Il “diritto a morire”? Con l’eutanasia si trasformerà in “dovere di morire”
- Ultimissime
- 22 Mar 2017
di Aldo Vitale*
*Dottore di ricerca in Storia e Teoria generale del diritto presso l’Università Tor Vergata di Roma
Mentre in Italia si (ri)comincia a discutere di fine vita, dopo quasi un decennio dal caso Englaro, con tutte le implicazioni etiche e giuridiche che riguardano il delicato tema in questione e che, purtroppo, non vengono affrontate con la dovuta serietà e professionalità dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione di massa, all’estero, a livello scientifico, il dibattito è già progredito di grado.
Se il diritto di morire è sempre stato descritto come manifestazione dell’autodeterminazione e dell’autonomia, cioè della libertà, di ciascuno di poter decidere, oltre che come vivere, anche e soprattutto come morire, esemplari in questa direzione le parole di Umberto Veronesi per il quale, infatti, «scegliere la morte per evitare sofferenze intollerabili fa parte dei diritti inalienabili della persona, e non si può affermare che la vita è un bene non disponibile da parte dell’individuo senza negare il concetto stesso di libertà», è anche pur vero che proprio per le paradossali sorti della storia umana, il principio di autonomia a cui viene delegato il compito di sostenere e fondare giuridicamente ed eticamente il diritto di morire, viene poi ben presto rinnegato dai suoi stessi sostenitori che quanto prima si risolvono per essere i suoi più accaniti detrattori nel caso si debba trattare non più del diritto di morire, ma del dovere di morire.
Una prova diretta di una simile contraddizione sui principi e sull’applicazione degli stessi si può rinvenire, infatti, proprio nei Paesi in cui è stato riconosciuto e tutelato, sotto le varie tipologie del suicidio medicalmente assistito, dell’eutanasia passiva, o di quella attiva, il diritto di morire, che si è già trasformato, o si sta velocemente trasformando, in un vero e proprio dovere di morire, in almeno tre sensi.
In un primo senso, in riferimento ai cosiddetti “mental illness” cioè tutti coloro a cui è diagnosticata una patologia di carattere psichiatrico e per i quali si ritiene legittima la somministrazione della morte medicalmente assistita. Tra i molteplici sostenitori di una simile opzione, tra i numerosi esempi possibili, spicca l’intervento di Jukka Varelius sulla prestigiosa e rinomata rivista “Bioethics” dal significativo titolo “On the moral acceptability of physician-assisted dying for non-autonomous psychiatric patients” in cui per l’appunto si chiarisce che anche i pazienti psichiatrici non autonomi possono spesso soffrire in modo insopportabile per cui occorre ridiscutere del limite di non poter somministrare loro una morte medicalmente assistita di cui invece avrebbero bisogno. Lo stesso autore aveva già anticipato la medesima prospettiva anche sull’altrettanto nota rivista “Ethical theory and moral practice”.
La tendenza assume una sempre maggiore rilevanza, tanto che lo psichiatra Paul Appelbaum, sulla rivista “Law and psychiatry” ha avuto modo di esprimere la propria preoccupazione sulla eventualità, sempre più concreta, che la morte medicalmente assistita per i pazienti psichiatrici possa costituire una facile alternativa rispetto all’elaborazione di adeguati trattamenti medici e di supporto sociale per questo tipo di pazienti. Il fenomeno è diventato così allarmante che perfino il quotidiano progressista statunitense “Washington Post” ha parlato di vera e propria “crisi morale dell’Europa” per la sempre crescente diffusione della soppressione dei pazienti affetti da patologie psichiatriche senza o contro il loro consenso.
Anello di congiunzione tra la prima prospettiva del diritto di morire, che diventa un dovere di morire, e la seconda, è l’idea sostenuta da Roland Ripke secondo cui coloro che, pur condividendo la morte assistita, non sarebbero disposti ad accettarne lo sfruttamento commerciale dovrebbero rivedere l’intera propria posizione sul suicidio assistito in quanto tale, per mancanza di coerenza interna al loro ragionamento. L’anello di congiunzione è quindi la logica dell’utilitarismo. In un secondo senso, quindi, il dovere di morire si prospetta in riferimento al trapianto di organi. Ad una simile connessione si è giunti per gradi, dapprima con l’idea della legalizzazione della compravendita di organi umani, come prova nel lontano 2002 l’articolo di Michael Friedlaender il quale aveva avuto modo di delineare il diritto di vendere e perfino di comprare un rene. Qualche tempo dopo, dalle pagine del “British medical journal”, Anne Griffin ha dibattuto l’idea dei reni “on demand”.
