.

La letteratura scientifica raccolta da Linda Nielsen mostra infatti che le figlie, i cui padri sono stati attivamente impegnati durante l’infanzia nel promuovere i loro studi ed incoraggiare la fiducia in loro stesse, hanno maggiori probabilità di laurearsi al college ed accedere a lavori più remunerativi.

I padri sono anche determinanti in una seconda area, cioè nella qualità della relazione romantica delle figlie con i loro partner.

«Ciò che sorprende non è che i padri abbiano un tale impatto sulle relazioni delle loro figlie con gli uomini», ha spiegato Nielsen, «ma che generalmente abbiano un impatto maggiore rispetto alle madri».

Anche qui i risultati della ricerca sono chiari: «Una ragazza che ha una relazione positiva, solidale e comunicativa con suo padre ha meno probabilità di rimanere incinta in età adolescenziale e maggiori probabilità di avere relazioni con uomini emotivamente appaganti».

Durante il periodo scolastico queste figlie hanno anche maggiori probabilità, rispetto alle coetanee cresciute senza papà o con un padre emotivamente assente, «di assumere decisioni sagge e prudenti in merito al sesso ed agli appuntamenti, con la conseguenza che presentano generalmente matrimoni più soddisfacenti e più duraturi».

La condizione perché ciò avvenga, dunque, è la presenza fisica ed emotivamente positiva di un papà in famiglia.

Un altro gruppo di ricerche suggerisce un altro modo in cui i papà risultano indispensabili.

Si tratta della capacità di modellare la salute mentale e le relazioni sociali delle loro figlie in età adulta: «Gli studiosi hanno trovato un legame intrigante tra il modo in cui le figlie affrontano lo stress da adulte ed il tipo di relazioni che hanno avuto con i loro padri durante l’infanzia», ha spiegato la psicologa statunitense.

Le donne universitarie cresciute senza papà o che non avevano buoni rapporti con lui, ad esempio, presentavano livelli di cortisolo inferiori al normale, dunque eccessivamente sensibili allo stress.

Non a caso queste persone, rispetto a quelle che avevano avuto relazioni migliori con i loro padri, «tendevano a descrivere le loro relazioni con gli uomini in termini stressanti di rifiuto, imprevedibilità o coercizione».

 

Importanza del papà, altri studi.

Dalla letteratura scientifica emergono però tanti studi rivolti anche alle relazioni padri-figli in generale.

«Il coinvolgimento di una figura paterna ha impatti unici, ma comunque provati, su entrambi i sessi», si legge sul Children’s Bureau. «Avere una figura sia materna che paterna aiuta il bambino ad ottenere uno sviluppo più equilibrato e completo, maschio o femmina che sia».

Lo stesso Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti ricorda che gli studi mostrano costantemente che madri e padri hanno stili di gioco e comunicazione diversi, che entrambi svolgono ruoli unici ma vitali nello sviluppo del bambino.

Ci sono innumerevoli prove scientifiche dei molti modi in cui i bambini che non hanno una figura paterna regolarmente presente nella loro vita hanno peggiori conseguenze di coloro che beneficiano del papà dall’infanzia all’età adulta.

Secondo le ricerche, qui raccolte, le vittime di quella che negli USA è definita la Fatherlessness Generation (la generazione senza padri) riscontrano, in generale:

– peggiori risultati educativi;
– maggiori probabilità di essere coinvolti nella delinquenza;
– peggiori abitudini sessuali e gravidanze adolescenziali;
– maggiore povertà;
– maggior abuso di sostanze stupefacenti e alcool;
– una peggior salute fisica ed emotiva.

 

Mamma e papà sono ruoli unici, complementari.

Almeno oggi, non limitiamoci a ricordare solo l’importanza della figura paterna (oltre quella materna), ma soprattutto il suo essere indispensabile ed insostituibile.

La redazione

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La libertà accademica nelle università medievali, parla lo storico

La libertà accademica nel Medioevo raccontata da James Hankins, ordinario di Storia all’Università di Harvard. Rispetto alla crescente intolleranza attuale, le università medievali erano tolleranti e rispettose del pensiero eterodosso.

 
 
 

Le università anglosassoni hanno da tempo cessato di essere dei luoghi di libertà intellettuale e scientifica.

Soprattutto negli ultimi anni sono diventate centri di repressione e censura che soffocano insegnanti e studenti rei di mettere in discussione l’ideologia dominante.

 

Le dimissioni di Jordan Peterson: limitazioni di pensiero.

Qualche settimana fa il più importante intellettuale canadese, lo psicologo Jordan Peterson, da tempo in guerra contro il politicamente corretto, si è dimesso platealmente dall’Università di Toronto dov’era professore ordinario (rimanendo professore emerito senza avere neanche 60 anni).

Nel farlo, Peterson ha denunciato il giogo repressivo della “diversità, inclusività ed equità” (DIE) che discrimina gli studenti e impedisce «ai miei studenti migliori di fare carriera solo perché sono maschi bianchi eterosessuali, nonostante i loro curriculum scientifici siano stellari».

Per non parlare dell’odio e delle continue limitazioni di pensiero imposte allo stesso Peterson (uno dei pensatori più influenti al mondo!), che ha parlato di una «spaventosa ideologia che oggi sta demolendo le università e, a valle, la cultura generale».

Ed ancora: «Tutti i miei colleghi devono fare dichiarazioni DIE per ottenere una borsa di studio, e tutti mentono ed insegnano ai loro studenti a fare lo stesso. E lo fanno costantemente, dandosi giustificazioni, corrompendo ulteriormente quella che è già un’impresa straordinariamente corrotta».

 

«Università medievali tolleranti verso tesi non cristiane»

La notizia delle dimissioni dello psicologo canadese ha fatto il giro del mondo e probabilmente ha smosso parecchie coscienze.

Una di queste è quella di James Hankins, professore ordinario di Storia all’Università di Harvard, specializzato nel Rinascimento italiano.

Anche Hankins ha riferito della costernazione comune in ambito accademico «dalla crescente intolleranza al pensiero eterodosso nelle università contemporanee». Nel farlo ha voluto paragonare quanto invece avveniva nelle università medievali.

Nonostante gli atenei nel Medioevo siano nati per volontà dei pontefici per formare rigidamente teologi dotti che potessero contrastare le eresie medievali, «nel corso dei successivi cento anni hanno promosso il periodo più creativo di speculazione filosofica in Occidente».

La tolleranza verso il pensiero altrui fu il motivo di questa fioritura intellettuale nel Medioevo, James Hankins ha infatti scritto:

«Le università medievali hanno prodotto grandi filosofi come Sant’Alberto Magno, San Tommaso d’Aquino, San Bonaventura, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham. Al centro del dibattito, ancor più sorprendentemente, era il pensiero di un filosofo greco pagano, Aristotele, i cui scritti non erano affatto facili da armonizzare con la verità rivelata. Mentre il re Luigi IX bruciava migliaia di copie del Talmud ed espelleva gli ebrei dalla Francia, teologi come Tommaso d’Aquino leggevano Maimonide. Le prime università erano tolleranti nei confronti del pensiero non cristiano. La corporazione dei maestri, incaricata di preparare gli studenti agli incarichi nella Chiesa e nel governo laicale, sapeva bene come incoraggiare la vita della mente, mostrando il dovuto rispetto per l’autorità. Avrebbero potuto vietare lo studio di Aristotele (come molti li esortavano a fare) ed invece hanno permesso che “il Filosofo” diventasse la spina dorsale del curriculum artistico. Possedevano la prudenza e la collegialità per creare confini effettivi senza presumere di dettare ciò che dovevano pensare i loro compagni maestri e studenti».

 

La prima università nacque a Bologna, in territorio pontificio, nel XI secolo.

E poi quella di Parigi, dove insegna Tommaso d’Aquino; Oxford, l’università dei francescani e Padova. Tutte nate con privilegi direttamente concessi dai Papi. L’Università La Sapienza di Roma fu fondata invece nel 1303 per opera di Bonifacio VIII.

Come ha spiegato James Hankins, si trattò di spazi di vera libertà di espressione e di discussione, nei quali veniva coltivato lo spirito critico.

 

I medievali rispettavano pensiero pagano e lo diffusero.

Come spiega Hankins, al centro del curriculum universitario non furono poste solo opere cristiane, ma gli studi di Aristotele e Porfirio erano una delle tre discipline fondamentali del Trivio che gli studenti medievali dovevano padroneggiare prima di passare a studi più avanzati.

Si tradussero, si lessero e si diffusero innumerevoli opere pagane inconciliabili ed in contrasto con la dottrina cattolica, come quelle di Prisciano, Donato, Marziano Capella, Cicerone, Lucano, Plinio, Stazio, Pompeo Trogo, Virgilio, Ovidio, Orazio e Terenzio.

Inoltre, l’accesso era facilitato anche per la popolazione meno abbiente.

Lo storico medievalista Leo Moulin ha raccontato che Papa Urbano V «manteneva 1400 borsisti, ma le borse di studio non furono le sole forme di aiuto agli studenti poveri. Tutta la società medievale si ingegnò a moltiplicare le vie di accesso all’università offerte ai figli delle classi proletarie»1L. Moulin, La vita degli studenti nel medioevo, Jaca Book 1992, p. 5-6.

Come ha scritto Tim O’Neill, ricercatore (ateo) impegnato ad “insegnare” la storia agli atei, «gli studiosi cristiani accettarono l’apprendimento dei greci e romani pagani come un dono di Dio molto prima della caduta dell’Impero ed assorbirono felicemente quell’apprendimento. Non si imbatterono in qualche modo nelle traduzioni arabe di queste opere, le cercarono attivamente. Gherardo da Cremona non ha “scoperto” casualmente l’Almagesto di Tolomeo: lo conosceva già e ha attraversato due volte un continente per trovarlo in traduzione araba»

Le università moderne, dominate dalla «spaventosa ideologia» della censura progressista (detta anche cancel culture) potrebbe imparare una o due cose dalla libertà accademica del Medioevo.

La redazione

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Baby gang, il parroco: «Non denuncio, la porta è sempre aperta»

Una parrocchia di Asti vittima di giovani vandali. Ma don Paolo Lungo è un buon pastore, preoccupato del bene di questi ragazzi. Ha allertato la polizia, il Comune, le famiglie ma non porta rancore, tiene le porte aperte e li aspetta.

 
 
 

Ci hanno colpito le parole di don Paolo Lungo, parroco alla Torretta, quartiere nella periferia di Asti.

Da mesi è vittima di baby vandali, una trentina di ragazzi e ragazze delle medie che disturbano la celebrazione della Messa.

«Li conosco, prima del lockdown non si comportavano così», riferisce il parroco.

 

«Non voglio che se ne vadano».

Chiunque si farebbe subito giustizia, reagendo con rabbia e denunciando magari i genitori.

