Gli anni bui della Rivoluzione francese: crimini e genocidi
- Ultimissime
- 15 Nov 2012
Nella mentalità europea la rivoluzione francese è considerata generalmente un avvenimento positivo perché, nonostante i crimini compiuti in questo periodo siano ormai noti, viene associata alla fine dell’Ancien Règime e alla proclamazione dei diritti dell’uomo. Anche molti cattolici sono oggi di questo avviso. Eppure paradossalmente in quell’epoca avvenne una delle peggiori persecuzioni anticristiane della storia.
In realtà, lo scontro tra Chiesa e Rivoluzione inizialmente era tutt’altro che scontato. La maggior parte del clero aveva infatti accolto favorevolmente i moti dell’89 tanto che alla costituzione dell’Assemblea nazionale quattro vescovi e 149 preti si unirono al terzo stato. Il clero votò a favore dell’abolizione della decima e non vi furono particolari problemi quando si decise di nazionalizzare i beni della Chiesa, ma i rapporti si ruppero quando i legislatori pretesero di avere poteri decisionali in materie attinenti al campo spirituale.
Infatti i rivoluzionari, oltre a decretare lo scioglimento degli ordini religiosi che non si dedicassero all’insegnamento e all’assistenza, emanarono nel luglio del 1790 la costituzione civile del clero che prevedeva la riduzione delle diocesi da 130 a 83, l’elezione dei vescovi e dei curati e l’abolizione di ogni giurisdizione del papa sulla Francia venendo a creare di fatto una chiesa nazionale scismatica. Questo provvedimento fu assai controproducente perché diede un aiuto fondamentale alla controrivoluzione e spinse il papa Pio VI (che pur critico verso la rivoluzione si era astenuto da pronunciamenti ufficiali) ad una condanna pubblica. Il clero si divise tra i “refrattari” che si rifiutarono di giurare fedeltà alla costituzione e i “costituzionali” che invece accettarono di farlo (questi ultimi composti da 7 vescovi e circa metà del basso clero anche se vi furono numerose defezioni in seguito alla condanna papale). Il clero refrattario inizierà perciò ad essere accusato di tendenze aristocratiche e controrivoluzionarie.
La situazione religiosa peggiorò con l’avvento della repubblica. Dopo la destituzione del re nell’agosto del 1792, l’Assemblea Costituente emanò una serie di normative antireligiose: la deportazione dei preti refrattari che non avessero lasciato il paese entro 15 giorni (salvo poi negare i passaporti per tenere i preti come ostaggi), la confisca delle campane, lo scioglimento degli ordini religiosi caritativi e il divieto di fare processioni o di indossare l’abito talare al di fuori degli edifici di culto. Anche il clero costituzionale incomincerà a essere perseguitato perché sospetto di tendenze monarchiche e moderatismo e, del resto, molti rivoluzionari non vedevano alcuna differenza tra le due Chiese. Durante il Terrore, si ebbe la cosiddetta “Scristianizzazione” nella quale i “rappresentanti in missione” influenzati del materialismo tardo-illuminista distrussero oggetti sacri, profanarono chiese e costrinsero all’abiura parecchi preti costituzionali. Venne inoltre adottato il calendario rivoluzionario in sostituzione a quello ecclesiastico e le decadi al posto delle settimane. Non tutti i politici francesi però condividevano la politica di scristianizzazione perché vi era il timore di perdere l’appoggio della maggioranza del popolo rimasta religiosa e d’inimicarsi le nazioni neutrali.
Nel 1795, perciò, si acconsentì alla riapertura delle chiese e lo stato rinunciò al finanziamento del culto. Non vi fu però una vera libertà perché le manifestazioni pubbliche di religiosità rimasero vietate e la repubblica proseguì con la laicità d’attacco, imponendo il calendario repubblicano in tutti gli atti della vita pubblica e il festeggiamento delle decadi al posto delle festività cristiane. Solo sotto Napoleone Bonaparte ebbe fine la fase più anticattolica della rivoluzione, grazie al Concordato stipulato nel 1801. Il futuro imperatore considerava però la Chiesa un mero strumento di governo e con gli “Articolo Organici” subordinò strettamente il clero allo stato (per una brevi sintesi sulle misure antireligiose dei rivoluzionari, seppur benevola verso quest’ultimi, si veda A. Soboul, La rivoluzione francese, Roma 1998 pp. 466-468).
La politica antireligiosa suscitò scontento tra la popolazione sfociando in alcuni casi in aperte rivolte. La più importante tra queste fu quella che scoppiò in Vandea. Vi erano già stati segnali di malumore in questa regione quando venne approvata la costituzione civile del clero e i vandeani accolsero con sfavore la notizia dell’esecuzione del sovrano. La goccia che fece traboccare il vaso fu la notizia della coscrizione obbligatoria di 300000 uomini: “Hanno ucciso il nostro Re; hanno cacciato via i nostri preti; hanno venduto i beni della nostra chiesa; hanno mangiato tutto quello che avevamo e adesso vogliono prendersi i nostri corpi… No, non gli avranno”, dichiararono gli insorti vandeani del villaggio di Doulon. Essi si proclamarono perciò realisti e cattolici, ritorcendo contro la Repubblica il diritto all’insurrezione per ottenere la libertà. La pessima organizzazione delle truppe rivoluzionarie permise agli insorti di prendere il controllo di una vasta area del paese, che le truppe rivoluzionarie avrebbero dovuto riconquistare palmo a palmo. I ribelli riuscirono ad infliggere pesanti perdite ai repubblicani applicando la tattica della guerriglia e per domare la rivolta, i parigini ricorsero a metodi brutali. In entrambi i fronti si ebbero atrocità, ma quello che fecero i rivoluzionari fu così terribile che alcuni studiosi hanno persino parlato di “genocidio”. I massacri più sanguinosi avvennero tra l’altro nel 1794 quando la rivolta era stata in gran parte domata: migliaia di prigionieri vennero brutalmente assassinati. Le azioni più sanguinose si ebbero a Nantes dove Jean-Baptiste Carrier, oltre alla ghigliottina, integrò quelle che lui definiva «deportazioni verticali» ossia gli annegamenti nelle acque della Loira: vennero praticati dei fori sulle fiancate dei barconi a chiglia piatta sui quali s’inchiodavano delle tavole di legno che poi venivano schiodate quando le barche erano al centro del fiume, portando così alla morte per annegamento alle vittime legate. In un primo tempo questi annegamenti furono limitati ai sacerdoti, ma presto si estesero ad un numero sempre maggiore di persone (si calcola che le vittime nella sola Nantes siano state tra le duemila e le quattromilaottocento).
Nei mesi di febbraio e marzo del 1794, le forze repubblicane intrapresero attraverso la regione ribelle una marcia «pacificatrice». Le dodici “colonne infernali” del maresciallo Turreau massacrarono ogni persona che trovarono sul loro cammino, uccidendo anche vandeani di provata fede repubblicana. Le violenze e le uccisioni su donne e bambini erano all’ordine del giorno. Si calcola che su una popolazione di poco superiore alle 800.000 persone, i vandeani uccisi siano stati più di 117.000 (ma alcuni si spingono fino a 250000, cfr. S. Schama, Cittadini. Cronaca della rivoluzione francese, Milano 1989 pp. 813-817).
Questi massacri non furono dovuti alla semplice brutalità della guerra, ma vennero incitati (se non espressamente ordinati) dai deputati della Convenzione, come apprendiamo dai documenti rinvenuti. Il generale Westermann così scriveva ad esempio al Comitato di Salute Pubblica nel dicembre del 1793: “Non esiste più Vandea, cittadini repubblicani, essa è morta sotto l’albero della libertà con le sue donne e i suoi bambini (…) Eseguendo gli ordini che mi avete dato, ho fatto calpestare i bambini dai cavalli, ho fatto massacrare le donne che almeno non partoriranno più briganti. Non ho prigionieri per i quali possa rimproverarmi”. Anche il deputato Carrier ammetterà candidamente di aver ricevuto “l’ordine di sterminare la popolazione in modo da poter ripopolare il paese in più in fretta possibile con cittadini repubblicani”. Secondo lo storico Reinald Secher, il genocidio vandeano fu quindi concepito, organizzato e messo in atto dal Comitato di Salute Pubblica ovvero, tra gli altri, da Robespierre in persona. (Lorenzo Fazzini, E Robespierre disse: cancellate i vandeani, Avvenire, 21 ottobre 2012). La fine dei massacri si ebbe con l’avvento dei termidoriani che stipularono diversi accordi con i ribelli nella quale promettevano di rispettare la loro fede e i loro beni, ma la pace durò pochi mesi e si ebbero in seguito altri focolai di guerriglia.
