Christopher Hitchens: «Sono alcolizzato per sopportare la noia della vita»
- Ultimissime
- 08 Nov 2011
Abbiamo spesso parlato dei cosiddetti “quattro cavalieri dell’ateismo”, i due pensionati Dawkins e Dennett, lo sconosciuto Sam Harris (o meglio, conosciuto solo per discorsi anti-religiosi) e il polemista Christopher Hitchens. Nel 2010 i medici davano a Hitchens 4 mesi di vita, poi -grazie all’aiuto del genetista cristiano Francis Collins– ha iniziato una terapia farmacologica molto efficace che aiuta a frenare il devastante cancro all’esofago (ai polmoni e linfonodi) che lo ha purtroppo attaccato.
L’ex-trotskista è noto per esser un violento anticristiano, particolarmente anticattolico. Ha sempre condotto una vita sfrenata basata sull’eccesso, che oggi lo ha ridotto in fin di vita: alcool, fumo e droga (è un convinto sostenitore della cannabis). Un pessimo esempio, dunque. E’ anche famoso per odiare molto, sopratutto quello che esce da “scienza e comunismo”. Del suo profondo rancore ha parlato recentemente anche Camillo Langone su Il Foglio 26/10/11.
Odia Madre Teresa di Calcutta perché, dice, «non era amica dei poveri, ma un’amica della povertà». Odia Benedetto XVI che avrà l’onore, secondo lui, di «vivere abbastanza per leggere il suo necrologio». Ma odia anche suo fratello minore Peter con il quale si sente in competizione. Quando erano piccoli lo ha più volte voluto convincere di essere stato adottato, perché: «quando si tratta di una questione di sopravvivenza sono molto spietato». Oggi il fratello si è convertito al cristianesimo (cfr. Ultimissima 26/8/10) e l’odio verso di lui è aumentato esponenzialmente. E’ stato molto criticato per le sue controverse dichiarazioni sull’Islam e la guerra in Medioriente: «Le bombe a grappolo non sono forse buone in sé, ma quando cadono sulle truppe dei talebani, esse hanno un effetto incoraggiante […] Non credo che la guerra in Afghanistan sia stata sufficientemente combattuta senza pietà […], il bilancio delle vittime non è abbastanza alto, troppi sono scappati».
Tutta questa disumanità è forse in parte giustificabile dal fatto che il nichilista Hitchens è un alcolizzato. Lo ha affermato recentemente su “Psychologytoday” il noto psicologo e psicanalista Stanton Peele, specializzato sulle dipendenze da alcool e droga. Dopo aver analizzato alcune dichiarazioni di Hitchens sull’incredibile quantità di alcool che dice di ingurgitare ogni giorno e la sua farneticante apologia verso i presunti benefici che tutto questo avrebbe, lo psicologo si domanda (lasciando intendere la risposta): «Quindi, caro lettore, mi dica, Christopher Hitchens è un alcolizzato? Oppure la risposta è così ovvia che non è necessario nemmeno che venga pronunciata?».
Interessante osservare i motivi che hanno ridotto Hitchens in questi stato: «Ho deciso di comportarmi così perché mi ha aiutato ad essere meno annoiato, le persone hanno smesso di essere noiose», afferma. La noia per la vita, dunque. La causa è -come sempre- esistenziale. Chissà se oggi proverà l’inconfessabile e terribile sospetto che l’origine dell’insofferenza verso l’esistenza derivi in realtà dall’averla voluta violentemente (e opinabilmente) privare di un Significato ultimo…
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40 commenti a Christopher Hitchens: «Sono alcolizzato per sopportare la noia della vita»
tutte queste persone hanno seri problemi psichici, che si manifestano, nel caso in questione, con l’abuso di alcool o di droghe. Ma anche quando così non è, i laicisti più arrabbiati e rancorosi dimostrano sempre atteggiamenti estremisti e poco equilibrati, anche quelli di casa nostra, senza fare nomi.
Questi sono i riferimenti morali dei “new atheist” signori, ognuno ha quel che si merita.
Parlare di riferimenti morali per gli atei è fuorviante. Per noi cattolici ce ne sono di condivisi. Per loro non ce n’è. Dicono che ognuno si può fare, se vuole, la propria morale, sennò può farne tranquillamente a meno. Questo in teoria. poi in pratica la loro morale è oppositiva: il cristianesimo, ed in particolare noi cattolici, siamo il male. L’assenza di cristianesimo è il bene.
preghiamo per lui, non vedo alternative.
