Da Ricolfi a Rampini: la sinistra che non si piega al progressismo

Aumentano le voci di dissenso, nella sinistra italiana, verso la gogna democratica del progressismo. Dopo i sociologi Luca Ricolfi e Paola Mastrocola si aggrega Federico Rampini, editorialista del Corriere e profondo conoscitore del giogo repressivo degli ambienti progressisti statunitensi. Liberi pensatori crescono.


 

Mentre le destre, almeno su questo, sembrano avere qualche anticorpo in più, la sinistra è da anni in ostaggio del progressismo. O della woke-culture secondo uno slang statunitense sempre più utilizzato.

 

La sinistra e il progressismo: da dove arriva?

Con questo termine si intende l’ansia esistenziale di sentirsi dalla parte giusta della storia spendendosi ossessivamente nella purificazione del mondo tramite l’esaltazione dittatoriale di qualunque minoranza (etnica, culturale, sessuale), terrorizzando ogni dibattito in nome dell’uniformità di pensiero e del politicamente corretto.

I nemici? Il pluralismo delle idee, la libertà di ricerca, di coscienza e d’opinione.

Si tratta nient’altro che dell’applicazione del pensiero marxista, passato dalla lotta di classe ai fantomatici “diritti civili”, con il supporto quasi totale e schierato del regime mediatico e delle grandi multinazionali.

Un’ideologia nata in particolare nei paesi anglofoni, su tutti il Canada e gli Stati Uniti.

 

Martiri del progressismo: Jordan Peterson e J. K. Rowling

Qualche mese fa proprio in Canada, il principale intellettuale del paese, lo psicologo Jordan Peterson, si è platealmente dimesso dall’Università di Toronto dov’era professore ordinario denunciando il giogo repressivo del progressismo che discrimina e impedisce «ai miei studenti migliori di fare carriera solo perché maschi bianchi eterosessuali, nonostante i loro curriculum scientifici siano stellari».

Nonostante sia uno dei pensatori più influenti al mondo, lo stesso Peterson subisce da anni limitazioni di pensiero a causa di una «spaventosa ideologia che oggi sta demolendo le università e, a valle, la cultura generale». «Tutti i miei colleghi», denuncia, «devono fare solo certi tipi di dichiarazioni per ottenere una borsa di studio, tutti mentono ed insegnano ai loro studenti a fare lo stesso. E lo fanno costantemente, dandosi giustificazioni, corrompendo ulteriormente quella che è già un’impresa straordinariamente corrotta».

Il progressismo è all’origine della cancel culture, l’epurazione violenta di tutto ciò che è ritenuto offensivo e superato del passato. Sempre in Canada, da tempo si bruciano letteralmente i libri ritenuti “dannosi” perché divulgano “stereotipi negativi”, ovvero capolavori come Il signore delle mosche di William Golding (rappresenterebbe le strutture di potere dell’uomo bianco), Il buio oltre la siepe di Harper Lee, fumetti “moralmente obsoleti” come Tintin e Asterix e Obelix ecc.

In queste cerimonie di purificazioni i promotori si illudono che abbattendo statue e bruciando libri possano diventare finalmente un paese “inclusivo”, grande mantra del progressismo. Roghi e violenze in nome dell’antirazzismo e della tolleranza, ma anche deturpazione del linguaggio con asterischi e schwa.

L’ossessione psicologica dell’evitare l’offesa offendendo chi non si schiera, la morbosità dell’inclusività escludendo chi è d’ostacolo (pensiamo alle donne escluse rispetto ai trans e discriminate se osano difendere la femminilità, come J. K. Rowling).

La buona notizia è che non tutti accettano passivamente, esistono ancora liberi pensatori e sempre più anche tra le file della sinistra c’è chi dice “no”.

 

Il marxista Zizek contro l’immigrazionismo radicale

Abbiamo già citato Jordan Peterson ma anche l’Italia vanta diversi “eretici”.

