Il sesso è binario, psicologo smonta i gender studies

La nostra intervista del venerdì è dedicata a Marco Del Giudice sul tema del binarismo sessuale. Lo psicologo spiega che esistono differenze biologiche tra maschi e femmine e la differenza non è attribuibile agli stereotipi sociali come sostengono i gender studies.


 

Sesso, genere, binarismo sessuale e determinismo biologico.

C’è molta confusione da quando la femminista Judith Butler ha scritto Gender Trouble (1990), inventando di fatto il concetto di “genere”.

Pochi giorni fa su La Stampa l’immunologa Antonella Viola ha guadagnato una paginata intera presentando il suo prossimo libro, sostenendo che non vi sarebbe alcuna differenza tra maschi e femmine e che la visione binaria dei due sessi (maschie e femmine) «non corrisponde a realtà».

 

UCCR ha intervistato su questo Marco Del Giudice, psicologo evoluzionista e docente presso l’Università del New Mexico (USA).

 

Prof. Del Giudice, qual è al momento lo stato dell’arte della ricerca circa le differenze strutturali/biologiche tra maschi e femmine?

La ricerca biologica sulle differenze di genere è un campo enorme, impossibile anche solo tentare una sintesi nello spazio di questa mini-intervista.

Ci sono ricerche sulle differenze tra maschi e femmine nei tratti di personalità, nelle abilità cognitive, negli stili sociali (ad esempio competizione, cooperazione, ricerca dello status), nella comunicazione e nell’espressione delle emozioni, nelle preferenze in campo romantico e sessuale, nel rischio di sviluppare diversi tipi di disturbi mentali (come depressione e autismo), e così via.

Per una panoramica recente e approfondita, consiglio sempre lo splendido libro Male, Female di David Geary, purtroppo non ancora tradotto dall’inglese. Ci sono anche un articolo e una video intervista in italiano che ho fatto pochi mesi fa proprio su questi temi, e che possono servire come introduzioni “morbide” a questo ambito di ricerca.

 

Ma è giustificato sostenere che le differenze di comportamento e di ruolo siano totalmente attribuibili agli stereotipi sociali?

Forse il punto più importante da sottolineare è che distinguere (parzialmente) i contributi della nostra biologia da quelli della cultura è difficile ma tutt’altro che impossibile, e si può fare mettendo in relazione tra loro i modelli della biologia evoluzionistica, gli studi comparativi tra diverse specie animali, le ricerche cross-culturali, e i dati della neurobiologia e della psicologia dello sviluppo.

Queste fonti di informazione si incastrano come pezzi di un grande puzzle, e ci permettono di mettere alla prova diverse ipotesi alternative, comprese quelle che attribuiscono l’esistenza delle differenze di genere agli effetti della socializzazione, degli stereotipi, dei media, e così via.

L’idea che il cervello di maschi e femmine sia sostanzialmente una “tabula rasa” su cui la cultura incide preferenze e aspettative, e che le differenze di genere nel funzionamento psicologico siano causate in gran parte (se non completamente) dall’apprendimento sociale, è ancora molto viva e presente.

Dalla mia prospettiva di psicologo evoluzionista, si tratta di una visione del mondo anacronistica, scientificamente debolissima, e sostanzialmente ferma sulle posizioni del femminismo anni ’70. Questo non vuol dire che la scienza abbia già tutte le risposte, o che si possa spiegare tutto con quattro concetti biologici di base.

Le complessità sono importanti, sono tante, e vanno riconosciute e spiegate. “Natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo affascinante. Se si guarda al comportamento umano da una prospettiva biologica sofisticata, da un lato è vero che si possono semplificare certe questioni che altrimenti rimangono opache o intrattabili; ma dall’altro lato sorgono mille nuove domande, e quello che sembrava semplice può rivelare sfaccettature inaspettate.

 

Secondo Antonella Viola, “la visione binaria che separa il mondo sulla base dei due sessi […] non corrisponde alla realtà”. Il binarismo sessuale è un “dogma” e “una gabbia”. L’impressione è che argomenti questa posizione con il classico errore di riferirsi a delle patologie (come le alterazioni del corredo cromosomico, l’intersessualità e l’ermafroditismo), quindi delle eccezioni alla norma. E’ corretto?

Su questo tema c’è una confusione enorme; purtroppo, almeno a giudicare dal suo articolo non mi pare che la prof. Viola stia facendo molto per portare chiarezza.

Per esempio scrive: “Le persone intersessuali presentano variazioni dello sviluppo sessuale. Nulla di raro: si stima che fino all’1,7% dei nati manifesti caratteri sessuali che non corrispondono completamente alle nozioni binarie del corpo maschile o femminile”. In questo passaggio, confonde l’intersessualità (che, definita in modo preciso, riguarda meno dello 0,02% delle nascite, cioè circa 100 volte meno di quanto lascia intendere) con il criterio del tutto arbitrario di “caratteri che non corrispondono completamente alle nozioni binarie”.