L’importante è che prenda coscienza della sua vita in privato, davanti a Dio. Non mi interessa nulla un nuovo Antony Flew, mi preme che lasci questo mondo con meno odio e rancore.
si certo, questo intendevo.
Quoto.
Pure io..
Sinceramente non mi sento di approvare questo genere di articoli, non siamo qui per combattere le persone, se capite cosa intendo.
Non è un combattimento Michele, ci mancherebbe!! Ma credo sia giusto mostrare chi siano i riferimenti morali e razionali di una certa cultura, una cultura violentissima che arriva ad esultare per la morte dei credenti e definisce i cattolici “la feccia del mondo, assassini e pedofili”. Che il leader di questa cultura sia un alcolizzato che ha bruciato la sua vita per la noia di vivere mi pare che faccia riflettere.
Se l’intento dell’articolo è quello di rispondere al suo disprezzo per noi credenti con altrettanto disprezzo, allora non me la sento neanche io di approvare. Se invece l’articolo ci aiuta a capire che dietro le diatribe dei giornali, degli articoli e delle campagne da parte degli ateisti la verità umana è molto più complessa e spesso drammatica di come viene descritta, allora può servire. In ogni caso prego anche io per lui e per la sua anima
Beh…le conclusioni sono chiare. Non c’è nessuna gioia per la sua triste situazione ma l’augurio di quell’“inconfessabile e terribile sospetto che l’origine dell’insofferenza verso l’esistenza derivi in realtà dall’averla voluta violentemente (e opinabilmente) privare di un Significato ultimo…”…comunque è solo un mio punto di vista….
Sembra un articolo alla Libero, quelli in cui applicano il metodo Boffo.
L’articolo invece sembra molto significativo…e pone una questione interessante…perché quest’uomo si è ridotto così? Forse l’odio anticristiano porta a queste condizioni? Perché noia per la vita? Togliere un senso alla vita porta alla dipendenza? Sono queste le domande su cui confrontarsi e non sul duro commento ad un fondamentalista.
Duro commento….io vedo soltanto dispiacere per la sua condizione…
Prova almeno a leggerlo Libero magari cambi idea. Non ti fermare ai soli titoli di repubblica,che certi metodi li ha inventati ed esportati.
Quest’uomo probabilmente è molto solo e triste. Spero che prima di lasciarci riesca a trovare un po’ di quiete, magari anche solo riappacificarsi col fratello.
Ma il fratello lo avrà già perdonato. E’ lui che deve fare pace con se stesso e con Dio, dietro di sé lascia solo furore e fondamentalismo.
Christopher Hitchens non è certo disumano. Mette una grande passione negli argomenti di cui tratta e spesso sbaglia, ma è un convinto assertore dei diritti umani. Le espressioni sull’uccisione dei talebani riguardano la distruzione di quelli che lui percepisce come nemici: i terroristi, non certo i credenti in generale. Questa sua passione per i diritti umani lo ha portato ad appoggiare l’intervento militare esterno in alcune situazioni come la ex Jugoslavia, il Sierra Leone, l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia: uno può anche non essere d’accordo ma non lo si può certo accusare di mancanza di umanità dovuta ad alcolismo.
Leggetevi i suoi articoli (è appena uscita l’ultima raccolta chiamata “Arguably” ma li trovate sui siti di Slate, Vanity Fair ecc…) e avrete una visione ben diversa del personaggio di quella che viene descritta in questo articolo, anche se, come ho già detto, non condivido molte delle sue idee.
Biografie a parte, è sufficiente leggere i suoi libri dove insulta il Papa e i credenti (ce l’ha particolarmente a morte contro Giovanni Paolo II che lo definisce “zitello”, “verginello” e “omosessuale represso”). Difendere i diritti umani gioendo per la morte degli altri è disumano. Anche i terroristi sono esseri umani e anche loro hanno vanno rispettati come tali. Ecco la differenza grande tra la moralità cristiana e quella non cristiana, dove è tutto una lotta per la sopravvivenza (come ammette anche lui).
Esistono migliaia di difensori di diritti umani degni di questo nome, difendere un fondamentalista come Hitchens è veramente ridicolo e offensivo per loro.
Effettivamente Hitchens riconosce l’embrione come essere umano. Dunque è un gradino molto più sopra di tanti fondamentalisti atei. Tuttavia non gliene frega nulla ed è a favore dell’aborto. Dunque non difende il diritto umano alla vita, ovvero quello principale. Lo dimostra con l’aborto e lo dimostra con i musulmani. Prenditi un po’ di tempo, caro Filippo, per approfondire cosa significhi difendere i diritti umani.
