L’esperienza del Trascendente alla luce della psicoterapia (1° parte)

Trascendenza 
di Alberto Carrara*
*biotecnologo e neurobioeticista, Ateneo Regina Apostolorum (Roma), Gruppo di Neurobioetica (GdN)

Alberto Passerini*
*Psichiatra, Psicoterapueta, S.I.S.P.I. – Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano-Roma

Alessandra Pandolfi*
*Anestesista, Psicoterapeuta, S.I.S.P.I. – Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano-Roma

 

Nota: una versione più estesa e articolata di questo lavoro verrà prossimamente pubblicata sulla Rivista scientifica Studia Bioethica.

Introduzione
L’interesse per la tendenza naturale che l’essere umano manifesta, ed ha da sempre espresso anche a livello culturale, nei confronti del “Trascendente” non è nuova, risale a tempi immemorabili, costituendo un “filo rosso” della riflessione che da sempre ci accompagna.

Non stupisce allora che un’inserto della sezione di Psicologia: Percezione della rivista Mente & Cervello dello scorso anno 2012 titoli così: Progettati per credere. Paranormale. Un cervello costruito per credere (Wiseman, 2012).  L’articolo è firmato da Richard Wiseman, professore di psicologia all’Università dello Hertfordshire, in Inghilterra. Wiseman nel sottotitolo afferma: «La tendenza a credere nel paranormale deriva dagli stessi meccanismi cerebrali da cui nasce buona parte del pensiero umano». Seppur interessante, l’articolo di Wiseman cela diverse fallacie logico-filosofiche che, spesso, possono venir date per scontate. Ad esempio, la tesi di fondo identifica la categoria “normale” con “razionale” e quest’ultima, viene fatta coincidere con la categoria “evidenza scientifica”, cioè empirica. L’equazione è la seguente: normale = razionale = empiricamente dimostrabile.

Questo modo di ragionare andava forse bene nell’epoca dell’Illuminismo o dello stretto empirismo Novecentesco. Nell’era contemporanea delle neuroscienze e della filosofia della mente, un’impostazione del genere risulta obsoleta ed “ingenua”. Come spiegare con l’empirismo stretto fenomeni quantici? Oppure la complessità delle reti neuronali e della plasticità cerebrale? E ancora, come si potrebbe parlare di potenziamento neuronale, di rimodellamento cerebrale come prassi terapeutica nei gravi disturbi da traumi (come il PTSD, Post Traumatic Stress Disorder), con uno schema mentale empirista-razionalista tout-court?

Oggigiorno, la capacità tecnologica di visualizzare, anche in vivo, zone dell’encefalo che si attivano in modo differenziale a seconda delle circostanze, ha prodotto un vero e proprio fiume di studi sperimentali. Lo sviluppo delle tecniche di neuro-immagine (neuroimaging), tra cui spicca la ormai famosa risonanza magnetica funzionale (fRMN), non ha potuto venir confinato alla mera, anche se utilissima, area clinica, utile alla diagnosi di patologie cerebrali. Gli studi si sono moltiplicati a seconda della fantasia e della genialità creatrice di ciascun scienziato. Dal voler comprendere i fondamenti neurofisiologici di attività umane come la memoria, il linguaggio, la visione, la personalità, etc., si è passati a ricercare «ciò che è più spiccatamente umano dell’uomo»: la sua esperienza religiosa e mistica (J. M. Gimenéz-Amaya, 2010). Ecco delinearsi, specie in ambito anglosassone, due nuove neuro-“discipline” all’interno della cosiddetta neuromania  (P. Legrenzi, C. Umiltà, 2009): la neuroteologia e la neuromistica.

Prendendo in considerazione i risultati della psicologia contemporanea, della psicoterapia, della prassi clinica e dei dati empirici che le moderne neuroscienze ci offrono circa l’esperienza umana del “Trascendente”, chiariremo, in questo contributo, se tali evidenze sperimentali pongano seriamente in discussione l’esistenza di tale caratteristica antropologica e, soprattutto, considereremo se sia giustificata razionalmente la riducibilità di tale peculiarità umana al mero ambito neurofisiologico, come sostengono alcuni autori contemporanei (F. J. Rubia, 2003), come di recente hanno esposto due intellettuali italiani (G. Vallortigara, V. Girotto, 2013). Per iniziare, chiariremo alcuni presupposti, cioè la cornice del nostro dibattito: la Neuroetica.

