La percezione della nostra finitudine e altri segni per accorgersi del Mistero

Viandante 
di Angelo Scola*
*arcivescovo di Milano

 
anticipazione del libro Capaci di infinito (Marcianum Press 2015)

 

Quando introduciamo la parola, mistero, ci riferiamo a un dato che è proprio dell’uomo come tale, del cuore dell’uomo di ogni tempo. Ovviamente, la modalità con cui questo proprium viene percepito muta a seconda del clima culturale in cui l’uomo vive ed agisce.

Io credo che l’uomo di oggi sia chiamato a guardare fino in fondo i tratti fondamentali dell’esperienza umana. Il primo e più importante è la capacità di cogliere il senso della realtà: la realtà è intelligibile e chiede di essere ospitata dalla nostra intelligenza. Già questo implica una trascendenza, cioè un andare oltre l’immediato. Io posso “possedere” questo tavolo – lo dicevano già i grandi classici – e cioè posso ospitarlo dentro di me conoscendolo; è chiaro, quindi, che non lo “possiedo” nel senso di poter introdurlo materialmente nel mio io, però, con la mia intelligenza, posso dire che “questo è un tavolo” e con ciò guadagno un certo livello di verità, ossia di corrispondenza tra l’intelligenza della realtà di cui sono capace e la cosa. Questo è il primo e il più elementare modo con cui noi, quotidianamente, facciamo una certa esperienza del mistero.

Il secondo modo, che pure è decisivo, in un certo senso, ancora più decisivo del primo, è la relazione, il rapporto. Che cosa dice il sorriso di un bimbo alla mamma o il sorriso della mamma al bambino? Dice che c’è qualcosa che va oltre il proprio io. La relazione buona e positiva mi induce ad uscire da me e diventa, nello stesso tempo, decisiva e costitutiva per il mio benessere. L’essere in relazione è quindi il secondo modo costitutivo attraverso il quale io esco da me e vado verso il mistero.

C’è poi almeno un terzo modo, di capitale importanza, di cui incominciamo a renderci conto più chiaramente quando entriamo nella fase della maturità. È il modo legato alla percezione della nostra finitudine. Siamo capaci di infinito e tuttavia, quando agiamo, siamo sempre prigionieri della finitudine. L’uomo, da sempre, ha dato espressione a questo paradosso che lo costituisce con una parola: “salvezza”. Un termine che, pur in diverse accezioni, è presente in tutte le religioni. Esso esprime in un certo senso l’invocazione di essere liberati da questo limite la cui barriera invalicabile è la morte. Sono capace di infinito, ma sono costretto alla finitudine. Chi mi libererà da questa condizione? È la via verticale alla scoperta del mistero.

Dall’interno della concretezza della vita di tutti i giorni, l’uomo ha quindi mille segni per accorgersi del mistero. In una cultura in cui la relazione buona non è coltivata, in cui si dice che la verità non esiste o, per lo meno, che non è raggiungibile, questo sarà più difficile. In una cultura in cui uno pensa di potersi salvare da solo o pensa di potersi accomodare tranquillamente nella finitudine, è inevitabile – lo diceva Nietzsche già più di un secolo fa – che ci si accontenti di «una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte». Ci togliamo di dosso le speranze elevate e ne diventiamo facilmente calunniatori. Arriviamo a tarparci le ali con le nostre stesse mani. La grande sfida, quindi, è costruire, in questa società, relazioni buone e pratiche virtuose che lascino emergere, dall’esperienza di tutti i giorni, i mille segni che indicano questo Quid misterioso, un Quid con la “q” maiuscola che la grande tradizione di tutti i popoli chiama Dio.

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3 commenti a La percezione della nostra finitudine e altri segni per accorgersi del Mistero

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  1. Ubi Deus ibi pax ha detto

    Non c’entra nulla ma… che peccato non leggere più così spesso qualche articolo/discorso di Sua Eminenza il Card. Camillo Ruini! 🙁 Era davvero un piacere! 🙂

  2. Hugo ha detto

    Il “terzo modo” è quello che don Giussani chiamava “senso religioso” è ed è anche quello che mi ha portato alla conversione quando ne sono diventato cosciente.

  3. Umberto P. ha detto

    Articolo stimolante

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