A quanto ne so è contrario all’aborto. Comunque non sto mica difendendo a priori le sue idee, sto semplicemente dicendo che è ingiusto dipingerlo come un alcolista disumanizzato perché non è così. Tutto qui.
Scommetto che non sai nemmeno che libri ha scritto vero? Forse ti manca “La posizione della missionaria” in cui dipinge Madre Teresa di Calcutta come una stracciona, atea, amante della povertà e oppressiva verso i diritti dei poveri. Filippo, tu si che sai scegliere proprio bene le persone da difendere….eh si!
Hai perso la scommessa, so bene cosa ha scritto e non è solo god is not great e la posizione della missionaria. Anzi, il suo interesse principale è la politica internazionale e la politica interna americana. E’ anche un apprezzato critico letterario nel mondo anglossassone. Molto spesso non mi trovo d’accordo con quello che scrive. Però, ripeto, disumanizzarlo in questo modo è sbagliato, perché non è quello che è. E’ un provocatore, tutto quello che volete, ma non è quello che descrivete.
Su Madre Teresa: è fuori tema ma fino a un certo punto. Non condivido il tono di Christopher Hitchens e il suo disprezzo per il personaggio, si trattava di una donna totalmente dedicata al prossimo. Rimane un dato di fatto: attorno a Madre Teresa è nato un culto che è sfociato nell’idolatria. Un culto, oso aggiungere, che ha anche creato lei stessa con la sua ostentata modestia e povertà, come quando è andata dal Papa prendendo l’autobus e indossando un sari da una rupia. Inoltre, molte sono state le testimonianze dei volontari che sono tornati delusi da Calcutta, dicendo come nell’ospizio di Madre Teresa non si curassero bene le persone. Giornali medici come “The Lancet” hanno denunciato il riutilizzo delle siringhe dopo una semplice sciaquata in acqua fredda, la mancanza di diagnosi sistematica, il che ha portato a tenere alla Casa dei Morenti delle persone che avrebbero potuto essere tranquillamente salvate da un loro trasferimento in ospedale. L’ordine di Madre Teresa ha raccolto una quantità immensa di donazioni ma per molti anni le condizioni del suo ospizio a Calcutta sono rimaste ai minimi termini. Tutto questo non toglie nulla alla bontà di Madre Teresa, ma è un dato di fatto che si sia dedicata molto di più alla salvezza dell’anima che a quella del corpo, che anzi è stata spesso colpevolmente trascurato. Questo ha voluto dire Christopher Hitchens, pur usando un tono del tutto inappropriato: Madre Teresa aveva una prospettiva interamente religiosa, nella quale la sofferenza e la povertà avevano un ruolo salvifico, mentre per un laico sarebbe stato meglio se i soldi di quelle donazioni fossero stati usati per dare migliori cure ai pazienti.
Con questo non voglio certo attaccare le Missionarie della Carità, di cui ho potuto vedere l’abnegazione nel loro centro di accoglienza a Roma.
Prima che vi scateniate vi invito a questa considerazione: come mai Madre Teresa e le sue Missionarie della Carità hanno una visibilità molto superiore rispetto ai missionari che fanno uno splendido lavoro in Africa e in America Latina? Perchè ne è stato fatto un oggetto di culto, soprattutto grazie ai media, che Madre Teresa sapeva maneggiare benissimo, sicuramente meglio dei missionari comboniani, francescani ecc…, di cui pochi sanno qualcosa nel grande pubblico, e che pure sono i più efficaci nella lotta alla miseria nelle parti più povere del pianeta.
Ostentata modestia è povertà?? Cioè, se Madre Teresa fosse venuta dal Papa in limousine e vestita Armani sarebbe stato meglio? Vi lamentate sia delle “ricchezze” della Chiesa che delle sue realtà umili e semplici!
Beh poveretti…ognuno ha i riferimenti umani che si merita. Noi ci teniamo Madre Teresa e loro hanno Hitchens…forse qualcuno come Filippo capisce la contraddizione e cerca di sostenere l’insostenibile. Ma avrebbe fatto meglio a tacere 🙂
Se pensi che Hitchens sia per me un punto di riferimento non sono stato chiaro in quello che ho scritto. Io provo solo a far capire che non si può liquidare una persona in questo modo. Su Madre Teresa ha fatto della provocazione, ma credo che lo abbia fatto anche perché vi era (e vi è) un culto della personalità acritico, in gran parte alimentato dai media. Il fatto che l’azione di Madre Teresa possa dare adito a critiche non toglie certo i suoi meriti, ma forse dovrebbe invitare a un pò di prudenza prima di abbracciare incondizionatamente tutto quello che viene fatto in suo nome. In fin dei conti, anche un cattolico al di sopra di ogni sospetto come Andreotti, pur riconoscendo la santità di Padre Pio, ha detto che quando era in vita gli stava antipatico per la sua contrarietà alla riforma agraria.