 

Cos’è la Neuroetica?
Come è stato recentemente spiegato, seppur brevemente, nell’editoriale della rivista Studia Bioethica (vol. 5, n. 3, 2012): «L’applicazione sempre più rapida ed immediata all’uomo delle scoperte neuroscientifiche, frutto dell’abbondante ricerca che mira a decifrare i misteri del cervello e della mente umana, ha fatto sorgere nell’opinione pubblica sentimenti spesso antitetici. In quasi tutti i contesti socio-culturali, il suffisso “neuro” sta trovando largo impiego e successo per le finalità più svariate: dal vendere al convincere. Si parla già di neuro-mania, neuro-fobia e di neuro-filia. Le immagini di risonanza magnetica fanno già parte della cultura d’ogni giorno: termini come PET (tomografia ad emissione di positroni) o risonanza magnetica funzionale (fRMN) sono parte integrante della nostra memoria, li abbiamo uditi ed ascoltati ripetutamente per radio, in televisione, li abbiamo letti su Internet nelle circostanze più disparate. In questo contesto è sorta la pseudo-disciplina denominata neuroetica o neurobioetica che ha “festeggiato” in quest’anno 2012, il suo decimo anniversario dalla “nascita”…  Nonostante il concetto neuroetica fosse già ventilato in diversi ambiti del sapere, la “paternità” del neologismo viene attribuita storicamente alla prima definizione “canonica” risalente al maggio 2002. In questa data, a San Francisco (USA), si tenne il primo congresso mondiale di esperti intitolato: “Neuroethics: mapping the field”. In tale contesto, William Safire, politologo del New York Times recentemente scomparso, suggerì la seguente definizione contemporanea di neuroetica definendola: quella parte della bioetica che si interessa di stabilire ciò che è lecito, cioè, ciò che si può fare, rispetto alla terapia e al miglioramento delle funzioni cerebrali, così come si interessa di valutare le diverse forme di interventi e manipolazioni, spesso preoccupanti, compiuti sul cervello umano» (A. Carrara, 2013).

 

I dati della ricerca neuroscientifica sull’esperienza religiosa e mistica
Sulla scia dell’interessante e ben documentato libro del neuroscienziato spagnolo Rubia del 2003 intitolato: La conexión divina. La experiencia mística y la neurobiología (La connessione divina. L’esperienza mistica e la neurobiologia; F. J. Rubia, 2003), non dovrebbe destare clamore il recente articolo uscito sul quotidiano italiano Repubblica del 26 giugno scorso, firmato da due autorevoli professionisti: Giorgio Vallortigara e Vittorio Girotto, nel quale si afferma: «L’ipotesi che si è fatta strada in questi anni tra scienziati cognitivi e neuroscienziati è che l’architettura naturale della mente umana farebbe sì che nell’usuale ambiente in cui cresce un bambino, la credenza in un Dio creatore sia destinata a emergere in modo del tutto spontaneo, anche se le forme attraverso cui si manifesta possono variare con le circostanze socio-culturali. Gli esperimenti condotti dagli scienziati cognitivi suggeriscono che i bambini trovano del tutto naturale, indipendentemente dall’opinione degli adulti che stanno loro intorno, l’idea di un creatore non-umano del mondo, un creatore che possiederebbe super-poteri, super-conoscenza, super-percezione (Barrett, 2004). Le credenze religiose e nel sovrannaturale poggerebbero perciò su caratteristiche naturali della mente umana (Bering, 2011)» (G. Vallortigara, V. Girotto, 2013). Tutta l’argomentazione dell’articolo si basa su studi di psicologia cognitiva di una ben specifica tendenza. Si parla di “architettura cognitiva” senza specificare le aree o circuiti cerebrali sottostanti; si utilizzano termini abbastanza ambigui come “rappresentazione neurologicamente distinta”, etc., vengono omesse le più recenti acquisizioni di pscicologia e psicoterapia relative al “Trascendente”.

