La dottrina non è estranea alla vita umana, la valorizza
- Ultimissime
- 07 Nov 2014
di Giovanni Grandi*
*ricercatore in Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Padova
Grazie al Sinodo sulla famiglia sta prendendo forma nella Chiesa cattolica un dibattito forse non troppo marginale sulla “dottrina”. A molti questa parola ricorda i tempi del catechismo a pioggia, quando si “andava a dottrina” proprio come si andava a scuola, per apprendere cose – più o meno interessanti – che non si imparavano altrimenti, o che era in fondo più semplice che insegnasse il prete, perché (insieme a siòr maestro e a siòr dotor) era uno che comunque aveva studiato un po’ più degli altri. Dell’aria di questi tempi è rimasto oggi molto poco, ma sicuramente sopravvive un’idea che si è radicata a fondo: la dottrina è qualcosa di estraneo a quel che la vita porge da sé. Occorre perciò “inculcarla”, quasi pigiandola a viva forza perché entri in un contenitore angusto – la nostra testa anzitutto – che, di suo, non ne vuol proprio sapere.
Vorrei sostare sull’inconsistenza di questo “principio di estraneità” tra dottrina e vita, almeno per quel che riguarda i fondamentali degli assi relazionali che incrociano sulla famiglia. Perché credo che amplifichi timori infondati, specialmente in chi ha un po’ troppa nostalgia per i tempi in cui tutti passavano per la parrocchia. Certamente per i cristiani la dottrina abbraccia molte cose, tra cui i dogmi, piccoli scrigni di grande mistero con cui continuamente dialoga la fede personale: la Trinità di Dio, l’incarnazione di Cristo… Però la riflessione sulla famiglia non sta toccando questi capitoli. Sta invece interessando i modi di vita delle persone, il quadro delle relazioni (di coppia, genitoriali, intergenerazionali), le fatiche e le soluzioni che socialmente stiamo considerando o sperimentando alla ricerca di un buon vivere.
Rispetto a questo spettro di questioni la dottrina cattolica rimarca alcune intuizioni su cui difficilmente si può dire che abbia un copyright: in una relazione di coppia la fedeltà è preferibile al tradimento; la stabilità delle relazioni è preferibile al carosello delle sperimentazioni; per i figli crescere essendo accuditi da entrambi i genitori è preferibile rispetto al rimanere orfani (di uno o di entrambi i punti di riferimento primari). Finora non ho ancora incontrato nessuno che si auguri per i propri figli che diventino abili nel tradire e nel ferire, voraci consumatori di rapporti superficiali, un domani adulti noncuranti dei figli che avranno distrattamente messo al mondo a destra e a manca. Poi, lo sappiamo, le cose – nella vita che si fa storia concreta – vanno anche diversamente dagli auguri che ci scambiamo. Però l’intuizione che questi auguri siano ben fondati, a quanto pare, non siamo in grado di rimuoverla. Anzi, proprio quando le cose sullo scacchiere delle relazioni vanno diversamente, la vita stessa ci parla, producendo quel senso di disagio che gli antichi chiamavano “tristezza” e che noi oggi potremmo definire “insoddisfazione”.
La vita ci parla (su tanti fronti) con quel suo grido di protesta spesso viscerale e lo fa – almeno su questi snodi essenziali – ben prima che arrivi qualcuno a scrivere su carta delle regole di buona condotta. Ben prima che arrivi il personale di Chiesa (come scriveva Maritain) a segnalarci (magari un po’ troppo ex post) il significato ulteriore che fedeltà, donazione e responsabilità assumono quando chiediamo il sigillo del sacramento per la relazione di coppia. Questa tempistica antropologica va compresa a fondo e presa sul serio, perché aiuta a capire che – su questi aspetti di base – la dottrina è già in sintonia profonda e intuitiva con la vita, e che di repellente porta solo quel nome così usurato.
Nel quadrante delle relazioni fondamentali la dottrina semplicemente dà parola umana a quel che ciascuno già avverte in se stesso. Per gli antichi la “legge naturale” era anzitutto questo: la parola in cui noi raccogliamo quel che la vita da sé attende per essere buona, soddisfatta. Una parola stupefatta e stupefacente, capace di dire quel che l’umano racconta pressoché unanime nelle diverse epoche, nelle diverse culture. Quasi un miracolo di convergenza, in un mondo di grandi diversità, che meritava di essere evidenziato. Evidenziato per sostenere lì dove non ce la facciamo (perché gli auspici, da soli, non scrivono la storia), non per mortificare lì dove non ce l’abbiamo fatta. Perché l’intento degli appassionati di umanità – lo scriveva nel 1923 Jacques Maritain, «è di cercare il positivo in tutte le cose, di avvalerci del vero più per guarire che per picchiare». E scriveva questo a Jean Cocteau ragionando – tra l’altro – di omosessualità. (Cfr. J. Maritain, Réponse à Jean Cocteau, in Jean Cocteau – Jacques Maritain, Gallimard, Paris 1993, p 336).