Simili insurrezioni si ritroveranno anche nei territori occupati dai francesi. In Belgio i contadini cominciarono ad abbattere gli alberi della libertà sostituendoli con delle croci, in Lussemburgo i francesi dovettero impiegare una battaglia in piena regola per vincere la ribellione e provvidero a deportare molti preti sull’isola di Ré, mentre nello stato Pontificio le truppe francesi venivano spesso assalite da gruppi di contadini guidati dai rispettivi parroci. Tutto questo accade dopo che l’occupazione di Roma e l’esilio del pontefice, aveva fatto credere ai rivoluzionari d’aver schiacciato il “fanatismo” e portato la pace universale (F. Furet – D. Richet, La rivoluzione francese, Bari 1974 pp. 534-535).
La rivoluzione francese ebbe indubbiamente grandi meriti, ma ebbe anche la colpa di aver creato un nuovo fanatismo di tipo ideologico che guardava ai suoi avversari come esseri privi di tratti umani e che scatenò atrocità che nulla avevano da invidiare a quelle provocate in nome del fondamentalismo religioso.
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42 commenti a Gli anni bui della Rivoluzione francese: crimini e genocidi
La Rivoluzione Francese insieme a quelle d’Ottobre sono state le più grandi bassezze raggiunte dall’Uomo negli ultimi secoli.
I secoli bui illuministi, altro che medioevo!!
Questo lo dici perché era di matrice illuministica e quindi deistica, ma come puoi affermare che una cosa come l’ancient regim (o come diamine si scrive) fosse qualcosa di buono, che il potere ASSOLUTO di un tiranno fosse giusto (e da cristiano dovresti considerare blasfemo che un re si considerasse praticamente un Dio) e tutto quello che ne conseguiva, sappiamo tutti degli eccessi rivoluzionari che sono da condannare ma se si arriva a tal punto che la gente fa una rivoluzione forse sarà anche un po’ colpa dei vari Zar, sovrani eccetera, oppure no?
come già detto tempo fa: Ha ucciso più persone innocenti la rivoluzione francese in una settimana che l’inquisizione italiana, spagnola e portoghese, tutte insieme, in un secolo.
Solito discorso che usano i nazisti, Stalin ha ucciso numericamente più gente del regime nazista quindi è peggio del nazismo/fascismo, non venitemi a fare discorsi sulla dignità umana nel settecento perché significa usare 2 pesi e due misure, evidenziando solo i crimini di una parte
La “Rivoluzione” è opera massonica allo stato puro, a riguardo consiglio un saggio di Carlo Maria Agnoli dal titolo “La Rivoluzione Francese nell’opera della massoneria”.
Ma anche sul sito internet “StoriaLibera” si trova tanto sulla cosiddetta rivoluzione e sul genocidio vandeano.
vi ricordate i miei interventi del 31 agosto che allego
https://www.uccronline.it/2012/08/29/in-francia-rinascita-della-fede-cattolica-in-particolare-tra-gli-intellettuali/
non viene citata nell’articolo la ragione della condanna a morte del Re. Luigi XVI venne ghigliottinato perchè si era rifiutato di firmare la legge che stabiliva la deportazione del clero refrattario.
Se è davvero andata così, sono ancora più orgoglioso di avere onorato il suo sepolcro alla Basilica di Saint-Denis quest’estate 😉 .
Luigi XVI, nonostante la rivoluzione, era sempre capo dello Stato. Il Re aveva firmato tutte le leggi rivoluzionarie, non c’era motivo di giustiziarlo. Ma non firmò la legge sulla deportazione del clero refrattario e questo gli fu fatale. A dimostrazione che la rivoluzione altro non fu che la più grande persecuzione della Chiesa dai tempi di Diocleziano. Non sono d’accordo con l’articolo quando dice “La rivoluzione francese ebbe indubbiamente grandi meriti”, non riesco a capire quali a meno che non si intenda per “meriti” aver fatto da precursori ai genocidi del ‘900 che utilizzarono gli stessi metodi usati dai rivoluzionari in Vandea. C’è infatti una incredibile somiglianza fra certe pratiche naziste e quelle utilizzate dai giacobini.
Penso che ogni evento porti sia risultati positivi che negativi. La rivoluzione francese pose fine al regime feudale e propose il suffraggio universale. è vero anche che i totalitarismi del ‘900 la presero a modello, ma queste due cose non sono si escludono necessariamente. La rivoluzione francese ispirò sia la democrazia che il totalitarismo. Non fu solo il rifiuto a firmare le leggi sui preti a causarne l’ostilità, ma anche il suo veto alla costituzione alle porte di Parigi di campo di ventimila federati.
la rivoluzione francese è un mito, ci sono fior di libri che smentiscono tutte le sue presunte conquiste. Basterebbe leggere il Livre noir de la Révolution française per rendersene conto. Posso allegare la seguente recensione di Massimo Introvigne:
Il primo aspetto strabiliante di Le Livre noir de la Révolution française (a cura di Renaud Escande O.P., Cerf, Parigi 2008) è la piccola grande storia di cui è stato protagonista. Un libro di 882 pagine sui misfatti della Rivoluzione Francese è pubblicato dalla casa editrice storica dei domenicani di Francia. Nonostante la mole e l’impegno, vende molte copie. Come conseguenza del successo di pubblico, tutta la grande stampa transalpina è obbligata a occuparsene, anche se quasi sempre per parlarne male: peraltro quasi mai indicando errori specifici, ma semplicemente definendo l’iniziativa reazionaria e inopportuna. Ecco quanto fa del libro non un fatto fra tanti, ma – insieme all’imprevisto successo della visita apostolica di Benedetto XVI del 12-15 settembre – l’avvenimento culturale saliente nel panorama francese del 2008.
Le Livre noir non si presenta come una storia sistematica della Rivoluzione Francese. È diviso in tre parti. La prima – «I fatti» (pp. 7-441) – presenta in venticinque capitoli, ciascuno opera di un diverso autore, una serie di episodi salienti della Rivoluzione e alcune valutazioni critiche complessive. La seconda – «Il genio» (pp. 443-746) – offre venti ritratti di pensatori e letterati che hanno, a diverso titolo e da diversi punti di vista, criticato la Rivoluzione, senza che tutti possano essere definiti «contro-rivoluzionari». La terza – «Antologia» (pp.747-878) – completa l’opera con una serie di testi sia di protagonisti sia di critici della Rivoluzione Francese.
Le oltre quattrocento pagine della parte relativa ai fatti coprono sia gli eventi sia la loro valutazione in modo tendenzialmente esaustivo. Si tratta di un vasto affresco, che non a caso si apre con un capitolo (tratto, con l’autorizzazione dell’anziano storico che ha esplicitamente voluto collaborare al Livre noir, da una sua opera del 1984) di Pierre Chaunu sulla vendita dei beni ecclesiastici (pp. 9-19), dove già si annuncia una delle tesi fondamentali del volume. La Chiesa cattolica non fu coinvolta a causa dei suoi legami con la monarchia in una rivoluzione principalmente politica, ma era il vero obiettivo di rivoluzionari il cui scopo era scristianizzare la Francia. Esemplare è anche la ricostruzione da parte degli storici Jean Pierre e Isabelle Brancourt della giornata del 14 luglio 1789 (pp.21-51). La presa della Bastiglia emerge sia nella sua dimensione di mito, pensato addirittura prima degli avvenimenti e giunto sino ai giorni nostri, sia nella sua realtà di modesto episodio già però caratterizzato dalla manipolazione della folla da parte dei club e delle società segrete e da una ferocia che diventerà il marchio della Rivoluzione.
Dopo un capitolo di Gregory Woimbée sui simboli rivoluzionari e sulla loro decomposizione nella Francia multiculturalista del XXI secolo (pp.65-88), quattro capitoli (pp. 89-181) sono dedicati all’azione e al martirio di Luigi XVI (1754-1793) e della sua famiglia. L’ultimo re di Francia appare – anche prima del martirio, sopportato con esemplare e cristiana fermezza – come un uomo profondamente buono, pio e sinceramente preoccupato del bene comune del suo popolo, il cui regno non è affatto una sequela di fallimenti né in politica estera né in politica interna. Un uomo, però, tradito dalla sua stessa bontà che lo porta a chiedere di fronte alla Rivoluzione – senza mai smentirsi – che neppure una goccia di sangue francese sia versata dalle sue guardie, nemmeno per salvare la sua persona. La sua attitudine conciliante, che lo porterà perfino a indossare il berretto frigio, appare come l’aspetto più discutibile dell’azione del monarca, spiegata ma non giustificata dalla sua naturale mitezza e bontà d’animo. Maggiore fermezza – ma, anche per lei, non senza errori politici – è mostrata dalla consorte di Luigi XVI, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena (1755-1793): ma in questo caso la rivalutazione storica è già da tempo in corso, ed è stata a suo modo confermata dal tono e dal successo dell’esposizione dedicata alla regina martire dalle Gallerie Nazionali del Grand Palais di Parigi nello stesso anno 2008.