Ma don Paolo è un vero pastore, che non si scandalizza e guarda nel cuore di quei giovani volti che lo sfidano e lo insultano.

«Non li denuncio. Non voglio che se ne vadano: le porte della Chiesa e dell’ortatorio saranno sempre aperte per loro, qualora decidessero di usarle», ha spiegato.

«Non hanno ancora varcato quella soglia che li porterebbe a gettare via la loro vita e non dobbiamo spingerli a farlo» dice don paolo. «Quei ragazzi ci stanno chiedendo aiuto con un linguaggio che ancora non capiamo. Dobbiamo rimboccarci le maniche e provare a capirli».

 

Nessun buonismo, ma interesse al destino di quei giovani.

Non è buonismo ingenuo o irresponsabilità, come qualcuno potrebbe pensare.

Don Paolo ha subito allertato le forze dell’ordine per garantire la sicurezza della comunità, le quali vengono chiamate anche «per finire di celebrare la messa».

Il Comune, la scuola e la famiglia sono state a loro volta contattate «per lavorare tutti assieme».

Ma l’attenzione ultima è alla vita di quei giovanissimi, oltre la loro ferocia. Quella rabbia è indice di un disagio profondo, di una noia esistenziale, di ricerca di senso ultimo che non trovano nella società in vivono.

Solo in uno sguardo attento e non scandalizzato di adulti come don Paolo questi ragazzi potranno trovare quella roccia su cui deporre le armi e rinascere.

 

L’unico rammarico è che una testimonianza così potente venga relegata a pagina 15 de La Stampa.

C’è forse qualcosa di più utile dell’imparare uno sguardo così per le famiglie, per gli educatori, per i genitori? Non avrebbe meritato un po’ più di visibilità, magari per qualche secondo al posto del Grande Fratello Vip?

La redazione

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Il sesso è binario, psicologo evoluzionista smonta i gender studies

Binarismo sessuale: esistono differenze biologiche tra maschi e femmine oppure è tutto attribuibile agli stereotipi sociali, come vuole la teoria gender? La nostra intervista ad uno specialista, che ci ha aiutato a chiarire la situazione scientifica su questi argomenti.

 
 
 

Sesso, genere, binarismo e determinismo biologico.

C’è molta confusione da quando la femminista Judith Butler ha scritto Gender Trouble (1990), inventando di fatto il concetto di “genere”.

Pochi giorni fa su La Stampa l’immunologa Antonella Viola ha guadagnato una paginata intera presentando il suo prossimo libro, sostenendo che non vi sarebbe alcuna differenza tra maschi e femmine e che la visione binaria dei due sessi (maschie e femmine) «non corrisponde a realtà».

 

Per fare chiarezza abbiamo chiesto aiuto a Marco Del Giudice, psicologo evoluzionista e docente presso l’Università del New Mexico (USA).

 

Prof. Del Giudice, qual è al momento lo stato dell’arte della ricerca circa le differenze strutturali/biologiche tra maschi e femmine?

La ricerca biologica sulle differenze di genere è un campo enorme, impossibile anche solo tentare una sintesi nello spazio di questa mini-intervista.

Ci sono ricerche sulle differenze tra maschi e femmine nei tratti di personalità, nelle abilità cognitive, negli stili sociali (ad esempio competizione, cooperazione, ricerca dello status), nella comunicazione e nell’espressione delle emozioni, nelle preferenze in campo romantico e sessuale, nel rischio di sviluppare diversi tipi di disturbi mentali (come depressione e autismo), e così via.

Per una panoramica recente e approfondita, consiglio sempre lo splendido libro Male, Female di David Geary, purtroppo non ancora tradotto dall’inglese. Ci sono anche un articolo e una video intervista in italiano che ho fatto pochi mesi fa proprio su questi temi, e che possono servire come introduzioni “morbide” a questo ambito di ricerca.

 

Ma è giustificato sostenere che le differenze di comportamento e di ruolo siano totalmente attribuibili agli stereotipi sociali?

Forse il punto più importante da sottolineare è che distinguere (parzialmente) i contributi della nostra biologia da quelli della cultura è difficile ma tutt’altro che impossibile, e si può fare mettendo in relazione tra loro i modelli della biologia evoluzionistica, gli studi comparativi tra diverse specie animali, le ricerche cross-culturali, e i dati della neurobiologia e della psicologia dello sviluppo.

Queste fonti di informazione si incastrano come pezzi di un grande puzzle, e ci permettono di mettere alla prova diverse ipotesi alternative, comprese quelle che attribuiscono l’esistenza delle differenze di genere agli effetti della socializzazione, degli stereotipi, dei media, e così via.

L’idea che il cervello di maschi e femmine sia sostanzialmente una “tabula rasa” su cui la cultura incide preferenze e aspettative, e che le differenze di genere nel funzionamento psicologico siano causate in gran parte (se non completamente) dall’apprendimento sociale, è ancora molto viva e presente.

Dalla mia prospettiva di psicologo evoluzionista, si tratta di una visione del mondo anacronistica, scientificamente debolissima, e sostanzialmente ferma sulle posizioni del femminismo anni ’70. Questo non vuol dire che la scienza abbia già tutte le risposte, o che si possa spiegare tutto con quattro concetti biologici di base.

Le complessità sono importanti, sono tante, e vanno riconosciute e spiegate. “Natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo affascinante. Se si guarda al comportamento umano da una prospettiva biologica sofisticata, da un lato è vero che si possono semplificare certe questioni che altrimenti rimangono opache o intrattabili; ma dall’altro lato sorgono mille nuove domande, e quello che sembrava semplice può rivelare sfaccettature inaspettate.

 

Secondo Antonella Viola, “la visione binaria che separa il mondo sulla base dei due sessi […] non corrisponde alla realtà”. Il binarismo sessuale è un “dogma” e “una gabbia”. L’impressione è che argomenti questa posizione con il classico errore di riferirsi a delle patologie (come le alterazioni del corredo cromosomico, l’intersessualità e l’ermafroditismo), quindi delle eccezioni alla norma. E’ corretto?

Su questo tema c’è una confusione enorme; purtroppo, almeno a giudicare dal suo articolo non mi pare che la prof. Viola stia facendo molto per portare chiarezza.

Per esempio scrive: “Le persone intersessuali presentano variazioni dello sviluppo sessuale. Nulla di raro: si stima che fino all’1,7% dei nati manifesti caratteri sessuali che non corrispondono completamente alle nozioni binarie del corpo maschile o femminile”. In questo passaggio, confonde l’intersessualità (che, definita in modo preciso, riguarda meno dello 0,02% delle nascite, cioè circa 100 volte meno di quanto lascia intendere) con il criterio del tutto arbitrario di “caratteri che non corrispondono completamente alle nozioni binarie”.

Questo scivolone semantico è stato commesso per la prima volta da Anne Fausto-Sterling nel 2000; già nel 2002 e 2003 diversi autori avevano evidenziato gli errori di calcolo e definizione che l’avevano portata a esagerare la stima di 100 volte (la storia di questa controversia è stata raccontata ad esempio qui e qui).

Purtroppo quel “magico 1,7%” continua ad essere tramandato e ripetuto in modo acritico da più di vent’anni; devo dire che vederlo citato nell’articolo della prof. Viola non promette molto bene. Spero di essere smentito dal contenuto del nuovo libro!

Al di là delle cifre, la questione cruciale sta nella confusione fra livelli di analisi che invece devono essere distinti in modo preciso.

 

Quali sono questi livelli?

Il primo livello è quello della definizione biologica del sesso, che si basa sulla presenza di due (e solo due) tipi di gameti —uno più grande prodotto dalle femmine e uno più piccolo prodotto dai maschi. A questo livello concettuale, il sesso è un costrutto decisamente binario; non per una strana coincidenza, ma per ragioni biologiche profonde che abbiamo iniziato a capire grazie all’uso di modelli matematici.

Il secondo livello di analisi è quello della differenziazione sessuale nei singoli individui, che si basa su una catena molto lunga e complessa di meccanismi genetici e ormonali. Questo è il livello a cui la prof. Viola fa riferimento quando scrive che “la definizione di sesso biologico si fonda sul patrimonio genetico, sugli organi genitali e sul quadro ormonale generale” (una frase fuorviante, perché la determinazione del sesso non è la stessa cosa della sua definizione biologica). A questo livello, la natura binaria del sesso è parzialmente “incrinata” dalle condizioni atipiche che vengono categorizzate come intersessuali; ma bisogna notare che i processi di sviluppo portano ad una chiara differenziazione tra maschi e femmine in più del 99.98% dei casi, e che le eccezioni sono appunto eccezioni e non “terzi sessi” in aggiunta agli altri due.

Il terzo livello è quello dello sviluppo dei tratti associati al sesso, sia a livello fisico (statura, muscolatura, peluria, voce…) che a livello psicologico e comportamentale. Arrivati a questo punto entrano in gioco in modo potente le differenze individuali: i maschi e le femmine non sono tutti identici agli altri membri del loro sesso, ma manifestano una grande variabilità nei loro tratti e percorsi di sviluppo. Questa variabilità ha origini sia genetiche che ambientali, e in molti casi viene amplificata proprio dai processi di selezione naturale e sessuale. La conseguenza è che, con poche eccezioni, i caratteri associati al sesso non si organizzano in due distribuzioni completamente separate e “binarie”, ma mostrano un certo grado di sovrapposizione tra maschi e femmine (per esempio, gli uomini sono mediamente più alti delle donne, ma alcune donne sono più alte della media degli uomini).

Uno dei compiti della ricerca è capire quanto ampia sia questa sovrapposizione rispetto a diversi tratti, se e quanto se dipenda da fattori contestuali e culturali, e così via. Per esempio, nei singoli tratti di personalità come la stabilita-instabilità emotiva la sovrapposizione tra uomini e donne è molto alta, intorno all’80-90%. Ma in alcuni miei lavori ho mostrato che, quando si considerano più tratti allo stesso tempo (formando dei “profili” di personalità tipici dei due sessi) e si corregge l’errore di misura di cui soffrono i questionari, la sovrapposizione si riduce al 20-30%.

Questi risultati rivelano che i profili di personalità di uomini e donne sono molto più nettamente distinti tra loro di quanto non si credesse, ma allo stesso tempo lontani da una distribuzione completamente e rigidamente “binaria”.

 

Riassumendo, in poche parole è confermato il binarismo sessuale.

Si, ma bisogna chiarire di quale livello stiamo parlando. Il binarismo sessuale nasce in forma “pura” nella distinzione tra gameti su cui è basata la definizione biologica dei sessi; si concretizza nei processi biochimici che guidano la differenziazione sessuale, e che (molto, molto raramente) possono portare a condizioni atipiche di sviluppo sessuale; e si esprime in una vasta gamma di tratti fisici e psicologici, “sfumandosi” e mescolandosi alle differenze individuali, che ci rendono non solo maschi o femmine ma persone uniche quali siamo.