Allora la domanda diventa: quanto confidiamo in quel che la storia del pensiero ha riconosciuto da secoli, e cioè che nell’umano ci sono dei richiami fondamentali che si possono disattendere individualmente (per motivi personali anche molto diversi) ma non cancellare collettivamente? Quanto confidiamo in quel che affermiamo, e cioè che la dottrina – a rischio di pedanteria: su quei pochi assi che vanno sotto il nome di “legge naturale” – non fa altro che esprimere le attese cha la vita già porge da sé? Perché se in fondo pensiamo che ci sia estraneità tra le intuizioni radicali della vita e la dottrina, va da sé che immagineremo che anzitutto si tratti di insegnare una teoria (controintuitiva), e che sia necessario insistere ad alta voce perché – se non lo si farà – la dottrina svanirà ben presto. Proprio come svaniscono tutte quelle cose che la vita da sé non reclama o racconta e che ogni generazione ha il compito di custodire e tramandare perché non vadano perdute. Ma se al contrario riconosciamo che c’è una radicale intimità tra le intuizioni della vita e la dottrina, allora diventa più chiaro che lì dove la vita già si lamenta (più o meno sommessamente) con il sintomo dell’insoddisfazione, lì non si tratta di estenuarsi nel ribadire quel che la tristezza già rende noto. Se la dottrina intorno ai fondamentali dell’esistenza umana è davvero legata alla verità della vita, non corre il rischio di essere dimenticata, né dalle generazioni presenti né da quelle future.
Dove c’è questa consapevolezza diventa più chiaro che il baricentro della questione si sposta: di fronte alle situazioni controverse e alle relazioni ferite, non si tratta di emettere (inutili) certificati di non conformità, ma di capire come sia possibile riapprossimarsi a quel che la vita stessa (più o meno sommessamente) reclama. Sapendo che la linea del tempo non può essere riavvolta cancellando quel che è stato. Sapendo che lo spazio di riapprossimazione possibile, proprio come quello dell’allontanamento, ha una misura individuale che chiede di essere messa a fuoco vicenda per vicenda. In questa seconda ottica non c’è il pericolo di confondere le soluzioni di riapprossimazione con una nuova dottrina o con un suo “aggiornamento”, e questo semplicemente perché proprio nella vita reale attese fondamentali e soluzioni biografiche non si confondono.
Ci sono elementi di base della dottrina cattolica sulla famiglia rispetto alla cui tenuta nell’animo umano proprio chi sposa l’insegnamento filosofico classico sulla “legge naturale” non dovrebbe nutrire timori. Se quegli elementi tengono – forse – vale davvero la pena di concentrarsi su tutto quel che invece non è altrettanto intuitivo e semplice: è il versante dei percorsi realistici e non accademici di cambiamento, il versante della ricostruzione, della cura (care). È il versante del ricorso a quegli aiuti talvolta insperati e sempre sorprendenti che vanno sotto il nome di “Grazia”, e che il Dio di misericordia ha affidato alla Chiesa di dispensare. E tutto questo, o così almeno mi pare, è difficile immaginare che possa porgerlo chi si presenta col volto teso e iroso del picchiatore.
9 commenti a La dottrina non è estranea alla vita umana, la valorizza
Quando ai miei figli dico di guardare 2 volte prima di attraversare la strada non è per imporgli una mia idea o per castrarli ma per aiutarli e difenderli.
Con Gesù abbiamo scoperto non è l’uomo che deve servire Dio ma che Dio è a disposizione dell’uomo affinchè questi si realizzi; la Nuova ed eterna Alleanza (uomo-Dio).
Così si scopre che la “dottrina” (parola che fa paura anche a me) e i Comandamenti non sono regole asfissianti e costrittorie bensì consigli di amore Paterno per realizzare e far fiorire la propria vita. Sono indicazioni di Vera Vita.
Ovviamente bisogna approfondire, discutere, interrogare la coscienza, mettersi alla prova, non è che sono regolette facili sia da interpretare che da mettere in pratica, anzi sono parecchio esigenti.