Il lungo capitolo consacrato dal professore di diritto pubblico dell’Université Paris V Frédéric Rouvillois al tema «Saint-Just fascista?» (pp. 183-211) è tra quelli che più hanno indotto i critici a stracciarsi le vesti. L’uso della parola «fascismo», a differenza di quanto spesso avviene, è tecnico: Rouvillois propone un parallelo fra le idee del tribuno della Rivoluzione Louis-Antoine de Saint-Just (1767-1794) e quelle di Benito Mussolini (1883-1945). Saint-Just, secondo l’autore, anticipa il Duce del fascismo nel culto dell’eroe, della virilità, della «virtù» che conferisce all’uomo politico che la incarna il diritto di giustificare qualunque eccesso. Rouvillois non ignora le critiche di Mussolini alla Rivoluzione Francese, ma distingue fra la fase del regime fascista e quelle rispettivamente della formazione del movimento fascista e della Repubblica di Salò, dove le idee del Duce appaiono assai più vicine a quelle di Saint-Just. I critici hanno trovato il parallelo offensivo per Saint-Just. Se si guarda però al numero di morti giustiziati per ordine del tribuno francese e all’autentica passione per il sangue e l’omicidio politico di Saint-Just, da una prospettiva italiana si potrebbe al contrario – provocatoriamente – concludere che forse il paragone è offensivo per Mussolini. Fascismo o no, il capitolo merita comunque di essere letto per la lucida disamina del personaggio Saint-Just, la cui ferocia non deriva semplicemente da un carattere sanguinario ma è una conseguenza necessaria dell’ideologia.
Il cuore del Livre noir è rappresentato dai due capitoli di Jean de Viguerie sulla persecuzione antireligiosa (pp. 213-225) e di Reynald Secher sul genocidio vandeano (pp. 227-248). Entrambi gli storici riassumono qui loro opere precedenti e ben note. E tuttavia costituisce un merito l’essere riusciti a sintetizzare in due articoli brevi l’essenziale della violenza anticristiana della Rivoluzione Francese, che colpisce anche gl’insorti vandeani con una furia genocida che richiede spiegazioni teologiche e non solo politiche. Secher, in particolare, distingue – rispondendo a obiezioni di storici filo-rivoluzionari – tre periodi. Il primo è quello della guerra civile (1793), caratterizzata da atrocità non dissimili da quelle di altre guerre civili. Il secondo è il tempo del genocidio (1794), perpetrato secondo gli ordini delle autorità rivoluzionarie – le quali invano cercheranno di attribuirne la responsabilità al solo delegato della Convenzione Nazionale in Vandea, Jean-Baptiste Carrier (1756-1794), che sarà processato e ghigliottinato – contro una popolazione inerme, dopo che l’insurrezione era già stata sconfitta sul piano militare. Nel terzo periodo va in scena un «memoricidio», iniziato dopo il processo Carrier e ancora in corso ai giorni nostri, con cui si cerca di far dimenticare la memoria del genocidio vandeano attraverso la falsificazione storica e la congiura del silenzio.
Altri tre capitoli fondamentali sono dedicati al vandalismo, cioè alla distruzione sistematica per ragioni ideologiche di elementi del patrimonio francese: opere d’architettura e d’arte di natura religiosa o collegate alla storia della monarchia (pp. 249-259); libri e biblioteche, particolarmente monastiche (pp. 261-282); e navi (pp. 283-299). Quanto a queste ultime, il capitolo dello storico Tancrède Josseran riassume una vicenda tanto decisiva quanto poco conosciuta. La Rivoluzione si accorge che la Marina militare francese, orgoglio del re Luigi XVI che l’ha portata per la prima volta a competere ad armi pari per il dominio del mare con quella inglese (e a batterla in occasione del sostegno della Francia alla Rivoluzione Americana), è fondata su uno spirito di corpo e su un sistema di relazioni rigorosamente gerarchico, con ufficiali che sono tutti nobili. Decide quindi coscientemente di distruggere la Marina in nome dell’egualitarismo: i suoi effettivi sono ridotti, gli ufficiali ghigliottinati o messi in fuga, e sostituiti da capitani della marina commerciale senza esperienza di guerra, molte navi smantellate per farne legna da costruzioni o da ardere, con comprensibile giubilo di ammiragli inglesi come Horatio Nelson (1758-1805). Questi ultimi sanno bene come la guerra della Francia rivoluzionaria all’Europa non possa essere vinta senza controllare i mari, il che diventa impossibile grazie alla miopia tutta ideologica che distrugge la Royale, il nome con cui i francesi designano la Regia Marina Militare e che mostra fin da subito il suo collegamento organico con l’istituzione monarchica.
Non poteva mancare nel Livre noir una parte consacrata agli aspetti istituzionali e giuridici della Rivoluzione: anzi, per la verità, questa è la porzione del volume che anche alcuni critici hanno lodato. Il professore emerito di diritto dell’Università di Angers Xavier Martin, nel suo capitolo sul diritto rivoluzionario (pp. 301-322), mette in evidenza soprattutto due punti. Il primo è la nozione ideologica di legge, che per i rivoluzionari non nasce dal basso, dalla realtà, ma dalla volontà astratta – ritenuta assoluta e onnipotente – della Nazione. Una volta assunto questo punto di partenza, ogni governo – e ogni governante – non resiste alla tentazione di emanare centinaia di nuove leggi. La Rivoluzione aveva promesso di diminuire il numero di leggi: ce n’erano in effetti troppe, per la proliferazione dei diritti regionali e locali. Ma il risultato è piuttosto il contrario. «Quindicimila leggi in quattro anni? La cifra corre agli inizi del Direttorio. Si arriverà a quarantamila quattro anni più tardi» (p. 319): una tendenza che continua ancora oggi, e che proprio nella Rivoluzione Francese ha le sue origini. Il secondo aspetto sottolineato da Martin è l’odio, ugualmente ideologico, che la Rivoluzione Francese ha per la famiglia. Se l’uomo nuovo che la Rivoluzione vuole creare, il cittadino, deve stare davanti allo Stato senza la mediazione dei corpi intermedi, il diritto rivoluzionario distruggerà certamente le corporazioni e i privilegi locali: ma il suo obiettivo ultimo è il primo corpo intermedio, il più vicino alla persona che è la famiglia.
Saint-Just, l’ex-prete e teorico della Rivoluzione Emmanuel Joseph Sieyès (1748-1836), Maximilien Robespierre (1758-1794): tutti sognano l’abolizione della famiglia e l’instaurazione di un regime di figli affidati in tenera età allo Stato che non ricordino neppure più chi siano i loro genitori. Cominciano ad abolire la patria potestà e a introdurre il divorzio, nel 1792. Ma succede ai rivoluzionari francesi quello che capiterà ai loro emuli sovietici nel XX secolo: quando si trovano in guerra, scoprono che ogni attacco alla famiglia sfibra la società e danneggia l’esercito. Fanno, dunque, rapidamente marcia indietro: anche se rimarranno il divorzio (fino alla Restaurazione) e l’ideologia. Il grande assalto alla famiglia, abbandonato dai rivoluzionari per ragioni tattiche, sarà ripreso alla fine del XIX secolo; il divorzio, abolito nel 1816, sarà reintrodotto in Francia nel 1884.
Rimarrà pure – è il tema del capitolo di un altro professore universitario di diritto, Christophe Boutin (pp. 323-333) – la riorganizzazione del territorio, che sopprime le antiche regioni e le loro autonomie e introduce i dipartimenti, spesso del tutto artificiali e i cui confini sono fissati in un’ottica dichiaratamente anti-regionale. Anche in questo caso si tratta di far prevalere, rispetto a regioni che hanno una cultura comune e che sono nate dalla storia, una divisione territoriale stabilita dall’alto e il cui fine non è promuovere ma reprimere le autonomie locali. I nomi dei dipartimenti, poi, vogliono evitare qualunque riferimento storico e culturale: e anche questo è rimasto fino ai nostri giorni, mentre si è tornati indietro dopo la Rivoluzione almeno rispetto allo «stadio ultimo del ridicolo» (p. 332) che aveva cambiato i nomi anche alle città, modificando per esempio il nome di Bourg-la-Reine («Borgo della Regina») in Bourg-Égalité («Borgo dell’Uguaglianza») e quello di Grenoble (che conteneva la parola «noble», «nobile») in Grelibre.
A ben vedere, va ricollegato a questi due capitoli sul diritto e l’amministrazione anche quello del filosofo Michaël Bar Zvi sugli ebrei e la Rivoluzione (pp. 403-413). Il capitolo, infatti, mostra come agli ebrei siano riconosciuti dai rivoluzionari tutti i diritti come individui ma nessun diritto come comunità: sono emancipati in quanto «cittadini» ma disprezzati in quanto ebrei, quando non esplicitamente – e neppure troppo cordialmente – invitati a rinunciare alla loro identità e alla loro religione. C’è qui, certo, il consueto odio rivoluzionario per ogni religione. Ma c’è anche il pregiudizio secondo cui il cittadino deve stare di fronte allo Stato senza la protezione di alcun corpo intermedio, sia questo di natura professionale, locale o religiosa. Lo Stato rivoluzionario conosce il citoyen ma non conosce l’avvocato, il membro della corporazione di mestiere, il bretone o appunto l’ebreo. Dal momento che l’identità ebraica è particolarmente tenace, è pure combattuta dalla Rivoluzione con toni specialmente accesi, che secondo Bar Zvi hanno avuto certamente un ruolo nel preparare l’antisemitismo del XIX e del XX secolo.