Questo modello a tre livelli è facile da spiegare e visualizzare, e permette di evitare tutta una serie di confusioni e fraintendimenti rispetto alla natura più o meno binaria del sesso. Per chi volesse dei riferimenti più precisi alla letteratura scientifica, consiglio un mio capitolo recente, in cui ho anche provato a tratteggiare una storia delle interazioni tra femminismo e psicologia rispetto alle tematiche di genere.

 

Parliamo dei “gender studies”, è innegabile che siano alla base delle di dichiarazioni della prof.ssa Viola. Hanno realmente una valenza scientifica? Molti studiosi contestano sia la validità degli studi (difetti di campionamento, mancanza di gruppi di controllo ecc.) sia l’artificialità dei concetti, i quali però sono penetrati massicciamente nel linguaggio sociale comune.

I gender studies nascono esplicitamente come un progetto politico/ideologico.

Il loro obiettivo ultimo non è la ricerca della verità o della conoscenza in quanto tale, ma un certo tipo di cambiamento sociale in senso progressista. Questo atteggiamento di fondo è l’antitesi dello spirito scientifico, che (idealmente) rifiuta le conclusioni precostituite e segue la logica e l’evidenza dovunque ci portino.

Il problema della ricerca scientifica nei gender studies è che viene usata in modo strumentale e selettivo: va benissimo quando dice (o sembra dire) qualcosa di utile alla causa, ma se i risultati sono scomodi vengono semplicemente ignorati oppure svalutati a priori, in quanto politicamente sospetti o anche solo in base all’identità degli autori. In più, certi assunti di base (per esempio l’idea che le differenze di genere siano fondamentalmente una costruzione socio-culturale) non possono essere seriamente messi in discussione, pena l’auto-distruzione della disciplina stessa.

Tutto questo crea una “bolla” epistemologica intorno ai gender studies, che si auto-descrivono come interdisciplinari ma di fatto rimangono estremamente autoreferenziali.

Il risultato è che i dibattiti interni non vengono vinti da chi sviluppa le teorie più realistiche o raccoglie i dati più attendibili, ma da chi riesce a far valere la propria purezza ideologica e la propria superiorità morale rispetto agli avversari. Naturalmente, lo stesso discorso vale per gli altri “studies” identitari (ethnic studies, queer studies, disability studies, ecc.) ma anche per fette sempre più grandi della sociologia, dell’antropologia e di altre discipline “classiche”, in cui l’attivismo sta diventando la motivazione primaria di professori e studenti.

 
Questi “studi” si basano sulla scissione tra sesso e genere, con la conseguente nascita del concetto di “identità di genere”…

Una breve parentesi sul significato di concetti come “genere”, “identità di genere”, e così via: in linea di principio, tutti questi termini potrebbero essere utili, ad esempio per identificare gli aspetti psicologici legati al sesso o la percezione che le persone hanno di sé stesse in relazione al loro essere maschi o femmine.

Il problema è che in pratica vengono definiti in modo fumoso e tendenzioso, dando per scontate ipotesi che invece dovrebbero essere aperte alla falsificazione.

Ad esempio, l’American Psychological Association definisce esplicitamente il gender come un costrutto sociale frutto di norme e aspettative culturali, facendo così passare una conclusione molto discutibile come una realtà accettata a priori.

Per questo risulta difficile usare termini come “genere” in modo neutro, o anche solo in modo coerente (ho discusso brevemente questo tema nel capitolo citato prima).

In effetti, anche diverse studiose femministe hanno iniziato a manifestare perplessità sempre maggiori rispetto alla distinzione tra “sesso” e “genere”, e a proporre termini ibridi come ad esempio “sesso/genere” (in inglese sex/gender o gender/sex).

Ovviamente il loro obiettivo principale è quello di “de-naturalizzare” il sesso biologico e non certo quello di “ri-naturalizzare” il genere; ma è sempre bello trovarsi d’accordo su qualcosa!

 
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Leggi le nostre altre interviste del venerdì.

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Abramo visse 175 anni? E Noè 950 anni? Sono cifre simboliche

A quanti anni morì Abramo? Davvero visse 175 anni? E Noé? Sull’età dei patriarchi è stato scritto di tutto, ecco alcune risposte alla diatriba sulla loro vera età.

 
 
 

C’è una grande differenza tra l’Antico ed il Nuovo Testamento.

Il Nuovo Testamento è configurabile come una vera e propria biografia greco-romana, con la pretesa esplicita di rivendicare fatti storicamente accaduti (e sui quali c’è sempre più consenso da parte degli studiosi).

La prima intenzione dei testi dell’Antico Testamento, invece, non è informare su cosa è davvero accadde ma formare la coscienza religiosa del popolo d’Israele.

 

La storicità dell’Antico Testamento.

Nell’Antico Testamento vi sono dei dati reali, ma questi dati intendono comunicare un messaggio essenzialmente soprannaturale, utile alla vita spirituale.

I profeti, autori dei testi biblici su inspirazione divina, scrissero concentrandosi sul significato morale e religioso di quelle vicende, educando gli ebrei alla fede verso un solo Dio creatore, preoccupato per la sorte ed il destino degli uomini.

Questo, tuttavia, non autorizza a concludere che si tratta certamente di testi leggendari o inventati, seppur molti brani lo siano.

L’archeologia, in particolare, ha confermato nel corso degli ultimi due secoli moltissime informazioni contenute soltanto nei libri dell’Antico Testamento e che prima si ritenevano dei miti.

Bisogna quindi essere prudenti nel dare un giudizio di piena storicità o di piena falsità dei testi anticotestamentari.

 

L’età dei patriarchi della Bibbia: Abramo e Noé.

Sull’età dei patriarchi si è detto di tutto, forum e blog ne parlano senza cognizione di causa, giungendo a conclusioni affrettate.

Secondo il libro della Genesi, ad esempio, Abramo sarebbe vissuto 175 anni (Gn 25,7). Un’età considerata anche oggi fin troppo longeva, a maggior ragione è totalmente impossibile quella di Noé: 950 anni (Gn 9, 28-29).

A tutti i patriarchi precedenti al diluvio universale sono stati attribuiti centinaia di anni al momento della morte.

Questo non significa che siano personaggi inventati. Va considerato infatti che la loro età è decisamente inferiore a quella attribuita ai re Sumeri (precedenti e successivi al diluvio), stimata mediamente di 30.000 anni. Nessuno per questo mette in dubbio la loro reale esistenza storica.

La Chiesa non si è mai occupata dell’età dei patriarchi biblici, ripetendo semplicemente che l’Antico Testamento non chiede di essere interpretato letteralmente.

Nonostante alcune ipotesi, non dimostrabili, secondo le quali le condizioni materiali di vita totalmente diverse prima del diluvio universale avrebbero garantito una lunghissima esistenza, la teoria più accreditata è che si tratti di cifre simboliche.

 

L’età dei patriarchi biblici, cosa dicono gli studiosi.

Ne ha parlato recentemente il teologo padre Angelo Bellon, ricordando che la stessa Bibbia di Gerusalemme commenta che in queste cifre «non bisogna cercarvi né una storia né una cronologia».

Anche nel commento alla Bibbia di Emmaus, pubblicata dalle edizioni San Paolo, si legge: «I numeri degli anni, pur non essendo colossali come in certe liste genealogiche mesopotamiche che giungono fino a decine di migliaia, sono un modo orientale per esprimere la convinzione che i primordi fossero una specie di età dell’oro segnata da longevità. Non bisogna d’altra parte dimenticare che questi personaggi sono spesso capostipiti tribali che inglobano in sé l’intera vicenda della loro tribù».

Il domenicano padre Bellon ha anche riportato le conclusioni del biblista italiano Armando Rolla, il quale scrive: «E’ soprattutto nell’indicare l’età dell’uomo che gli antichi orientali non si preoccupavano dell’esattezza delle cifre. Questo lo possiamo provare per l’antico Egitto, dove l’espressione 110 anni era usata come una frase fatta, per indicare il limite dell’età, e una vecchiaia molto avanzata normalmente veniva detta di 110 anni».

Mons. Rolla concluse, quindi: «Attribuendo loro un’età elevatissima, l’autore biblico avrebbe suggerito la stessa idea intesa da un pittore che li avesse raffigurati come uomini di statura vigorosa e alta, con la barba fluente e i capelli bianchi. In questo caso si tratterebbe soltanto di mezzi espressivi diversi»1A. Rolla, Il messaggio della salvezza. Antico testamento, dalle origini all’esilio, Elledici 1965, pp. 151-153.

Dello stesso avviso anche don Francesco Carensi, docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

«La storicità dei patriarchi non è prima di tutto per gli storici, ma per i credenti», ha scritto il teologo. «E’ la storia degli uomini narrata dal punto di vista di Dio. Per quanto riguarda l’età avanzata dei patriarchi possiamo interpretarla non dal punto di vista quantitativo, ma qualitativo. Si tratta di un’esistenza vissuta in pienezza, dove se l’umanità rivela gli aspetti più fragili che a volte sfociano in comportamenti per noi moralmente inaccettabili, la benedizione di Dio continua ed è il filo rosso di queste storie».

Qualcosa di simile ha riferito anche dal biblista Scott Hahn, docente alla Franciscan University di Steubenville (Stati Uniti).

Nel suo commento su Genesi, conclude che «l’ipotesi migliore, che aiuterebbe a spiegare sia i dati biblici che quelli del Vicino Oriente, è che attribuire alle figure primitive vite estremamente lunghe è stato un modo per concettualizzare la grande antichità dell’umanità. In altre parole, può essere semplicemente una tecnica letteraria utilizzata per affermare la notevole età della razza umana»2S. Hahn, Politicizing the Bible: The Roots of Historical Criticism and the Secularization of Scripture 1300-1700, The Crossroad Publishing Company 2013.

Lo stesso padre Bellon ha concluso: «Senza pretendere una certezza storica perché non è questo l’intendimento primario della Sacra Scrittura, si può dire che si tratta di cifre simboliche».

 

Ma non sono questi dettagli la cosa più importante dell’Antico Testamento.

Nel suo bellissimo libro, da noi recensito, lo ha capito il filosofo ed ateo francese Philippe Nemo, direttore del Centro di ricerche in Filosofia economica presso l’ESCP Europe, quando ha scritto:

«Come mi ha fatto notare Emmanuel Lévinas, il fatto che tanti autori diversi, di epoche distanti, spesso animati da precisi interessi politici e sociali, convergano su uno stesso senso spirituale, è ben più miracoloso dell’idea tradizionale per cui la Bibbia sarebbe stata scritta da un ridottissimo numero di autori ispirati»3P. Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, p. 17

 

La redazione

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Luciano Canfora: pietà per la falsa Ipazia, non per gli ucraini

La Storia non ha tempo per una donna ucraina che perde il figlio. E’ la tesi del noto intellettuale comunista Canfora, schieratosi dalla parte di Putin. Lo stesso filologo che diversi anni aderì alla ricostruzione leggendaria sulla morte di Ipazia d’Alessandria.