Gli studi sulla neurobiologia dell’esperienza religiosa e mistica partono da un presupposto antropologico e neuroscientifico abbastanza evidente per chi sostenga una posizione unitaria e unitiva (dal punto di vista ontologico-sostanziale) dell’essere umano e cioè: l’esperienza religiosa è supportata dal cervello, come tutte le esperienze umaneReligious experience is brain-based, like all human experience») (L. Saver, J. Rabin, 1997). “Supportata da” o più letteralmente “basata su” o “fondata su”, espressioni tutte che traducono l’inglese “brain-based”, non significano assolutamente un riduzionismo “stretto” come vorrebbero alcuni. Le evidenze del gruppo di ricerca del UCLA-Reed Neurologic Research Center (USA), ad esempio, riportarono, già sin dal 1997, un dato importante: dagli studi addotti, pare che le regioni temporo-limbiche costituiscano probabili sostrati neurali (neural substrates) dell’esperienza religiosa-numinosa (per intendersi, quella che Rudolf Otto definisce: l’esperienza del numinoso, del “tremendum et fascinans”); infatti, il sistema temporo-limbico è coinvolto nell’integrazione di stimoli tanto esterni, come interni, oltre che essere coinvolto nei cambiamenti dell’umore e, in sostanza, nell’attività emozionale (emotiva) umana (L. Saver, J. Rabin, 1997).

Nulla di strano, allora, se durante un’intensa preghiera o meditazione, che ovviamente coinvolge tutta la persona umana e, perciò, anche e, soprattutto, la sua emotività, le zone cerebrali limbiche si attivano e vengono coinvolte in modo preponderante. Ciò non significa, nel modo più categorico, che queste aree cerebrali siano la causa o siano le responsabili dell’insorgere dell’esperienza stessa. A gettare acqua sul fuoco sugli stessi studi neuroscientifici sull’esperienza mistica poc’anzi menzionati, fu Kozart che, in una lettera pubblicata su un volume successivo dello stesso Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neuroscience titolava: «L’esperienza religiosa non è stata correttamente definita» (M. Kozart, 1998).

 

Evidenze neuro-empiriche sull’esperienza religiosa e mistica
Già nel 2003 si rifletteva sulla direzione che stavano assumendo certi risultati delle neuroscienze relative all’esperienza religiosa e la “Neuroteologia” veniva introdotta a livello accademico (W. Whitfield, 2003). Nell’articolo di Repubblica  firmato da Vallortigara e Girotto emerge una deduzione per nulla dimostrata. Viene infatti sottolineata in maniera chiara un’identità stretta tra “mente umana” e “architettura cerebrale”, tesi filosofica appartenente alla cosiddetta corrente internalista del mentale che oggigiorno risulta abbastanza “ingenua” e obsoleta. Basti considerare il recente lavoro professionale e altamente scientifico della filosofa italiana Maria Cristina Amoretti sugli esternalismi del mentale (M. C. Amoretti, 2011). Interessante a questo riguardo l’approfondimento che Fingelkurts opera a partire dalla domanda caratteristica (the main empirical question) in quest’ambito della riflessione neuroetica: Is our brain hardwired to produce God, or is our brain hardwired to perceive God? (Il nostro cervello è cablato per produrre Dio, oppure il nostro cervello è cablato per percepire Dio?) (A. A. Fingelkurts, 2009).

Numerose monache di clausura e monaci buddisti furono reclutati come volontari a partire dagli anni ’90, all’interno di studi sperimentali neuroscientifici sull’esperienza religiosa e mistica (M. Beauregard, V. Paquette, 2006, 2008; A. Fenton, 2009). Considereremo brevemente alcuni degli esperimenti realizzati in quest’ambito per poter poi giudicare le conclusioni e le interpretazioni che portano avanti, spesso anche a livello mediatico, alcuni scienziati contemporanei.