Due storici molto noti, anche al pubblico non specializzato, intervengono su temi particolari: Emmanuel Le Roy Ladurie sul rapporto tra meteorologia, economia e Rivoluzione (pp. 336-347), e Jean Tulard su Napoleone I Bonaparte (1769-1821: pp. 355-374). Le Roy Ladurie mostra che, contrariamente a un mito duro a morire, un inverno particolarmente duro seguito da un’estate particolarmente secca non caratterizzò il 1789 ma piuttosto il 1788. Del resto, perché il ciclo innescato dalle avverse condizioni meteorologiche potesse passare dal cattivo raccolto al rincaro dei prezzi e da questo alle sommosse occorreva un anno: dunque a danni creati dalla meteorologia nel 1788 corrispondono sommosse nel 1789. Tuttavia in passato c’erano stati raccolti – e rincari dei prezzi – peggiori, che non avevano dato luogo a rivoluzioni, il che mostra che il cattivo raccolto del 1788 e il conseguente carovita sono (contro un’interpretazione diffusa fra gli storici marxisti) solo alcune fra le molteplici cause dell’agitazione rivoluzionaria, ma non le uniche né le principali. Tulard – riassumendo brevemente quanto ha più diffusamente illustrato altrove – si chiede se davvero Napoleone I possa essere descritto come l’uomo che assume, diffonde e consolida la Rivoluzione. Lo stesso Napoleone I, osserva lo storico, ha diffuso questo mito negli scritti redatti negli ultimi anni della sua vita. Da giovane, tuttavia, aveva guardato con sospetto alla Rivoluzione in quanto ostile all’indipendenza e anche alla semplice autonomia della nativa Corsica, causa che gli era molto cara, mentre in seguito aveva sì usato a suo vantaggio la retorica rivoluzionaria, ma senza dare mai l’impressione di crederci veramente. Il bonapartismo, secondo Tulard, resta un’ideologia politica diversa da quella rivoluzionaria nella sostanza, anche se spesso non nella retorica.
Interessante, anche perché accompagnato da numerose tavole a colori fuori testo, è il capitolo dello storico Bruno Centorame sull’iconografia contro-rivoluzionaria (pp. 349-363). Abituato a vedersi presentare a scuola e altrove solo l’arte che inneggia alla Rivoluzione, il lettore – specie francese – scopre l’esistenza di tutto un filone ottocentesco, talora artisticamente assai pregevole, che mostra gli orrori giacobini o esalta gli eroi della Vandea, il cui tipo sono i ritratti dei capi vandeani di Pierre Narcisse Guérin (1774-1833), a lungo nascosti nei sotterranei dei musei perché «diseducativi» ma oggi giustamente apprezzati e rivalutati.
Gli ultimi sei capitoli della prima parte (pp. 375-441) – tranne quello, già citato, relativo al rapporto fra ebrei e Rivoluzione Francese – propongono un inventario dell’eredità della Rivoluzione Francese e una sua valutazione critica. I totalitarismi del XX secolo – il comunismo, ma anche il nazional-socialismo – e il terrorismo, fino a quello dei giorni nostri, sono ricondotti alla Rivoluzione Francese come alla loro matrice e alla loro origine. Certo, non sono negate le differenze: e da questo punto di vista appare invero patetico il tentativo dei critici del Livre noir di considerare così fondamentali da rendere illegittimo ogni parallelo le distinzioni fra terrore sanzionato dalla legge (come sarebbe quello della Rivoluzione Francese) e terrore illegale dei terroristi, o fra regimi spietati che criticano o negano la democrazia (il comunismo e il nazional-socialismo) e regimi, pure spietati (come quello del Terrore rivoluzionario), che però affermano di operare in nome della democrazia. Queste differenze sono reali, né il Livre noir le nega. E tuttavia lo spirito della Rivoluzione Francese, l’idea che la misura della politica non è il bene comune ma l’ideologia, la giustificazione della violenza e del Terrore in nome della stessa ideologia sono momenti cruciali di un processo che prepara i totalitarismi del XX secolo e la giustificazione del terrorismo nel XXI.
Questa parte del volume mette pure in conto, anticipatamente, un’obiezione che in effetti è stata rivolta al Livre noir: quella di non distinguere fra la Rivoluzione «buona» del 1789 e quella «cattiva» del 1793 e del Terrore. Se si limitasse a criticare il 1793, si afferma, il Livre noir s’inserirebbe in un filone di storiografia liberale che è accettato, anche se non è condiviso da tutti, nell’attuale clima culturale e politico della Repubblica Francese. Criticando anche il 1789, il Livre noir invece si pone fuori da un consenso nazionale che unisce destra e sinistra (e, hanno scritto in molti, anche buona parte dei cattolici, «integristi» esclusi). In effetti, anche Benedetto XVI nel suo importante Discorso ai Membri della Curia e della Prelatura Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22 dicembre 2005, da molti definito una vera e propria «enciclica sulla modernità», ha difeso la condanna pronunciata dalla Chiesa del XIX secolo nei confronti delle «tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese». Dunque – ci si potrebbe chiedere – perfino il Pontefice può essere arruolato fra quanti distinguono fra una fase buona (il 1789) e una cattiva (il 1793) della Rivoluzione? Tutto dipende da quello che s’intende per «prima fase». Anche gli autori del Livre noir sono consapevoli che non tutto andava per il meglio in Francia fino al 13 luglio 1789. La distruzione dei corpi intermedi non è stata ideata completamente ex novo dalla Rivoluzione ma è stata preparata da secoli di assolutismo regio. Molti di coloro che andavano a Parigi per partecipare agli Stati Generali non intendevano rovesciare in modo «radicale» lo stato di cose vigente, e meno ancora chiudere le chiese o ghigliottinare gli oppositori. Intendevano solo protestare contro l’assolutismo in nome delle libertà dei singoli e della società che lo Stato assolutista aveva negato. Una «prima fase» della Rivoluzione Francese, in questo senso, dovrebbe andare dal 5 maggio 1789 (se non, considerando i prodromi, addirittura dal 1788) al 9 luglio 1789, cioè dalla convocazione degli Stati Generali fino alla loro trasformazione in Assemblea Nazionale: ma non certo fino al 1792, e neppure fino al 1790. Si può dunque mantenere sia che – secondo la nota espressione dell’uomo politico radicale e anticlericale francese Georges Clemenceau (1841-1929), più volte citata nel Livre noir – «la Rivoluzione è un blocco», dal 14 luglio 1789 al Terrore e oltre, sia che l’iniziale protesta anti-assolutista (la «prima fase») di questo blocco a rigore non fa parte.
Padre Jean-Michel Potin, O.P., archivista della Provincia Domenicana di Francia (pp. 416-429), e il giornalista e storico Jean Sévillia (pp. 431-441) offrono adeguate conclusioni alla prima parte dell’opera. Se Sévillia – confrontando i festeggiamenti del primo centenario della Rivoluzione nel 1889 con quelli del secondo, nel 1989 – mostra come nella Francia multietnica e multiculturale della Rivoluzione resti molto poco, così che – osserva provocatoriamente – forse nel 2089 il terzo centenario non sarà neppure celebrato, Potin conclude indicando che una delle più nefaste eredità della Rivoluzione Francese è la confusione dei ruoli, profondamente sovversiva, fra l’eroe e il re. Contro questa confusione si è schierato, nota il religioso, John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) nel suo Il Signore degli Anelli: «Alla fine del romanzo, il figlio del re è incoronato perché il potere è suo di diritto, e l’eroe – che ha compiuto il suo compito – si ritira dal mondo degli uomini. Ciascuno è stato al suo ruolo, e al suo posto: l’eroe è eroe e non è re, ed è per questo che deve lasciare il mondo dove il re regna, per evitare che lì si sviluppi un culto dell’eroe. L’eroe Frodo non ha figli, ma è seguito da altri tre hobbit della sua stessa generazione che condividono il suo combattimento e le sue gioie. Il re invece, nel momento in cui cinge la corona, si sposa e si assicura una discendenza. L’eroe è generazionale, il re paterno. Rifondare la politica sull’amore non consiste nel rifiutare di amare gli eroi, ma nel saper discernere che l’eroe è colui che affida il potere alla persona che porta in sé la legittimità. Ogni autorità viene da Dio. Egli la dona, ed è questo dono che si deve amare» (p. 429).
