Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino (IV° parte): l’esistenza di Dio nell’Illuminismo
- Ultimissime
- 21 Giu 2012
di Luca Ferrara*
*dottorando in scienze filosofiche
Nel primo articolo abbiamo posto le premesse per un possibile confronto tra Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino, nel secondo articolo abbiamo introdotto le due quaestiones dell’Aquinate, all’interno della seconda sono contenute le celebri “cinque vie” per la dimostrazione di Dio e nel terzo articolo abbiamo esposto le cinque dimostrazioni dell’esistenza di Dio formulate da San Tommaso.
Il pensiero di Kant è attraversato da una molteplicità di tensioni speculative non sempre componibili, delle quali, alcune sono riconducibili alle diverse fonti di cui si nutre il criticismo, mentre altre sono nuove esigenze teoretiche che il pensatore tedesco pone in modo autonomo rispetto agli impulsi culturali ricevuti dall’ambiente di Konigsberg. Perciò riteniamo necessario in primo luogo contestualizzare il problema dell’esistenza di Dio sotto questa duplice considerazione.
Una consuetudine storiografica, in gran parte superata anche dalla stessa storiografia filosofica di ispirazione cattolica, ha spesso considerato l’Illuminismo dominato da una matrice culturale agnostica o atea, irriverente o indifferente nei confronti della religione e della metafisica, purtroppo non si può non rilevare come tale consuetudine, pur essendo in gran parte superata, sussista ancora in ambito scolastico e in ambito giornalistico, come una sorta di pregiudizio periodizzante, il quale spesso fa da filtro ad una vera comprensione del Settecento.
L’Illuminismo è un fenomeno culturale che investe ampi settori della società, travalicando gli stretti steccati del sapere accademico, facendo della critica un metodo capace di operare una decostruzione fondante per ogni forma di disciplina: un dato, una nozione, un concetto è tale solo all’interno di un sistema, il quale a sua volta deve rispondere a criteri precisi che legittimino l’impianto che il sistema ha assunto. Ma quali sono questi criteri? Si potrebbe rispondere senza esitazione che le norme che permettono di giudicare una forma di sapere risiedono nella ragione e nei suoi principii. Ma non erano queste norme le medesime del razionalismo seicentesco? Che differenza sussisterebbe allora tra le due epoche? Per l’Illuminismo lo studio di una disciplina e della sua organizzazione concettuale non si esaurisce nell’ordine delle ragioni, nell’utilizzo attento delle regole di un metodo, certo queste sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per condurre un’analisi accurata, volta a fondare i diversi tipi di sapere. È necessario conoscere se ciò che intende stabilire la ragione in un determinato campo disciplinare è alla sua portata, e poi considerare quali ricadute abbia nella società tale forma di sapere così fondato: la conoscenza acquista valore solo se si traduce in un guadagno sul piano pratico, tale da rivelarsi un vantaggio per il genere umano. Tale posizione teorica viene sintetizzata nel celebre motto vichiano — verum et factum convertuntur —, all’interno del quale è presente un’assunzione teorica solo parzialmente esplicitata: ogni teoria acquista valore solo se si incarna in un determinato modello procedurale: il sapere teorico nell’atto stesso del suo costituirsi deve porre in essere la procedura che lo conferma e lo invera. Si pensi al ruolo giocato dall’esperimento nella fisica e nella chimica, come garanzia della bontà epistemica della formula matematica, ma l’esperimento, viceversa, non può essere costruito senza la formula matematica che disegna le proporzioni le relazioni . Dunque una teoria passata al vaglio della ragione è una teoria suscettibile di un’applicazione pratica, tangibile[1].