Il bioeticista Walter Glannon, aveva, del resto già profilato l’idea di un diritto agli organi dei cadaveri. A spingersi fino alle logiche conseguenze è stato però Julian Savulescu che ha espressamente ritenuto l’eutanasia come un sistema adeguato per massimizzare il numero e la qualità degli organi a fini di trapianto. Lo scorso 24 marzo 2016, sul “Journal of Medical Ethics” è stato pubblicato uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Maastricht in cui gli autori si chiedono se deve essere ancora applicata rigorosamente la regola del donatore deceduto, invece di procedere con il donatore ancora vivente per garantire una migliore protezione degli organi da trapiantare.
In un terzo senso, infine, si sta sempre più affermando un presunto obbligo morale di accettare il dovere di morire, come comprova l’intenso confronto teso a dimostrare l’insussistenza del diritto all’obiezione di coscienza da parte del medico. Tra i tanti esempi possibili si consideri proprio quanto scritto lo scorso settembre 2016 da Julian Savulescu e Udo Schuklenk in un significativo articolo dal titolo “Doctors have no right to refuse medical assistence in dying, abortion or contraception”, in cui i due autori concludono che i medici possono senz’altro avere opinioni e valori personali, ma che non possano vantare uno statuto morale speciale che consenta loro di negare assistenza ai pazienti che ne hanno diritto in alcune circostanze come la morte assistita, l’aborto o la contraccezione.
Il principio di autonomia viene quindi negato tre volte: una prima volta in danno dei diritti dei pazienti con patologie psichiatriche; una seconda volta in danno dei pazienti a cui si “devono” espiantare gli organi; una terza volta in violazione della libertà di coscienza dei medici. Alla luce di questo rapido excursus si intuisce quanto concreto ed effettivo sia il rischio di attuazione del cosiddetto “slippery slope” in tema di fine vita, cioè il rischio di percorrere il “pendio scivoloso” che conduce dalla morte volontaria a quella involontaria, dall’affermazione di alcuni diritti alla negazione di altri diritti altrettanto fondamentali.
In conclusione, non si possono non ricordare le parole di David Lamb, celebre sostenitore di un simile scenario fin qui descritto, il quale riassume perfettamente l’idea di questo preciso capovolgimento etico e giuridico del diritto di morire in dovere di morire: «In una società in cui l’uccisione su richiesta venga considerata lecita, i moribondi finiscono in una situazione in cui sono costretti a esprimere il loro desiderio di morire come l’adempimento di un ultimo dovere di buona creanza verso i viventi» (David Lamb, Down the slippery slope, London, 1988, pag. 42-43).
20 commenti a Il “diritto a morire”? Con l’eutanasia si trasformerà in “dovere di morire”
In estrema sintesi in una società in cui l’uccisione su richiesta venga considerata lecita la morale comune passerà da “Cosa possiamo fare per aiutarlo?” a “Che palle questo str***o non vuole morire…”
Cosa che purtroppo succede a mezza bocca magari davanti ad una bottiglia di vino quando i parenti attendono il decesso di un ricco anziano.
Stiamo attenti a mantenerci giovani e in salute, poiché qualcosa mi suggerisce, negli anni a venire, bisognerà guardarsi bene le spalle anche da certi sanitari, quando acciacchi, vecchiaia o infermità ci costringeranno a rivolgerci alle strutture ospedaliere.
Ironicamente mi viene in mente la scena conclusiva del film western “Il mio nome è nessuno”, con Terence Hill che finge di avere una pistola nascosta e gliela punta sulle parti basse del barbiere, mentre questi, col rasoio a serramanico, si accinge a radergli la gola.
Faremo anche noi come nella scena di quel film, quando qualche sanitario verrà ad infilarci nel braccio l’ago di una flebo dal contenuto anonimo.
L’articolo sul Washington Post fa venire parecchie preoccupazioni (eufemismo).
Secondo me non è tanto un problema di piano scivoloso che di per sé è un argomento fallace, ma di concezione dell’essere umano e della sua dignità.