 
 
 

Il noto filologo italiano Luciano Canfora sta ricevendo durissimi attacchi da parte di numerosi intellettuali.

Non hanno tutti i torti. Noto accademico italiano e comunista, Canfora si è schierato a favore di Vladimir Putin e dell’invasione militare dell’Ucraina.

«Definire aberranti le dichiarazioni di Canfora è un eufemismo», ha commentato Alberto De Bernardi, professore di Storia all’Università di Bologna. «Canfora non ha ancora smaltito ideologicamente la fine del comunismo e il crollo dell’Unione Sovietica, confondendo Putin e la Russia di ora, una dittatura ultranazionalista, con la tradizione già tragica del comunismo, con cui non ha nulla a che vedere».

«La sua sovrapposizione dei fatti», ha concluso lo storico, «squalifica una persona come Canfora che ha tutti gli strumenti culturali per capire bene cosa sta accadendo».

 

Luciano Canfora non interessato alla sorte dell’Ucraina.

Il passaggio più disumano dell’intervista a Canfora è stato intercettato ottimamente da Renato Farina su Libero, ma anche Maurizio Crippa su Il Foglio e Antonio Polito sul Corriere.

Ci riferiamo alla lamentela del noto intellettuale per la copertura mediatica della guerra in Ucraina, indispettito del fatto che vengano intervistati «i passanti», cioè i profughi in fuga dai bombardamenti.

«Io vorrei notizie sull’andamento del conflitto, perché la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta»ha dichiarato.

La Storia non perde tempo dietro ad una inutile donna a cui muore il figlio, sono problemi suoi. E basta. E’ la disumanità totale di questo giudizio che lascia sbigottiti e che ha fatto vergognare perfino Luigi Manconi, su Repubblica.

«In queste quattordici parole», ha commentato Farina, «c’è la formula tragica del veleno che ha ammazzato milioni e milioni di poveri cristi in nome di un futuro migliore, per cui lecito sacrificare il singolo, il suo destino irripetibile».

E’ inevitabile lo scandalo di quest’affermazione di Canfora, radicalmente in antitesi con le basi morali della società cristiana.

 

Nel 2010 aderì al mito della morte di Ipazia.

E’ curioso pensare che il comunista Luciano Canfora si spese invece a favore di Ipazia d’Alessandria, filosofa e matematica vissuta nel V secolo d.C. nota per il suo certamente terribile omicidio, con uno zelo talmente alto da dare credibilità a ricostruzioni storicamente false.

Il tutto è stato dettagliatamente spiegato nel nostro dossier storico su Ipazia, mostrando le conclusioni dei principali studiosi che si sono occupati della vicenda.

Per sintetizzare, la filosofa d’Alessandria venne tragicamente uccisa da alcuni fanatici (cristiani, probabilmente) a seguito di una diatriba politica tra il vescovo Cirillo ed il prefetto della città, il cristiano Oreste. La donna pagò con la vita la vicinanza a quest’ultimo.

L’unica fonte contemporanea ai fatti è quella del cristiano Socrate Scolatico, ammiratore di Ipazia, che parla di movente politico e non accenna ad alcuna responsabilità diretta da parte del vescovo Cirillo.

Tuttavia, dopo 13 secoli, a partire dal XVIII secolo, gli illuministi trasformarono Ipazia in un mito razionalista vittima del fanatismo cristiano. Un grande contributo lo diede il falsario Edward Gibbon nel suo celebre (quanto storicamente screditato) Declino e caduta dell’Impero romano (1776), dove inventò l’agiografia di Ipazia “martire della scienza”.

 

Le bugie sulla morte di Ipazia.

A questa leggenda anticattolica ha creduto perfino Luciano Canfora, che definì Ipazia una «scienziata alessandrina», morta in quanto «donna e notevole scienziata, colpevole di non voler essere cristiana ma assertrice della filosofia e della scienza greca»1L. Canfora, Cirillo e Ipazia nella storiografia cattolica, OpenEdition Journals 2010.

Per sostenere questo, Canfora fu costretto a scartare l’unica fonte contemporanea per appoggiarsi a Damascio, che scrisse un secolo dopo i fatti. Eppure è noto che tale autore falsificò il resoconto e scrisse un romanzo più che una ricostruzione storica, inventandosi perfino l’aspetto estetico di Ipazia, descrivendola come bellissima e giovane (peccato che al momento della morte avesse circa 60 anni).

Oltretutto, come dimostriamo nel dossier, Ipazia non fu affatto una “scienziata” (scrisse solo commenti su pensatori precedenti), si inspirava alla dottrina neoplatonica che influenzò notevolmente proprio lo sviluppo della filosofia cristiana (nessuna contraddizione dunque con il pensiero cristiano), tanto che tra i suoi discepoli vi furono alcuni futuri vescovi, come Sinesio di Cirene (e continuarono a stimarla anche da vescovi).

Infine, Ipazia non fu né la prima né l’ultima studiosa donna (tanto meno “la prima donna matematica”). Secoli prima di lei vissero Aspasia, Diotima, Arete, Ipparchia e Panfila di Epidauro. Più vicino a lei, si può citare Sosipatra. Dopo di lei Asclepigenia ed Edesia insegnarono ad Atene e Alessandria, non provocando alcun turbamento nel popolo cristiano.

Come ha spiegato Moreno Morani, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Medioevo all’Università degli Sudi di Genova, Ipazia venne semplicemente identificata (a ragione o torto) come la causa principale dell’attrito tra due autorità cristiane (quella religiosa e quella politica) e pagò con la vita, in una città in cui era abituale risolvere per strada le questioni spinose, spesso con la violenza (il patriarca cristiano Proterio d’Alessandria morì anch’egli in un agguato avvenuto nel 457 d.C.).

 

Paradossale che Luciano Canfora abbia voluto aderire a ricostruzioni fantasiose sulla morte di Ipazia d’Alessandria mentre non ha dimostrato alcun cenno di pietà verso la morte, reale, del popolo ucraino.

La redazione

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Tre motivi per cui il Papa non condanna la Russia

Papa Francesco non cita la Russia come paese aggressore, mentre sta condannando la guerra ed indicando l’Ucraina come “paese martire”. Un comportamento che genera dubbi ed equivoci ma che ha una chiara spiegazione.

 
 
 

Dopo l’aggressione armata della Russia verso l’Ucraina, la prima istituzione a scendere in campo è stata la Chiesa cattolica.

Il 24 febbraio scorso, poche ore dopo le prime bombe, la Caritas era già attiva e stava già convogliando aiuti umanitari al confine. Da allora non ha più smesso.

Papa Francesco sta lanciando appelli continui alla pace, ha accusato «coloro che fanno la guerra», condannato la violazione del diritto internazionale e ha definito l’Ucraina un «paese martire».

Il 25 febbraio, con un gesto senza precedenti, si è recato all’ambasciata russa in Vaticano per parlare con l’ambasciatore di Mosca. Il 25 marzo prossimo consacrerà Russia ed Ucraina al Cuore Immacolato di Maria.

Inoltre, ha inviato il card. Konrad Krajeweski, elemosiniere pontificio, sotto le bombe in Ucraina a dare sostegno morale alla popolazione in fuga. Lo stesso cardinale sta pagando la benzina per gli aiuti umanitari.

Il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, è al lavoro per vie diplomatiche interne con il ministro russo Sergey Lavrov per ritagliarsi uno spazio in una complicata e possibile.

 

Le critiche a Francesco: non parla della Russia.

Eppure c’è chi accusa Francesco di non fare abbastanza.

Il vaticanista di Domani, Marco Grieco, scrive che il Papa avrebbe scelto «una via timida», Le Monde lo critica perché «non ha condannato formalmente l’invasione russa. Un cattolico che lo ascolta avrebbe difficoltà a sapere chi ha iniziato la guerra».

Lo stesso scrive il National Catholic Reporter.

Se Sandro Magister si rallegra perché almeno l’Osservatore Romano avrebbe «rotto il tabù» parlando di “aggressione dell’esercito russo in Ucraina”, Louis Badilla de Il Sismografo si chiede: «Perché il Papa continua a tacere?».

E’ vero, mentre il card. Parolin ha descritto la guerra come «scatenata dalla Russia», Francesco sta evitando di citare esplicitamente il paese aggressore. Forse è l’unico leader mondiale a farlo. Perché?

 

1) Prudenza e vera diplomazia.

Innanzitutto c’è sicuramente un aspetto di prudenza e di diplomazia.

Come ha scritto il decano dei vaticanisti USA, John L. Allen, è un bene non accodarsi al presidente americano Joe Biden, il quale da giorni sta rilasciando dichiarazioni di odio contro i russi, piuttosto superflue sul piano pratico e che gettano soltanto benzina in più su un terreno geopolitico delicatissimo.

Llo stesso Biden dovrebbe spiegare perché gli USA hanno continuato a spingere l’Alleanza Atlantica verso Est quando, nel 1997, lui stesso avvertì che questo avrebbe rischiato «una risposta ostile da parte della Russia» (ovviamente ciò non giustifica la reazione militare della Russia!).

Inoltre, un importante diplomatico cattolico, Victor Gaetan, ha spiegato che il comportamento di Francesco fa parte «della diplomazia vaticana nel corso dei secoli, si lascia sempre spazio per la prossima conversazione, per il prossimo dialogo».

Lo ha spiegato anche Lucio Brunelli, ex direttore di TV2000: «C’è una sapienza anche diplomatica nel non fare i nomi: lasciare sempre uno spiraglio al dialogo, alla resipiscenza. Non chiudere mai del tutto la porta. Ma ormai nessuno sa più fare Politica e Diplomazia con la maiuscola».

In un’intervista di oggi, anche Daniele Menozzi, docente di Storia del cristianesimo all’Università Normale di Pisa, ha spiegato: «Se il Papa ritiene che non possa operare per la pace se non mediando e aprendo un canale diplomatico, non può denunciare pubblicamente e subito una delle parti in gioco. L’uso del linguaggio diplomatico esige un linguaggio estremamente prudente e prevede che neanche con l’aggressore vengano tagliati i ponti».

 

2) Evita conflitti religiosi, tutela dialogo ecumenico.

In secondo luogo, qualsiasi critica diretta da parte del Papa alla Russia potrebbe essere letta a sostegno di un conflitto religioso tra cattolici ed ortodossi.