Il filosofo marxista Slavoj Zizek, profondo conoscitore degli Stati Uniti, ha denunciato ad esempio il progressismo applicato all’immigrazionismo radicale:

«Il problema con questa strategia», scrive, «non è solo che il sistema non può venire incontro a queste richieste, ma anche che coloro che le enunciano non vogliono veramente che esse vengano realizzate. Quando i radicali accademici chiedono pieni diritti per gli immigrati e l’apertura delle frontiere, sono consapevoli del fatto che l’adempimento diretto di questa richiesta inonderebbe, per ovvie ragioni, i paesi sviluppati occidentali di milioni di nuovi venuti, così da provocare una violenta reazione razzista da parte della classe operaia che poi metterebbe in pericolo la posizione di privilegio di quegli stessi accademici? Naturalmente costoro ne sono consapevoli, ma contano sul fatto che la loro richiesta non verrà accolta, in questo modo essi possono ipocritamente conservare la loro limpida coscienza radicale mentre continuano a godersi la loro posizione di privilegio»(S. Zizek, Il nano e il manichino, Ponte delle Grazie 2021, p. 48)

 

Il “Manifesto” anti progressismo di Ricolfi

L’editorialista di Repubblica, il sociologo Luca Ricolfi, assieme a Paola Mastrocola, ha firmato il Manifesto del libero pensiero denunciando la «grande cappa che aleggia sopra di noi, un opprimente clima, fatto di censura e intimidazione, che sovrasta ogni nostra parola e pensiero, con imposizioni e divieti più o meno velati su che cosa è bene dire e pensare».

«La parola è stravolta, strumentalizzata, incattivita, imprigionata», spiegano, «nei social, nelle grandi aziende e nelle istituzioni, nel mondo della comunicazione, della pubblicità e dello spettacolo. Una parola imbavagliata, sorvegliata, censurata e autocensurata. Mai veramente libera. Che grida vendetta. E merita di essere liberata».

«Se l’ideologia fondamentale progressista è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment, non stupisce che la censura di ogni posizione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra», denunciano su La Stampa.

 

Il libro di Federico Rampini in difesa dell’Occidente

Recentemente anche Federico Rampini, saggista ed editorialista de Il Corriere, ha titolato Suicidio Occidentale (Mondadori 2022) il suo ultimo libro.

A sua volta ha denunciato «la schiavitù conformista del politicamente corretto» che «colpevolizza e demolisce la nostra storia descrivendola come un concentrato di arroganza, imperialismo e sopraffazione. Questo processo a noi stessi esige riti di epurazione, auto-flagellazione. Il capitalismo politically correct è affollato di giovani educati a 70mila dollari di retta annua nelle grandi università americane, dove il veteromarxismo è tornato di moda».

Rampini accusa anche la grande ipocrisia delle big tech e della grande politica democratica che «non vuole sentire parlare della grande questione sociale, il dramma delle disuguaglianze di massa. Perciò abbraccia cause iper-progressiste: salvare il pianeta, esaltare le minoranze etniche, concentrarsi sui trasgender».

Ma nel farlo ideologizza tutto, perciò la tematica ambientale si trasforma in «neo-paganesimo panteista» diventando «estremismo ambientalista», la battaglia per le minoranze sessuali «perseguita le femministe storiche», l’immigrazione incontrollata finisce per danneggiare l’economia e la sicurezza degli Stati.

Nessuno degli intellettuali citati finora è cattolico anzi, Rampini recentemente è stato protagonista di uno scontro molto duro con il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, accusandolo (molto vigliaccamente) di essere “stipendiato da Putin”.

Il libro di Rampini ha trovato stranamente eco sui grandi media, recensito in un editoriale del Corriere in cui Danilo Taino conferma che «in molte università è impossibile, per chi non si accoda anche alle posizioni più estreme su sesso e genere, avere diritto di parola. Spesso, docenti che osano esprimere opinioni diverse da quelle di gruppi di militanti organizzati devono poi umiliarsi in autocritiche pubbliche e rischiano comunque di essere allontanati dall’insegnamento da autorità accademiche impaurite».

Perfino Concita De Gregorio, autorevole membro della sinistra radicale, ha sperimentato pochi giorni fa la «gogna democratica», ovvero «quel tribunale in servizio permanente tutto attorno a noi».

La redazione

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