Inoltre, bisogna considerare che nel corso del Settecento, si assiste ad una parcellizzazione dei saperi — conseguenza del processo di progressiva specializzazione sia teorica, sia tecnica —, che va a ridefinire la gerarchia tra le molteplici forme di conoscenze di cui è suscettibile lo spirito umano. I saperi non seguono un ordine ontologico, stabilito a priori, rinvenibile tramite un processo di astrazione progressiva, ma seguono un ordine funzionale, in modo da rispondere ad un bisogno concreto, il quale sorge nel preciso momento in cui si viene a porre nella mente del ricercatore. L’assunzione dell’ordine alfabetico (il modello è l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert) equipara le diverse materie che compongono lo scibile umano, sicché la priorità di una disciplina rispetto ad un’altra dipenderà di volta in volta dall’interesse da cui è presa la mente dello studioso. Inoltre, la partizione alfabetica delle diverse discipline era indice di una riconosciuta autonomia: ogni forma di sapere, nonostante fosse connessa alle altre nella misura in cui era espressione della medesima fonte (la ragione umana), godeva di un ampio margine di indipendenza rispetto alle altre, in virtù del fatto che fosse espressione di una particolare funzione della ragione.
Dunque, il progetto di Diderot e di D’alembert di un’enciclopedia, intesa come dizionario ragionato delle scienza, delle arti e dei mestieri, risponde ad un’esigenza ben collocabile nel contesto culturale del Settecento. Ma all’interno di questo mutato quadro del sapere che importanza poteva ancora rivestire il problema teologico? Se la metafisica non era più la regina delle scienze, non veniva meno anche la funzione del sapere filosofico, come sapere ?
Il progetto di Diderot e D’Alembert rappresenta degli aspetti significativi dell’Illuminismo, ma non li esaurisce tutti. L’Illuminismo è un fenomeno culturale europeo che si declina in una pluralità di modi a seconda dei contesti. In particolare in Inghilterra prende piede la corrente denominata deismo che riprende il problema teologico e la questione dell’esistenza di Dio, le quali vengono affrontate su nuove e con rinnovato rigore, mentre la metafisica viene riformulata e ridefinita nelle sue istanze in Germania grazie all’opera speculativa di Wolff e Baumgarten. Sia il deismo inglese che la metafisica wolffiana assegnano un ruolo centrale alle prove dell’esistenza di Dio. Toland, uno dei massimi esponenti del deismo, prendendo le mosse dal celebre saggio lockiano La ragionevolezza del cristianesimo (1695), sosteneva, nel sua opera Cristianesimo non misterioso (1696), l’assenza di contraddizioni nella fede cristiana, la sua razionalità (giudizio che in parte ribalterà nel Pantheisthicon), distinguendo gli elementi misteriosi, non riconducibili alla ragione dagli elementi razionali. Altri importanti esponenti del deismo saranno Matthew Tindal che nell’opera Cristianesimo antico quanto la creazione (1730) sostiene che la rivelazione messianica sia una seconda rivelazione di una morale naturale sempre presente nell’uomo fin dalla creazione. Il deismo tendeva a ridurre il cristianesimo ad un nucleo di verità essenziali, espungendo tutte quegli aspetti ritenuti fantastici o favolistici, in quanto creazione dell’immaginario collettivo degli autori biblici. Ma il deismo riconosceva ampio valore alle prove dell’esistenza di Dio. La fede era considerata un fatto razionale, proprio perché basata su prove. Credenti in un Dio razionale, inteso come architetto del mondo lo erano anche Voltaire e Rousseau.
Se volgiamo poi lo sguardo al nostro paese, pur non potendo non notare come sia prevalente l’interesse economico-civile su quello speculativo, gli autori italiani come Genovesi, Galiani o Verri mostrano un profondo rispetto nei confronti delle tematiche religiose, non assumendo mai posizioni che si possono configurare come atee o agnostiche. Gli autori illuministi che negano in modo netto la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio sono diversi, ma indubbiamente sono numericamente inferiori rispetto agli autori che sostengono la possibilità di una fede naturale, fondata su asserti razionali. Tra questi Hume è sicuramente il più acuto, colui il quale pone gli argomenti speculativamente più interessanti.