vede Filippo, l’odio del laicismo più arrabbiato contro Madre Teresa ha una ragione precisa. Madre Teresa assisteva persone che senza il suo aiuto sarebbero morte e questo contrasta con la visione del darwinismo sociale, cara ad Hitchens e compagni, che applica la selezione naturale anche all’uomo. Per loro le persone curate da Madre Teresa avrebbero dovuto morire, per seguire i “sacri” principi della selezione naturale. E’ questo che li fa imbufalire, il fatto che ci siano persone che si occupano degli ultimi, da loro ritenuti degli scarti dell’umanità da eliminare.
Concordo pienamente….Madre Teresa ha ostacolato pesantemente la selezione naturale e questo non è mai andata giù ai fondamentalisti.
Se hai i libri di Hitchens allora prova a dirmi con quali parole inizia la pagine 29 del libro God is not great.
Hai prove di quanto sostieni oltre i suoi libri? O forse anche tu sei un boccalone?
Nell’edizione che ho io pag. 29 inizia con “[It] is impossible to imagine a greater affront to every value of free expression.”
Ah, bravo. Ti rifugi nella version inglese in modo che nessuno possa controllare….va beh, abbiamo capito dai. I devoti di Hitchens sono falsi come lui 🙂
Dai Filippo lascia perdere, non sai nemmeno cosa stai dicendo. Gente confusa come te ce ne sarà sempre….pensare che quando morì Stalin i direttori dell’Unità scrissero questo: “Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità” http://it.wikipedia.org/wiki/Stalin#La_commemorazione_su_L.27Unit.C3.A0
Come dice Alessandro la più grande forma di discriminazione è l’aborto selettivo verso il genere femminile. Lo scrive ancehe oggi Polito sul Corriere: http://archiviostorico.corriere.it/2011/novembre/06/mistero_delle_bambine_mai_nate_co_9_111106025.shtml
Hitchens non solo non ha mai combattuto contro questo crimine, preferendo combattere contro i credenti, ma ha anche promosso in ogni dove l’aborto, facendolo passare come un diritto.
Non ho mai letto niente di questo povero Cristo.
L’articolo descrive un uomo, per sua scelta, pubblico.
Credo sia doveroso farlo conoscere,anche se può apparire doloroso.
“Dai frutti li riconoscerete.”
Un alcoolizzato non può essere riconosciuto come maestro di vita e di pensiero, a mio semplice avviso.
Per un alcoolizzato si può solo pregare.
E’ sempre evidente che il cuore dell’uomo è abitato e spesso tormentato da molteplici domande di cui desidera ardentemente ricevere risposta. Mediante il suo lavoro, la sua riflessione, la sua ricerca, la sua meditazione, la sua preghiera, l’uomo è capace di ricevere tale risposta… non sempre però.
Queste pagine non vogliono essere filosofiche, ma tengono a sottolineare l’esistenza di questi perché e la loro legittimità. E’ normale che l’uomo, proprio a causa della sua umanità, ponga e si ponga, in questa o quella circostanza, la famosa domanda: “ perché?”, anche di fronte a Dio, quando si dispone a credere in lui.
Ho incontrato tante persone credenti le quali pensavano seriamente che interrogare Dio fosse strettamente proibito a causa della sua Onnipotenza, che non tollererebbe nessun perché nel cuore dell’uomo.. Grave errore, Dio stesso aspetterà che lo si interroghi… non però in qualunque modo! Non si interroga Dio per mezzo della magia, della divinazione o di un qualsiasi ricorso a forze occulte.
Non si interroga Dio nemmeno con spirito rivendicatore, considerando come dovuto che egli ci risponda quando e come lo vogliamo noi.
Si interroga Dio così come un bambino interroga suo padre, con fiducia e pazienza, sicuri che la risposta sarà data a tempo debito, quando saremo in grado di “assimilarla”.
Le due specie di perchè
Il cuore umano è abitato da 2 specie di perché.
1) I perché “a misura d’uomo”.
Si tratta di quei perché che riguardano tutti i settori della vita umana e le cui risposte sono alla nostra portata, anche se non ci sono immediatamente accessibili.
Quando lo scienziato Isaac Newton ha osservato la caduta di una mela, si è posto la domanda: “ Perché è caduta verso il suolo?”, e così dopo lunga riflessione stata data la risposta contenuta nella teoria sulla gravitazione.