Nel 2006, il dottor Mario Beauregard, pioniere negli studi neuroscientifici riguardanti l’esperienza religiosa e mistica (S. Lewis, 2009), del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Montreal in Canada, pubblicò, sul numero 405 di Neuroscience Letters, un articolo sui correlati neuronali dell’esperienza religiosa ottenuti studiando, attraverso l’elettroencefalografia, monache di clausura durante la loro meditazione quotidiana. Due anni dopo, nel 2008, lo stesso scienziato canadese pubblicò sulla stessa rivista, un lavoro che riassumeva nuovi dati di elettroencefalografia ottenuti durante l’esperienza mistica (M. Beauregard, V. Paquette, 2008). Le conclusioni di questi studi sperimentali (come di altri lavori che non è qui possibile menzionare nel dettaglio) portarono a concludere che durante l’esperienza religiosa numerose regioni cerebrali vengono attivate e coinvolte, particolarmente a livello della corteccia cerebrale. Ciò implica una rete neuronale complessa, cognitivamente strutturata, che coinvolge l’attivazione rilevante (in confronto con uno standard, cioè con i dati estrapolati da monache che non stavano ricordando le loro esperienze d’unione mistica) della famosa AAA (Attention Association Area), locus cerebrale associato alla concentrazione. Gli scienziati evidenziarono inoltre la riduzione dell’attività della OAA (Orientation Association Area) o zona dell’associazione e dell’orientamento spaziale. Già nel 2004 Olaf Blanke del Dipartimento di Neurologia di Ginevra (Svizzera), aveva pubblicato sulla rivista Brain, un interessante lavoro sull’implicazione di tale locus cerebrale e l’esperienza extracorporea detta anche out-of-body experience (O. Blanke et al., 2004).

Come dati scientifici, questi ed altri lavori, ci rivelano che durante un’esperienza spirituale diverse e numerose aree del nostro cervello vengono modulate (si attivano o vengono inibite in rapporto ad un parametro standard). Così concludono i ricercatori nel lavoro citato in precedenza: These results indicate that mystical experiences are mediated by marked changes in EEG power and coherence. These changes implicate several cortical areas of the brain in both hemispheres (M. Beauregard, V. Paquette, 2008).

 

Interpretazione di questi dati sperimentali
Dal dato scientifico alcuni ricercatori passano alla sua interpretazione fino ad arrivare a vere e proprie manipolazioni. Così il dottor Andrew Newberg dell’Università della Pensilvania a Filadelfia (Stati Uniti), compiendo gli stessi esperimenti con monaci buddisti e francescani, giungendo agli stessi dati empirici, scrisse un libro intitolato Dio nel cervello (God in the brain, Why God Won’t Go Away), nel quale riduce l’esperienza religiosa a puro prodotto materiale del nostro cervello. Newberg e altri neuro-riduzionisti interpretano i dati sull’esperienza del Trascendente come se il cervello stesso ne fosse la causa diretta e ultima. Si potrebbe allora concludere come fa il “padre” della neuroscienza contemporanea, Michael S. Gazzaniga: se il nostro cervello produce l’esperienza religiosa, Dio sta nel cervello e, in fin dei conti, il cervello diventa Dio. Questa visione fu divulgata con successo dallo spagnolo E. Punset nel suo libro L’anima è nel cervello.

La verità è, sfortunatamente per questo tipo di scienziati (che rappresentano un’esigua minoranza che però fa clamore), che i dati neuroscientifici non ricercano direttamente l’esperienza umana di Dio, ma cercano di identificare le basi neurofisiologiche associate alla fenomenologia di qualsiasi esperienza religiosa. Ciò che viene misurato non è affatto l’esperienza mistica in sé, ma l’intensa attività intellettivo–volitiva che l’accompagna. La ricchezza dell’esperienza religiosa, naturale in tutti gli esseri umani, si manifesta nella nostra dimensione corporea a livello delle complesse reti neuronali in gioco.

 

Nella seconda parte, che sarà pubblicata domani, arriveremo alle conclusioni.

14 commenti a L’esperienza del Trascendente alla luce della psicoterapia (1° parte)

  • Giorgio Masiero ha detto:

    “Ciò che viene misurato non è affatto l’esperienza mistica in sé, ma l’intensa attività intellettivo–volitiva che l’accompagna”: per la verità, a me risulta che ciò che viene misurato dai neuroscienziati è molto, molto meno ancora, ovvero correnti elettriche ed impulsi magnetici. Nient’altro.
    Ammettiamo pure che durante ogni analisi un neuroscienziato osservi con un sistema di sonde tutti i campi e le reazioni chimico-fisiche del corpo di un soggetto e da quelle misure calcoli con un modello matematico i pensieri e la volontà dell’Io del soggetto. Ammettiamo anche l’omologia della teoria impiegata – ma se ogni traduzione da una lingua all’altra è infedele in significato e stilemi; se la descrizione data da ogni “fedele” racconto è carente, può un vettore, qual è la risposta d’un apparato osservativo, rappresentare isomorficamente una catena di pensieri e volizioni? –, in ogni caso la fisica misurata sul corpo non è la stessa cosa dei pensieri vissuti dall’anima del soggetto. Ciò che l’Io ha vissuto pensando quei pensieri appartiene all’Io interno del soggetto ed è altro ontologicamente dalle grandezze fisiche osservate dagli Io esterni dei neurologi.