In primo luogo l’autore scozzese nega validità ontologica ed epistemica al principio di causalità. Alcune delle più celebri dimostrazioni dell’esistenza di Dio si fondavano proprio sulla causalità riscontrabile nei processi naturali. Inoltre, Hume nei Dialoghi sulla religione naturale (1779), criticava tre prove dell’esistenza di Dio: la prova ontologica; la prova cosmologica; la prova teleologica. Queste tre prove erano quelle che fornivano la base teorica del deismo. Secondo Hume non era possibile dimostrare l’esistenza di Dio tramite queste tre prove, perché ognuna di esse faceva leva su argomentazioni logiche che non avevano riscontro nel corso della nostra esperienza: l’esistenza è qualcosa in cui posso credere se ne faccio esperienza.
Nel prossimo articolo valuteremo le prove dell’esistenza di Dio all’interno del pensiero kantiano.
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Note
[1]Non è un caso che il filosofo a cui si richiamerà gran parte del mondo intellettuale illuminista sarà Locke. Il celeberrimo Saggio sull’intelletto umano.
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3 commenti a Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino (IV° parte): l’esistenza di Dio nell’Illuminismo
Devo rispondere all’ennesima baggianata che Brainless ha scritto qui: https://www.uccronline.it/2012/06/18/richard-waghorne-un-gay-contro-le-nozze-gay/#comment-76670 e poi basta perché tanto è evidente non trattarsi d persona onesta intellettualmente.
I testi di Tommaso sono tutti qui http://www.corpusthomisticum.org/iopera.html, quindi si può verificare che le citazioni che hai portato sono fasulle. Qui invece trovi quelle di Agostino: http://www.augustinus.it/
E ora basta. Sei stato bocciato Brainless. Ci vediamo a settembre. Mi raccomano studia, e soprattutto impara ad essere onesto.
Hume però si sbagliava, poiché le varie prove dell’Aquinate HANNO un riscontro con la realtà osservabile, non sono pura logica astratta come una prova matematica, ma sono, in linea anche con il pensiero Aristotelico fondate sul mondo visibile ed osservabile e allo stesso tempo non sono prove empiriche.
La critica di Hume, che io lo definirei tuttáltro che ‘acuto’, è alla fine fallace.
Inoltre se Hume avesse ragione anche la matematica (soprattutto) e la scienza, in molte loro parti, sarebbero da scartare, dato che (nonostante l’empirismo) non sempre si ha ‘esperienza diretta’. In essenza molta della fisica moderna e della cosmologia è basata su esperienze e prove indirette.
Hume pone argomenti che sono stati interessanti per gli atei, ma alla fine si sono rivelati buchi nell’acqua e penso che anche i filosofi atei moderni raramente difendano le idee e posizioni di Hume (tranne alcune eccezioni).
La filosofia dominante nei paesi anglosassoni del ventesimo secolo, il positivismo logico, con il suo “figlioccio” la filosofia analitica, ebbe per Hume il più alto sussiego. Infatti, questi pensatori hanno pensato che Hume si sbarazzasse di Dio, e per questo la corrente della filosofia analitica è stata anche denominata una specie di “Humeanismo” secolare. La filosofia analitica ha un assioma indiscutibile (per loro, beninteso!), ma falso: la distinzione tra fatti (oggettivi) e valori (soggettivi). Questo modo di vedere è penetrato per osmosi nella pubblica opinione. Adesso nessuno usa più, per esempio, la parola beni, o virtù. Tutto è valore. Prima di Nietzsche, forse, ma in ogni caso prima di Kant nessuno si era mai sognato di dire quello stupido slogan:”Non imporre i tuoi valori su di me”. Kant ha cercato di difendere la legge morale dagli attacchi di Hume, ma ha concesso un pò troppo: ha si difeso la sua universalità, e la sua necessità, ma a scapito della sua oggettività! Vedete un pò perchè uno deve tenere un figlio che tutti riconoscono come suo, che le opinioni altrui riconoscono come suo, ma di cui lui non riesce a farsene una ragione certa!?