E’ evidente che ormai predomina un’ottica capitalistica (pure a sinistra! pure nella Chiesa!) dove tutto deve essere mercificato, compresa nascita e morte. Così il vero obbligo morale odierno (laico) è aderire al programma: produci, consuma e crepa.
Se guardate bene, le vite definite indegne sono proprio quelle che non producono o non consumano, almeno secondo gli standard del consumismo. Inoltre, a ben guardare c’é sempre un sottile “razismo” verso i disabili, accettati solo se “diversamente abili”, ma mai come inabili.
Così, Bebe Vio o Alex Zanardi sono esaltai per le loro doti atletiche… ma quanti disabili vorrebbero poter intraprendere quelle imprese e a causa della malattia non possono? Giusto mostrare esempi positivi di chi, anche nella malattia, è riuscito a conquistare traguardi insperati, ma non dobbiamo scordare che la dignità del malato non sta in quello che riesce a fare nonostante la malattia, ma nello stesso fatto di essere appunto un essere umano. Anzi, si deve sottolineare che l’approccio utilitaristico alla disabilità, la “diversabilità”, è deleterio. Il malato è degno in sé, senza dover compiere alcuna impresa o senza dover avere qualche abilità “diversa”.
purtroppo ormai questa ottica “consumistica” ed utilitaristica ha contagiato tutta la società, ambienti cattolici inclusi. Ormai la pietà cristiana è stata soppiantata spesso dal biasimo per i disabili: che vive a fare? Perché non l’hanno abortito?
Addirittura, le donne che fanno la coraggiosa scelta di mettere al mondo un figlio pur sapendo che è gravemente disabile, vengono biasimate e additate come egoiste. Siamo alla vera perversione del male con il bene. Un gesto d’amore altruistico, come prendersi cura di un bambino malato, diventa egoismo della madre, mentre abortirlo diventa un gesto d’amore…
Con queste premesse, dove pensiamo di andare?
La soluzione non sarà certo quella di ammazzare chiunque liberamente, ma nemmeno quella di proibire a priori una volontà coscientemente espressa.
Ovviamente nessuno può opporsi ad una volontà coscientemente espressa, infatti il suicidio è sempre un opzione disponibile. Contrariamente a quel che dicono i Radicali, ci sono molti metodi indolori (e molto più economici di una clinica svizzera) per suicidarsi.
Il problema è pretendere che lo stato collabori o metta in atto la mia volontà. Non esiste nessuna base giuridica né morale né logica perché lo stato debba erogare un servizio solo perché un cittadino lo chiede coscientemente. Né tanto meno è pensabile di obbligare un medico a somministrare un trattamento che non ritiene opportuno: già oggi un medico non pratica un’operazione o prescrive un farmaco solo perché lo chiede il paziente, ma solo se ritiene quella operazione o quel farmaco necessari al paziente.
Infatti, se lo stato acconsentisse a dare qualcosa in base ad una richiesta cosciente, dovrebbe dare una casa, un lavoro, un vitalizio, una pensione, ecc. a tutti quelli che la chiedono, senza poter obiettare.
Quindi il succo è questo: non esiste un diritto assoluto a morire per mano dello stato, solo perché frutto di una decisione cosciente. Obbligare un medico a fare una simile cosa è prima di tutto una stortura logica, più che giuridica e morale.
Analisi impeccabile, Emanuele.
Riporto un paragrafo molto interessante che hai scritto:
“Infatti, se lo stato acconsentisse a dare qualcosa in base ad una richiesta cosciente, dovrebbe dare una casa, un lavoro, un vitalizio, una pensione, ecc. a tutti quelli che la chiedono, senza poter obiettare.”
Invece è lo stato, purtroppo, a non voler accettare obiezioni da parte delle persone, neanche quando queste si ritrovano a dover pagare tasse, imposte e a far fronte ad una moltitudine di difficoltà famigliari, senza vedersi tutelate in quei diritti o necessità da te elencate.
Emanuele,
Contrariamente a quel che dicono i Radicali, ci sono molti metodi indolori (e molto più economici di una clinica svizzera) per suicidarsi.
Infatti, ma siccome in Italia è proibito, ecco perché la Svizzera.
Il problema è pretendere che lo stato collabori o metta in atto la mia volontà.