Sappiamo quanto il patriarca ortodosso Kirill si sia schierato a favore di Putin, addirittura giustificando l’invasione come opposizione alle “pratiche occidentali peccaminose”. Un intervento diretto del Papa distruggerebbe decenni di lavoro ecumenico per avvicinare cattolici ed ortodossi.

Lo ha ribadito anche Daniele Menozzi: «La denuncia è implicita anche se non c’è la distinzione netta ed esplicitata tra aggressore ed aggredito. Quando fa riferimento alla violenza gratuita e all’attacco dei civili, si capisce che c’è la condanna degli aggressori. La mia impressione è che la difficoltà è data soprattutto dalla complessità delle relazioni interconfessionali sul campo, una situazione molto complessa nel mondo orientale e in modo particolare nell’ortodossia».

Dei 300 milioni di cristiani ortodossi nel mondo, infatti circa 100 milioni vivono in Russia e più di 30 milioni in Ucraina, alcuni dei quali uniti alla Chiesa ortodossa russa. Ci sono anche circa 4,5 milioni di cattolici di rito bizantino in Ucraina che sono fedeli a Roma.

 

3) Continuità con i suoi predecessori.

Infine, nessun predecessore di Francesco ha mai citato il nome degli aggressori.

Sempre il vaticanista Lucio Brunelli, ha spiegato: «Mai, nessun papa in condizioni analoghe, ha citato nomi e cognomi dei leader e nemmeno degli Stati. Sicuramente non lo fece Giovanni Paolo II, sia nella prima che nella seconda guerra in Iraq. I Pontefici hanno sempre trovato il modo affinché il destinatario del messaggio fosse chiaro senza puntargli contro il dito. Così Bergoglio non cita la Russia ma è chiaro a chi si rivolge».

La ha ricordato anche il vaticanista de Il Foglio, Matteo Matzuzzi: «E’ vero, non ha menzionato né la Russia né Putin, ma neppure Giovanni Paolo II fece nomi e cognomi nel 2003 quando si trattò di attaccare l’Iraq di Saddam Hussein».

 

Il “silenzio” rischia di essere equivoco?

Ma così facendo, il Papa non è equivoco?

Il rischio c’è, certamente. Ma l’atteggiamento del Papa è sufficientemente chiaro da indicare come la pensa.

Giustamente lo storico Menozzi dice: «Francesco ha fatto una scommessa su questo, il bene della pace è così grande che la Chiesa può spendersi anche mettendo a repentaglio la sua autorità per evitare che lo scontro arrivi a termini drammatici»

Una bella risposta è arrivata da Antonio Socci:

«E’ impossibile equivocare i suoi interventi. Nessuno in queste settimane ha pronunciato parole così forti, di condanna al conflitto. Non c’è nessuno che in buona fede possa dire che il Papa non è chiaro. Forse chi lo critica ha confuso il Papa con il conduttore di un telegiornale. Va ricordato che il Papa non ha il compito di fare notiziari d’informazione, la sua missione è un’altra. Il Papa non inveisce mai contro singoli uomini o Stati; non pronuncia parole di odio che vanne a gettare benzina sulle fiamme dei conflitti. Il Papa non si fa arruolare da nessuno, sta con le vittime. Non solo perché il mondo non si divide tra Nato e Russia, ma soprattutto perché è cattolico, universale».

La redazione

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Il rapper interrompe il concerto e annuncia la sua conversione

Il rapper Farruko cambia vita e si converte, annunciandolo a sorpresa durante un concerto a Miami. E’ accaduto l’11 febbraio scorso sul palco della FTX Arena. Si è scusato per i suoi testi sulla alla droga e ha invitato i suoi fan ad “accettare Dio” se “volete vivere una vita piena”.

 
 
 

Dal 2021 l’ascesa del rapper portoricano Farruko è stata inarrestabile.

Il brano Pepas lo ha infatti portato al primo posto in cinque classifiche della rivista Billboard, dodici dischi di platino in Spagna e negli Stati Uniti e quarto posto su Hits of the Moment di Spotify.

Prima di allora era già famoso per le sue collaborazioni con artisti di fama internazionale, come Daddy Yankee.

 

«Se vuoi vivere una vita piena, devi accettare Dio»

Tuttavia, l’11 febbraio scorso durante un suo concerto a Miami alla FTX Arena, dopo le prime note di Pepas, Farruko ha interrotto l’esibizione tra lo stupore generale, si è scusato per i testi di alcune sue canzoni e ha invitato i suoi fan ad “accogliere Dio” nel loro cuore.

«Quando esci di qui, non andare in discoteca. Vai a casa, abbraccia i tuoi figli, abbraccia il tuo partner, abbraccia i tuoi genitori», ha detto rivolgendosi al pubblico. «Sai perché? Perché niente a questo mondo è eterno! E se vuoi salvarti, se vuoi guadagnare te stesso, fratello, se vuoi vivere una vita piena, devi accettare Dio»

 

Le reazioni dal mondo della musica.

Non capita certo tutti i giorni una testimonianza del genere, soprattutto il rinnegamento del testo della sua hit il cui ritornello recita: «Bebiendo, fumando y jodiendo. To’ el mundo en pastilla’ en la discoteca». Sulle note del brano, il rapper trentenne, il cui vero nome è Carlos Efrén Reyes Rosado, ha annunciato la sua conversione ed il desiderio di “cambiare vita”.

Molti suoi colleghi del settore (reggaeton, trap latino, reggae e dancehall) hanno twittato mostrando stupore ed ammirazione verso Farruko, ma non sono mancate molte critiche.

Il rapper ha risposto comunque di voler rimborsare il biglietto ai partecipanti al concerto che si sono sentiti offesi dal suo “sermone religioso”, come alcuni lo hanno definito.

Dopo il concerto ha postato un altro messaggio su Instagram: «Dio ha avuto tanta misericordia con me ed ora posso sorridere perché mi sta accompagnando affinché cambi in meglio la mia vita. Forse non lo capirete, però lo farete più avanti. Vi voglio bene e non dimenticate che Egli è l’unico che ci può rigenerare. Non dimenticate di pregare per favore».

 

Il nuovo brano “Gracias” con Pedro Capó.

Pochi giorni fa è uscita Gracias, scritta assieme Pedro Capò, celebre autore di Calma, brano che esplose nel 2020.

In un’intervista Pedro Capò ha rivelato di essersi commosso appena letto il testo, perché sentiva che «stava parlando di me».

Grazie, benedizione e grazie,
perché non perdo mai la fede, non la lascio mai cadere,
e imparo dalla sconfitta quando devo perdere.
Grazie, benedizione e grazie,
tutto ciò che ci accade ha una ragione.

 
 

Chissà se questo impeto di vita vera sarà realmente seguito nel tempo da Farruko, non è facile lasciare tutto per entrare in «quella porta stretta» che conduce alla fede vissuta. Molti ci provano, «pochi sono quelli che la trovano» (Mt 7,13,14).

Certamente, considerando il livello del panorama musicale giovanile, il rapper portoricano può offrire un’alternativa positiva per i milioni di ragazzi che lo seguono.

Non necessariamente perché parla di Dio, ma perché nel suo piccolo canta la possibilità di un cambiamento, di una vita nuova, con altri ideali. Ed in cui la fede è vissuta come una convenienza positiva per se stesso.

 

 
La redazione

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Gli storici e il mito popolare sulla Santa Inquisizione: nuovo dossier

Una raccolta di citazioni dei principali specialisti internazionali dell’Inquisizione, uniti contro il mito che impedisce ai risultati della storiografia moderna di giungere al grande pubblico. Ciò che si dice dei tribunali inquisitori cattolici è in gran parte falso: poche condanne, nessun sistema oppressivo, scarso uso della tortura.

 
 
 

Ricomincia la pubblicazione dei nostri dossier al 15 di ogni mese.

Quest’anno sarà particolarmente dedicato all’Inquisizione o, meglio, alle inquisizioni, quella medievale (dal XII al XIV secolo), quella romana (dal 1542 al 1965) e l’Inquisizione spagnola (dal 1478 al 1834), quest’ultima totalmente dipendente dalla Corona e spesso in antagonismo alla Chiesa di Roma.

L’obbiettivo è portare alla luce i risultati di decenni di studi storici che contrastano apertamente con il mito ed il pregiudizio anticattolico nato in ambienti illuministi e protestanti con lo scopo di rappresentare il tribunale inquisitorio come simbolo dell’oscurantismo religioso romano.

 

No alla leggenda nera, ma nemmeno a quella bianca.

Oggi pubblichiamo il primo dossier (link in basso), nel quale abbiamo semplicemente raccolto, e continueremo a raccogliere, i giudizi conclusivi dei principali specialisti internazionali sull’Inquisizione e sulla leggenda nera che ancora oggi impedisce ai risultati della storiografia moderna di uscire dai circoli accademici.

Attenzione, nessuno delle decine di storici citati (con relativa fonte bibliografica, basta cliccare sul numerino alla fine della citazione) ha la minima intenzione di contrapporre una “leggenda bianca o rosa”, anzi concordano tutti che si trattò di un’iniziativa sinistra, intollerante verso le forme di dissenso e, come scrive lo storico Andrea Del Col, «le poche uccisioni di eretici, fatte in nome di Dio per motivi legati alla difesa della fede cristiana, anche se eseguite legalmente, noi le valutiamo aberranti»1Andrea Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XI al XXI secolo, Mondadori 2021, p. 13, 14.

 

Clicca qui per consultare il nuovo dossier:

                                  Gli storici e la leggenda nera dell’Inquisizione

 
 

 

Il giudizio della storia sulla Santa Inquisizione.

Tuttavia, questi storici concludono anche che «non esistette nessuna istituzione persecutoria organizzata ed efficiente»2Jennifer Kolpacoff Deane, A History of Medieval Heresy and Inquisition, Rowman & Littlefield Publishers 2011, p. 88, che è una «leggenda nera» pensare al Sant’Uffizio come una «corte di giustizia sarebbe stata retta da frati spietati, crudeli, sempre smaniosi di istruire processi e bruciare persone»3Dennj Solera, La società dell’Inquisizione, Carocci 2021, p. 15-18, 27-28.

Nei paesi cattolici «si ebbe in realtà un uso giudiziario della tortura assai moderato e un numero di vittime molto basso, se paragonato all’Europa centro-settentrionale». Gli inquisitori «erano restii a comminare la pena capitale, preferendo generalmente condanne più blande»4Marina Montesano, Superstizioni dell’età moderna, Il Manifesto, 31/12/2011.

Se, alla luce degli studi moderni, si prova a confrontare l’operato dell’Inquisizione cattolica a quello dei tribunali secolari dell’epoca, a quanto avvenne nei paesi protestanti, all’epoca del Terrore in cui implose la Rivoluzione francese, ai crimini dell’eugenetica scientista, alle dittature sanguinarie (in gran parte atee) del Novecento ed a quanto avviene tuttora in diverse parti del mondo, l’immagine di quegli inquisitori preoccupati della salvezza delle anime rischia addirittura di illuminarsi di luce propria.