Questo scivolone semantico è stato commesso per la prima volta da Anne Fausto-Sterling nel 2000; già nel 2002 e 2003 diversi autori avevano evidenziato gli errori di calcolo e definizione che l’avevano portata a esagerare la stima di 100 volte (la storia di questa controversia è stata raccontata ad esempio qui e qui).

Purtroppo quel “magico 1,7%” continua ad essere tramandato e ripetuto in modo acritico da più di vent’anni; devo dire che vederlo citato nell’articolo della prof. Viola non promette molto bene. Spero di essere smentito dal contenuto del nuovo libro!

Al di là delle cifre, la questione cruciale sta nella confusione fra livelli di analisi che invece devono essere distinti in modo preciso.

 

Quali sono questi livelli?

Il primo livello è quello della definizione biologica del sesso, che si basa sulla presenza di due (e solo due) tipi di gameti —uno più grande prodotto dalle femmine e uno più piccolo prodotto dai maschi. A questo livello concettuale, il sesso è un costrutto decisamente binario; non per una strana coincidenza, ma per ragioni biologiche profonde che abbiamo iniziato a capire grazie all’uso di modelli matematici.

Il secondo livello di analisi è quello della differenziazione sessuale nei singoli individui, che si basa su una catena molto lunga e complessa di meccanismi genetici e ormonali. Questo è il livello a cui la prof. Viola fa riferimento quando scrive che “la definizione di sesso biologico si fonda sul patrimonio genetico, sugli organi genitali e sul quadro ormonale generale” (una frase fuorviante, perché la determinazione del sesso non è la stessa cosa della sua definizione biologica). A questo livello, la natura binaria del sesso è parzialmente “incrinata” dalle condizioni atipiche che vengono categorizzate come intersessuali; ma bisogna notare che i processi di sviluppo portano ad una chiara differenziazione tra maschi e femmine in più del 99.98% dei casi, e che le eccezioni sono appunto eccezioni e non “terzi sessi” in aggiunta agli altri due.

Il terzo livello è quello dello sviluppo dei tratti associati al sesso, sia a livello fisico (statura, muscolatura, peluria, voce…) che a livello psicologico e comportamentale. Arrivati a questo punto entrano in gioco in modo potente le differenze individuali: i maschi e le femmine non sono tutti identici agli altri membri del loro sesso, ma manifestano una grande variabilità nei loro tratti e percorsi di sviluppo. Questa variabilità ha origini sia genetiche che ambientali, e in molti casi viene amplificata proprio dai processi di selezione naturale e sessuale. La conseguenza è che, con poche eccezioni, i caratteri associati al sesso non si organizzano in due distribuzioni completamente separate e “binarie”, ma mostrano un certo grado di sovrapposizione tra maschi e femmine (per esempio, gli uomini sono mediamente più alti delle donne, ma alcune donne sono più alte della media degli uomini).

Uno dei compiti della ricerca è capire quanto ampia sia questa sovrapposizione rispetto a diversi tratti, se e quanto se dipenda da fattori contestuali e culturali, e così via. Per esempio, nei singoli tratti di personalità come la stabilita-instabilità emotiva la sovrapposizione tra uomini e donne è molto alta, intorno all’80-90%. Ma in alcuni miei lavori ho mostrato che, quando si considerano più tratti allo stesso tempo (formando dei “profili” di personalità tipici dei due sessi) e si corregge l’errore di misura di cui soffrono i questionari, la sovrapposizione si riduce al 20-30%.

Questi risultati rivelano che i profili di personalità di uomini e donne sono molto più nettamente distinti tra loro di quanto non si credesse, ma allo stesso tempo lontani da una distribuzione completamente e rigidamente “binaria”.

 

Riassumendo, in poche parole è confermato il binarismo sessuale.

Si, ma bisogna chiarire di quale livello stiamo parlando. Il binarismo sessuale nasce in forma “pura” nella distinzione tra gameti su cui è basata la definizione biologica dei sessi; si concretizza nei processi biochimici che guidano la differenziazione sessuale, e che (molto, molto raramente) possono portare a condizioni atipiche di sviluppo sessuale; e si esprime in una vasta gamma di tratti fisici e psicologici, “sfumandosi” e mescolandosi alle differenze individuali, che ci rendono non solo maschi o femmine ma persone uniche quali siamo.