Questa risposta era già alla portata di Newton, e forse egli era il primo a porsi la domanda.
In tutti gli ambiti della nostra vita, secondo le circostanze, spontanee o determinate da noi, dobbiamo così confrontarci con dei perché, la cui risposta ci è (o ci sarà) accessibile.
2) I perché che trascendono l’uomo.
Esiste però un’altra serie di perché, la cui risposta razionale non sarà mai, su questa terra, accessibile all’Uomo. Ci fu un tempo, non molto lontano, in cui si pensava che i progressi della scienza e la crescita dell’intelligenza umana avrebbero permesso di risolvere i perché fondamentali. Ma l’ipotesi è stata poi abbandonata.
Sappiamo adesso, eccetto alcuni irriducibili, che l’uomo porta dentro di sé alcuni perché di cui non potrà mai darsi egli stesso la risposta: “Chi sono?”, “Perché esisto?”, “Perché esistono il male e la sofferenza?”, “Che cos’è la mia morte?” etc…
Questi perché riguardano in un modo o in un altro il senso stesso della nostra vita, quel che determina la nostra identità e gli avvenimenti imprevedibili della nostra esistenza. C’è nel cuore dell’uomo una volontà di senso alla propria vita, il che è profondamente legittimo. E’ grave invece quando non ci si pone più la domanda o la si anestetizza in noi.
Ma la risposta a questi perché che trascendono l’uomo potrà essere data solamente da un Altro da Dio.
Penso alla storia autentica di quel giovane pugile ebreo, di origine greca e molto poco “credente nella propria fede ebraica”, Salamo Arouch.
Imprigionato per diversi anni ad Auschwitz, egli ha potuto salvare la propria vita soltanto grazie alla propria abilità nella lotta sul ring. Il capo del suo campo organizzava degli incontri di pugilato; se il giovane ebreo avesse perso, anche solo una volta, sarebbe morto.
Egli disputò 200 partite, riportò ogni volta la vittoria e potè vedere la liberazione nel 1945.
A Hollywood è stata girata una superproduzione su questa storia affascinante.
Tuttavia ancora oggi, come egli stesso attesta, quest’uomo “miracolato di Auschwitz” esclama: “ “Perchè io? Perchè sono ancora in vita io?”. Egli ha visto centinaia e centinaia di compagni di prigionia andare a morire nei forni crematori e lui, solo fra migliaia, è sopravvissuto.
Perché? Questa domanda pungente lo ha proiettato, quasi suo malgrado, nell’evidenza di Dio, forse in maniera paradossale e anche ribelle davanti allo spettacolo di tante aberrazioni intorno a lui. Ma ciò non toglie che egli ha trovato la risposta al suo grido di perché in Dio, in una comprensione al di là della propria intelligenza, del proprio ragionamento; la sua vita è nelle mani di Dio.
Si avrebbe voglia di replicare: e allora la vita delle migliaia di altri scomparsi? Ma non si risponde allo scandalo del male intentando un processo a Dio.
Questi perché che trascendono l’uomo non sono un’ “anomalia della natura”, anzi! Essi manifestano una specie di “vuoto”, una mancanza di pienezza, di compimento che deve essere colmata; sono una provocazione a cercare la realizzazione del nostro essere proprio, della nostra identità stessa, la quale non è mai un’autorealizzazione, un pieno sviluppo di per sé. Questo compimento di ciò che noi siamo e al quale aspiriamo non può realizzarsi che in una relazione e in una comunione con Dio. A questo ci attirano i perché, nella misura però in cui la risposta che diamo loro non ci trascini, non ci faccia sprofondare nell’impasse, nell’illusione o nella menzogna.
Complessivamente possiamo distinguere nel comportamento umano tre maniere (talmente differenti!) di rispondere ai perché riguardanti il senso dell’esistenza. Del resto, nel corso della sua vita, una persona può oscillare dall’una all’altra maniera, oppure aderire costantemente a una sola di esse.
1) La fuga.
Tanti dei nostri contemporanei passano il tempo a fuggire questo perché, spesso senza nemmeno rendersene conto. Gli aspetti di questa fuga in avanti sono molteplici e svariati, talvolta in apparenti. Citerò soltanto alcuni esempi.
Il pretesto del tempo che manca, quante volte diciamo: “Non ho tempo per queste cose, ho già abbastanza da fare…” come se le nostre occupazioni, anche le più lodevoli bastassero alla nostra vita e in definitiva il senso della nostra vita non ci riguardasse. Riempire una vita non vuol dire darle senso o farla giungere a compimento, tutt’altro!