Non vi furono infatti solo le 1.250 persone5Andrea Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori 2006, p. 772-784 6Christopher Black, Storia dell’Inquisizione in Italia, Carrocci Editore 2013, p. 345 condannate al rogo dall’Inquisizione romana in tutta la sua storia (quattro secoli), ma anche tutele per gli accusati, avvocati difensori, protezione dalle vendette di terzi tramite l’anonimato, salvataggio di centinaia di “streghe” ingiustamente accusate, tentativi fino all’ultimo di salvate la vita degli eretici con la confessione, mantenimento a spese degli inquisitori delle famiglie più povere dei detenuti ed un’infinità di revisioni processuali in ottica moderatrice da parte dei papi.

 

Il nostro nuovo dossier sull’Inquisizione cattolica.

Vedremo nel dettaglio tutto questo con i prossimi dossier, mentre è possibile consultare quelli già pubblicati su tematiche storiche in generale recandosi a questo link.

Ciò che gran parte delle persone sa o ha sentito dire dell’Inquisizione, è falso.

Siamo vittime di quella che Franco Cardini, professore ordinario di Storia presso l’Università di Firenze, ha definito «un oceano d’immonda, innominabile paccottiglia sotto forma cartacea, informatico-telematica, cinematografica»7Franco Cardini, prefazione di R. Camilleri, La vera storia dell’Inquisizione, Piemme 2001, p. 8.

 

Clicca qui per consultare il nuovo dossier:

                                  Gli storici e la leggenda nera dell’Inquisizione

 

 

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L’Inquisizione e la leggenda nera smentita dagli storici moderni

La leggenda nera della Santa Inquisizione. Il mito popolare di un’istituzione brutale e sanguinaria, prodotto dalla propaganda illuminista e protestante, resiste ancora alle conclusioni della storiografia moderna. Qui raccolte le citazioni dei principali specialisti internazionali dell’Inquisizione.

 
 
 

La parola Santa Inquisizione evoca nell’immaginario collettivo truci e poco chiare scene di tortura, monaci sanguinari e roghi.

L’eminente storico Franco Cardini, professore ordinario presso l’Università di Firenze, definisce ciò «un oceano d’immonda, innominabile paccottiglia sotto forma cartacea, informatico-telematica, cinematografica»1Franco Cardini, prefazione di R. Camilleri, La vera storia dell’Inquisizione, Piemme 2001, p. 12.

Eppure, ha proseguito Cardini, esiste «un’ampia, recente ed attendibile letteratura scientifica», i cui protagonisti sono «studiosi di pur differente orientamento (e nessuno di essi sospettabile di filo-cattolicesimo) che hanno ribadito con varie e ben documentate argomentazioni come i tribunali inquisitoriali fossero ben lungi dall’essere quegli strumenti di cieco fanatismo e di feroce ottusità che la divulgazione storica fondata sulla pamphlettistica sette-ottocentesca si è ostinata -e, ohimè, si ostina- a presentare»2Franco Cardini, prefazione di R. Camilleri, La vera storia dell’Inquisizione, Piemme 2001, p. 8.

In questo dossier (in continuo aggiornamento), il primo di una lunga serie sull’argomento, abbiamo raccolto i giudizi conclusivi dei principali studiosi internazionali delle principali inquisizioni cattoliche (medievale, XII-XIV secolo, romana, 1542-1965 e spagnola, 1478-1834).

Dai loro studi emerge un ritratto di un’istituzione certamente severa e sinistra (nessuno vuole creare una leggenda bianca!), ma ben lontana dagli stereotipi e dalle leggende nere nelle quali la propaganda l’ha avvolta.

 

 
 

————- ————–

GLI STORICI CONTRO LA LEGGENDA NERA DELL’INQUISIZIONE

Qui di seguito una raccolta di citazioni di eminenti studiosi nei riguardi dell’Inquisizione e della leggenda nera creata dalla propaganda illuminista e protestante.

 

Agostino Borromeo, docente di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma:

«Verso il XVI secolo, per opera di circoli protestanti, si è diffusa in tutta Europa la falsa credenza che i tribunali dell’Inquisizione fossero spietati; eppure i ricorsi alla tortura e alla condanna alla pena di morte non furono così frequenti come per molto si è creduto. Quanto alle streghe fa riflettere la circostanza che i roghi furono un centinaio in Portogallo, Spagna e Italia a fronte delle cinquantamila vittime nel resto d’Europa, soprattutto in terra di Riforma»3Agostino Borromeo, in P. Mieli, Poche le streghe bruciate dall’Inquisizione, Corriere della Sera 28/06/04.


 

Adriano Prosperi, professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa:

«Un’aura di mistero circonda l’istituzione dell’Inquisizione alimentando leggende di ogni genere. E’ stata usata nelle polemiche sugli stati di polizia, sui sistemi totalitari del nostro secolo, sullo sterminio degli ebrei e via dicendo. I romanzi storici dell’Ottocento in poi se ne sono alimentati di continuo […], demonizzata dalla polemica protestante, attaccata con determinazione dagli illuministi fino a disinnescare il legame con il “braccio secolare”».4Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi 1996 p. XIX, XVII. E ancora: «Quanto all’Inquisizione, la parola rischia di evocare l’alone cupo dell’immagine violenta e arbitraria di quel tribunale elaborata nei secoli moderni. In realtà, il tentativo di creare un tribunale attento alle regole e impegnato nella ricerca (inquisitio) della verità poteva significare perfino un progresso rispetto alla situazione precedente. Tra le regole, una in particolare limitava il ricorso alla tortura, ammessa per i casi di eresia da papa Innocenzo IV con la bolla Ad extirpanda (1252) ma solo in presenza di indizi importanti e a patto di limitarne la durata e di escluderne vecchi, malati, donne incinte e bambini»5Adriano Prosperi, Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492, Fondazione Carispe 2011, p. 39.


 

Peter Godman, docente di Storia medievale e del Rinascimento all’Università di Tubinga:

«L’Inquisizione romana esercita una profonda influenza sull’immaginazione popolare. Anche se, per gran parte della storia moderna d’Europa, i giudici secolari raramente si sono comportati meglio, e non di rado peggio, delle loro controparti dell’Inquisizione romana, i tutori dell’ortodossia cattolica, temuti o derisi che siano, sono ancor oggi condannati da coloro che, non conoscendo i fini e le pratiche del Sant’Uffizio, ne avvallano il mito e ne propagano la leggenda con tutte le sue fuorvianti generalizzazioni […]. Se le convinzioni degli inquisitori ci appaiono oggi quanto meno dubbie, dobbiamo riconoscere che stiamo esprimendo un giudizio morale, più che storico. Questo secondo tipo di giudizio acquista importanza quando è basato su prove. Le prove contenute negli archivi vaticani non consentono di fare un semplicistico paragone tra l’Inquisizione del XVI e XVII secolo e i sistemi totalitari del XX […]. L’oscuro segreto dell’Inquisizione romana era che non esistevano segreti. Nessuna sinistra trama di dominio, nessun grandioso progetto di repressione guidava l’azione di capi e funzionari del Sant’Uffizio. I sistemi politici totalitari a ci è stato paragonato questo organismo non presentano in realtà alcuna analogia con il bastione dell’ortodossia cattolica. La realtà quotidiana che avevano di fronte inquisitori e censori era al contempo più semplice e più complessa, e anche più sorprendente dei consunti stereotipi a cui le polemiche e le fosche leggende vorrebbero farci credere […]. Finto moralismo e autentica ignoranza si associano» agli stereotipi «per fornire la versione più convincente e commerciale dell’Inquisizione. Attirati dalla ripetizione di stereotipi familiari, i lettori sono invitati ad assistere allo spettacolo nel quale si confermano i loro pregiudizi, uno spettacolo che resta divertente e facile da mettere in scena perché non occorrono particolari conoscenze e ricerche. E’ sufficiente replicare per l’ennesima volta la scena delle condanne sostenute precariamente da prove fittizie, più facili da reperire rispetto alle fonti degli archivi»6Peter Godman, I segreti dell’Inquisizione, Baldini Castoldi Dalai 2004, pp. 13, 64, 301, 321.


 

Bartolomé Bennassar, professore emerito di Storia contemporanea all’Università di Toulouse:

«Un’analisi del linguaggio delle opinioni comuni sull’Inquisizione, condotta secondo i moderni metodi quantitativi, darebbe probabilmente il tasso di frequenza più elevato alle parole: Torquemada, intolleranza, fanatismo, tortura, rogo. L’Inquisizione fu però tutt’altra cosa, pur essendo anche questo nei primi trent’anni della sua storia […]. Dopo la diffusione della Leggenda Nera (l’ex segretario traditore di Filippo II, Antonio Perez, ne fu largamente responsabile) l’Inquisizione è di tutte le istituzioni spagnole quella che agli occhi dell’opinione illuminista costituisce il simbolo più perfetto del “fanatismo” spagnolo. Poco importa che questa opinione è contestabile»7Bartolomé Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola, Bur 1994 pp. 7, 337.


 

Andrea Del Col, professore di Storia dell’età della Riforma e della Controriforma all’Università di Trieste:

«Per gli storici liberali dell’Ottocento tutti i perseguitati dall’Inquisizione divennero i martiri del protestantesimo o del libero pensiero […], durante il Settecento, l’Inquisizione divenne uno dei bersagli degli illuministi e assurse a simbolo dell’oscurantismo religioso […]. Il ritorno agli archivi e ai documenti portò alla scoperta che il Sant’Ufficio in Spagna non fu così sanguinario come si era creduto e che dopo i primi decenni del Seicento fu molto cauto nella persecuzione delle streghe»8Andrea Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XI al XXI secolo, Mondadori 2021, p. 6-8. Rispetto all’Inquisizione romana, «risulta da questi studi che non fu sanguinaria come si credeva. Perché meravigliarsene? Le poche uccisioni di eretici, fatte in nome di Dio per motivi legati alla difesa della fede cristiana, anche se eseguite legalmente, noi le valutiamo aberranti, tanto che non si fanno più da due secoli e mezzo, e non vano cancellate dalla memoria, ma forse è proprio il funzionamento ordinario dell’istituzione, sostenuto da giudici-funzionari attenti a rispettare le norme canoniche, l’aspetto più importante e sensibile dell’Inquisizione cattolica […]. Le immagini di interrogatori, torture, autodafé e roghi sono in genere posteriori ai fatti e risultano spesso condizionate dalla leggenda nera»9Andrea Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XI al XXI secolo, Mondadori 2021, p. 13, 14.