Quindi lasceresti che l’interessato risolva la faccenda con il ‘fai da te’? Magari facendo esplodere l’appartamento con il gas… Gettandosi dalla torre di Pisa… eh?
Non esiste nessuna base giuridica né morale né logica perché lo stato debba erogare un servizio solo perché un cittadino lo chiede coscientemente.
Forse ti sfugge che tutti i servizi erogati dallo stato sono chiesti dai cittadini: non è più il tempo in cui stato e tiranno erano un tutt’uno
e non esistevano diritti, ma solo graziose concessioni del signore.
Nel caso di cui stiamo trattando, l’opinione del medico è ininfluente, non sta a lui decidere cosa deve o non fare un cittadino. Nel caso passasse questa legge
ci saranno medici che volontariamente si presteranno per la bisogna; e non credo che ci sarà una corsa al suicidio al grido di ”Prima io!… Prima io!…”
In quanto a dare una casa, un lavoro, un vitalizio, una pensione… mi pare che lo stato lo faccia abbondantemente, magari non proprio democraticamente
e non sempre alla luce del giorno, ma comunque sempre a spese di qualcun altro.
Hai ribaltato (male) la frittata: il problema è se lo stato debba o no accondiscendere a erogare un “servizio” (e che servizio…) per il solo fatto che chi lo richiede “lo fa coscientemente”.
Nel caso di specie, i medici non potranno obiettare alcunchè (con tanti saluti alla professione, altro che la favoletta del “si presteranno volontariamente”), visto che nella legge in discussione si parla di “disposizioni” (alle quali il medico è tenuto a “obbedire”, e senza tanti fronzoli) e non di “dichiarazioni”.
Non che ci sia da rammaricarsene oltre: le cosiddette “dichiarazioni” sono anch’esse la foglia di fico (pardon, di pino) con cui si cerca di coprire la vergogna dei vivi per la propria insofferenza della malattia degli altri. Tant’è che nulla e nessuno può assicurare che tra la firma delle dichiarazioni/disposizioni il morituro che si trova in condizioni di incapacità di decidere, nel frattempo non abbia cambiato idea.
Quanto alle “corse al suicidio”, una guardatina alle statistiche (dell’Olanda, del Belgio, ecc.) non vi farebbe mica male (capisco che dove la realtà non si accorda con la vostra ideologia, il risultato che ne traete è invariabilmente che è colpa della realtà…).
Tutto non è altro che il bel risultato di credere che la propria libertà consista nel fare ciò che si vuole. Sicché uno che si tira una martellata sulle palle, secondo voi sta esercitando un supremo atto di libertà.
Dal tuo intervento sorge una domanda: se i diritti sono (come effettivamente sono in una prospettiva laica e liberale) uno spazio di libertà dove si esercita a piacimento la volontà dell’individuo (perché, da eredità illuministica, la libertà è il potere di fare ciò che si vuole), allora, visto che in essi ci rientra anche il diritto ad ottenere dallo stato (nella persona del medico) le prestazioni volute in merito alla propria salute, è un diritto anche ottenere dal medico la prescrizione di qualsivoglia farmaco oppure di essere sottoposti ad una operazione? E’ un diritto richiedere l’accanimento terapeutico, se il paziente lo vuole benché il medico sia contrario? Perché questa è la conclusione cui dovete giungere se veramente ritenete che il diritto alla salute si realizzi nella autodeterminazione soggettiva verso la quale lo stato è servente.
Mi associo a Sebastiano…
Il problema non è se lo stato debba o meno erogare servizi, ma se debba farlo sul solo presupposto che il cittadino lo chieda coscientemente.
Ad esempio, lo stato cura chi è effettivamente malato, non chi lo chiede, anche se in piena coscienza. Lo stato da una casa a chi ha effettivamente bisogno, non a chi semplicemente la chiede, pur con ferma convinzione.
Invece, riguardo all’eutanasia o alle dichiarazioni anticipate, lo stato dovrebbe eseguire senza entrare nel merito della richiesta.
Direi che hai le idee un po’ confuse nel trarre le conclusioni; dai sondaggi pare che il 75% dei cittadini sia favorevole.
Se è per quello pare che dai sondaggi il 99% sia favorevole ad andare in pensione a 30 anni con il doppio dello stipendio…
Tutta qui la tua replica? e sul resto non hai nulla da dire?