La filosofia dell’assurdo è anch’essa una fuga magistrale e molti ci sono cascati. Dichiarare perentoriamente che questi perché sono inutili e illusori, affermare che l’esistenza è fatta così, come un’emanazione continua del caso, che proporle un senso rientra nell’assurdità più totale, che bisogna “farsi una ragione”o aprire gli occhi: la domanda è senza risposta perché la risposta non esiste! E’ questa una forma d’orgoglio dell’intelligenza che porta soltanto all’ottenebramento dell’intelligenza stessa.
La disperazione è senza dubbio la forma più perfida di fuga in avanti. E’ una delle più gravi malattie sociali (e spirituali) della nostra epoca, i cui sintomi rimangono a lungo nascosti.
Non parlo qui della disperazione che reagisce a un trauma affettivo o un insuccesso (per esempio), ma della fuga più o meno suicida nella disperazione riguardo al valore dell’esistenza e alla qualità di una vita e di una storia umane.
Si tratta di una specie di dimissione progressiva, forse non molto consapevole all’inizio, rispetto alla responsabilità, al fatto che “vale la pena” di vivere e di vivere “ a fondo”, in poche parole di credere nell’uomo che sono.
E’ eloquente una statistica: il Canada, paese in cui i giovani sono i più ricchi al mondo e hanno tutte le ragioni di essere felici, è anche il paese in cui i giovani si suicidano di più… di che far riflettere sul perché dell’esistenza e sulla nozione di felicità!
Non dobbiamo dimenticare che gli psichiatri, in particolar modo la scuola di Viktor Frankl, conosciuta in tutto il mondo, hanno constatato l’apparizione da una ventina d’anni circa a questa parte, nelle società dette industrializzate, di una nuova forma di depressione nervosa, chiamata noogena.
Si tratta di una depressione particolare, che raggruppa dal 15 al 20% di tutte le depressioni, che non nasce da un conflitto psicologico, ma da una questione di ordine più spirituale (in senso lato), e che riguarda la mancanza di un senso vero all’esistenza: si diventa depressi per non cercare o non trovare una risposta al perché.
2) L’investimento in un valore umano.
Intendiamoci bene: non si tratta di fare qui il processo dei valori umani salvo quelli che sono pervertiti o menzogneri. I valori morali, umani o personali, sono fondamentali per l’equilibrio di una società e di un individuo; sono altrettanti punti di riferimento da cercare e promuovere per favorire questo equilibrio ma, qualunque sia la loro qualità non costituiscono di per sé mai uno scopo. In altre parole: nessuno di essi può realisticamente e durevolmente diventare il senso di una vita, la risposta a un perché fondamentale dell’anima.
Ogni valore umano costruttivo sarà soltanto strumentale. Orbene, molte persone, credenti o no, almeno durante un periodo della loro vita, investono le loro energie in uno o più di tali valori.
Qualcuno replicherà che è meglio questo piuttosto che la fuga, di cui parlavamo in precedenza. Forse, ma… ogni valore umano, fosse anche il più nobile e ammirevole, se è eretto a scopo ultimo di una vita, diventa captativo della persona, esclusivo costrittivo, poiché, per quanto bello sia, è soltanto umano e limitato. Un tale scopo, invidiabile all’inizio, finisce col trasformarsi in ideologia.
Molte ideologie, cause di molteplici sofferenze, sono nate da un simile investimento in un valore umano. Ora ciò che è soltanto umano, per quanto bello non può appagare l’uomo e la sua sete di senso e di assoluto.
Alcuni esempi ci fanno capire meglio: la giustizia è un ammirevole valore umano. Siamo tutti, in quanto esseri umani, invitati a desiderarla e a ricercarla. Ma la giustizia non è uno scopo esistenziale. Non si può “consacrare la propria vita” alla giustizia. In tal caso, si tenderebbe a farne un idolo, malgrado la sua evidente qualità morale.
Lo stesso si può dire per la nonviolenza. Quelli che militano per la nonviolenza, “sacrificandole” una buona parte della loro vita, ne fanno un’ideologia; elaborano essi stessi sempre più esclusivamente il concetto di nonviolenza e l’erigono a “falso dio” della loro esistenza, vale a dire come principio motore, senso e scopo essenziale della propria vita. Tuttavia, la nonviolenza è in sé una cosa buona e merita di essere promossa, ma Dio solo rivela il senso di una vita; e quest’investimento, se è vissuto radicalmente, rischia di “velare” Dio.