La lettura della seconda parte, «Il genio», dedicata ai critici della Rivoluzione Francese, è molto più faticosa. Anche qui l’intento dichiarato non è quello di proporre una storia del pensiero contro-rivoluzionario. L’obiettivo, se fosse questo, sarebbe mancato. Lo sarebbe per eccesso, in quanto sono inclusi pensatori che di questa storia non fanno parte, come Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900: pp. 631-656). Ma lo sarebbe anche per difetto, perché mancano riferimenti al pensiero contro-rivoluzionario del XX secolo, soprattutto spagnolo e iberoamericano (uno per tutti: Plinio Corrêa de Oliveira, 1908-1995, da cui una storia della Contro-Rivoluzione nel XX secolo non può certamente prescindere) ma anche francese (Jean Ousset, 1914-1994). La scelta ha privilegiato gli autori francofoni – di cui uno non francese, il diplomatico del re di Sardegna Joseph de Maistre (1753-1821: pp. 471-482) – con tre sole eccezioni: oltre a Nietsche, lo spagnolo Juan Donoso Cortés de Valdemagas (1809-1853), in effetti un punto di riferimento imprescindibile per la Contro-Rivoluzione (pp. 529-545), e la tedesca (vissuta però negli Stati Uniti a partire dal 1941) Hannah Arendt (1906-1975). L’inclusione di quest’ultima si comprende: l’autorità di una delle maggiori studiose di scienza politica del XX secolo viene a confermare la tesi del Livre noir secondo cui i totalitarismi del Novecento sono figli della Rivoluzione Francese. Colpisce, però, la mancanza di un capitolo su Edmund Burke (1729-1797), il primo e più influente critico anglofono della Rivoluzione.
Alcuni capitoli di taglio letterario appaiono poi eccessivamente concentrati su questioni estetiche, e lontani dallo spirito generale del volume. Così l’analisi che la romanziera Sarah Vajda dedica a François-René de Chateaubriand (1768-1848: pp. 505-520), di taglio strutturalista e dove più che la critica della Rivoluzione all’autrice sembra stare a cuore il possibile paragone con il semiologo del XX secolo Roland Barthes (1915-1980). Un paragone giustificato da qualche spunto «antimoderno» del semiologo, ma qui giocato sui rispettivi atteggiamenti di fronte alla bellezza e all’erotismo – salvo che per Chateaubriand si tratta di belle donne e per l’omosessuale Barthes dei «begli occhi e lunghi capelli» del ragazzo di turno (p. 512). Quanto alla politica, otto pagine su Charles Maurras (1868-1952; pp. 696-706) non sembrano sufficienti ad approfondire – eventualmente in modo critico, mettendo in luce come egli abbia cercato di separare la Contro-Rivoluzione dalla sua essenziale dimensione teologica e religiosa – il ruolo che ha avuto nella storia della critica alla Rivoluzione Francese. C’è spazio appena per un cenno ai suoi complessi rapporti con il positivismo, e per una presa di distanza obbligatoria dai suoi spunti antisemiti.
Queste riserve non vogliono però dissuadere dal leggere anche la seconda parte del Livre noir. Fra i venti ritratti di critici della Rivoluzione si nascondono veri e propri gioielli. Forse il capitolo più notevole è quello consacrato da un dottorando dell’Università di Angers, Jonathan Ruiz de Chastenet, ad Antoine Blanc de Saint-Bonnet (1815-1880: pp. 547-572). Di questo filosofo francese emerge la capacità – oggi troppo spesso dimenticata – di sintetizzare il pensiero contro-rivoluzionario precedente, legato ai nomi di Joseph de Maistre e Louis de Bonald (1754-1840; interessante anche il capitolo che lo riguarda, principalmente inteso a smentire una certa vulgata secondo cui sarebbe stato un pensatore fideista e ostile alla ragione: pp. 483-504). La presentazione sistematica di Blanc de Saint-Bonnet contribuisce in modo decisivo al passaggio, per riprendere un’espressione di un esponente contemporaneo italiano della scuola contro-rivoluzionaria, Giovanni Cantoni, dalla patristica a quella scolastica della Contro-Rivoluzione che fiorirà nel XX secolo.
Pregevoli sono anche i ritratti dedicati a due storici critici della Rivoluzione. Il primo è Hyppolite Taine (1828-1893: pp. 665-677), positivista quanto a convinzioni filosofiche ma – come mostra l’uso ampio che ne fa anche la parte antologica del Livre noir – per molti aspetti ancora insuperato come studioso delle fonti, nonché a sua volta punto di riferimento per Augustin Cochin (1875-1916: pp. 679-689), il giovane studioso caduto nella Prima guerra mondiale oggi riscoperto grazie ai lavori di uno storico autorevole come François Furet. Cochin, alla scuola di Taine, si segnala per una rigorosa ricognizione delle fonti, da cui emerge il ruolo delle «società di pensiero» (non solo della massoneria: e sta qui, come si fa giustamente notare nel Livre noir, la sua differenza con il più «complottista» Augustin Barruel S.J., 1741-1820) nel preparare e orientare la Rivoluzione. Né, infine, va sottovalutato l’interesse di alcuni ritratti letterari come quelli, per alcuni versi paralleli, dedicati al repubblicano Charles Péguy (1873-1914: pp. 707-712) e al monarchico Georges Bernanos (1888-1948: pp. 713-732). Di entrambi si mostra, al di là di oscillazioni nei giudizi storici e politici, la fondamentale unità d’ispirazione radicata nella centralità della fede e nell’amore per la Chiesa cattolica. Quanto al loro comune maestro Léon Bloy (1846-1917: pp. 615-630), come spesso accade quando si parla di questo letterato le sue miserie umane e i suoi eccessi e le sue incoerenze di polemista hanno più spazio rispetto alle belle pagine cristiane che pure hanno ispirato, come si riconosce, un’ampia posterità letteraria e filosofica. Ma è vero che le questioni politiche non sono mai state davvero al centro delle preoccupazioni di Bloy, che ha anzi trasformato – secondo l’espressione dello storico delle idee «antimoderne» Jacques Compagnon, ripresa dal Livre noir – «una marginalità politica e un handicap ideologico in un atout estetico» (p. 630).
Una parte del Livre noir che, pervenuti a pagina 747, molti rischieranno davvero di non leggere è la terza, di natura antologica. Grave errore: perché, anzitutto, l’antologia consente di riscoprire pagine dimenticate di storici acuti e sempre attentissimi alle fonti come Hyppolite Taine, ma anche testi di autori come Barruel che – pure criticato nelle sezioni precedenti nell’opera – emerge qui come uno storico tutt’altro che sprovveduto quando, più che i vasti complotti internazionali degli Illuminati, ricostruisce con dovizia di prove i piccoli – ma non piccolissimi – complotti dei tribuni della Rivoluzione. Ma errore, soprattutto, perché l’antologia, curata con intelligenza e brio da padre Renaud Silly O.P., dà voce agli stessi rivoluzionari attraverso testi, discorsi e articoli di giornali e gazzette del tempo. Ne emerge un quadro francamente agghiacciante. dove tribuni senza pietà e senza cuore arringano le folle in nome dell’odio contro la religione, la monarchia e ogni forma di differenza che possa fare ostacolo a un’impresa che mira a trasformare i francesi in «cittadini» tutti uguali e tutti modellati dall’ideologia. L’uccisione – anche, e lo si dice esplicitamente, dell’innocente –, il sangue, la guerra di aggressione non sono semplicemente presentati come mali tragicamente necessari, ma esaltati come strumenti potenti per distruggere la vecchia Francia e far nascere dalle sue rovine sanguinanti l’uomo nuovo ideologico. La mole di documenti presentati esclude che si tratti di eccessi individuali. Emerge al contrario un vero e proprio sistema, di cui sono responsabili tutti i principali dirigenti rivoluzionari e, in ultimo, la Rivoluzione stessa.
Opera collettiva, il Livre noir ha tutti i pregi e qualche difetto del genere. Molti autori sono del resto giovani. Questo non è necessariamente un limite, anche se i critici hanno sottolineato che i titolari di cattedra non sono in maggioranza. Reynald Secher ha peraltro risposto che spesso le cattedre in Francia sono negate a chi si occupa di Rivoluzione Francese senza ripetere la versione ufficiale: il cane rivoluzionario, quindi, si morde la coda. Ma – ed è questa la buona notizia – la coda, per quanto lunga, è ormai quasi alla fine. Lo dimostra la stanchezza dei rituali con cui si celebra la Rivoluzione. Lo conferma l’atteggiamento dei tanti francesi che, sordi alla campagna ostile dei media, hanno votato con i piedi andando in libreria e comprandosi il libro. Lo leggeranno tutto? Il Livre noir, nonostante la mole, non è né vuole essere un’opera di consultazione. Assomiglia piuttosto a un buffet di qualità, dove ciascuno prende secondo i suoi gusti e il suo appetito ma che offre comunque il senso di una cucina e di una gastronomia. Così il volume trasmette a chi lo percorre il sapore aspro e l’odore di morte di una delle grandi tragedie della storia, strappata con opportuna violenza alle oleografie celebrative e riportata nella strada dove il sangue scorre, le croci sono spezzate, le opere d’arte sono date alle fiamme e le teste dei sacerdoti, delle religiose, degli oppositori e talora di semplici passanti che si sono trovati al posto sbagliato nel momento sbagliato sono portate in macabro trionfo issate sulle picche dei sanculotti. Non è certo un bello spettacolo: ma ha il pregio di essere vero.
Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi ha ricordato gli orrori della Rivoluzione Francese mostrando come, a proposito dei fatti di Francia, ebbe occasione di mutare parere il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), inizialmente entusiasta e che del resto alla Rivoluzione con le sue idee aveva in qualche modo contribuito. Ma nell’opuscolo La fine di tutte le cose, del 1794, ogni maschera è caduta e di fronte alla Rivoluzione Francese il filosofo parla apertamente di un regno dell’«Anticristo», «fondato […] sulla paura e sull’egoismo»: «la fine (perversa) di tutte le cose» (così riassume il suo pensiero il Papa nel n. 19 dell’enciclica). Sì: l’Anticristo. Tra i tanti meriti del Livre noir c’è quello di mostrare come il motore dell’impresa rivoluzionaria – non, ancora, una sua conseguenza accessoria o seconda – sia l’odio per la Chiesa cattolica, per la religione, infine per Dio stesso, nel tentativo di inventare una Francia, un’Europa, una società senza Dio. Ma – come ricorda Giovanni Paolo II (1920-2005) in uno dei suoi discorsi più famosi, quello al congresso Evangelizzazione e ateismo del 10 ottobre 1980, facendo sue le parole del cardinale Henri de Lubac S.J. (1896-1991) – «non è vero che l’uomo non possa organizzare la terra senza Dio. Quel che è vero, è che, senza Dio, egli non può in fin dei conti che organizzarla contro l’uomo». Se questo è il problema, non c’è che una soluzione, quella indicata già agli albori della scuola contro-rivoluzionaria da de Bonald: «La rivoluzione è cominciata con la proclamazione dei diritti dell’uomo. Non sarà distrutta che dalla proclamazione dei diritti di Dio».
Grazie, Pino, x avere segnalato questo libro, se ne prevede la traduzione in italiano?
Sicuramente Luigi XVI era un grande esempio di valori cristiani, guardate che se uno critica la chiesa cattolica non è sempre perchè è un anti-cristiano invasato, sarebbe come dire che se uno critica un certo tipo di politica allora è un anti-politico, del resto alcune critiche alla chiesa provengono anche da molti individui cristiani
Le cause della destituzione di Luigi XVI furono perché venne accusato di essere in combutta con il nemico. Il suo rifiuto a firmare la legge che stabiliva la deportazione del clero refrattario è una di queste, ma non è la sola. Importante fu il manifesto stabilito dal duca di Brunswick comandante delle truppe nemiche che minacciava rappresaglie nel caso la popolazione parigina avesse attentato alla vita del sovrano, che ebbe in realtà l’effetto opposto a quello sperato. Il processo al sovrano contenette diverse irregolarità, ma le prove dei contatti con gli austriaci trovati nel cosidetto “armadio di ferro” c’erano.
ovvio, uno viene sempre accusato di qualche cosa. La combutta con il nemico è un classico. Che il Re non vedessi di buon occhio la rivoluzione mi pare ovvio, ma da qui a ghigliottinarlo per tradimento ce ne passa. Del resto il processo da chi fu fatto? Da un tribunale indipendente? Ma andiamoooo, vediamo di essere un pochino disincantati.
Luigi XVI voleva la guerra in modo da trarne profitto dalla sconfitta così da poter regnare come prima. Sul fatto che il processo non fu equo e che la condanna di colpevolezza era scontata hai ragione. Tuttavia non lo era l’esecuzione dato che su 721 suffragi espressi 366 votarono a favore della pena capitale.
Terribili le parole del generale Westermann. E poi si afferma ancora oggi che è soprattutto la religione a produrre fanatismi, barbarie, lutti. Praticamente tutte le guerre degli ultimi 200 anni, tutte terribili e sanguinosissime, sono state fatte x motivi del tutto estranei alla religione. Basti pensare a: guerre napoleoniche,guerra franco prussiana del 1870, guerra di secessione americana,prima e seconda guerra mondiale, guerra di Corea, Vietnam etc. Non sembra dunque che la secolarizzazione post rivoluzione francese abbia prodotto se non la pace, almeno una attenuazione delle barbarie belliche. In realtà il tipo di uomo psicologicamente propenso al fanatismo (che è sempre esistito e purtroppo probabilmente sempre esisterà) trova nel susseguirsi degli accadimenti storici pretesti di varia natura x giustificare la proria irrazionale, violenta. incoercibile voglia di “fare piazza pulita”.
Il problema della rivoluzione francese è che dei suoi orrori soffriamo i postumi ancora adesso: la persecuzione contro i Cristiani in quella che era quasi la seconda patria del cristianesimo occidentale (quanti e quali santi può vantare la Francia!) fu l’inizio “col botto”, se vogliamo dire; le idee che la animarono si sono fatte largo e cercano ancora oggi di soffocare la fede.
Ho il vomito. Un misto di efferatezze naziste e voti di sterminio tribali sul tipo di quelli degli ellenisti contro i Giudei ai tempi del Maccabeo…
Poi dicono della Chiesa che Predichi bene e Si Comporti “male”? Ma questi od i comunisti cosa fanno?
Pure la BBC, in questo documentario, ha denunciato senza messe misure tutte le cose che accaddero durate l’infame periodo del Terrore:
http://www.youtube.com/watch?v=ej5rceb4-hQ
Non sapevo che “il thought crime” fosse stato un’invenzione dei rivoluzionari, o che ci fossero processi senza difesa – “la virtu’ non ha bisogno di difesa”, ed amenità simili
Sarebbe bello se si uno si potesse trovarlo su DVD invece che senza crediti su Youtube.
La BBC? Ma non era anticristiana?
anche gli orologi rotti segnano due volte al giorno l’ora esatta.
Libertà
Ti sei liberato dall’opressore aristocratico,sei libero dalle banche?
Uguaglianza
Vedi forse il miraggio delle persone tutte uguali?E poi sarebbe giusto eguagliare le singole persone a una “massa informe” non rispettandone l’individualità?
In che senso il singolo individuo è identico agli altri?O forse l’uguglianza si raggiunge eguagliando e rendendo identici le peersone come se fossero un branco di animali senza intelleto,piuttosto che con il rispetto di un’uomo non per motivi di ceto o classe, ma solo perchè è un’uomo.O forse una donna è uguale a un’uomo?Ma domando loro non deve essere rispettata una donna per il solo fatto che è donna,non è frorse il tentare di rendersi identici a generare la discriminazione.
Non sei identico a me dunque sei un’alieno?
Fraternità
Siamo tutti fratelli,ma allora perchè ci rendiamo l’uno superiore all’altro.
Tre parole che hanno,certo nella mia opinione, senso solo se le spiega Gesù Cristo,perchè non pare che in tutte le guerre mondiali,in tutti i totalitarismi,in tutti i massacri post rivoluzione qualcuno le abbia mai capite,forse sbandierate come slogan,ma mai capite.
Non c’è nessuna Ricoluzione se non la rivoluzione di se stessi quella interiore non esteriore allora presumo che quando si avrà il coraggio di farla,allora magari,chisasà,il mondo potrebbe un pò migliorarsi.
Uguaglianza: tutte le persone hanno stessi diritti e dignità davanti alla legge, non mi dire che poi nella pratica questo può non avvenire perchè tu mi hai chiesto la definizione, nella pratica è difficile ottenere questo ma di certo per avvicinarci a tali valori non possiamo prendere ad esempio il modello pre-rivoluzionario ancor meno pensa un pò di quello post-rivoluzionario, quando parli di ridurli ad una massa informe ti riferisci semmai a certe robe pseudo-comunistiche.
Quando parli di fraternità e dici che ci rendiamo tutti superiori agli altri a cosa ti riferisci? Alle posizioni sociali, alla ricchezza, a cosa? Risulta facile facile condannare senza se e senza ma la Rivoluzione Francese se non la si inquadra nel suo contesto storico,chissà quanta fratellanza c’era nella Francia pre-rivoluzionaria . Poi il fatto che quello che è venuto dopo l’ancient regim (o come si scrive) è stato negativo non rende quello che c’era prima buono, il fascino reazionario lo posso anche capire umanamente ma non lo trovo comunque giusto.
Avrai anche ragione quando dici che quelle tre parole te le può spiegare solo Gesù Cristo ma non possiamo evitare di provare a dargli comunque un senso, perché nell’uomo risulta essere istintivo.
