L’ictus la rese disabile, nel dolore ritrova la fede e la felicità

La storia di Katherine Wolf, giovane mamma sopravvissuta ad un ictus. La circostanza della disabilità le ha permesso di scoprire la fede e una felicità mai sperimentata prima. Assieme al marito sono autori di un libro che ha avuto grande successo e presto sarà un film.

 
 
 

«È possibile abbracciare la sofferenza come un privilegio, piuttosto che una punizione o una sfortuna?».

E’ questa la sfida avanzata da Jay e Katherine Wolf, una coppia di Atlanta, autrice di un libro di grande successo: Hope Heals (Zondervan 2016). La speranza guarisce.

Ne sanno qualcosa, loro, della sofferenza.

Nel 2008 Katherine, a soli 26 anni e madre del piccolo James, ha avuto un’emorragia cerebrale a causa di un ictus che l’ha quasi uccisa. Dopo 16 ore di intervento è sopravvissuta miracolosamente ma non è più stata in grado di camminare, parlare o deglutire normalmente.

L’ex modella soffre ancora oggi di una grave visione doppia, è sorda da un’orecchio destro, si sposta in carrozzina ed è paralizzata nella parte destra del viso.

 

Il senso del dolore: condizione per un bene più grande

«Ho dovuto imparare a trovare Dio nel mezzo di tutto questo», ha raccontato la donna.

Non appena ha iniziato a vivere la sua disabilità non come sfortuna, come la fine della storia, ma come una condizione misteriosa (una croce?) attraverso cui passare, la fede cristiana è improvvisamente rifiorita.

«Ho capito ed imparato che la bontà di Dio non dipende dalle mie circostanze terrene e non si basa su nulla di ciò che accade nel mondo fisico. La croce ha messo tutto questo in una prospettiva».

Ma chi l’ha detto, domanda la coppia americana, che «la gioia può essere trovata solo in una vita senza dolore.

«E’ un mito che vogliamo dissipare». Questo lo scopo del loro libro, diventato subito un successo editoriale.

Nel febbraio 2020 ne è uscito un secondo, intitolato Suffer Strong: How to Survive Anything by Redefining Everything (Zondervan 2020). Un racconto in cui si aiuta il lettore a «trovare la speranza non solo tra le grandi delusioni della vita, ma anche nelle piccole morti interiori e nelle piccole perdite che accadono vivendo».

Nel 2015, i Wolf hanno anche dato miracolosamente il benvenuto al loro secondo figlio, John Nestor Wolf, dal nome del neurochirurgo che ha operato Katherine. Di recente la Sony Pictures ha chiesto i diritti per trasformare il loro libro Hope Heals in un film.

 

Come un cristiano vive l’esperienza della sofferenza.

Le parole di Katherine ricordano quelle di don Francesco Cosentino, della Pontificia Università Gregoriana.

Occorre uscire «dall’interpretazione superstiziosa e magica della religione», ha chiesto il teologo, ed imparare «che Dio non è il tappabuchi delle nostre delusioni, ma la ragione del nostro sperare».

«Nella difficoltà e nelle oscurità», ha proseguito, «facciamo l’esperienza della nostra fragilità, cosicché abbandoniamo le maschere fabbricate ad arte per nasconderla e/o i surrogati della nostra società del consumo per esorcizzarla. Siamo fragili e impariamo a benedire ciò che siamo, svestendo i panni dell’onnipotenza».

«È in quella notte» dell’anima, ha proseguito il teologo, «che noi possiamo vedere Dio proprio quando pensavamo di averlo perduto; entrando nella notte, infatti, Gesù ci rivela chi è Dio: non uno che fa teorie sul dolore o ne stabilisce le colpe, ma il Dio che entra nella notte, la soffre con te, accompagna la tua paura, si lascia toccare e ferire. E si lascia inchiodare sulla Croce perché quella notte si apra alla luce di una nuova vita».

Solo allora, ha concluso, «questa luce arriva inattesa, come l’alba del mattino di Pasqua. Può significare la fine di quella sofferenza o semplicemente l’aver ricevuto la grazia di guardare alla vita in modo nuovo».

La redazione

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