Potrebbero essere citati altri valori lodevoli quali la famiglia. Chi dubiterebbe dell’importanza di questo valore di cui il nostro mondo ha tanto bisogno? Tuttavia, esistono delle maniere di investire tutte le proprie energie in uno schema di famiglia che portano a delle chiusure e nuocciono alla fecondità della famiglia. La famiglia infatti non attinge in sé stessa il proprio senso, ma lo riceve da Dio.
Ricorderò infine l’esempio dell’arte, anch’essa uno dei valori fondamentali di una società. Investire le proprie energie in una certa forma di arte fino a farne la “sostanza” della propria vita, diventa profondamente narcisistico e genera una specie di ripiegamento su sé stessi evidente. E’ bene però coltivare le proprie attitudini artistiche. Ma una cosa è praticare la propria arte per sé (anche se questa procura migliaia di ammiratori), altra cosa è viverla in dipendenza da un Altro, alla presenza di Dio.
3) L’apertura a Dio.
Accettare che un’esistenza dipenda da un Altro che ce la da, che posi il suo sguardo su di essa e divenga, perché no, un amico, ecco sommariamente che cos’è l’apertura a Dio.
La nozione di fede ha dunque il suo ruolo, poiché non si può accettare realmente la presenza divina senza un minimo di fede…tuttavia questa fede può essere inficiata da concezioni erronee riguardo a questo Dio che si ritiene mi abbia creato e aspetti qualcosa da me.
Esistono due maniere per aprirsi a Dio. Coloro che sono in cerca della propria chiamata hanno evidentemente la fede. Senza di essa, anche se smbrasse loro fragile o tiepida, non si porrebbero affatto la domanda della loro vocazione. Ci situiamo dunque nell’evidenza della fede: Dio esiste e in un modo o in un altro io l’ho incontrato, questo Dio di Gesù Cristo, e la sua grazia ha almeno cominciato a lavorare in me, sino a far germogliare un desiderio di seguirlo, di servirlo, di amarlo.
Adesso come mi situo di fonte a Lui? Come lo accolgo? Come “gestisco” il mio rapporto con lui, nel quadro della mia chiamata?
In questo entrano in gioco le due maniere di aprirsi a lui. In realtà, la scelta è molto più ampia, ma è vero che il nostro atteggiamento si articola intorno a uno di questi due assi:
1) o io stesso procuro un senso alla mia vita, sotto lo sguardo di Dio. Io credo in lui, so che mi chiama e decido, senza dubbio con la migliore delle intenzioni, cos’è bene che io faccia della mia vita per lui. Riconosciamo che parecchi cristiani hanno “risolto” così il problema della loro vocazione: conservare l’iniziativa (il più delle volte in tutta onestà) delle mie azioni, delle mie decisioni…ma lo si fa nella fede, in ciò che si ritiene buono per la gloria di Dio e il servizio della Chiesa;
2) oppure lascio che Dio mi faccia comprendere la mia propria chiamata, che può sorprendermi. Mi metto a sua disposizione per ricevere -e non decidere io stesso- ciò che egli aspetta da me. Dovrò talvolta pazientare, lasciarmi maturare, perché il suo desiderio su di me sia ben accolto dalla mia anima. A volte poi, egli sembrerà aver fretta e farà conoscere chiaramente presto questa sua chiamata.
La differenza è in quel sentimento di abbandono fiducioso e vigile, assolutamente non passivo, che caratterizza la mia disposizione personale: Dio ha un’aspettativa speciale nei miei confronti; spetta a lui farmela conoscere, tocca a me mettermi in ascolto.
Inutile aggiungere, senza confronto di valore, che questo secondo atteggiamento è preferito da Dio, perché gli lascia la libertà di parlarmi come ad un amico e a misura delle mie capacità attuali.
Dio gradisce evidentemente tutti gli sforzi, tutte le disposizioni che tendono a servirlo, a mettersi alla sua sequela, a promuovere la verità del vangelo.
Perché Egli è riconoscente a quelli che organizzano la loro vita secondo i dati della fede, ma il suo amore è fatto in modo tale che a Lui piace che ce lo possa esprimere, per esempio attraverso la manifestazione di una chiamata.
Sembra proprio che il vero senso della mia vita, accompagnato dalla scoperta della mia vocazione, non possa essere che ricevuto. Ci vorrà forse del tempo, ci vorranno forse errori, rivolte o incomprensioni perché io possa essere in grado di ricevere la luce del Signore ma in realtà non ci si può mai appropriare di essa.