 

Jean Dumont, storico francese e specialista dell’Inquisizione spagnola:

«Vi sono ancora in circolazione libri che parlano di centinaia di migliaia di vittime dell’Inquisizione spagnola: libri scritti da persone che ricopiano fonti propagandistiche dell’Ottocento e che non sanno neppure che dagli archivi possono essere ottenute informazioni quasi complete. Uno specialista danese, Gustav Heningsen, ha completato lo spoglio di 50.000 processi che coprono l’arco di 150 anni e ha reperito circa 500 casi di condanne a morte eseguite, cioè l’1%. Altri studiosi hanno confermato questi dati. L’Inquisizione spagnola è figlia della sua epoca e va paragonata a fenomeni analoghi in altri paesi, per esempio alle decine di migliaia di morti della repressione anticattolica in Irlanda e Inghilterra. Quanto alla coscienza moderna, è poi così certa di essere più tollerante di ieri? La repressione ideologica, razziale, comunista o nazionalsocialista ha fatto milioni di morti, mille più volte dell’Inquisizione spagnola»10Jean Dumont, in Cristianità, n. 131, marzo 1986.


 

Thomas Madden, presidente del Dipartimento di Storia della Saint Louis University:

«Alla metà del XVI secolo la Spagna era il paese più ricco e potente d’Europa. Il re Filippo II vedeva se stesso e i suoi concittadini come fedeli difensori della Chiesa cattolica. Meno ricche e meno potenti erano le aree protestanti europee, compresi i Paesi Bassi, la Germania settentrionale e l’Inghilterra. Ma avevano una nuova potente arma: la stampa. Sebbene gli spagnoli avessero sconfitto i protestanti sul campo di battaglia, avrebbero perso la guerra di propaganda. Furono gli anni in cui venne forgiata la famosa “Leggenda Nera” spagnola. Innumerevoli libri e opuscoli uscirono dalla stampa nordica accusando l’impero spagnolo di disumana depravazione ed orribili atrocità nel Nuovo Mondo. L’opulenta Spagna venne considerata un luogo di oscurità, ignoranza e malvagità. Sebbene gli studiosi moderni abbiano da tempo scartato la Leggenda Nera, rimane ancora molto viva oggi. La propaganda protestante che prese di mira l’Inquisizione spagnola attinse liberamente dalla leggenda nera. Ma aveva anche altre fonti. Dall’inizio della Riforma, i protestanti ebbero difficoltà a spiegare il divario creatosi tra l’istituzione di Cristo della Sua chiesa e la fondazione delle chiese protestanti nel XV secolo. I cattolici naturalmente spiegarono questo problema accusando i protestanti di aver creato una nuova chiesa, separata da quella originaria di Cristo. I protestanti ribatterono che la loro era la chiesa creata da Cristo, ma che fu costretta alla clandestinità dalla Chiesa cattolica. Così, proprio come l’Impero Romano aveva perseguitato i cristiani, il suo successore, la Chiesa cattolica romana, continuò a perseguitarli per tutto il Medioevo. Sfortunatamente non c’erano protestanti nel Medioevo, tuttavia gli autori protestanti li trovarono comunque sotto le spoglie delle varie eresie medievali. In questa luce, l’Inquisizione medievale non era altro che un tentativo di distruggere la vera chiesa nascosta. L’Inquisizione spagnola, ancora attiva ed estremamente efficiente nel tenere i protestanti fuori dalla Spagna, era per gli scrittori protestanti solo l’ultima versione di questa persecuzione. Mescolate liberamente tutto ciò con la leggenda nera e avrete tutto quel di cui c’è bisogno per produrre volantini sull’orribile e crudele Inquisizione spagnola. E così venne fatto […] L’Inquisizione spagnola, già diffamata come strumento sanguinario di persecuzione religiosa, venne derisa dai pensatori illuministi come un’arma brutale di intolleranza e ignoranza. Era stata costruita una nuova, immaginaria Inquisizione spagnola, progettata dai nemici della Spagna e della Chiesa cattolica»11Thomas Madden, The Truth About the Spanish Inquisition, in Crisis, ottobre 2003.


 

Maria Elvira Roca Barea, già docente di Storia all’Università di Harvard e collabora con l’Higher Council for Scientific Research (CSIC):

«In Spagna la persecuzione delle streghe era qualcosa di molto insolito, soprattutto se si considerano le persecuzioni di massa dei protestanti, causa di migliaia di esecuzioni per stregoneria senza alcun processo legale. L’Inquisizione non perseguì solo la dissidenza cattolica ma anche crimini come lo sfruttamento della prostituzione, gli abusi sui minori, la contraffazione di valuta. Non si trattava solo di questioni di fede, ma si processavano anche persone che avevano commesso reati gravissimi. L’Inquisizione ha offerto maggiori garanzie agli accusati, in effetti il diritto processuale nel mondo cattolico deve molto all’Inquisizione perché ha istituito un sistema giudiziario con inchieste, giudici, difensori»12M.E. Roca Barea, Analfabetos ha habido siempre pero nunca habían salido de la universidad, El Mundo, 17/12/2016.


 

Anna Foa, docente di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma:

«L’immagine dell’Inquisizione romana come regno della tortura e del male vive ormai di vita propria, finendo per assomigliare a quelle fake news di cui oggi molto si parla. Nel corso dei due decenni precedenti si era già avuta una vasta rivisitazione storiografica in questo campo, che era però andata, più che nella direzione di una richiesta di perdono, nel senso di una revisione della cosiddetta immagine nera dell’Inquisizione, attraverso studi che, soprattutto nei riguardi dell’Inquisizione romana, avevano piuttosto messo in discussione il numero delle sue vittime e il suo ruolo nella persecuzione». La moderna storiografia, tuttavia, non ha influito sul «saper comune e nemmeno nell’attività di divulgazione dei media, volta più al sensazionalismo che all’accuratezza dei dati. Si è così ulteriormente accentuato il divario fra gli studi scientifici e il saper comune, e assai poco delle acquisizioni più recenti della storiografia era passato a far parte dell’immagine diffusa del terribile tribunale d’Inquisizione. Basta navigare in rete, leggere i titoli degli ultimi libri apparsi, per rendersene conto. La divaricazione tra il sapere razionale — frutto di riflessioni, di approcci storici, di analisi documentaria — e quello mitologico è ormai invalicabile. Si scrive e si afferma che l’Inquisizione ha fatto milioni di morti per stregoneria con la stessa sicumera con cui si afferma che i vaccini sono la causa dell’autismo. Ma avevamo davvero sperato che l’accesso agli archivi, il crescere dei materiali a disposizione degli studiosi, il loro sapere specialistico, le loro distinzioni, potessero incrinare il regno del mito, del non sapere, del pregiudizio? Ma perché avrebbe dovuto essere così? Gli ultimi vent’anni, che sono quelli passati dall’apertura degli archivi, sono anche quelli che hanno visto il crescere nella società tutta della fabbrica mitologica, l’affermarsi di strumenti molto più utili alla sua affermazione della carta e delle stesse immagini, l’abbattimento delle barriere fra il vero e il falso, fra il sapere e il non sapere, fra la realtà e la finzione. Passioni e pregiudizi prevalgono su sapere e conoscenza. Gridano più alto. Nessun archivio — dovremmo saperlo, dovremmo averlo imparato dagli eventi dei secoli passati — può avere la meglio su di essi, nessun documento può confutare un pregiudizio consolidato, mettere in crisi uno stereotipo»13Anna Foa, Nessun documento riesce a sconfiggere il pregiudizio, in Osservatore Romano, 17/05/18.


 

Henry Kamen, docente di Storia spagnola all’Università di Warwick:

«L’Inquisizione come un’onnipotente ente di tortura è un mito del 19° secolo, mentre si è trattata di un’istituzione sottodimensionata, i cui tribunali erano sparsi e avevano solo una portata limitata ed i cui metodi erano più umani rispetto a quelli della maggior parte dei tribunali secolari. La morte sul fuoco, inoltre, era l’eccezione, non la regola».14Herny Kamen, The Spanish Inquisition: A Historical Revision, Yale University Press 1999.


 

Christopher Black, professore emerito di Storia d’Italia all’Università di Glasgow:

«L’Inquisizione in Italia può sembrare un argomento oscuro e poco attraente, ma non si tratta di una storia così macabra come le leggende e i pregiudizi possono suggerire, né assomiglia alle immagini distorte che Francisco Goya ha dedicato alle ultime fasi dell’Inquisizione spagnola […]. Condivido le argomentazioni di Adriano Prosperi e Simon Ditchfield, secondo cui l’Inquisizione romana, nonostante il suo lato oscuro, è stata anche una forza creativa ed educativa, che ha contribuito a definire e influenzare la cultura italiana almeno fino al XIX secolo»15Christopher Black, Storia dell’Inquisizione in Italia, Carrocci Editore 2013, p. 23-25. «John Tedeschi – “il padrino dell’immagine corrente dell’Inquisizione” – ha sfatato in maniera energica e decisa la “leggenda nera” che avvolgeva, in passato, l’Inquisizione romana. Il modo in cui Tedeschi ha illustrato i tentativi degli inquisitori di giudicare con equità, di educare oltre che punire, ha avuto un forte impatto sul mio approccio interpretativo. Tedeschi ha messo in luce come l’Inquisizione romana non fosse “una caricatura di tribunale, un tunnel degli orrori, un labirinto giudiziario dal quale era impossibile uscire”, e Anne Jacobson ha motivatamente aggiunto che essa “ha offerto la migliore giustizia criminale possibile nell’Europa dell’età Moderna”»16Christopher Black, Storia dell’Inquisizione in Italia, Carrocci Editore 2013, p. 32. «Al contrario dei miti diffusi, l’Inquisizione romana emanò poche sentenze capitali (diversamente dai tribunali secolari). La condanna al carcere perpetuo significava di rado l’ergastolo, ma qualcosa fra i tre e gli otto anni di prigione (che spesso potevano diventare arresti domiciliari)»17Christopher Black, Storia dell’Inquisizione in Italia, Carrocci Editore 2013, p. 238.


 

Joseph Pérez, docente di Storia della civiltà spagnola e latino-americana all’Università di Bordeaux-III:

«Nell’Europa dei Lumi, e dell’Encyclopédie, dominata dal pensiero ironico e graffiante di Voltaire, la parola Inquisizione divenne sinonimo di fanatismo e oscurantismo. Per gli scrittori protestanti e per l’intelligencija antipapista dell’Europa centro-settentrionale, il tribunale ecclesiastico fu il simbolo dello spirito tirannico con cui la Chiesa romana cercò di impedire che la mente dei suoi fedeli fosse contaminata dai pericolosi germi del libero pensiero. Anche negli ultimi decenni gli storici e i letterati hanno contribuito a diffondere la convinzione che l’Inquisizione fosse l’arma della Chiesa contro il dissenso e per molti aspetti il modello storico dei servizi di sorveglianza ideologica con cui i totalitarismi del XX secolo perseguitarono i loro oppositori. Ma la realtà, nascosta sotto una fitta coltre di luoghi comuni e “idées regues”, è almeno in parte diversa»18Joseph Pérez, Breve storia dell’Inquisizione spagnola, Corbaccio 2006, p. 4.