    • Gianantonio ha detto:

      L’osservazione è profonda, caro Masiero. Tuttavia, osservare come si modifica il comportamento -e il pensiero, mi par lecito supporre- quando c’è un danno cerebrale induce a ipotizzare che l’attività neurologica (correnti elettriche, senz’altro) determini ciò che ci passa per la testa e come agiamo.
      C’è un’altra possibile spiegazione? Grazie.

      • Giorgio Masiero ha detto:

        Caro Gianantonio, ciò che possiamo logicamente inferire è che c’è una “relazione necessaria” tra mente e corpo, ma non la “determinazione causale” dal corpo alla mente, che Lei suppone, secondo me frettolosamente. Io non sono un dualista cartesiano, ma un monista che crede nel libero arbitrio, come l’Aquinate. Insomma, quando ho buttato giù questa replica, sono Io che ho liberamente deciso di farla, con l’uso necessario del mio cervello per pensarla e del mio sistema nervoso e muscolare per scriverla.

        • Gianantonio ha detto:

          E’ vero: il fatto che a una variazione patologica nella struttura del cervello segua sempre una variazione nel comportamento, mi suggerisce un legame causa-effetto fra funzionamento cerebrale e mente. Fatico a pensarla altrimenti, e ne soffro perché anche io credo nel libero arbitrio. Quindi, non ho ancora trovato maniera di conciliare la neurologia con le mie idee. Mi può aiutare?

          • Giorgio Masiero ha detto:

            Ne ho parlato estesamente qui:
            https://www.uccronline.it/2012/09/25/perche-mente-e-coscienza-non-sono-un-epifenomeno/
            A Sua disposizione se qualcosa non Le risultasse chiaro.

            • Alcor Vega ha detto:

              E semplice cmq sia rispondere se pensiamo al cervello come ad uno strumento che trasforma gli impulsi spirituali in materiali attraverso il cervello ovvio che se è danneggiato non puo tradurre bene gli impulsi

              • Giorgio Masiero ha detto:

                Temo, Alcor Vega, che la Sua spiegazione sia “semplicistica”, piuttosto che “semplice”: come potrebbe infatti uno strumento “materiale” come il cervello recepire e trasformare impulsi “spirituali”?!
                Se c’imbarchiamo nel dualismo materia-spirito, come mi pare sia la Sua concezione (platonica), io non trovo altra strada nel mind-body problem che quella di un “ponte divino”, alla Malebranche. Cosicché la Sua soluzione “semplice” diventa la più complessa possibile, richiedendo l’intervento occasionale di Dio ogni volta che la volontà dell’Io comanda al sistema nervoso…
                A me, onestamente, pare infinitamente più semplice (ed anche ovvio, sotto l’aspetto razionale) un monismo tomistico, che considera le categorie di mente e materia, in particolare, quello che esse effettivamente sono, ovvero delle categorie interpretative, ma non delle sostanze separate nel caso della persona umana. Ma sulla “materia” forse varrà la pena di ritornare…

  • Daniele ha detto:

    Da profano in materia di psicologia, dico che chi ha una vita spirituale (cioè chi crede in Dio, chi prega, chi partecipa alla Messa, chi frequenta la parrocchia, ecc…) fa esperienza anche di un notevole benessere psicofisico.