Talvolta Dio ne lascia sfuggire qualche riflesso quando io tento in maniera troppo “volontaristica” di captare questa luce. Egli accetta di essere un po’ strapazzato dalla mia insistenza o dalla mia temerarietà e, considerando i miei sforzi (e forse le mie buone intenzioni) mi acccorda secondo le circostanze un raggio della sua luce.
E in quanto alla mia chiamata che mi riguarda, anche se mi sembra di avere già cominciato a mettermi, di mia propria iniziativa, ala sequela di Cristo, rimarrò tuttavia insoddisfatto nel mio essere profondo finchè non avrò accettato di ricevere da Dio quel dono che è la luce sulla mia vocazione.
Sì, finchè indicherò a me stesso, nella fede, la mia propria chiamata e,per di più, finchè cercherò di fuggirla, l’insoddisfazione persisterà nel mio cuore, con l’impressione che non sono arrivato nè alla vera luce né a quello per cui sono portato realmente.
Devo imparare a ricevere da Dio la sua propria sapienza sulla mia vita, la sola che farà la mia felicità. Ciò non significa tuttavia che io debba subire una volontà divina come una marionetta nelle mani del suo padrone.
L’essenziale è lasciar emergere nel mio campo di coscienza quel che già porto in me (nell’ordine di questa sapienza) e che è molto ingombrato e soffocato da ogni specie di rivolte, di paure o di desideri multiformi e spesso contraddittori.
Quel che è bene comprendere prima di tutto è che Dio spera già da me quel che (forse) ancora ignoro. E se Egli lo spera, vuol dire che mi ha già dato la grazia e la forza necessaria per compierlo.
Da La chiamata di Dio, Philippe Madre.
In poche parole: tutto è dono niente ci è dovuto e niente ci siamo meritato.
Quindi qualunque cosa noi sappiamo in più di chi non crede ci è stata rivelata (senza questa rivelazione noi saremmo nei loro panni, a far loro compagnia) e non ci da il diritto di porci ad un livello superiore rispetto a quelle persone.
Non conosciamo niente della vita delle persone che alla fine sono i motivi dei loro comportamenti odierni, e anche se li conoscessimo non dovremmo comunque giudicarli ma solamente ritenerci fortunati e comunicare loro la fortuna che abbiamo ricevuto e che è destinata anche a loro, tramite noi.
Dicendo alle personequanto sono abbruttite con la loro lontananza da Dio non facciamo altro che fare come il fariseo al tempio che si paragonava al pubblicano.
Siamo quì per comunicare aglialtri la fortuna che abbiamo ricevuto…non per vantarci delle nostre condizioni che forse sono peggiori delle loro.
@contedduca,
Hai scritto una pippa spaventosamente lunga….
che concludi con questo rigo: “Da La chiamata di Dio, Philippe Madre.”
Che non riesco a decifrare in nessun modo…
E ti sei anche risposto da solo…
Attento anche tu a non parlare come un fariseo virtuoso rispetto a pubblicani peccatori…
@ a-ateo
Non ho capito perchè ti sei sentito tanto piccato dal mio intervento, tanto più che non avevo risposto al tuo, ma era stato messo in coda per motivi di ordine cronologico ed evidentemente veniva giusto dopo il tuo, come ben saprai.
a) Magari l’ultimo rigo stava a significare il titolo e l’autore del libro, che non mi sembra così tanto stramba come indicazione da non essere capita.
b) Non mi sono risposto ho soltanto spiegato perchè ho messo quel capitolo e penso che si capisca, poichè analizza in modo abbastanza chiaro i diversi modi dell’uomo di cercare e rispondere (o meno) alla Verità.
c) Ho solo detto che non possiamo rispondere al disprezzo sbandierando la condizione di alcune di queste persone che disprezzano, come quest’articolo sembra voler fare, ma magari, è solo una mia impressione simile a quella che hanno avuto anche altri utenti.
d) Se per cortesia mi fai notare le parole con le quali assumo lo stesso atteggiamento che rimprovero, fai un’opera di bene.
Anche perchè come ben saprai un conto è “giudicare”, un conto è “ammonire i peccatori”.
Caro contedduca,
hai scritto il più lungo commento mai apparso su Uaar.
Sei sul Guinness dei primati.
Peccato che la chiarezza, dati i tempi medi di lettura, vada a farsi friggere.
Spero che tu conosca l’aneddoto con il quale Erodoto spiega il significato della parola “laconico”…
Se mediti tale aneddoto, vedrai, ti passerà la voglia di interventi prolissi…
Mi dispiace, non conosco l’aneddoto, ma cmq, ognuno è libero di scrivere quanto vuole e l’altro è libero di leggere quanto vuole…almeno su UCCR