 

Marina Montesano, professore ordinario di Storia medievale presso l’Università di Messina:

«La storia della stregoneria e della caccia alle streghe affascina e attrae numerosi lettori in Italia, pur non essendo molto praticata a livello scientifico nel nostro paese: nel mondo tedesco come in quello anglosassone le cose vanno diversamente e l’aggiornamento storiografico appare più avanzato. Da noi, per esempio, continua a circolare l’idea che la stregoneria sia un fenomeno scaturito dall’ignoranza dell’oscuro medioevo e non, com’è più corretto, dalla piena età moderna. Proprio durante il fiorire del Rinascimento si elaborarono idee e strumenti atti a perseguire le streghe, e fu in piena età moderna che si registrarono in Europa le condanne più gravi e numerose. Se è ovviamente impossibile una stima precisa del numero di vittime in Europa, ormai la storiografia è in grado di proporre dati probabili: nell’intero periodo tra metà Quattrocento e metà Settecento le condanne alla pena capitale oscillano tra le 40mila e le 60mila, nonostante la pubblicistica in materia dia spesso cifre palesamente assurde, che arrivano addirittura a parlare di milioni di vittime. Circa la metà delle condanne capitali europee furono comminate in Germania. Sono soprattutto due i fattori che pesarono maggiormente sulla storia della stregoneria nella Germania del Sacro Romano Impero: la Riforma – con il conseguente conflitto tra cattolici e protestanti – e l’estrema frammentazione del potere politico. Entrambe queste situazioni, seppur in modo diverso, finirono per incrementare e aggravare il fenomeno. Lutero e Calvino non sembrano aver dato molto peso alla stregoneria e nessuno dei due riformatori elaborò una forma di demonologia innovativa, ma il Diavolo esercitava a loro avviso un potere reale nel mondo. Il paragone tra la Germania e la Spagna è istruttivo: nella penisola iberica, vittima di una secolare “leggenda nera”, si ebbe in realtà un uso giudiziario della tortura assai moderato e un numero di vittime molto basso, se paragonato all’Europa centro-settentrionale; i tribunali della Suprema (il supremo concilio dell’Inquisizione, che dipendeva dalla Corona) erano infatti restii a comminare la pena capitale, preferendo generalmente condanne più blande. Inoltre, le accuse erano più simili a quelle tradizionali di magia, piuttosto che di stregoneria per così dire «moderna», cioè corredata di patti e omaggi demoniaci, volo magico, infanticidi e via dicendo. Quante furono le streghe condannate a morte in Spagna? Dovrebbero aggirarsi intorno alle 300».19Marina Montesano, Superstizioni dell’età moderna, Il Manifesto, 31/12/2011.


 

Rodney Stark, docente di Sociologia alla Baylor University ed editore-fondatore dell’Interdisciplinary Journal of Research on Religion:

«Si legge di uomini incappucciati in prigioni sotterranee illuminati solo da torce che usano strumenti di tortura sui corpi nudi di uomini e donne il cui unico crimine è di aver avuto qualche pensiero che la Chiesa considerava eretico. I torturatori sono assolutamente privi di pietà, e lavorano nella sicura convinzione che l’odore della carne bruciata degli esseri umani sia “piacevole alla Santa Trinità e alla Vergine”. La verità più scioccante sull’Inqusizione spagnola è che tutto ciò che viene raccontato è o una totale menzogna o una grossolana esagerazione! Il resoconto standard dell’Inquisizione spagnola fu inventato e diffuso da propagandisti inglesi e olandesi nel XVI secolo, durante le guerre contro la Spagna, e da quel momento fu ripetuto da storici in mala fede, fuorviati, ansiosi di sostenere un’immagine della Spagna come nazione di bigotti fanatici. Tali storici inglesi (ma anche disertori spagnoli) esprimevano anche apertamente il loro disprezzo e antagonismo nei confronti del cattolicesimo romano, atteggiamento che si rifletteva nel fatto che gli studenti cattolici non veniva ammessi a Oxford e Cambridge fino al 1871. Non stupisce che queste odiose accuse senza senso siano state sostenute durante la lunga epoca d’intenso anticattolicesimo che in Inghilterra (e negli Stati Uniti) è durata fino al XX secolo. Ma non ci sono scuse per quegli irresponsabili “studiosi” contemporanei che continuano a sostenere tali affermazioni, mentre ignorano o liquidano la notevole ricerca sull’Inquisizione che è stata condotta nelle ultime generazioni. Questi nuovi storici (molti dei quali non sono né spagnoli né cattolici) basano le loro concezioni critiche sui documenti degli archivi completi dell’Inquisizione sia di Aragona (Saragozza, Navarra, Barcellona, Valencia e Sicilia) che di Castiglia -che insieme costituirono l’Inquisizione spagnola- ai quali hanno avuto pieno accesso. Hanno rivelato che, a differenza delle corti secolari attive in tutte Europa, l’Inquisizione spagnola fu un’organizzazione coerente quanto a giustizia, detenzione, giusto processo e espiazione»20Rodney Stark, Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012, pp. 436, 437.


 

Nathan Johnstone, docente di Storia presso l’Università di Portsmouth e la Canterbury Christ Church University:

«Gli antireligiosi sembrano indifferenti a verificare se la loro comprensione è accurata. Nessuno fu accusato di essere posseduto diabolicamente per il semplice motivo che la possessione non era un crimine, ma una diagnosi. E solo nelle “super-cacce” che per qualche decennio afflissero una manciata di zone del Sacro Romano Impero, il sospetto può essersi tradotto in convinzione. Le Inquisizioni hanno ucciso pochissime streghe e nessuno storico serio ora crede che il numero di esecuzioni per stregoneria abbia superato le 50.000 in tutta Europa»21Nathan Johnstone, The New Atheism, Myth, and History: The Black Legends of Contemporary Anti-Religion, Palgrave Macmillan 2018, p. 21.


 

Helen Rawlings, docente di Spanish Studies presso l’University of Leicester:

«Con il termine “leggenda nera” ci si riferisce ad un atteggiamento prevalente nel nord Europa nella seconda metà del Cinquecento quando cominciarono a emergere le critiche verso l’Inquisizione nei paesi politicamente e ideologicamente contrari alla Spagna. Opuscoli protestanti nei Paesi Bassi, stati tedeschi, Inghilterra e Francia hanno promosso vigorosamente la reputazione selvaggia tramite la stampa. La leggenda, in parte generata da protestanti spagnoli esiliati, è stata progettata per promulgare i più neri fatti sulla Spagna e sui suoi governanti facendola diventare sinonimo di tutto ciò che è repressione, brutalità, intolleranza religiosa e politica, nonché arretratezza intellettuale e artistica. Tra i resoconti più critici dell’Inquisizione scritti fuori dalla Spagna è quello del protestante inglese John Foxe, il quale ha esagerato le pratiche repressive del Sant’Uffizio contribuendo a diffondere un’opinione anticattolica. Un testo che ha avuto maggiore influenza sulla propagazione della leggenda nera fu scritto da Reginaldus Gonsalvius Montanus (probabilmente uno spagnolo protestante), pubblicato a Heidelberg nel 1567 in latino e presto ristampato in diverse lingue […]. Ma la dettagliata ricerca effettuata dalla fine degli anni ’70 da una nuova generazione di studiosi internazionali ha fondamentalmente sfidato l’approccio tradizionale alla storia dell’Inquisizione e ha richiesto una profonda rivalutazione del suo ruolo […]. In primo luogo, l’Inquisizione non era neanche lontanamente vicina al sanguinario e repressivo strumento di controllo ideologico comunemente percepito. Le repressioni del 1480 furono di breve durata e per la maggior parte della sua storia, il tasso di esecuzione è rimasto inferiore al 2%, una media di cinque persone all’anno. Tortura e pena di morte furono applicate solo raramente, quasi esclusivamente durante i primi anni della sua esistenza e molto più su vecchi cristiani che sulle minoranze religiose dissidenti. Qualunque giudizio dell’istituzione deve quindi tener conto del periodo storico e del contesto in cui ha operato»22Helen Rawlings, The Spanish Inquisition, Wiley-Blackwell 2005 pp. 5, 8, 13.


 

Jennifer Kolpacoff Deane, docente di Storia presso l’University of Minnesota:

«A differenza delle immagini presentate nella cultura popolare, non esistette nessuna istituzione persecutoria organizzata ed efficiente. Solo nella polemica e nella finzione esisteva l’Inquisizione, un unico onnipotente, orribile corte i cui agenti lavoravano ovunque per contrastare le verità religiose, la libertà intellettuale e la libertà politica. Questo è il mito dell'”Inquisizione” emerso negli ultimi quattrocento anni, sia come risultato di profonde ostilità tra scrittori cattolici e protestanti che di macabre rappresentazioni cinematografiche di abiti scuri e spietati inquisitori che mandano innocenti a morire sul fuoco»23Jennifer Kolpacoff Deane, A History of Medieval Heresy and Inquisition, Rowman & Littlefield Publishers 2011, p. 88.


 

Dennj Solera, assegnista di ricerca in Storia moderna presso l’Università di Bologna:

«Molte ricostruzioni si discostano sensibilmente dalla realtà descritta nei documenti del tempo, fornendoci spesso un’idea fuorviante di cosa furono l’Inquisizione e i suoi rappresentanti. Sottrarre un qualsiasi oggetto storico al proprio contesto specifico significa esporlo alle più disparate interpretazioni, non di rado tendenti a forzature apologetiche […]. Il modello narrativo dell’inquisitore è venuto formandosi in un continuo intreccio fra opere di finzione artistico-letteraria, da una parte, e vaghi riferimenti alle fonti storiche dall’altra», come ad esempio fece Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, dove «l’immagine più nota dell’inquisitore» si modellò a partire «dall’avversione che lo scrittore nutrì nei confronti del clero e del cattolicesimo […]. I molti documenti pervenutici del tribunale ci permettono di comprendere quanto significativi siano i punti di discrepanza che emergono tra l’inquisitore letterario e l’inquisitore della storia […]. Essere un inquisitore non era un compito facile come potrebbe credere chi si limitasse alla leggenda nera del Sant’Uffizio, secondo la quale la corte di giustizia sarebbe stata retta solo da frati spietati, crudeli, sempre smaniosi di istruire processi e bruciare persone»24Dennj Solera, La società dell’Inquisizione, Carocci 2021, p. 15-18, 27-28.

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