Questo modello a tre livelli è facile da spiegare e visualizzare, e permette di evitare tutta una serie di confusioni e fraintendimenti rispetto alla natura più o meno binaria del sesso. Per chi volesse dei riferimenti più precisi alla letteratura scientifica, consiglio un mio capitolo recente, in cui ho anche provato a tratteggiare una storia delle interazioni tra femminismo e psicologia rispetto alle tematiche di genere.

 

Parliamo dei “gender studies”, è innegabile che siano alla base delle di dichiarazioni della prof.ssa Viola. Hanno realmente una valenza scientifica? Molti studiosi contestano sia la validità degli studi (difetti di campionamento, mancanza di gruppi di controllo ecc.) sia l’artificialità dei concetti, i quali però sono penetrati massicciamente nel linguaggio sociale comune.

I gender studies nascono esplicitamente come un progetto politico/ideologico.

Il loro obiettivo ultimo non è la ricerca della verità o della conoscenza in quanto tale, ma un certo tipo di cambiamento sociale in senso progressista. Questo atteggiamento di fondo è l’antitesi dello spirito scientifico, che (idealmente) rifiuta le conclusioni precostituite e segue la logica e l’evidenza dovunque ci portino.

Il problema della ricerca scientifica nei gender studies è che viene usata in modo strumentale e selettivo: va benissimo quando dice (o sembra dire) qualcosa di utile alla causa, ma se i risultati sono scomodi vengono semplicemente ignorati oppure svalutati a priori, in quanto politicamente sospetti o anche solo in base all’identità degli autori. In più, certi assunti di base (per esempio l’idea che le differenze di genere siano fondamentalmente una costruzione socio-culturale) non possono essere seriamente messi in discussione, pena l’auto-distruzione della disciplina stessa.

Tutto questo crea una “bolla” epistemologica intorno ai gender studies, che si auto-descrivono come interdisciplinari ma di fatto rimangono estremamente autoreferenziali.

Il risultato è che i dibattiti interni non vengono vinti da chi sviluppa le teorie più realistiche o raccoglie i dati più attendibili, ma da chi riesce a far valere la propria purezza ideologica e la propria superiorità morale rispetto agli avversari. Naturalmente, lo stesso discorso vale per gli altri “studies” identitari (ethnic studies, queer studies, disability studies, ecc.) ma anche per fette sempre più grandi della sociologia, dell’antropologia e di altre discipline “classiche”, in cui l’attivismo sta diventando la motivazione primaria di professori e studenti.

 
Questi “studi” si basano sulla scissione tra sesso e genere, con la conseguente nascita del concetto di “identità di genere”…

Una breve parentesi sul significato di concetti come “genere”, “identità di genere”, e così via: in linea di principio, tutti questi termini potrebbero essere utili, ad esempio per identificare gli aspetti psicologici legati al sesso o la percezione che le persone hanno di sé stesse in relazione al loro essere maschi o femmine.

Il problema è che in pratica vengono definiti in modo fumoso e tendenzioso, dando per scontate ipotesi che invece dovrebbero essere aperte alla falsificazione.

Ad esempio, l’American Psychological Association definisce esplicitamente il gender come un costrutto sociale frutto di norme e aspettative culturali, facendo così passare una conclusione molto discutibile come una realtà accettata a priori.

Per questo risulta difficile usare termini come “genere” in modo neutro, o anche solo in modo coerente (ho discusso brevemente questo tema nel capitolo citato prima).

In effetti, anche diverse studiose femministe hanno iniziato a manifestare perplessità sempre maggiori rispetto alla distinzione tra “sesso” e “genere”, e a proporre termini ibridi come ad esempio “sesso/genere” (in inglese sex/gender o gender/sex).

Ovviamente il loro obiettivo principale è quello di “de-naturalizzare” il sesso biologico e non certo quello di “ri-naturalizzare” il genere; ma è sempre bello trovarsi d’accordo su qualcosa!

 


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Autore

La Redazione

4 commenti a Il sesso è binario, psicologo smonta i gender studies

  • J.B. ha detto:

    Wow! Quanti temi interessanti! Mi chiedo solo perché la stampa preferisca sponsorizzare solo le tesi di un’immunologa e non dia spazio ad un controaltare così altamente qualificato…e poi non ci sarebbe una sorta “regia progressista” vero?

    • Erike98 ha detto:

      Più che regia vera e propria è la corsa cieca a schierarsi dalla parte in cui si creda vada il progresso. L’importante è stare dalla parte dei “buoni”, indipendentemente dai contenuti. È la grande bugia del progressismo i cui adepti sono sempre meno liberi pensatori.

  • simone ha detto:

    bella intervista e utilissima! grazie

  • Erike98 ha detto:

    Avevo già letto qualcosa di Del Giudice sul sito della fondazione Hume, mi fa piacere vederlo anche qui. C’è bisogno di persone competenti che contrastano questi progetti ideologici progressisti come lui stesso li definisce