  • AlcorVega ha detto:

    Bhe è sempre la solita storia un circolo vizioso questa volta proiettato sulla neurologa

    Se sono innamorato ,mi batte il cuore ed ho dei cambiamenti registrabili ma sempre avvenuti per un incontro con un altra persona , è la stessa cosa qui si hanno una serie di reazioni dovute ad un incontro …. ,si potrebbero fare milioni di esempi e potremmo leggerli tutti in diverse chiavi ovvio che cambiano i tempi ed il positivismo ed il riduzionista si affaccino su terreni nuovi e a volte sconosciuti ai profano per dare confusione

  • Marco G ha detto:

    Un articolo davvero molto interessante. L’unica affermazione che mi lascia perplesso è quella riguardante il “riduzionismo” di Newberg. Ho letto qualche suo scritto qualche anno fa; non mi sembra affatto un riduzionista, al contrario ,parla di CORRELATI neuronali dell’esperienza religiosa e aggiunge che qualsiasi esperienza (anche quella che lui definisce “baseline”) produce tali correlati. Anzi sembra attribuire validità gnoseologica all’esperienza mistica.

  • Diego ha detto:

    Io premetto subito che sono ignorantissimo in materia e non mi addentrerò in nessun approfondimento del caso…
    Però vorrei fare quasi una domanda provocazione… (In senso buono)
    Ma in fin dei conti siamo o non siamo fatti della sostanza del padre???
    Che male ci sarebbe ad avere Dio già scritto nel nostro cervello??
    Se pure i bambini da soli riescono a trovarlo, vuol dire che probabilmente Dio è già presente nella nostra testa…sta a noi accettarlo o no!

  • alessandro pendesini ha detto:

    …in questi anni tra scienziati cognitivi e neuroscienziati è che l’architettura naturale della mente umana farebbe sì che nell’usuale ambiente in cui cresce un bambino, la credenza in un Dio creatore sia destinata a emergere in modo del tutto spontaneo, anche se le forme attraverso cui si manifesta possono variare con le circostanze socio-culturali….
    Dice l’articolo !

    Si nasce con certe predisposizioni cognitive ed anche morali. Ma che io sappia nessuno fin’ora ha potuto dimostrare razionalmente che il concetto “Dio” sia innato o geneticamente determinato ! In altre parole la religiosità dell’uomo, quando esiste, non è innata ma acquisita ! L’uomo è un animale epifenomenale, se viene isolato dalla nascita in poi per qualche anno non impara assolutamente niente, neanche a parlare ! Ricordo la triste esperienza del ré di Prussia il quale volendo conoscere la lingua naturale originale, aveva fatto allevare dei bambini di certi orfanatrofi in un silenzio assoluto, senza nessun scambio di parole o segni ! Non solo non impararono a parlare, ma certi impazzirono ed altri morirono a bassa età. Storie simili sono successe in orfanatrofi della Romania comunista all’epoca di Ceausescu.
    Questo dimostra che senza scambi, senza imitazioni possibili, il nostro cervello non memorizza granché, e se viene isolato sino all’età di circa cinque anni sensa scambi di parole o segni, non potrà mai parlare e capire correttamente.
    Senza nessuno scambio, nessuna imitazione possibile, le connessioni neurosinaptiche non si sviluppano ma, al contrario, si atrofizzano !
    Mi siano concesse tré osservazioni :
    –Non esiste un “centro” o nuclei cerebrali dell’etica. Ma insiemi gerarchici (di funzione) e paralleli di neuroni che contribuiscono alle funzioni “cognitive” che vengono utilizzati per sviluppare l’etica. Queste predisposizioni neurali sono caratteristiche comuni alla specie umana.
    –La stessa predisposizione genetica può avere conseguenze psicologiche (o personalità) divergenti conformi al contesto culturale dell’individuo.
    –Circuiti cerebrali e esperienze psicologiche non sono cose diverse, ma piuttosto diversi modi di descrivere la stessa cosa.

  • priscilla ha detto:

    ne capisco poco di neuroscienze, ma per come la vedo l’embrione del cervello di un feto, che nasce come frutto di una relazione che è riflessa nel suo dna, nella sua fase evolutiva sviluppa gradualmente una certa percezione e una qualche consapevolezza della Presenza di un Individuo Altro con cui si trova in relazione e da cui dipende, per il bimbo nel grembo materno è la Madre; il bambino, una volta staccato dalla madre, cresce portando con sé l’esperienza di questa relazione con Qualcuno di più grande, più forte, per questo gli resce naturale concepire una Presenza onnipotente, per lo più benevola e provvidente (salvo esperienze traumatiche), e magari pensare a questo mondo come a una specie di grembo (affollato però!) da cui prima o poi verrà partorito a nuova vita