E come detto bene nell’articolo non sono robe campate per aria ma poggiano concretamente nella reltà.
Prendo spunto dalla terza parte del tuo commento per analizzare un po’ il catechismo italiano.
Il problema odierno è proprio il netto rifiuto del ragionamento, dell’introspezione, della coscienza, un mare di elementi che per loro stessa natura conducono alla fede e spingono questa ad approfondirsi, ad ampliare quell’universus amoris che Dio pone davanti agli occhi della nostra anima perché possa deliziarsene per l’infinità. A questo si aggiunge la mancanza di riferimenti: il diavolo prima ha distrutto la scuola, poi la famiglia, ed ora sta sferrando l’attacco finale alla nostra mente, alle nostre capacità ragionative, con l’abuso di questi maledetti aggeggini di poco ortodossa utilità.
Il catechismo dovrebbe proporre la dottrina con la testimonianza: anche Marx mi può dire che i sacramenti sono 7 e sono cresima, battesimo ecc…, ma solo un vero cristiano, uno che sale sulla croce insieme a Lui e da quella Croce promana un sorriso radioso, può dirmi dove, quando e perché accostarmi al corpo di Cristo, ricevere il sigillo dello Spirito, rinascere a nuova vita dall’acqua o dal sangue divino.
Questo costituisce il 10% del problema: il motivo per cui il catechismo attuale non funziona si scontra con catechisti incompetenti, fideisticamente tiepidi (spesso congelati), momentaneamente tali (perché al di fuori di quella oretta non sono più catechisti), con un reiterato “andare a dottrina” il sabato pomeriggio, ha tutte le ragioni per contestarci. Parola di un catechista.
Allora, ciò che dice il prof. Grandi, “la dottrina è già in sintonia profonda e intuitiva con la vita, e che di repellente porta solo quel nome così usurato”, è parola al vento, non perché non sia vera, ma perché manca chi dimostra nella sua vita che è davvero così. Beato Paolo VI: “Oggi si ascolta più volentieri un testimone che un maestro, e se ascolta quest’utlimo è perché egli è un testimone”.
Assolutamente d’accordo, la mancanza di trasmettere il fuoco del Vangelo è un problema enorme, oltre ai catechisti tiepidi ci metto pure i catechisti pseudo-buonisti-protestanti che riducono il tutto a pacifismo e sentimentalismo.
Sempre più mi rendo conto di quanto sia importante trasmettere la fede in famiglia testimoniandola per primo ai figli, partendo dal quotidiano rapporto con la realtà.
Esatto. E soprattutto, se il vero catechismo è quello che si fa tra i banchi delle aule parrocchiali, la vera catechesi non può che essere fatta alle famiglie e nelle famiglie, con l’imprescindibile ausilio dei coniugi nella loro funzione genitoriale.
Come sarebbe bello vedere catechisti che girano alla sera per le case a catechizzare, usando la corona del rosario e proponendo meditazioni o insegnamenti intercalandole con la preghiera, in non più di tre quarti d’ora di incontro… questa è la catechesi che funziona…
Sono d’accordo col tuo primo post, un po’ meno col secondo perché se devi insegnare non è recitando il rosario che lo fai, con tutto il rispetto per il rosario beninteso.
Posso anche essere d’accordo con te nel senso generale del post ma smettiamola di utilizzare “protestante” come un aggettivo denigratorio. Ci sono protestanti che ti saprebbero dire la Bibbia a memoria e tu li tacci di ignoranza nella dottrina? Sono atteggiamenti di superbia come questi che creano le divisioni e distruggono la Chiesa
Parole meravigliose!!!
Andare a dottrina ti insegnava cose che oggi si tende a sradicare. Tra l’altro era anche un luogo dove dopo potevi giocare, ridere, scherzare, insomma ti passavi il tempo con gli amici crescendo e mettendo in pratica gli insegnamenti che Dio ci da.
S. Giovanni Bosco, Don Milani ci hanno lasciato testimonianze molto importanti e anche se i politici e chi per loro fanno di tutto per sradicarle, loro sono ancora lì. L’importante è trasmetterle ai figli, ai nipoti e lasciarle crescere come piante. Poco per volta, nel cuore di ognuno.
Oggi cosa fanno i bambini che non vanno a catechismo? Vanno a fare le varie attività che vengono date loro e in abbondanza come nuoto, musica e che altro e si ritrovano stressatissimi. Come non staccassero mai dallo studio.
Poi non si lamentino se i propri figli cercano sfoghi nella playstation, nelle droghe o nel sesso (tra l’altro non sicuro) in giovane età.