Premessa stiamo parlando di tre parole di importanza inaudita per l’essere umano.Parlare solo di queste tre parole significherebbe parlare dell’essere umano in quanto essere umano.Talvolta esse sono sfugevoli,trascendono proprio anche le condizioni logiche,le reputo condizioni di progresso spirituale individuale piuttosto che condizioni di legge.Perchè?E le riferisco al fatto che se anche noi parlassimo di Libertà,e se anche noi affermassimo qualcosa,la domanda è proprio quella che esprimi:siamo capaci di darli un senso.Ovvero siamo sdicuri di sapere:
Cosa sia libertà.
Cosa sia l’uguaglianza.
Cosa sia la fratellenza.
Ora queste tre parole non hanno un senso logico ma etico.
Faccio un esempio:
Io sono libero di fare ciò che voglio?
Evidentemente nè da laico nè da cristiano sono libero.
Per esempio non sono libero di uccidere,in ambedue i casi.
Razionalmente potrei concludere,che l’uomo non è libero,perchè meccanicamente penso che la libertà sia una sorta di status anarchico.Ovvero potrei concludere che la libertà è :
“Fare ciò che voglio.”
Ma la domanda seria, è cosa vuol dire,essere libero?Vuol dire fare ciò che voglio?Ovviamente sono d’accordo sul fatto che i reganenti corrotti sono una disgrazia per tutto il popolo,un po come fra l’altro dice la Bibbia.Ma la domanda è la mia libertà di individui dipende dal fatto che loro possono ridurmi in miseria?
Si nota poi proprio come la presenza della libertà umana nell’individuo vada inevitabilmente a influire sull’altrui libertà.Il mio “ecesso” di libertà va invitabilmente a ledere la libertà del mio prossimo.Proprio per questo è necessaria una legge tale che mi impedisca o comunque mi aiuti a comprendere il non senso di un regime anarchico.
Penso comunque che queste tre parole abbiano una radice più profonda radicata nell’uomo,di ogni generazione,e comunque sono tre parole di difficilissima analisi che richedono una riflessione molto approfondità.
Per esempio alcuni uomini e persone sono stati liberi negando la loro stessa libertà(tutti sappiamo che viveva in un bunker,che era un morto che camminava).Falcone per esmpio ha negato la sua libertà ma forse dopotutto era più libero di un mafioso?
Qui mi viene inevitabile affermare che un Falcone che si è qusi negato la sua libertà e vissuto più libero di un mafioso.
Perchè?
Perchè la libertà non è un vissuto esteriore ma interiore.Non è nemmeno una rivoluzione votata a distruggere Una aristocrazia,i politici che paiono sempre più corrotti non sono liberi,cristianamente sono molto più schiavi di loro stessi e dei loro continui complotti fra di loro e i loro compromessi.
Gli orrori delle rivoluzioni sono una conseguenza dell’ingiustizia. Quando si permette che il popolo subisca pesanti ingiustizie, prima o poi la situazione esplode. E quando esplode, il popolo è un mostro che non ragiona, che odia, ed è pronto a seguire il primo “capo popolo” che gli indichi qual’è il nemico, per distruggerlo. Questo è successo in tutte le rivoluzioni, sia di destra che di sinistra. In modo certamente meno drammatico, sta succedendo anche ora in Italia con Grillo.
Comunque, giudicare ogni evento della storia soltanto in base alle conseguenze che ha avuto contro la religione, e infischiandosene delle cause, come spesso si fa qui, mi pare francamente un tantino manicheo e “masturbatorio”.
falso, anzi falsissimo. La rivoluzione francese non fu affatto una conseguenza dell’ingiustizia ma una operazione ideologica condotta a tavolino e portata nelle piazze. La Francia prima della rivoluzione era il Paese più popolato e ricco d’Europa con una forza economica e militare assolutamnete superiore a tutti gli altri. La rivoluzione ha avuto come risultato la distruzione di tutto ciò con la conseguenza che il primato passò all’Inghilterra. Anche la barzelletta che la rivoluzione fu contro la nobiltà sarebbe ora venisse smontata, tutti i principali capi rivoluzionari, a partire da Robespierre erano nobili. Non c’è niente di più falso del mito storiografico, diffuso da oltre duecento anni, secondo cui la rivoluzione francese fu la rivolta di un popolo oppresso contro una classe dominante. Il mito principale della Rivoluzione francese, che essa fu una rivolta contro la nobiltà, è falsa.
I recenti studi storici, in particolare le documentazioni dello storico americano Donald Greer e quelle di Norman Hampson, confermano che pochi furono i nobili uccisi dalla Rivoluzione. Fra le vittime assassinate sotto il terrore solo l’8,5% appartiene alla nobiltà, mentre il 91,5% appartiene al popolo.
Su circa 400.OOO nobili viventi nel 1789, vi sono soltanto 1.158 esecuzioni, equivalenti in percentuale allo 0,03%, e soltanto 16.431 emigrati, cioè il 4%. Il sacrificio di questa piccola percentuale di nobili può essere letto come conseguenza di una lotta della nobiltà – settaria – contro quella piccola parte della nobiltà che si ostinava a rimanere fedele alla dottrina naturale e cristiana e che quindi, con la sua presenza, ostacolava il progetto di scristianizzazione della Francia. Occorre anche ricordare che nel gergo rivoluzionario il termine – aristocratico – non designa affatto un membro della nobiltà ma un nemico della rivoluzione. Così venivano considerati – aristocratici – gli operai e i contadini cattolici che si ribellavano alla rivoluzione, proprio come accadeva nella rivoluzione bolscevica dove venivano chiamati – borghesi – i contadini e gli operai che si opponevano al comunismo.
“falso, anzi falsissimo. La rivoluzione francese non fu affatto una conseguenza dell’ingiustizia ma una operazione ideologica condotta a tavolino e portata nelle piazze”.
Sicuramente un popolo ignorante ed analfabeta si fa infinocchiare da motivazioni ideologiche e non dalla fame.
“La Francia prima della rivoluzione era il Paese più popolato e ricco d’Europa con una forza economica e militare assolutamnete superiore a tutti gli altri”.
Certo e di questa grande ricchezza quanta andava al popolo, voglio vedere se ci fossi vissuto te in quella miseria
“Anche la barzelletta che la rivoluzione fu contro la nobiltà sarebbe ora venisse smontata, tutti i principali capi rivoluzionari, a partire da Robespierre erano nobili. Non c’è niente di più falso del mito storiografico, diffuso da oltre duecento anni, secondo cui la rivoluzione francese fu la rivolta di un popolo oppresso contro una classe dominante. Il mito principale della Rivoluzione francese, che essa fu una rivolta contro la nobiltà, è falsa”.
Perchè molti nobili erano anch’essi favorevoli ad un rinnovamento, il popolo, pecorone non per colpa sua, segue quelli che sono i capi popolo, questo avviene sempre, del resto il polo ignorante prima seguiva il clero poichè erano quelli con la maggior cultura.
Comunque a tutti quelli che condannano senza se e senza ma la Rivoluzione Francese, senza contestualizzarla, vi chiedo: vorreste vivere in uno stato simile a quelli medievali/feudali/assolutistici?
Posso risponderti a titolo personale, non a nome di altri.
Io personalmente non mi ritengo di destra, ma nutro un grande sentimento di profondo rispetto e ammirazione per il movimento vandeano. In primo luogo, perché rappresenta uno dei pochissimi casi nella storia in cui è stato davvero il popolo ad avviare la resistenza, e non, come ho sentito spudoratamente narrare da parte di una certa storiografia, i nobili vigliacchi che avrebbero incitato i contadini minacciandoli dell’inferno. I contadini furono i primi ad organizzarsi e a cercare essi stessi l’appoggio dei nobili inizialmente riluttanti (i quali, tra l’altro, morirono in battaglia dal primo all’ultimo, alla faccia della codardia).
In secondo luogo, perché considero la Rivoluzione Francese il paradigma del concetto di rivoluzione: i nomi della “libertà” e dell'”uguaglianza” usati come paravento per coprire il tentativo di sostituire un regime con uno equivalente ma di colore opposto.
Quanto alla forma di governo che desidero, ti assicuro che la democrazia attuale rimane, secondo me, come direbbe Churchill, “la peggior forma di governo ma anche l’unica possibile”. Sono un sostenitore della democrazia, risparmiati le denunce di sovversione nei miei confronti.
Voglio comunque darti un consiglio: per piacere, almeno qui, risparmiaci la solita sorda cantilena del popolo bue, delle infinocchiate, del medioevo. Capisco che il tuo desiderio di possedere un modello interpretativo della realtà semplice e adatto ad ogni circostanza ti fa vedere tutto sotto la stessa luce, ma qui non siamo come tra i tuoi amici. Qui la storia non la facciamo con le mitologie della storiografia da scuola media, ma con le fonti. Sentire anche l’altra campana non fa male (o forse sì?), provaci.