Io ho esposto un fatto, tu hai risposto con una sciocchezza: tutta qui la tua replica?
Se non capisci la differenza tra la gente che soffre nella realtà e gli immaginari pensionati trentenni, che per ovvi motivi non hanno
versato contributi per cui poter chiedere una pensione d’oro… vabbè, hai capito, no?
Continui a evitare di discutere nel merito (la qual cosa è comprensibile, visto che non sai cosa rispondere).
Ho risposto con una battuta a una tua fesseria.
Vediamo se ti riesce di ragionare:
1) Secondo te, lo Stato deve erogare un servizio (quale che sia) basandosi sul solo presupposto che chi lo chiede “lo fa coscientemente”?
2) Secondo te, una volta che un paziente ha firmato la “disposizione” di fine vita, un medico ha il diritto di rifiutarsi di eseguirla? E cosa dovrebbe fare se ha una ragionevole certezza di salvare la vita al paziente?
(questo giusto per mandare al cassonetto le tue fantasie sulla fantomatica “volenterosa disponibilità” dei medici)
3) Secondo te, in base a quale certezza assumi che un paziente, che si trovi in condizioni di incoscienza, non abbia cambiato idea rispetto al momento in cui ha firmato le “disposizioni”? Lo accopperesti comunque?
Tre domande semplicissime che richiedono tre risposte (altrettanto semplici).
Se vuoi faccio il disegnino, ma evita di svicolare, citando sondaggi ad membrum segugii.
il cosiddetto testamento biologico è solo una delega in bianco data alla classe medica che può decidere della morte e della vita di un paziente.
Il caso britannico e’ emblematico. Il Regno Unito e’ uno degli stati piu’ secolarizzati del pianeta, dove tra l’altro si praticano una montagna di aborti all’anno. Eppure, quando si tratta di legalizzare il “suicidio assistito”, sempre e comunque Westminster ha risposto picche. “The [present] law is in place to pretect the weakest”. La maggior parte dei medici britannici sostiene ufficialmente ed ufficiosamente tali decisioni.
E’ proprio così: si finisce col determinare chi ha ‘diritto’
di vivere e chi no; molto nazistoide, la faccenda.
Ciò detto, restano i casi estremi, come quello di dj Fabio:
certamente egli ha diritto di chiedere di morire, e poichè si
viene a trovare in una situazione in cui da solo non può
realizzare il proprio desiderio, ci deve essere la possibilità
che qualcuno lo aiuti senza per questo finire in galera.
Forse ci vorrebbe cioè una legge che prevede il suicidio assistito
esclusivamente per casi come quello di Fabiano, ma ciò è
ipotizzabile? Mah-
Salve! Sarò anacronistico ma io non vedo proprio la possibilità di decidere autonomamente di morire. Infatti mi sono sempre chiesto se i suicidi siano consapevoli e nel pieno delle proprie facoltà. Allo stesso modo me lo sono chiesto per gli omicidi. Chi pone fine alla vita, sua o di altri, è veramente consapevole di quello che fa? Io mi sono posto innumerevoli volte questa domanda e la mia risposta è sempre stata di tipo pragmatico cioè che quando si arriva a compiere un tale gesto cioè quando si sopprime una vita, compresa la propria, qualcosa in noi non sta funzionando benissimo, siamo inconsapavolmente affetti da qualche imperfezione che si è fatta strada in noi. Poi faccio anche un altro ragionamento pragmatico con il metodo della “serva” (o metodo empirico casalingo): La vita difronte all’universo intero è un presenza minuscola infinitesimale talmente microscopica che già da poca distanza dalla terra non si vede più se c’è vita o meno, immaginatevi da Andromeda! L’esperienza estremamaente più diffusa in tutto l’universo è la non-vita con un rapporto vita/non-vita incredibilmente a favore di quest’ultima. Nonostante questa incolmabile differenza è la vita che supera la non vita per delle motivazioni che a me sfuggono totalmente. Quindi pensare che chi è dotato di quata unicità possa desiderare di perderla per assimilarsi alla non-vita mi sembra totalmente innaturale. (ovviamente in questo mio ragionamento escludo la Fede perché questa da sola darebbe già la risposta definitiva… il mio ragionamento vuole mettersi nel piano secolarizzato)
saluti
RA