Voglio comunque darti un consiglio: per piacere, almeno qui, risparmiaci la solita sorda cantilena del popolo bue, delle infinocchiate, del medioevo. Capisco che il tuo desiderio di possedere un modello interpretativo della realtà semplice e adatto ad ogni circostanza ti fa vedere tutto sotto la stessa luce, ma qui non siamo come tra i tuoi amici. Qui la storia non la facciamo con le mitologie della storiografia da scuola media, ma con le fonti. Sentire anche l’altra campana non fa male (o forse sì?), provaci.
Ovviamente quando l’opinione è diversa dalla propria (ma guarda leggendo alcune tue dichiarazioni specie sulla democrazia forse neanche tanto) si accusa l’altro di dogmatismo o simili, se mi conoscessi sapresti quanto io sia molto aperto alle opinioni altrui in qualunque campo (anzi molto pi di tanti di questo sito) e di come abbia poche certezze assolute, ma questo non vuol dire che debba concordare con gli altri in tutto. Quando parlo di popolo bue non lo faccio con disprezzo, ritengo anzi che non basti un’istruzione formale per non essere pecorone, ma un popolo martoriato dalla fame sarà più incline ad essere aizzato o no? (mi riferisco alla rivoluzione francese) Guarda poi che qui non stai parlando con un simil-illuminista.
Anch’io so bene che nelle rivoluzioni si passa dal sostituire un potere ad un altro, così è anche stato per la rivoluzione francese e questo lo constato anch’io (come sono mitologico) però ritengo (così come tanti altri) che la rivoluzione francese, pur con tutti i suoi crimini che ripeto condanno, sia stata un passo importante per far abolire tutti quei regimi pseudo-feudali e le democrazie che abbiamo adesso, accade spesso che ci siano movimenti reazionari che poichè la novità non funziona (in questo caso la rivoluzione francese) allora propongono di tornare al passato (di restaurarlo appunto) come se questo fosse giusto e non avesse causato, con le sue ingiustizie le rivoluzioni che lo hanno spodestato.
Riguardo l’articolo sopra concordo con la frase finale: “La rivoluzione francese ebbe indubbiamente grandi meriti, ma ebbe anche la colpa di aver creato un nuovo fanatismo di tipo ideologico che guardava ai suoi avversari come esseri privi di tratti umani e che scatenò atrocità che nulla avevano da invidiare a quelle provocate in nome del fondamentalismo religioso”.
ecco un classico esempio di credulità ideologica. Non è affatto vero che il popolo fosse alla fame, è vero il contrario, il popolo si immiserì a seguito del disastro economico e sociale provocato dalla rivoluzione che mise in crisi l’economia francese. E’ lei che non contestualizza, evidentemente crede a tutte le barzellette raccontate dagli storici rivoluzionari che incensano la rivoluzione. Prima della rivoluzione, tanto per fare un esempio, il 50% delle terre era di proprietà dei contadini, il 7% della Chiesa, il resto era demanio pubblico e proprietà nobiliare. La Chiesa con le rendite del 7% delle terre svolgeva due importantissime funzioni sociali: l’istruzione e l’assistenza medica. In Francia c’era, proprio per questo, il più basso tasso di analfabetismo del mondo, e c’era anche una dignitosa assistenza medica, ovvio, in linea con le conoscenze mediche del tempo. Quando i rivoluzionari espropriarono le porprietà ecclesiastiche il risultato fu l’esplosione dell’analfabetismo e la scomparsa dell’assistenza medica.
giudicare ogni evento della storia soltanto in base alle conseguenze che ha avuto contro la religione
Gesù ci ha dato un criterio empirico molto utile: dai frutti si riconosce l’albero.
Allora con questo ragionamento come dovremmo giudicare la condotta della chiesa cattolica nel Medioevo? Quindi dovresti dire a questo punto che la chiesa durante il medioevo era qualcosa di molto positivo altrimenti il ragionamento ti si ritorce contro, e non ditemi che sono anti-clericale perchè non ho detto niente contro la chiesa in sé, ma semmai è una critica specifica a certe azioni da essa commesse
Allora con questo ragionamento come dovremmo giudicare la condotta della chiesa cattolica nel Medioevo?
Guarda che caschi proprio male.
Ovvero? Guarda che se pensi che sia venuto qua per fare polemica sei tu che caschi male, quello che voglio dire è che se tu giudichi la rivoluzione francese solo in base ai frutti che ha portato, che alla lunga non sono tutti malvagi (è stato il primo passo verso la formazione della democrazia in Europa, che con tutte le sue contraddizioni è sempre meglio di un regime assoluto) allora ugualmente dovresti considerare come qualcosa in assoluto giusto la chiesa nel corso del medioevo e del rinascimento, altrimenti dovresti considerare sbagliata anche l’origine di essa, quindi per essere coerente al tuo discorso dovresti difenderla praticamente a spada tratta (cosa difficile a farsi visto che anche il papa ha ammesso che sono state compiute atrocità dalla chiesa nella storia, per carità come da parte di tanti altri).
Ovviamente anch’io condanno gli eccessi delle rivoluzione francese e le sue immani violenze, ma qui si sta usando 2 pesi e 2 misure. Perché i morti non vengono considerati ugualmente quando sono causati dalla parte che si considera avversa.
Ma guarda, io non ho detto da nessuna parte che l’albero si riconosce dal numero dei morti. Se la vuoi mettere su questo piano sappi che da parte mia un morto è di troppo, ma se qualche nostalgico prova a ricordare quella stagione felice che esaltava tanto la ragione, io gli rammenterò sommessamente Place de la Concorde, dove hanno trovato la morte in un solo anno molte centinaia di volte di più persone che non in tutta la storia dello stato Pontificio. Di colpe la Chiesa ne ha e non lo nego, ma sono almeno tre secoli che vengono amplificate, ingigantite, inventate, spacciate come modus operandi. Per queste colpe, con un gesto che è stato volutamente frainteso da più parti, Giovanni Paolo II, a suo tempo, chiese perdono pubblicamente e continua a farlo Benedetto XVI.
Io non solo attendo fiducioso che qualcun altro, chiunque altro (un presidente francese per esempio), faccia lo stesso, ma addirittura aspetto, sempre fiducioso, che qualcuno mi dica chi, nel corso della storia, ha fatto meglio dei tanto criticati cristiani.
Poi se credi di vivere in una democrazia sotto la spinta dei moti rivoluzionari francesi non posso che dirti che vivi di una magra consolazione. L’effetto della rivolta volterriana che promise di produrre, e in parte ci riuscì, la sollevazione della plebe e l’abbattimento dei troni è ciò che noi chiamiamo democrazia ma in realtà è la scomparsa della plebe. Si potrebbe dire tranquillamente che vi era la plebe al principio della rivoluzione e che non vi era più alla fine di essa. L’influenza volterriana non ha portato il governo della plebe, ma quello delle società segrete. Ha falsificato la politica in tutto il mondo occidentale creando ipocriti e pomposi professionisti del sistema politico; quando bastava aprire un libro del medioevo (Tommaso d’Aquino) o del rinascimento (Bellarmino e Suarez) per accorgerci quanto sia stata assurda e inutile la deviazione della storia degli ultimi 400 anni in termini di distribuzione dell’autorità dei principi, delle rivendicazioni delle persone, delle possibilità della democrazia, dell’uso e abuso della proprietà e della giusta funzione della libertà.
E non dimentichiamo gli albori dello scientismo, che si manifestarono, ad esempio, con la condanna morte di Antoine Laurent de Lavoisier e soprattutto nelle parole di giustificazione della sentenza: “la Repubblica non ha bisogno di scienziati”…
Oh, dove l’hai letta?
http://www20.us.archive.org/stream/histoiredutribu07wallgoog/histoiredutribu07wallgoog_djvu.txt
estratto:
Lavoisier, prévoyant son arrêt, avait demandé un
délai de quinze jours : a J’ai besoin, dit-il, de ce temps
pour terminer des expériences nécessaires à un travail
important dont je m’occupe depuis plusieurs années. Je
i. Moniieufdn !21 (10 man 1704).
2. Procès-verbal d’audience, ibid,, pièce 2. Cf. Procès Fouquier, n* 45, dépo*
sillon de Dobsen.
3. Ibid., pièce 16.
•
Tr.iB. BivoL. m iG
402 CHAP. XVXIY. – FLORÉAL (TROISIÈME DÉCADE).
ne regretterai point alors la vie. J’en ferai le sacrifice à
ma patrie. >
Mais Goffinhal qui présidait lui fit cette fière réponse :
m La République n’a pas besoin de savants ni de chi-
mistes : le cours de la justice ne peut être suspendue )»
Et ils furent tous exécutés le même jour*.
perché più leggo queste cose, più mi viene voglia di bruciare un tricolore blu bianco e rosso?